Roberto Melchiorre
Il ragazzo di Capaci
ISBN 979-12-221-0089-0
Prima edizione rinnovata: marzo 2023
ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0
anno 2027 2026 2025 2024 2023
© 2023 Gallucci - La Spiga
Prima edizione © 2018 ELI – La Spiga Edizioni
Illustrazioni di Emiliano Tanzillo
Foto: Shutterstock, archivio Eli - La Spiga Edizioni
Le citazioni dall’Odissea di Omero alle pagg. 36, 84, 128-129 sono tratte dalla traduzione di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, 2014.
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Roberto Melchiorre
1. Capaci
Non erano né il giorno né l’ora per i fuochi d’artificio. Alla festa di Sant’Erasmo mancava più di una settimana, mentre quella di Maria Santissima delle Grazie, patrona di Isola delle Femmine, sarebbe arrivata solo il due di luglio. In ogni caso le feste patronali, da che mondo è mondo, mai s’annunciano nel tardo pomeriggio, ma al mattino, con spari decisi come colpi di cannone che non infiammano il cielo, piuttosto lo trafiggono con lampe che sembrano piccoli fulmini, subito inghiottiti da nuvole di fumo denso e grigio. Pietro, però, per un momento pensò di aver sbagliato il conto dei giorni e corse, inseguito da Argo, dentro la piccola costruzione in mattoni forati senza intonaco, accanto al caseificio dove viveva da quando i suoi genitori erano spariti nel nulla. Rovistò tra le carte poggiate sullo sgabello di plastica bianca che faceva da comodino per trovare il calendario dove annotava la tosatura delle pecore, la nascita dei vitelli e degli agnelli.
Non aveva un orologio, non aveva un telefono, non aveva un televisore, ma solo una radiolina a transistor di quelle che usano gli anziani per ascoltare, la domenica po-
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meriggio, seduti sulle panchine della piazza del paese, i risultati delle partite di calcio.
«A che ti servono quelle diavolerie?» così zio Salvo aveva risposto alle sue richieste di connettersi con il mondo. «Per la fatica che ti tocca basta quello che hai e quello che sai» tagliava corto l’uomo che da tre anni gli faceva da madre, da padre e da padrone.
Trovò finalmente il calendario e si rese conto che non aveva sbagliato: era solo la fine di maggio. Per la precisione il 23 e tra due giorni sarebbe venuto don Totò a prendersi la ricotta fresca e cinquanta pezze di pecorino stagionato. Ma allora che cos’era stato quel botto, quello scintillio di fuoco e fiamme? Salì sul tetto di eternit per vedere meglio, oltre Capaci, a metà tra la terra e il mare. Strinse gli occhi e li riparò dal sole con una mano per arrivare più lontano con lo sguardo. C’era ancora molto fumo, attraversato da un luccichio che sembrava di ferraglie accecate dal sole.
Se non fossero passate le 17,30 avrebbe chiesto a Filippo e Sebastiano, i due operai del caseificio che però, a quell’ora, erano già arrivati a Carini, il paese dove erano nati, dove vivevano e da dove non erano mai usciti, neanche per fare il militare, essendo stati scartati, uno perché zoppo, l’altro perché ci vedeva da un occhio solo. Lo zio Salvo sarebbe tornato per portargli la cena, come tutte le sere, non prima delle otto. Gli rimaneva solo la piccola radio a transistor per avere notizie su quello che era accadu-
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RAGAZZO DI CAPACI
to laggiù, sull’autostrada che porta da Palermo a Trapani. Tornò dentro, l’accese e iniziò la ricerca di una voce capace di soddisfare la sua curiosità. Passò da un canale che trasmetteva una funzione religiosa a un altro che mandava in onda canzoni napoletane, da una stazione in lingua araba a una trasmissione sportiva.
Quando finalmente si sintonizzò con un radiogiornale, l’apparecchio cominciò a gracchiare e la voce del giornalista andava e veniva. Si sforzò di capire qualche parola, ma senza successo. Le uniche che comprese chiaramente furono Capaci e Falcone. La prima la conosceva perché era il nome del suo paese, dove era vissuto fino alla terza elementare quando, un giorno di aprile, lo zio lo venne a riprendere da scuola dicendo: «Questa notte dormirai da me», e da allora non aveva fatto più ritorno a casa sua.
L’altra parola, Falcone, non l’aveva mai sentita. Non ricordava che nei dintorni vi fossero contrade chiamate così. Poteva però trattarsi del nome di una persona. Un ragazzo che andava in classe con lui di cognome faceva proprio Falcone. Quest’ultima ipotesi era quella che più lo convinceva. A dire il vero dalla radio era uscita anche una terza parola: mafia. L’aveva già sentita altre volte, ma quando aveva chiesto spiegazioni sul suo significato gli avevano risposto a brutto muso che non voleva dire nulla, che indicava qualcosa che non esisteva, che si trattava di un suono
vuoto, nato dalla bocca di gente malevola e disonorata, soprattutto dalle solite fantasie dei giornalisti. Il ragazzo fa-
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ticava a credere a quelle spiegazioni: “Qualcosa pure vorrà dire”, pensava cocciuto. Ma in silenzio, perché anche solo sussurrare certe cose gli poteva costare caro. Come quella sera del 23 di maggio del 1992 quando, appena lo zio Salvo entrò per lasciargli la cena sul piano di formica verde del tavolo che si trovava accanto al letto, Pietro iniziò a fare domande.
