Regine, cavalieri, draghi e magie. L’epica medievale

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REGINE, CAVALIERI, DRAGHI E MAGIE

L’epica medievale

A

cura di Alberto Cristofori

Regine, cavalieri, draghi e magie. L’epica medievale a cura di Alberto Cristofori

ISBN 979-12-221-0504-8

Prima edizione rinnovata: maggio 2024

ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

anno 2028 2027 2026 2025 2024

© 2024 Gallucci - La Spiga

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Foto: Shutterstock, Archivio ELI – La Spiga Edizioni

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REGINE, CAVALIERI, DRAGHI E MAGIE

L’EPICA MEDIEVALE

A cura di Alberto Cristofori

Nota introduttiva

Il libro racconta alcune delle opere più famose della letteratura

medievale:

– le prime tre storie (di Beowulf, di Orlando, del Cid Campeador) sono considerate vicende epiche, simili per l’impostazione e i temi (l’eroismo, l’onore, la guerra) a quelle di Omero e di Virgilio; – le altre quattro storie (di Tristano e Isotta, del mago Merlino e di re Artù, di Lancillotto e Ginevra, di Parsifal alla ricerca del Graal) sono invece considerate vicende romanzesche, incentrate sui temi dell’amore e della magia.

Queste vicende sono raccontate da uno strano professore, detto zio Dendi, a tre ragazzi – due fratelli e una sorella – nel corso di due settimane di vacanze estive. Ogni racconto è quindi collocato in una “cornice” unitaria ed è scandito in capitoli piuttosto brevi, ciascuno con il suo titolo, per facilitare la lettura e il riassunto del testo.

All’interno di ogni racconto si trovano alcuni passi originali (quasi sempre in versi) tratti dai testi antichi a cui zio Dendi si ispira.

Accanto al testo vi sono inoltre dei brevi box di approfondimento, alcuni con informazioni linguistiche, altri con informazioni storiche.

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Nelle pagine finali del volume sono presenti vari materiali di approfondimento:

– informazioni essenziali sull’epica e sul romanzo medievali; – fonti da cui sono tratti i racconti; – suggerimenti per possibili approfondimenti (libri e film).

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Prologo

Eravamo in tre: io, che all’epoca avevo dodici anni appena compiuti, mia sorella Susy, che ne aveva dieci, e il piccolo Bobby (Roberto), che ne aveva sette. Non saremo stati un modello di amore fraterno, ma andavamo abbastanza d’accordo. Insomma, Susy non era male, quando non se la tirava troppo e non andava in giro a dire che correva più veloce di me (che era la verità, purtroppo), e il piccolo Bobby, che a giudicare da quanto leggeva prometteva di diventare l’intellettuale di famiglia, imitava ancora noi grandi meglio che poteva e rompeva le scatole solo se si sentiva escluso dalle nostre avventure.

Quell’estate i nostri genitori decisero di fare due settimane di vacanza senza figli, e noi finimmo parcheggiati dai nonni, nella casa di campagna dove andavamo più o meno una volta al mese, e solo per qualche ora. Splendida prospettiva!

I nonni non avevano televisione, non sapevano neanche cos’era un computer, chiamavano consòl uno stupido tavolino che tenevano in corridoio e avevano guardato con sospetto perfino il mio iPod! Certo, i primi due o tre giorni c’era stato il piacere della novità: si accompagnava il nonno sul trattore, si portava da mangiare al vecchio Billy, che era un asino mezzo spelacchiato, si aiutava la nonna a raccogliere le uova, si preparava l’erba medica e il trifoglio per i conigli... Ma poi, già dal terzo giorno... che barba! che noia!

Per fortuna c’era zio Dendi. Non era un vero zio, piuttosto un amico di famiglia. Tutti gli anni prendeva in affitto il granaio dei nonni, ormai in disuso, e ci passava l’estate in compagnia di un letto, un for-

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nello con la bombola, un tavolo e due sedie pieghevoli. E libri, libri, libri: non avevo mai visto tanti libri in una casa, figuriamoci in una casa di vacanza. Sembrava impossibile che una persona riuscisse a leggerli tutti, invece zio Dendi se li divorava pian piano, a uno a uno, tra la metà di giugno e la fine di agosto, cioè da quando finiva la scuola a quando ricominciava. Perché era un professore – anche se non sembrava: in vacanza non si tagliava mai la barba, che al primo di settembre gli arrivava fin sul petto, e si metteva camicie a quadrettoni mezze strappate e calzoni di cotone tutti spiegazzati. Per non parlare dei sandali!

