Maristella Maggi Enea, un eroe venuto da lontano riduzione e adattamento dell’Eneide di Virgilio ISBN 979-12-221-0250-4 Prima edizione rinnovata: ottobre 2023 ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0 anno 2027 2026 2025 2024 2023 © 2023 Gallucci - La Spiga Prima edizione © 2012 ELI - La Spiga Edizioni Illustrazioni di Marco Lorenzetti Il contenuto delle pagine intitolate “I giovani dell’Eneide” è frutto della libera interpretazione dei miti classici da parte dell’autrice. Gallucci e il logo
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Maristella Maggi
ENEA
UN EROE VENUTO DA LONTANO Riduzione e adattamento dell’Eneide di Virgilio
Illustrazioni di Marco Lorenzetti
Il viaggio di Enea
Nota introduttiva
Il grande poeta latino Publio Virgilio Marone, chiamato anche semplicemente Virgilio, nacque nei pressi di Mantova, nel 70 a.C., ad Andes, piccolo villaggio, che si identifica probabilmente con l’odierna Pietole. La sua era una famiglia di agricoltori benestanti, e il padre, non avendo problemi economici, scelse per il figlio un’educazione accurata, avviandolo, a Cremona, a Milano e a Roma, a studi di Retorica ed Eloquenza, discipline che si riferiscono all’arte di parlare bene in pubblico, con ricchezza verbale e sapienza linguistica, in modo elegante e convincente; quasi certamente il padre voleva far di lui un avvocato. Virgilio, però, era un giovane timido e riservato, impacciato nei modi e balbuziente e non si sentiva portato per parlare di fronte a tante persone, né di improvvisare discorsi che avvincessero le folle. Inoltre, gli anni della sua fanciullezza cremonese, caratterizzati dal contatto continuo e gioioso con la natura, avevano già modellato il suo animo contemplativo di poeta. Ad una brillante carriera nel Foro preferì la solitudine della contemplazione e la tranquilla condizione di chi si ritira a riflettere e a medi5
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tare sulla vita, sull’amore, sul dolore e sull’accogliente bellezza della natura. La vera natura di Virgilio era quella di poeta e lui, allo scrivere e al comporre poesie, si dedicò completamente. Fu una decisione felice, e in seguito, anche la Storia avrebbe approvato la sua scelta, consacrandolo come uno dei più grandi poeti di tutti i tempi. L’Eneide, poema del quale ti viene qui proposto l’adattamento, è l’affascinante capolavoro di Virgilio. Egli iniziò la stesura nel 29 a.C. e la continuò fino al 19 a.C, anno della sua morte, avvenuta a Brindisi, senza che egli avesse potuto dare l’ultima definitiva revisione al poema stesso. L’opera, pur non essendo del tutto perfetta, pur presentando in alcune parti incongruenze o incompiutezze, è comunque grandiosa e senza precedenti per quel tempo, un’opera che non solo i poeti e gli scrittori delle età successive avrebbero ammirato ed imitato, ma che gli stessi storici avrebbero tenuto in autorevole considerazione. Diremmo oggi: un’opera completa. Eppure nel suo testamento Virgilio aveva lasciato scritto di bruciare il manoscritto nel caso non fosse riuscito a completare il poema! Fortunatamente, l’imperatore Augusto si oppose personalmente all’eliminazione dell’opera, ordinando invece a Vario Rufo, uno dei migliori amici del poeta, di curarne la pubblicazione. Il motivo di tanta sollecitudine da parte 6
NOTA INTRODUTTIVA
dell’imperatore era dovuto al fatto che Virgilio aveva scritto il poema per celebrare le virtù e le qualità di coloro che avevano contribuito alla costruzione del glorioso impero di Roma, ma soprattutto la presunta discendenza divina della famiglia cui apparteneva lo stesso Augusto, la gens Iulia che in quel momento era alla guida dell’Impero romano. L’Eneide, pur essendo un’opera dal valore universale, è per gli Italiani particolarmente significativa, in quanto i protagonisti dell’opera sono gli antichi abitatori del nostro paese e la storia di cui Virgilio si fa anticipatore è la storia di Roma, d’Italia, la Nostra. Nel poema vengono narrate le vicende di Enea, principe troiano figlio di Anchise e della dea Venere. Egli, fuggendo dalla città di Troia, incendiata e conquistata dai Greci, approderà ai lidi del Lazio e fonderà una grande civiltà destinata a dominare il mondo e a civilizzarlo. Il suo viaggio sarà lungo, avventuroso e non privo di difficoltà, soprattutto a causa dell’implacabile dea Giunone, da sempre nemica dei Troiani. Enea conoscerà la gioia, l’amore, l’esultanza e il trionfo, ma anche il dolore, l’angoscia e lo struggimento per la perdita di persone care, in un succedersi di situazioni, ora violente, ora emozionanti, ora poetiche. Dopo tante vicende alterne, riuscirà a giungere alla felicità che il Destino ha preparato per lui e la sua gente, nella terra a loro destinata. Lì troverà un amore sincero e lì getterà il seme di un nuovo, grande mondo: quello di Roma. 7
