L'isola del tesoro di Robert Louis Stevenson, traduzione e adattamento di Alberto Manzi

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Robert Louis Stevenson

L’ISOLA DEL TESORO

traduzione e adattamento di Alberto

Robert Louis Stevenson

L’isola del Tesoro traduzione e adattamento di Alberto Manzi disegni di Francesco Faccia

ISBN 979-12-221-0681-6

Prima edizione ottobre 2024 ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

anno 2028 2027 2026 2025 2024 © 2024 Gallucci editore srl - Roma

I Focus sono a cura di Roberto Galofaro

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Robert Louis Stevenson L’ISOLA DEL TESORO

traduzione e adattamento di Alberto Manzi

disegni di Francesco Faccia

Il vecchio lupo di mare

all’Admiral Benbow

Pregato dal cavalier Trelawney, dal dottor Livesey e dal resto della brigata di scrivere la storia della nostra avventura all’Isola del Tesoro, dicendo tutto meno che la posizione dell’isola, perché una parte del tesoro vi è ancora nascosta, io prendo la penna nell’anno di grazia 17… e mi riporto al tempo quando mio padre teneva la locanda Admiral Benbow e il vecchio marinaio dal viso sfregiato da un colpo di sciabola prese alloggio presso di noi.

Lo ricordo come fosse ieri, quando entrò con quel suo passo pesante, seguito dalla carriola che portava il baule.

Era un uomo alto, robusto; il codino incatramato gli ricadeva sul bisunto abito blu; le mani erano ruvide e ragnate di cicatrici, l’unghie spezzate e orlate di nero, e la guancia attraversata da una cicatrice di un colpo di sciabola di un bianco livido e sporco.

Gettò in giro un’occhiata fischiettando fra sé, poi con voce stridula intonò un’antica canzone di mare che in seguito avrei udito tanto spesso:

Quindici uomini sulla cassa del morto, Yo-hò-hò – e una bottiglia di rum!

Quindi con un bastone batté contro la porta e, come mio padre apparve, ordinò bruscamente un bicchiere di rum.

«Questo è un luogo adatto» disse mentre sorseggiava il rum da vero intenditore. «Mi piace. Viene molta gente qui, amico?»

Il babbo rispose di no; poca assai, una desolazione. «Bene, allora. È proprio il luogo che fa per me. Ehi, tu» gridò all’uomo della carriola «vieni, e aiuta a portar su il mio baule. Resterò qui un pezzetto» continuò. «Sono un uomo alla buona, io: rum, prosciutto e uova. Non mi serve altro e… quella punta lassù per osservar le navi che passano. Qual è il mio nome? Potete chiamarmi “Capitano”. Ah, so ciò che vi preoccupa… Prendete!» e gettò sul banco tre o quattro monete d’oro. «Mi avvertirete quando saranno finite» e squadrò mio padre con un’occhiata piena di comando.

Malgrado gli abiti frusti e la ruvidezza del linguaggio, non aveva l’aspetto di un semplice marinaio; sembrava piuttosto un secondo o un capitano, abituato ad essere obbedito e a dominare. L’uomo della carriola ci disse ch’era sceso dalla corriera, la mattina precedente, davanti all’Albergo Reale; che si era informato delle locande sparse lungo la costa e che, avendo sentito che la nostra godeva di buona fama, l’aveva scelta quale residenza. Questo fu tutto quanto riuscimmo a sapere sul conto del nostro ospite.

Era un uomo taciturno. Passava le giornate gironzolando lungo la baia o sugli scogli con un cannocchiale d’ottone; e tutte le sere si sedeva in un angolo della sala, accanto al fuo-

co, bevendo una forte miscela di acqua e rum. Il più delle volte non parlava neppure quando era interrogato; si limitava a squadrare colui che aveva avuto l’ardire di interrogarlo, con uno sguardo di fuoco, mentre soffiava tra le narici come una tromba d’allarme. Sicché tanto noi che gli avventori imparammo presto a lasciarlo stare.

Quando un marinaio prendeva alloggio nella nostra locanda egli guardava il nuovo arrivato attraverso la tenda della porta prima di decidersi a passar nella sala e, finché quello non alzava i tacchi, stava muto come un pesce.

Questo contegno per me, non aveva nulla di misterioso, giacché in un certo modo dividevo anch’io le preoccupazioni del capitano. un giorno, infatti, egli mi aveva chiamato in disparte e m’aveva promesso quattro penny d’argento ogni

IL VECChIo LuPo dI MARE ALL’AdMIRAL BENBow

mese, a patto che io facessi buona guardia e l’avvisassi non appena comparisse un «marinaio con una gamba sola».

Gli altri avevano di lui una paura tremenda perché, quando beveva più del solito, diveniva l’uomo più insolente e prepotente del mondo. ora imponeva silenzio battendo un pugno sulla tavola; ora pigliava fuoco per una domanda che gli era rivolta; ora si arrabbiava perché nessuno lo interrompeva; ora costringeva tutti a cantare le sue sinistre canzoni. E non tollerava che si lasciasse la sala prima che egli, ubriaco fradicio, non avesse, barcollando, raggiunto il suo letto.

Ciò che soprattutto sbigottiva l’uditorio erano le sue storie. Spaventevoli storie di impiccagioni, d’annegamenti, di burrasche, di rivolte.