Leggeva sdraiato sul letto con due cuscini dietro alla testa o appollaiato su una delle due sedie, dondolando coi piedi appoggiati sul tavolo, o anche buttato tra la paglia di Billy, sotto alla tettoia. E trovava il tempo per dare una mano ai nonni e per chiacchierare con noi, che lo conoscevamo bene perché era amico del papà fin dai tempi della scuola e veniva spesso a cena a casa nostra, in città, ed era uno dei pochi adulti che ci faceva domande da adulti e ci ascoltava come se davvero gli interessasse quello che dicevamo, senza quel sorriso di superiorità che hanno sempre gli adulti quando parlano con noi ragazzi. Era simpatico, insomma.

Fu sua l’idea che ci salvò le vacanze. “Quando non sapete cosa fare, venite a trovarmi”, disse il quarto giorno, vedendoci ciondolare senza meta, pronti ad attaccare briga tra noi pur di fare qualcosa. “Non sarò la televisione, non sarò un videogioco, ma qualche bella storia sono sicuro di potervela raccontare”.

Non avevamo niente da perdere, come disse Susy. Nel peggiore dei casi non avremmo ripetuto l’esperimento, pensai io. Bobby non poteva che essere d’accordo. Così, il giorno dopo...

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Le imprese del prode Beowulf

Il giorno dopo, nelle ore più calde del pomeriggio, mentre i nonni facevano il loro pisolino, noi tre scivolammo nel granaio con una bottiglia di spremuta, zio Dendi tirò fuori da qualche parte una scatola di biscotti al cioccolato e attaccò.

Re Hrodgar e la sua reggia

Approfondimenti

Il Mondo di Mezzo

L’espressione “Mondo di Mezzo” o “Terra di Mezzo” non ha valore geografico. Nelle antiche saghe nordiche, essa indica invece il mondo reale, abitato dagli esseri umani, a metà strada fra il mondo celeste (degli dèi) e quello sotterraneo (dei morti).

La storia che vi racconto oggi si svolse tra la Danimarca e la Svezia. E incominciò su una delle grandi isole che separano il Mare del Nord dal Mar Baltico, dove oggi si trova la capitale della Danimarca, Copenhagen. Ai tempi della nostra storia questa città non esisteva ancora, ma esistevano già i Danesi, e i Danesi avevano un re che si chiamava Hrodgar. Il suo trisnonno, Scyld, era stato un grande guerriero e, pur essendo di umili origini, aveva fondato la dinastia, motivo per cui i Danesi erano detti anche Scyldingas, cioè uomini di Scyld. Hrodgar aveva compiuto grandi imprese, in gioventù, e da molti anni garantiva al suo popolo pace e benessere insieme alla regina sua moglie, ai suoi figli e ai suoi fedeli vassalli. Alla sua gloria mancava solo una cosa: una grande reggia, un palazzo capace di resistere al tempo e di lasciare ai posteri un segno del suo passaggio nel Mondo di Mezzo. Hrodgar chiamò dunque gli architetti, gli artigiani e gli artisti più famosi del tempo e ordinò loro di costruire un edificio meraviglioso, il più splendido che si fosse mai visto, e siccome era un sovrano amante della caccia, l’abbellì con i trofei che aveva conquistato e in particolare con le corna dei cervi che aveva ucciso a centinaia nel corso delle sue numerose battute. La reggia venne perciò chiamata “il Cervo”, che in lingua danese antica si dice Heorot.