Libro Primo
Incipit: Proemio e Invocazione Canto le armi e l’eroe che dai lontani lidi di Troia un dì profugo venne, per volontà del Fato, alle lavinie prode d’Italia. Molto egli soffrì e per terre e per mari a lungo spinto da forze ostili di celesti Numi e dall’ira implacabile di Giuno; e molte pene in guerra anche sofferse finché pose le mura e in Lazio, infine portò gli dèi: donde il latino nome i padri d’Alba e Roma e l’alta gloria. Ora le cause tu, Musa, ricordami: per quale offesa al Nume o di qual colpa dolente la regina degli dèi sospinse un uomo di pietà sì grande ad affrontar vicende, affanni e pene? Anche nel ciel, tanto può dunque l’ira?
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Il poeta Virgilio, nella parte introduttiva che precede la narrazione vera e propria, il proemio* (detto anche protasi), espone l’argomento della sua opera: Canto le armi e l’eroe che dai lontani lidi di Troia un dì profugo venne, alle spiagge del Lazio, per volontà del Fato. Di seguito, nell’invocazione, implora la benevolenza della divina Musa che lo ispiri e dia forza commovente al suo canto: O Musa, ricordami le cause... Spiega poi le motivazioni della guerra, scoppiata a causa del rancore che la potente dea Giunone nutre nei confronti dei Troiani. Così facendo, Virgilio utilizza nella parte iniziale, chiamata incipit*, lo stesso stile dei poemi omerici, anche se, in parte, se ne discosta, in quanto egli prima dichiara il tema del poema e poi invoca la Musa, mentre in Omero avviene il contrario. Come in Omero, inoltre, la narrazione si apre in pieno movimento, nel vivo dell’azione, in medias res*, presentando la flotta troiana nel Mediterraneo orientale mentre * Cfr. Dizionario letterario. Per i personaggi cfr. Dizionario mitologico.
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LIBRO PRIMO
naviga, guidata da Enea, alla volta dell’Italia dove spera di trovare una seconda patria. L’eroe troiano, per scampare all’assedio dei Greci che hanno conquistato e incendiato la città di Troia, fugge puntando verso i lidi del Lazio. Qui, come le profezie hanno rivelato, egli fonderà una nuova civiltà, destinata ad avere grande parte nella Storia. Così, parte con una flotta di venti navi, pur sapendo che non avrà vita facile, in quanto il suo viaggio verrà reso difficoltoso dall’odio di Giunone. La dea, infatti, ha tre gravi motivi di rancore verso di lui e la sua gente: – ha perso la gara di bellezza contro la splendida dea Venere, madre di Enea; – una profezia ha stabilito che la sua città preferita, Cartagine, verrà distrutta dalla stirpe troiana. Il capostipite è Dardano, nato da una relazione tra il marito di Giunone, Giove, e la giovane Elettra; – Ganimede, bellissimo fanciullo di cui Giove si è invaghito, viene fatto rapire e portato sull’Olimpo, quale coppiere degli dèi, in sostituzione di Ebe, figlia di Giunone e dello stesso Giove.
L’ira di Giunone chiede vendetta Quando Giunone si accorge che la flotta di Enea, dopo aver toccato le coste della Sicilia, sta riprendendo tran11
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quillamente il largo, sente accendersi nel cuore l’antico odio per i Troiani. «No, la pace non è per voi, non ve la meritate e io non vi lascerò navigare indisturbati!». Le offese, subite per causa loro, bruciano ancora nel suo animo e, d’improvviso, il desiderio di vendetta si fa cocente. «Non voglio che questo Troiano tocchi le coste dell’Italia e io farò di tutto perché ciò non accada. Non sono forse la regina degli dèi? Non sono forse la sorella e la moglie di Giove onnipotente? Sono una dea e una dea ha potere su tutto, anche sul volere del Fato!». Con il cuore gonfio d’ira, si reca allora da Eolo, signore di tutti i venti e a lui, promettendo in moglie Deiopea, la più bella di tutte le Ninfe, chiede venti potenti che possano sconvolgere il mare e travolgere le navi e l’equipaggio troiano. Eolo non ha esitazioni, dichiara subito obbedienza alla regina dell’Olimpo. Con un colpo di scettro, libera un vortice di raffiche rabbiose che si abbattono sulla terra e vanno, come animali feroci, a scagliarsi sul mare.