A sentir lui, era vissuto fra la più dannata razza di gente che Iddio aveva seminato per i mari; e il suo linguaggio brutale urtava i semplici paesani quasi al pari dei delitti che egli descriveva. Mio padre ripeteva di continuo che la locanda sarebbe andata in rovina, perché ben presto la gente si sarebbe stancata di frequentarla per essere tiranneggiata, avvilita e spedita a battere i denti nei propri letti. In verità io credo, invece, che in questo la sua presenza ci fosse di aiuto. Perché è vero che sul momento gli avventori rimanevano male, ma è anche vero che le storie del capitano piacevano loro, in quanto spezzavano la monotonia della vita sonnacchiosa del paese.

La vera rovina era nel fatto che egli, pur essendo da noi da molti mesi ormai, non aveva dato. più un soldo e, quelle rare volte che il babbo trovava il coraggio di alludere ai pagamenti,

il capitano soffiava attraverso il naso talmente forte che pareva ruggisse e fissava così furiosamente mio padre da costringerlo a lasciare la stanza. Allora io vedevo il babbo torcersi disperatamente le mani, e credo che ad affrettare la sua disgraziata fine siano stati proprio quei terrori e quegli affanni.

Tutto il tempo che rimase con noi il capitano non mutò mai nulla del suo vestiario, eccetto qualche calza comprata da un merciaio ambulante. Non scrisse mai né ricevette una lettera; non parlava con alcuno, fuorché coi vicini, e con questi solo quando era ubriaco di rum. E nessuno di noi aveva mai visto aperto il grosso baule da marinaio.

una sola volta il capitano trovò chi gli tenne testa.

Fu verso la fine, quando il povero babbo era già minato dal male che doveva condurlo alla tomba.

Il dottor Livesey venne una sera a visitare mio padre; poi, dopo aver mangiato un boccone preparatogli dalla mamma, se ne andò a fumare la pipa nella sala, mentre attendeva che il cavallo gli fosse ricondotto dal villaggio.

Lo seguii, e ricordo ancora vivacemente il contrasto che la bella e linda figura del dottore faceva con quei rozzi campagnoli e, soprattutto, con quel sudicio, torvo e ripugnante spauracchio di pirata seduto in un angolo.

d’improvviso il capitano, già alticcio, intonò la sua eterna canzone:

Quindici uomini sulla cassa del morto,

Yò-hò-hò – e una bottiglia di rum!

Satana e il bere hanno pensato al resto

Yò-hò-hò – e una bottiglia di rum!

Il capitano proseguì la sua canzone, poi batté un pugno sul tavolo, intimando, come ormai ben sapevamo, il silenzio a tutti. Nessuna voce fu più udita, ad eccezione di quella del dottore che seguitò a parlare come prima, chiaro e cortese.

Il capitano lo fissò bieco un istante, batté un nuovo colpo sul tavolo e, accompagnando la frase con una triviale bestemmia, gridò:

«Silenzio, laggiù a prua!»

«State parlando con me, signore?» chiese il dottore.

«Già» affermò il capitano, bestemmiando nuovamente.

«Io devo dirvi una sola cosa, signore» rispose calmo il dottore. «Se continuate a bere rum, il mondo sarà presto liberato da uno sporco furfante».

L’ira del vecchio fu tremenda. Balzò in piedi, estrasse un coltello a serramanico, l’aprì e, facendolo dondolare nel palmo della mano, minacciò il dottore di inchiodarlo al muro.

Questi non si mosse. Parlandogli, senza neppure voltarsi, con un tono di voce un poco rialzato, in modo che tutti lo potessero udire, ma perfettamente tranquillo e fermo, disse:

«Se non rimettete immediatamente in tasca quel coltello, vi giuro sul mio onore che alle prossime assise sarete impiccato».

Il capitano lo fissò a lungo, poi ripose l’arma e riprese il suo posto tremando come un cane battuto.

«E ora, signore» proseguì il dottore «dal momento che io so che razza di arnese c’è nel mio distretto, potete star tranquillo che sarete sorvegliato giorno e notte. Io non sono soltanto un dottore: sono anche un magistrato. E, se appena mi giunge una lagnanza sul conto vostro, fosse magari per una smargiassata come quella di stasera, provvederò a farvi mandar via di qui. Siete avvisato».

Poco dopo arrivò il cavallo del dottor Livesey ed egli se he andò; ma il capitano per quella sera e molte altre successive si mantenne tranquillo.

IL

Una collana di classici avvincenti e storie senza tempo con cui scoprire il piacere della lettura. Opere fondamentali, trame appassionanti, testi chiari e concisi per arricchire l’apprendimento scolastico. Collezionali tutti!

L’Isola del Tesoro

Tra le carte di un vecchio marinaio, Jim Hawkins ha recuperato una mappa molto preziosa: è la chiave per accedere all’isola remota dove il capitano Flint ha sepolto le sue leggendarie ricchezze. Spinto dalla sete di avventura, Jim accetta di imbarcarsi sulla goletta Hispaniola e partire alla ricerca del tesoro. Anche Long John Silver, il feroce pirata con una gamba di legno, è riuscito a farsi ammettere a bordo, nascondendo dietro modi gioviali i suoi loschi propositi. Jim è solo un ragazzo, ma sarà proprio lui, con la sua lealtà e il suo coraggio, a decidere le sorti della spedizione…

• Focus di approfondimento sulla vita e le opere di Robert Louis Stevenson

• Ritratto di Alberto Manzi, il Maestro d’Italia

disegni di Francesco Faccia

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