Re Hrodgar, ormai vecchio e stanco, pensava di trascorrere al Cervo gli ultimi anni che gli restavano da vivere, circondato dall’affetto di tutti. E in effetti, per qualche tempo la sua vita trascorse se-

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rena, tra feste, banchetti, cerimonie, perché il ricordo delle grandi imprese di Hrodgar era ancora ben vivo e nessuno si sarebbe sognato di minacciare il suo potere. Soprattutto i banchetti erano famosi per il loro splendore: Hrodgar non solo offriva agli ospiti selvaggina arrostita allo spiedo e abbondanza di vino e di birra e di idromele di ottima qualità, ma allietava le feste chiamando i poeti più famosi, che cantavano le gesta sue e dei suoi avi accompagnandosi con l’arpa. E nessuno degli ospiti se ne andava senza ricevere ricchi doni: anelli, bracciali d’oro, collane, vestiti, armi e scudi di ottima fattura e decorati con le più raffinate delle incisioni.

Morte e desolazione al Cervo

Fu proprio la fama del Cervo ad attirare l’invidia di Grendel, un essere mostruoso, gigantesco, che viveva nascosto nelle vicinanze della reggia, all’insaputa di tutti. Appostato nell’oscurità, dopo il tramonto del sole, questo mostro simile a un orco ascoltava acquattato fra gli alberi e i cespugli le musiche che provenivano dal Cervo e vedeva le luci che uscivano dalle alte finestre della reggia. Qualcuno dice che Grendel fosse addirittura un discendente di Caino, il figlio di Adamo che uccise suo fratello Abele e fece entrare per la prima volta la morte nel mondo degli uomini. Quel che è certo è che Grendel era un essere deforme, selvaggio, che non aveva una vera casa, ma dormiva in tane come le bestie, nei boschi, nelle paludi, e anche all’aria aperta, dove capitava, e provava piacere nel distruggere e nell’uccidere. Ebbene, a poco a poco, anziché sentirsi attratto dalla bellezza e dallo splendore del Cervo, Grendel incominciò a nutrire un grande odio per Hrodgar e per i suoi uomini e decise di penetrare nella reggia per portarvi morte e desolazione. Una sera, quando tutti si e-

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LE IMPRESE DEL PRODE BEOWULF

rano ormai addormentati, dopo una grande festa, Grendel penetrò nel Cervo e, in perfetto silenzio, uccise trenta uomini, si caricò in spalla i cadaveri di tutti quelli che poteva trasportare e tornò a nascondersi nella sua tana.

Figuratevi al risveglio: appena gli Scyldingas si accorsero di quello che era successo, tutta la reggia risuonò di grida, di pianti, di lamenti. Subito Hrodgar cercò il colpevole e, da abile cacciatore qual era, ne scorse immediatamente le tracce, che Grendel del resto non si era nemmeno curato di cancellare.

Ma presto fu chiaro perché il mostro non temeva gli inseguitori: le sue tracce si perdevano in una palude impraticabile, dove gli uomini rischiavano di affondare e di perdersi. L’inseguimento dovette essere abbandonato e i vendicatori che Hrodgar aveva sguinzagliato per punire Grendel tornarono al Cervo a mani vuote.

Non crediate che Hrodgar si rassegnasse facilmente: il saggio re sapeva che il mostruoso Grendel, una volta assaporata la carne umana, avrebbe voluto tornare e avrebbe tentato di catturare nuove prede. Per cui organizzò dei turni di guardia e se ne andò a dormire, la sera dopo, solo quando fu certo che tutto era pronto per accogliere il nemico come si meritava, se si fosse fatto vedere di nuovo. Ahimè, Grendel era enorme e selvaggio, ma non mancava di astuzia. Ed era abituato a muoversi silenzioso nell’oscurità, mentre gli uomini di guardia erano stanchi per il vano inseguimento che li aveva impegnati gran parte della giornata e non sapevano con chi avevano a che fare. Arrivò all’improvviso, Grendel, nell’ora più profonda della notte, mentre le torce languivano e gli uomini assonnati incominciavano a sperare nell’alba vicina. Arrivò come una furia, sbucò dal nulla, e le guardie non ebbero nemmeno il tempo di gridare, di dare l’allarme: furono tutte uccise e i loro corpi, come quelli dei loro infelici compagni, finirono nella pancia del mostro.