«Che cosa è successo oggi pomeriggio a Capaci?»
«Perché, che cosa è successo?» rispose con un’altra domanda l’uomo.
«Un botto forte, anche la terra ha tremato. E poi tanto fumo» spiegò il ragazzo aiutandosi con i gesti.
Salvo, facendo finta di ignorare il racconto del nipote, aprì la gavetta di alluminio. Uno spezzatino gelatinoso di carne e patate caracollò sulla superfice del piatto usato per il pranzo e che nessuno aveva lavato.
«Impossibile che tu non abbia sentito nulla…» continuò il ragazzo.
«Mangia!» tagliò corto lo zio.
«La vampa l’avranno vista fino a Palermo…»
«Mangia!» ripeté l’uomo.
«C’è di mezzo un certo Falcone…»
«Mangia!» esclamò nuovamente Salvo, questa volta alzando la voce.
«La radio ha anche detto che è stata la mafia…»
A sentire quella parola Salvo afferrò il ragazzo per un braccio e, dopo averlo scaraventato a terrà, urlò:
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1. CAPACI
IL RAGAZZO DI CAPACI
«A megghiu parola è chidda cca non si rici! Tu devi pensare solo alle bestie. Ficcatelo in testa una buona volta. Solo alle bestie e al formaggio!». Quindi colpì il piatto con una manata, scaraventandolo contro il nipote. Parte dello spezzatino andò a finire sul letto, parte per terra, il resto sul volto di Pietro.
«Così impari a fare domande come uno sbirro» concluse l’uomo davanti allo spettacolo della cena volata per aria. E uscì sbattendo la porta di ferro della costruzione che ospitava il nipote.
Il ragazzo rimase immobile, in assoluto silenzio, trattenendo quasi il respiro, fino a quando non sentì il furgone dello zio allontanarsi dal caseificio. Poi, con calma, si pulì il viso con uno straccio, recuperò un po’ di carne da sopra la coperta e la sistemò al centro del piatto. Raccolse dal pavimento due pezzi grossi di patata e ci soffiò sopra con l’illusione di pulirli dalla polvere. Il resto l’aveva ingurgitato Argo, un cane pastore abruzzese, che poi, come sempre, se n’era andato a dormire nella stalla.
Prese quindi un tozzo di pane raffermo da un cassetto della credenza, lo ammorbidì con dell’acqua e iniziò a consumare quello che restava della cena. Senza lamentarsi, senza versare una lacrima. Ogni tanto si toccava il braccio nel punto in cui la mano dello zio aveva stretto forte. Gli faceva un po’ male e presto la parte si sarebbe annerita.
Non era stata la prima volta e non sarebbe stata di certo l’ultima. Ormai era abituato alle botte di Salvo. Tutta-
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via, più che arrabbiato con lui, lo era con se stesso. Sapeva perfettamente le cose che facevano infuriare lo zio. Per esempio non doveva allontanarsi dal caseificio per nessuna ragione al mondo, se non per andare a pascolare le bestie. Una volta, sorpreso da Salvo mentre si dirigeva in bicicletta, conquistato dalle luminarie di una festa e dal profumo dello zucchero filato, verso una contrada da quelle parti, era stato preso a cinghiate. Poi non doveva chiedere quando sarebbe potuto tornare a scuola, quando avrebbe ripreso a vivere in paese, chi erano gli uomini che ogni tanto dormivano nel retrobottega dello spaccio del caseificio e perché non doveva farsi vedere da loro, e quando avrebbe potuto riabbracciare i suoi genitori. Ma, soprattutto, non doveva fare domande sulla mafia. Lui, però, le domande ce le aveva dentro, gli scorrevano nelle vene e gli uscivano fuori da sole. Cercava di fermarle, di trattenerle, pensando alle conseguenze, però non sempre ci riusciva. Domande che lo tormentavano, alle quali cercava a tutti i costi risposte, qualunque fosse stato il prezzo da pagare. Uno spintone, un pugno, uno schiaffo o magari un calcio: niente di tutto ciò riusciva a frenare la sua sete di verità.
Quella sera, per esempio, nonostante la scenata dello zio, la voglia di capire che cosa fosse accaduto sull’autostrada non gli era passata. Per questo, dopo aver consumato quella specie di cena, riaccese la radio. Questa volta la voce uscì dall’apparecchio forte e chiara. Sentì dell’esplo-
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1. CAPACI
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sione, della morte del giudice Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo, dei tre agenti di scorta: Vito
Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Adesso lo sapeva per certo. Non era stata una vampa di festa.
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