La tempesta Nero si fa il cielo e il mare più buio della notte, le povere navi dei Troiani, come fragili gusci di noce, si trovano ad essere in balia delle onde. Le acque le sovrastano e le trascinano in terribili gorghi; la fine sembra ormai vicina. 12
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Enea, allora, con la morte nel cuore, leva al cielo le mani: «Beati coloro che sono morti sotto le mura di Troia, mille volte beati! Perché anch’io non ho potuto avere una sorte onorata come quella? Ah fossi caduto come il grande Ettore per mano di Achille, ora riposerei là, come lui ora riposa, nella terra benedetta dei nostri padri». E mentre così parla, una folata potente squarcia la vela, onde sempre più alte si sollevano sulla superficie del mare e si abbattono con fragore di schianto sulle acque ribollenti. Le povere navi sono flagellate e risucchiate nel cavo dei flutti, alcune sommerse, altre mandate a schiantarsi contro gli scogli. I guerrieri precipitano in mare gemendo e urlando, alcuni rimangono confusi e smarriti, altri feriti, altri morenti. Ma ecco che Nettuno, fino a quel momento ignaro, si accorge, improvvisamente, di tutto. A gran voce, chiama i venti: «Zefiro, Euro, Noto, venite qua! Chi di voi ha osato sconvolgere così terra e cielo senza il mio permesso? Chi ha osato tanto? Ora basta, non permetterò altro! Via, andatevene, lasciate libere le acque e dite al vostro signore Eolo che solo io ho il comando sull’Oceano e solo io posso usare il tridente. Io e nessun altro!». In pochi terribili istanti il dio scioglie le nubi, calma il ruggire delle onde e al sole apre larghe vie nel cielo. La calma ritorna intatta, ma il cuore di Enea ne gioisce solo in parte perché solo sette, delle venti navi partite, sono scampate alla furia del mare. 14
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L’approdo a Cartagine Allora, gli uomini di Enea, sfiniti dalla fatica ma desiderosi di salvezza, raccolgono le ultime energie per raggiungere la spiaggia più vicina: quella africana. Vi giungono esausti. Per prima cosa accendono un fuoco così che il frumento che, sulle navi, durante la tempesta, s’era inzuppato d’acqua, si possa asciugare. Intanto Enea si allontana, salendo sulla parte alta di uno scoglio, nella speranza di scorgere navi in vista. Avvista, invece, tre cervi che, sulla spiaggia, scorazzano liberi e poco dopo vede apparire l’intera mandria. È l’occasione sperata. Afferra l’arco e, con precisione, mette a segno colpi infallibili e mortali: cadono sette grossi esemplari, uno dopo l’altro. I compagni, prontamente, li scuoiano e preparano le carni per lo spiedo. Così il vino, dono di un re, e l’appetitosa selvaggina calmano fame e sete, mentre l’erba del prato dà riposo alle membra stanche e sollievo ai pensieri tristi. Ma al risveglio, torna il ricordo dei compagni perduti, e le parole con cui li evocano si fanno cariche di malinconia. Non si sa se essi siano ancora vivi o già approdati al Regno dei Morti. Una grande amarezza riempie i cuori dei sopravvissuti che restano muti e pensierosi. Anche l’animo del pio Enea, che sente forte la sua responsabilità di guida, è invaso dallo sconforto. Egli si duole più di tutti, pensando a quei compagni che, dopo la tempesta, non ha più ritrovato tra gli altri: il fiero Oronte, il buon Lico, il forte Cloanto e il prode Gìa. 15
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Venere va da Giove e gli parla del figlio Enea Il dolore del figlio è il dolore della madre e Venere, con gli occhi velati di lacrime, si rivolge a Giove, chiedendo aiuto: «O Padre e Signore del Cielo, che reggi le sorti degli uomini e degli dèi con il tuo eterno potere e che li sgomenti con il terrore dei fulmini, quale grave colpa può aver commesso mio figlio o i suoi Teucri, se dopo tante pene lungamente patite, ancora non è consentito loro dirigersi verso l’Italia? Tu avevi promesso che dalla loro stirpe sarebbero nati i futuri condottieri romani, i dominatori del mondo, ricordi? Perché dunque tante avversità contro di loro, ora? Hai forse cambiato idea a riguardo?». Bonariamente sorride il padre Giove, e con la stessa mitezza che dona il sereno al cielo, la sfiora con un bacio: «Non temere, figlia mia, ciò che ho promesso, manterrò. Tuo figlio, come stabilito, giungerà nel Lazio e lì fonderà il grande regno della promessa». Ciò detto, invia a Cartagine il figlio Mercurio, divino messaggero, perché renda la città cordiale verso il futuro visitatore Enea e nel cuore della regina Didone ponga il seme dell’accoglienza e dell’ospitalità. La notte del grande Enea, però, trascorre insonne. Troppe preoccupazioni gli pesano sul cuore e l’incertezza, che sente gravare sul futuro della sua gente, gli impedisce di abbandonarsi al sonno. Così, alle prime luci dell’alba, decide di recarsi ad esplorare la nuova terra e lascia la 16