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Al mattino dopo, i sopravvissuti furono colti dal terrore e parecchi di loro incominciarono a pensare come abbandonare il Cervo e il loro re senza perdere la faccia. “Vado a cercare rinforzi, re Hrodgar”, disse uno dei vassalli mentre montava a cavallo deciso a non tornare mai più. “Ho ricevuto un messaggio urgente da parte di mia moglie”, disse un altro: “nostro figlio ha la febbre alta ed è necessaria la mia presenza al suo capezzale”. Uno dei vassalli arrivò perfino a ferirsi a un piede con la propria spada, dichiarando che era stato colpito da Grendel e si era salvato per miracolo, ma adesso doveva andare a curarsi in qualche località più tranquilla e sicura.

Hrodgar, preoccupato, riunì il Consiglio Supremo. Doveva forse abbandonare il Cervo? Lasciare che Grendel si insediasse nella reggia al suo posto? A questo si sarebbe arrivati, se quei vigliacchi dei suoi uomini avessero continuato a fuggire! E d’altro canto, come poteva chiamarli vigliacchi? Non era lui stesso in preda al terrore all’idea delle nuove incursioni di Grendel?

Lui era vecchio e non poteva certo affrontare un mostro del genere: ma chi, chi poteva farlo per lui?

Approfondimenti

Il Consiglio

Il re, presso le popolazioni germaniche come Danesi e Geati, non saliva al trono per via ereditaria, ma dopo essere stato eletto da un’assemblea di guerrieri. Egli era affiancato in tutte le sue attività da un “consiglio”, un gruppo di nobili vassalli che nello stesso tempo lo aiutavano e lo controllavano.

Hrodgar aiutato da Beowulf

La notizia di questi avvenimenti intanto si spargeva, non solo fra gli Scyldingas, ma anche fra i Geati, un popolo che viveva nella Svezia meridionale. Il re dei Geati era Hygelac e tra i suoi vassalli ce

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n’era uno particolarmente valoroso, di nome Beowulf. A questo nome, che significa orso-lupo, Beowulf faceva davvero onore: aveva la forza e il coraggio dell’orso (un coraggio che a volte sfiorava la temerarietà), l’intelligenza e la lealtà del lupo.

Appena seppe di Grendel, Beowulf decise di andare a combatterlo. Era un avversario degno di lui e la vittoria gli avrebbe arrecato onore. Ma nella sua mente si agitavano anche altri pensieri: il re Hrodgar era un sovrano potente e averlo come amico poteva essere vantaggioso. Il suo stesso re, Hygelac, sarebbe rimasto colpito dal suo valore, se avesse vinto, e l’avrebbe onorato più degli altri vassalli. Insomma, in Beowulf il desiderio di aiutare un nobile signore in difficoltà contro un mostro barbaro e selvaggio si univa a una grande ambizione, nel senso più nobile del termine.

Beowulf per prima cosa si fece costruire una nave per poter raggiungere l’isola su cui sorgeva il Cervo; e scelse fra i Geati quindici compagni, tra i più forti e coraggiosi, da cui farsi accompagnare nell’impresa. Appena la nave fu pronta partì e dopo due giorni di navigazione arrivò in vista delle ripide scogliere degli Scyldingas, trovò una piccola baia e vi approdò.

Dall’alto della scogliera, una sentinella danese avvistò la nave, vide che c’erano a bordo degli uomini armati e si impensierì: Beowulf non aveva potuto avvertire del proprio arrivo e la sentinella sospettava un tentativo di invasione.

“Chi siete?”, chiese dopo aver raggiunto i Geati, “voi che arrivate così armati attraverso il mare? Mai nessuno prima d’ora ha cercato di invadere il nostro paese, ma non mi risulta che voi abbiate un lasciapassare o un invito. E chi è, fra voi, quell’uomo dall’aspetto così nobile e forte? Certo un grande guerriero. Badate bene, neanche lui farà un passo di più in terra danese, se prima non avrete risposto alle mie domande”.

