La vecchia ferrovia inglese

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Alver Metalli

La vecchia ferrovia inglese



Alver Metalli

La vecchia ferrovia inglese


a Govindo, dove ci aspetta adesso


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e rotaie dell’antica ferrovia inglese passavano altezzose davanti all’albero morto e di lì curvavano, per proseguire verso il porto. Una siepe di rovi le rincorreva per un buon tratto, finché non si interrompevano in prossimità di un ciuffo di case popolari dall’aspetto tenebroso. Erano un lascito della dittatura alla democrazia, tutte edificate negli anni della junta 1, quando i militari si fecero vanto di rimediare all’inconcludenza dei civili realizzando quegli alloggi popolari a basso costo che questi ultimi non erano riusciti a costruire. Fu così che i militi requisirono terreni, reclutarono manodopera, compressero i salari, sospesero le garanzie sindacali sul lavoro, estesero orari e molti-

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Giunta di militari che prese il potere in Uruguay il 27 giugno 1973 con un colpo di stato. Lo mantenne fino al 28 febbraio del 1985.

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plicarono turni; i condomìni vennero su come funghi, per essere inaugurati in pompa magna da generali infiocchettati di medaglie e insegne con i colori della bandiera nazionale. La dittatura passò. I generali si tolsero le bande e tornarono nell’ombra come animali nelle tane. Le palazzine, invece, rimasero al loro posto. Vi andarono a vivere dapprima le genti di una villa miseria 2 della capitale, che lasciarono le baracche di legno e zinco per un tetto più robusto e le pareti di mattoni cotti al sole. Ma poiché non potevano pagare luce, gas e acqua potabile, di lì a qualche anno i pobladores 3 sciamarono verso territori più a buon mercato, e gli appartamenti popolari vennero occupati dai contadini della provincia e dai loro figli, spinti dall’aridità della campagna verso la città e il suo porto, con le bestie e le masserizie al seguito. Costoro stiparono gli alloggi angusti di mobili giganteschi, squadrati e pesanti, fabbricati in legno rustico dai falegnami delle località di provenienza. Attorno ai caseggiati poi, ovunque vi fosse un pezzo 2

Insediamenti precari di immigrati che di solito sorgono ai margini della città o in terreni non edificabili nella città stessa. In America Latina si conoscono anche come favelas. 3 Occupanti dei terreni, provenienti dalle campagne, il più delle volte abusivi.

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di terra, spuntarono orti dalla sera alla mattina; gli orti si riempirono altrettanto velocemente di legumi, verdure e di ogni animale addomesticato da mano d’uomo. Così galline, tacchini e oche di ogni genere e dimensione razzolavano su fazzoletti di terra delimitati alla meglio con assi e filo di ferro e non era inusuale che trovassero la strada della libertà, finendo a rovistare tra i rifiuti della via pubblica. Che non era poi gran cosa: una striscia di asfalto fangosa d’inverno e polverosa d’estate, piagata da avvallamenti e buche, con tante stradine in terra battuta che la intersecavano sui due lati come la lisca di un pesce. Parallelo alle rotaie della ferrovia e alla siepe di rovi, su fino alle prime abitazioni della periferia e ai moli del porto, si snodava un fossato largo e poco profondo, dall’acqua limacciosa, popolato di salamandre, tritoni e una miriade di insetti dalle zampe sottili che sfioravano l’acqua con delicatezza. Era il territorio di José Valera, quello in cui trascorreva il tempo della vita non occupato dalla scuola e dalle partite a pallone nell’oratorio Don Bosco. In questo lasso di tempo José percorreva avanti e indietro la barriera di sterpi che affiancava i binari della ferrovia cercando di sorprendere e uccidere – non c’era soluzione di continuità tra i due atti – tutto quello che di

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vivo vi trovava rifugio: zorzales 4 colorati, batuiras 5 dalle lunghe zampe, passeri neri, rettili, insetti. Cacciava uccelli, di preferenza, ma non risparmiava serpi, ramarri, lucertole, rospi e neppure i ragni, quelli grossi e grassi con il corpo striato di giallo e nero, che passavano il loro tempo appesi alle ragnatele luccicanti d’umidità. I tritoni, le salamandre, José li tirava fuori dall’acqua con ogni mezzo a sua disposizione: un rastrello, un bastone alla cui estremità applicava del filo spinato, la forcina di un ramo, delle canne dalla punta ricurva come un uncino. Con l’improvvisato armamentario agganciava e trasportava sul bordo del fossato le alghe che crescevano sul fondo e, intrappolate dentro, le salamandre e i tritoni. José distendeva le alghe sul terreno, frugava nella poltiglia verde con un bastoncino. Nulla riusciva a occultarsi al suo occhio esperto. Restava lì, sulla mistura maleodorante, sovrastando le bestioline inermi come un enorme predatore. Le contemplava a lungo prima di deciderne il destino. Che consisteva sempre in un repertorio d’ine4

Tra gli uccelli più comuni in America del Sud. Ha l’aspetto di un tordo. 5 Uccello migratore di piccole dimensioni, dal becco corto e lunghe zampe arancione.

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narrabili crudeltà. Squartamenti, schiacciamenti, amputazioni, spellamenti… José accendeva il fuoco con le foglie secche e vi buttava sopra le sue catture; tagliava le code delle povere prede per vederle fuggire storpiate dalle menomazioni; le infilava in un rametto appuntito per osservare la loro agonia. La madre ignorava quelle nefandezze e sgobbava da mattino a sera nelle case di un paio di famiglie della zona bene di Montevideo; il padre, invece, le incoraggiava, vedendo nell’indipendenza del figlio un valore che la sua fede politica di sinistra lo portava ad ammirare. Quanto a lui, José, aveva tre amori nella vita: la caccia, il pallone e la supplente di spagnolo. Li perseguiva uno dopo l’altro in perfetta successione, con i suoi capelli ricci sempre arruffati, le orecchie larghe ben staccate dalla testa e un vistoso neo sotto il labbro. José aveva un temperamento pacato e avventuroso allo stesso tempo; composto, si sarebbe detto, e al contempo pronto a espandersi e occupare gli spazi che l’esistenza e gli accadimenti che la riempivano gli mettevano dinanzi. Tutto, quiete e agitazione, calma e vigore, era compresso nella piccola statura, come una molla pronta a lanciarsi in avanti: la vita gli piaceva e il suo modo di manifestarlo era spremerla a più non posso.

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