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tenda; per lui tutto è ignoto, sconosciuto, forse ci sono pericoli e lui ha bisogno di certezze per sé e per i compagni. Si avvia nella foresta con il fido compagno Acate; per sicurezza, prende due lance appuntite. Fatti pochi passi, i due s’imbattono in una fanciulla armata da cacciatrice, la quale altri non è che la dea Venere, che a loro si presenta sotto mentite spoglie. «Avete forse visto passare alcuna delle mie sorelle?», chiede la giovane. Enea risponde «No, nessuno. Ma tu, chi sei? Di certo non sei mortale, il tuo abbigliamento, il tuo viso e il suono della tua voce non sono mortali, ne sono certo. Sei di sicuro una dea e allora, per favore, dicci dove siamo, perché da troppo tempo erriamo ignari di tutto». «No, non sono dea, indosso questi abiti e porto la faretra perché così è costume delle fanciulle tirie. Questo che vedete è il regno punico di Cartagine, la terra è la Libia. Qui regna la regina Didone, che però non è libica, ma fenicia. Ella è giunta qui profuga da Tiro, dopo che il crudele fratello Pigmalione le ha ucciso, a tradimento, il marito Sicheo. Lo scellerato Pigmalione, accecato dalla brama dell’oro e del potere, si era macchiato di colpe orrende, uccidendo il cognato in un luogo sacro, davanti all’altare e, cosa ancor più grave, nascondendone il misero cadavere e lasciandolo a lungo insepolto. A lungo Didone lo aveva cercato, ingannata dalle menzogne del fratello. Ma una notte, il volto cadaverico del povero Sicheo, bianco di 17
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mortal pallore, appare in sogno alla moglie per mostrarle il petto squarciato dalla lama di Pigmalione e l’altare contaminato dal suo sangue innocente. Inoltre la supplica, la implora, per il bene suo e della sua gente, che fugga, che lasci la reggia, che si allontani dalla patria con gli amici più cari e più fidati. La regina segue il consiglio del marito e così giunge nei luoghi che ora vedrete. Ecco, io ho risposto alle vostre domande, ora parlate voi, e ditemi chi siete, da dove venite e cosa cercate». Ed Enea prende la parola: «Non ti racconterò proprio tutto partendo dall’inizio, perché non basterebbe un giorno intero, ma se il nome di Troia hai sentito qualche volta pronunciare, ecco, ti dirò che da là noi veniamo e, sospinti per vari mari da una tempesta crudele, ci siamo salvati a stento e siamo approdati su questa spiaggia sconosciuta. Io sono Enea, detto il pio, con me porto i Penati che ho salvati dal nemico e la mia stirpe discende direttamente dal grande Giove. Io cerco l’Italia e per questo motivo, per consiglio della mia divina madre, ho preso il mare con venti navi. La furia della tempesta me ne ha lasciate solo sette ed ora vago, sospinto continuamente lontano dall’Europa e sono sempre in ansia, timoroso e guardingo; mi sento abbandonato e non ho più nulla...». Venere avverte una stretta dolorosa al suo cuore di madre e, trattenendo a stento le lacrime, gli toglie quasi la parola di bocca: «Bene, ho capito, comunque, chiunque tu sia, sappi che sei benvoluto dagli dèi, di questo devi essere 18
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certo. Ora va’, prendi questa via, ti porterà vicinissimo alla reggia. Va’ , non ti fermare, la regina Didone ti attende». E non appena ha terminato di parlare, poco prima di dileguarsi, la fanciulla muta d’aspetto: il volto prende lo splendore della perla, la veste scende ondeggiando fino al piede e un profumo delicato si diffonde intorno a lei. Enea capisce allora che si tratta della madre Venere e se ne rattrista. «Perché non posso mai abbracciarti, madre mia? Ah, quanto mi piacerebbe farlo...». Venere si intenerisce e promette in cuor suo di rivolgere la richiesta al grande Giove. Poi avvolge il figlio e il compagno in una nube scura perché nessuno possa vederli né interrogarli, e infine guida i loro passi diritti fino alla reggia. «Va’ ora figlio mio amato, che la benevolenza degli dèi e l’amore di tua madre ti accompagnino. Va’ luce dei miei occhi, va’...».