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Fu Beowulf a rispondere alla coraggiosa sentinella danese, che osava affrontare da sola tanti uomini armati: “Siamo Geati, e io sono Beowulf, figlio di Ekbeow, che morì vecchio dopo essersi conquistato grande fama in tutto il Mondo di Mezzo. Veniamo da amici, per aiutare il vostro re Hrodgar: se è vero quanto si racconta, un misterioso nemico infligge ogni notte agli Scyldingas perdite dolorose. Ebbene, io ho un piano per liberarlo da questo male. Non abbiamo nulla da nascondere, non siamo spie e non veniamo a portarvi la guerra.”

Il Danese era un uomo esperto e riconobbe subito la sincerità di Beowulf. “Prendete le vostre armi”, disse: “vi accompagnerò dal re Hrodgar”. E fece loro da guida fino al Cervo.

Alla vista di quel palazzo famoso, i Geati rimasero senza parole; e ancora di più si stupirono quando furono introdotti nella sala dei banchetti, che era anche la sala del trono, tutta rivestita di legno e decorata d’oro. Deposero le armi fuori dal palazzo, in segno di rispetto, e Hrodgar li ricevette.

Beowulf avanzò fino a pochi passi dal trono: vide un uomo curvo, tutto bianco – le preoccupazioni degli ultimi tempi avevano lasciato il loro segno sul vecchio re danese. La sua mente però era pronta come sempre e subito riconobbe Beowulf, che aveva conosciuto da ragazzo, e ricordò suo padre Ekbeow, che era stato un grande guerriero e che era stato fra gli ospiti alla sua festa di nozze (giacché Hrodgar aveva sposato una principessa dei Geati, per sigillare l’alleanza e l’amicizia fra i due popoli).

Beowulf dichiarò il motivo della sua visita:

“Il problema di Grendel mi è stato rivelato nella mia terra, in patria. Raccontano i naviganti che questa tua reggia, la fabbrica più splendida,

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resta inutile e vuota di tutti, appena la luce serale si nasconde sotto il chiaro del cielo.

Così ho ricevuto il consiglio dalla mia gente, dai migliori, i più esperti, principe Hrodgar, di venirti a trovare, perché conoscono la mia forza fisica: mi hanno veduto loro tornare, colorato di sangue, da scontri dove ho legati cinque giganti, ne ho distrutta un’intera famiglia. O abbattere, di notte, mostri marini in acqua: sobbarcarmi pericoli, polverizzare dèmoni. E adesso tocca a me sistemare, da solo, la faccenda con Grendel...”

Approfondimenti

Il vanto

Le parole con cui Beowulf si presenta a re Hrodgar suonano fin troppo presuntuose e orgogliose al nostro orecchio. Ma, per la mentalità medievale, la modestia non era una virtù: l’eroe anzi doveva vantarsi pubblicamente delle proprie imprese e delle proprie qualità, altrimenti sarebbe apparso debole e insicuro.

Beowulf aveva sentito dire anche che Grendel era fatato e quindi non poteva essere ferito dalle armi degli uomini. Per questo, disse, avrebbe affrontato il nemico a mani nude, senza spada e senza scudo. “O tornerò vincitore”, concluse, “o il mostro mi ucciderà e mi mangerà. In ogni caso, non dovrò provare vergogna”.

Hrodgar ringraziò calorosamente Beowulf: i suoi uomini avevano fallito ed erano ormai in preda al terrore, ma Beowulf era senza dubbio più forte e ardito di loro. E per prepararlo alla battaglia gli offrì una cena sontuosa, un vero banchetto. Danesi e Geati mangiarono e bevvero insieme, ascoltando i canti che narravano le gesta degli antichi eroi; poi entrò la regina, moglie di Hrodgar, che offrì personalmente da bere a Beowulf

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in segno di augurio per la sua impresa. E tutti si prepararono per la notte: Hrodgar e gli Scyldingas lasciarono il Cervo, Beowulf e i suoi quindici compagni rimasero in attesa del mostro nella splendida sala grande della reggia: misero di guardia uno di loro, accostarono le armi alle pareti e si sdraiarono sui letti che avevano fatto preparare, fingendo di dormire.

La lotta tra Beowulf e Grendel

Ed ecco che, nel profondo della notte, dall’acquitrino in cui aveva la sua tana, Grendel si avvicinò al Cervo con la speranza di acchiappare qualche nuova preda umana. Approfittava del cielo nuvoloso, senza luna, per arrivare nei pressi della reggia senza essere visto da nessuno. Non sapeva, ovviamente, quale sorpresa lo aspettava.

Appena toccò il portone, questo cedette. E lui, accecato dalla fame e dall’orgoglio, avanzò rapidamente verso la sala del trono, convinto di fare un facile bottino di vite umane. Aveva gli occhi iniettati di sangue e la schiuma alla bocca. Quando vide i guerrieri addormentati sui loro letti, un ghigno orribile gli deformò la faccia: tutti li avrebbe uccisi, questa volta, prima dell’alba. Beowulf, con gli occhi socchiusi, spiava le mosse del mostro, pronto a intervenire.

Ma Grendel era davvero un avversario formidabile anche per lui. Appena entrato, aveva afferrato il guerriero più vicino e gli aveva staccato la testa con un morso, senza che il poveretto potesse emettere nemmeno un lamento. Ne stava bevendo il sangue quando Beowulf si alzò di scatto, si slanciò contro il mostro gigantesco e lo afferrò al petto: siccome nessuna arma poteva ferirlo, pensava di stringerlo tra le braccia fino a soffocarlo.

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Grendel, per la prima volta in vita sua, ebbe paura: non si aspettava quell’attacco, capì di essere finito in una trappola, si accorse che il suo avversario non era uno dei soliti guerrieri che cercavano inutilmente di ferirlo con le loro spade o le loro lance, ma era un nemico più grande, più forte e più astuto di tutti quelli che aveva affrontato fino a quel momento. E tentò di fuggire. Gli altri Geati lo trattenevano, ma Beowulf gli si era letteralmente aggrappato addosso e sembrava che avesse degli artigli al posto delle mani. Tutta la sala rintronava, i letti e le panche e i tavoli finivano a gambe all’aria e si spezzavano e le pareti tremavano per la violenza della lotta, ma Beowulf non lasciava la presa e Grendel, terrorizzato, emise un urlo disumano, un lamento pauroso, che sembrava sbucare dalle viscere della terra e che gelò il sangue nelle vene ai Geati.

Approfondimenti

L’orco

Beowulf rimase aggrappato al suo avversario, che invano cercava di liberarsi e di fuggire. E quando Grendel parve riuscire nel suo intento e liberò il petto dalla presa di Beowulf, questi gli afferrò un braccio e glielo storse con tale violenza che i tendini si ruppero, le ossa della spalla si staccarono e la pelle cedette: con un ultimo urlo bestiale Grendel fuggì, lasciando il braccio nel Cervo, tra le mani del possente Beowulf.

Le invasioni degli Ungari, che si verificarono in Europa tra il IX e il X secolo, provocavano un enorme terrore nelle popolazioni colpite. Ne è rimasta traccia nella lingua: il termine italiano “orco”, con cui si indica un essere fantastico mostruoso e cannibale, deriva dal francese “ogre”, che a sua volta deriva da “ongre”, che vuol dire appunto Ungaro.

Inseguirlo nella notte era impossibile, ma Beowulf era sicuro che la ferita fosse inguaribile e la mattina dopo, quando seguì coi suoi uomini la scia di sangue lasciata dal mostro, i fatti confermarono la sua previsione: l’acqua ribolliva intorno al cadavere di Grendel, le onde arrossate vorticavano selvaggia-

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mente. Beowulf mandò un uomo ad avvertire Hrodgar e i Danesi giunsero insieme al loro re a contemplare il nemico sconfitto.

La vendetta della madre di Grendel

Vi lascio immaginare i festeggiamenti che gli Scyldingas tributarono a Beowulf. Non ci furono solo banchetti, allietati dai soliti canti, discorsi, regali, ma veri e propri giochi sportivi in onore dell’eroe: corse a piedi e a cavallo, gare di forza e di abilità.