L’incontro con Didone Frattanto i due Troiani, salendo per la collina, giungono alle porte delle mura e, non visti, riescono ad entrare liberamente. Si trovano nei pressi del tempio di Giunone proprio quando Didone vi sta entrando seguita da un corteo di 19
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giovani fenici. Protetti dalla nube divina che ancora li avvolge, anche i due Troiani si infilano nel tempio. La regina è splendida, incantevole quanto una dea. Siede sul trono in modo elegante e altero. Davanti a lei la folla delle persone lì convenute per chiedere grazie e favori. La folla è densa e ascolta in silenzio quanto la regina sta dicendo loro. D’improvviso, Enea riconosce tra quelle persone Cloanto, Ilioneo, Sergesto e tutti gli altri compagni Teucri che ha creduto dispersi nella tempesta! La regina li sta interrogando sulla loro identità e destinazione. Parla per primo il vecchio Ilioneo il quale racconta della sventurata tempesta che li ha dispersi per il mare e parla del condottiero che li guidava. Non appena viene pronunciato il suo nome, la nube che nasconde i due Troiani si dissolve ed Enea appare avvolto da una luce viva, splendido nell’aspetto e simile ad un dio. «Eccomi, io sono colui che cercate, sono Enea scampato alla sventura, o generosa regina che sola hai avuto pietà delle nostre sciagure. Per te voglio pregare gli dèi perché ripaghino la tua generosità e ti concedano i loro favori con abbondanza». La regina lo guarda a lungo: «Sei tu, dunque, Enea, figlio della divina Venere? Che tu e i tuoi compagni siate i benvenuti! Sono lieta di ospitarvi nella mia casa». Enea allora manda Acate alle navi perché avverta l’amato suo figlio di venire alla reggia portando quegli oggetti preziosi che erano stati sottratti alle rovine di Troia e al20
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la rabbia del mare e che ora avrebbero offerto a Didone in segno di riconoscenza. Mentre Acate si avvia veloce alle navi, Venere chiede all’altro suo figlio Cupido, dio dell’amore, di prendere per quella sola notte le sembianze del caro fanciullino Julo, figlio di Enea e quindi nipote suo e dello stesso Cupido. «In questo modo – ella gli dice – quando la regina Didone ti accoglierà con i doni troiani e ti avrà abbracciato e baciato come solitamente si fa con un fanciullino, tu potrai infonderle, nel profondo cuore, la fiamma dell’amore».
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Così, quando Acate torna alla reggia, con lui non c’è, come tutti credono, il giovane Julo, ma il dio dell’amore in persona, il vivace Cupido che, come previsto, viene preso in grembo dalla ben disposta regina e, da lei, affettuosamente vezzeggiato. Non immagina certo Didone quale potente dio stia insediando la sua vita, né quali misteriose forze stiano per cancellare dalla sua mente il ricordo di Sicheo per imprimervi quello vivo e reale del grande Enea. Nelle sale della reggia, intanto, viene allestito un sontuoso banchetto e, tra musiche, canti e scintillare di ori, a Didone vengono portati i doni: un mantello a fregi d’oro e un prezioso velo con ricami di foglie d’acanto, appartenuto ad Elena di Troia, oltre allo scettro, alla preziosa collana di perle e alla corona d’oro e di gemme di Iliona, figlia del grande Priamo. La regina li accoglie commossa e, sentendosi sempre più attratta da quell’uomo affascinante, gli chiede di raccontargli degli eroi Greci e di ciò che accadde dopo l’incendio di Troia. «E ora, mio ospite, narraci delle insidie che i perfidi Greci vi hanno teso, delle tue disavventure e del tuo lungo esilio. Ormai manchi da casa da sette anni, avrai molto da raccontare e noi non chiediamo che d’ascoltarti».
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