Beowulf era l’unico che partecipava all’allegria generale con una certa riserva. Grendel era morto, certo, ma qualcosa gli diceva che il suo compito al Cervo non era ancora finito. E infatti, quella sera stessa, mentre tutti dormivano dopo le abbondanti libagioni, arrivò inaspettata una vendicatrice: la madre di Grendel, una strega delle paludi, un essere che viveva tra le acque meditando perfidie, giunse alla reggia e uccise. Non aveva la forza del figlio, ma aveva un coltello che immerse più e più volte nel petto dei guerrieri addormentati. Rapida come il lampo, compì la sua vendetta e fuggì, portandosi dietro come ostaggio il vassallo più caro a Hrodgar e il braccio di Grendel, che Hrodgar aveva fatto appendere a una parete come un trofeo di caccia. Beowulf dormiva in un’altra stanza e capì quello che era successo la mattina dopo, quando le grida e i lamenti fecero sapere al mondo che una nuova sventura aveva colpito i Danesi. Accorse, Beowulf, e Hrodgar piangendo gli chiese di aiutarlo anche in questa nuova impresa. Alcuni abitanti della regione avevano raccontato, già in passato, che i mostri erano due, un uomo e una donna, ma nessuno aveva dato ascolto alle loro parole. Adesso doveva ammettere, ahimè in ritardo, che quelle voci erano vere e che la morte di Grendel non aveva posto fine alle loro sciagure.

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Approfondimenti

I quattro elementi

Secondo la fisica medievale, il mondo è costituito da quattro elementi: aria, acqua, fuoco e terra. Grendel è legato soprattutto alla terra, sua madre all’acqua; il drago che Beowulf affronterà nell’ultima delle sue avventure sarà un mostro di fuoco e di vento. Beowulf, insomma, è un eroe talmente forte che riesce a dominare gli elementi della natura.

Beowulf si preparò accuratamente: la madre di Grendel viveva nella laguna che già conosceva. Si fece preparare le armi e cavalcò, alla testa dei suoi fedeli, fin dove fu possibile. Poi, quando il terreno divenne troppo cedevole, proseguì a piedi, osservando le tracce che il mostro, appesantito dal doppio carico, aveva lasciato profonde ed evidenti nel terreno imbevuto d’acqua. Dovette inoltrarsi a lungo, ma finalmente giunse a un bosco di alberi morti, sotto ai quali l’acqua torbida, fra cui sguazzavano serpenti e mostri marini, assumeva un colore sanguigno. Su una roccia, lì accanto, c’era la testa del povero vassallo rapito dall’orchessa!

Beowulf afferrò l’arco e incominciò a saettare le orribili bestie acquatiche che facevano la guardia alla tana dell’orchessa. Poi si assicurò la cotta di maglia sul corpo e si allacciò l’elmo che gli avrebbe protetto il capo, e così appesantito si preparò ad entrare nelle acque infide, impugnando la spada, la cui lama era stata intinta in un veleno mortale.

“Se non dovessi tornare”, disse a Hrodgar, che l’aveva accompagnato nella caccia, “ti chiedo di inviare alla mia famiglia i tesori che mi hai donato, insieme ai miei compagni, in modo che tutti sappiano quello che è accaduto e la fama delle mie imprese duri eterna nel canto dei poeti”. E senza attendere risposta si immerse nel lago maledetto.

Appena giunse sul fondo, si sentì afferrare dagli artigli dell’orchessa, che da migliaia e migliaia di anni custodiva quel luogo infernale e i mostri che lo abitavano. E quando l’orchessa si rese con-

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to che i suoi artigli non potevano penetrare l’armatura di Beowulf, lo trascinò all’interno della sua tana, una grotta da cui si poteva entrare solo nuotando, perché nessuna apertura la collegava al mondo esterno.

Beowulf costretto a combattere per la vita

La grotta era fiocamente illuminata da un falò e Beowulf, che sott’acqua aveva dovuto trattenere il fiato, nella grotta riusciva a respirare, per quanto l’aria fosse carica di miasmi. La mostruosa creatura infatti trascinava lì le sue vittime e lasciava i loro resti a decomporsi in quell’ambiente chiuso. Lo spazio, per quanto grande, era tutto ingombro di ossa, di legno marcio, di sporcizia, di armature ammaccate e arrugginite.

Beowulf colpì la donna mostruosa, ma senza esito: come il figlio, anche lei aveva la pelle fatata e non poteva essere ferita. Al contrario di Grendel, però, la donna era armata di un lungo pugnale, e se Beowulf non avesse avuto l’armatura, il primo colpo gli sarebbe stato fatale. Il guerriero tentò di abbattere la nemica con un pugno, ma l’orchessa gli afferrò il braccio e gli fece perdere l’equilibrio. Beowulf cadde. L’orchessa gli fu sopra e lo schiacciò a terra col suo peso, sedendosi sulla sua schiena e tentando di soffocarlo.

Beowulf non riusciva a rialzarsi. Invano le sue robuste braccia premevano contro il terreno: la madre di Grendel era troppo pesante anche per un uomo forte come lui. A un tratto, mentre già incominciava a disperare e la bocca dell’orchessa si schiudeva in un malvagio ghigno di trionfo, il suo sguardo fu attirato da uno strano bagliore: a poca distanza dal suo volto, in mezzo a un mucchio di armi arrugginite, una spada brillava come se fosse appena uscita dalla for-

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Approfondimenti

Le armi magiche

Gli eroi medievali (e in qualche caso anche i loro nemici) sono spesso proprietari di armi dotate di poteri speciali. In molti casi, queste armi (soprattutto le spade) hanno un nome proprio, che sottolinea la loro eccezionalità.

gia. La sua impugnatura aveva una forma strana, che Beowulf non aveva mai visto prima: non doveva essere opera di un essere umano. Era l’ultima speranza. Beowulf allungò di scatto il braccio, impugnò la spada e con essa, alla cieca, colpì il mostro che lo opprimeva sulla schiena. Sentì un urlo e vide la spada macchiata di sangue. Si sentì improvvisamente più libero: si girò di scatto e colpì di nuovo. Una, due, tre volte la spada balenò alla luce delle fiamme. L’orchessa cadde ed esalò l’ultimo respiro. In un angolo, su un letto, c’era il corpo senza vita di Grendel, che la madre aveva trascinato lì per qualche oscuro motivo. Beowulf usò la spada per tagliargli la testa e ci riuscì, ma la lama si fuse subito dopo. Il guerriero, con la propria vecchia spada nella destra e la testa di Grendel nella sinistra, si rituffò in acqua e tornò dai compagni che lo aspettavano ansiosi e ascoltarono commossi e inorriditi il racconto della sua impresa, fissando quello spettacolo prodigioso.

L’ultima impresa di Beowulf

Beowulf e i suoi quattordici compagni (uno era morto, come sapete) tornarono a casa carichi di doni. E per prima cosa Beowulf andò dal proprio re, Hygelac, e gli consegnò i doni avuti da Hrodgar, affinché il re ne disponesse come meglio credeva. Hygelac apprezzò molto quel gesto, che testimoniava la fedeltà del suo vassallo, e distribuì equamente i doni fra il guerriero e i suoi compagni. Ma so-

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prattutto rimase molto colpito dal racconto delle imprese dell’eroe, che questi amava ripetere e spesso arricchiva di dettagli che io qui ho trascurato per amore della brevità.

Hygelac era un re potente, ma non aveva avuto figli, e quando la fama di Beowulf e delle sue straordinarie imprese si sparse in tutto il Mondo di Mezzo decise di nominarlo suo successore ed erede. Così, alla sua morte, Beowulf incominciò a regnare sui Geati, e regnò saggiamente e pacificamente per ben cinquant’anni. Nel cinquantesimo anno del suo regno, quand’era ormai vecchio e stanco, dovette affrontare una nuova impresa, la più dura della sua vita.

In una grotta segreta e sconosciuta a tutti, non lontano dalla riva del mare, un drago custodiva da tempo immemorabile un immenso tesoro. Non chiedetemi com’era entrato in possesso di quel mucchio di oro, di argento, di gioielli, di pietre preziose, di coppe e piatti finemente lavorati, di armi cesellate e intarsiate: un re, ultimo della sua stirpe, l’aveva seppellito sotto un tumulo e aveva poi mascherato l’ingresso, rendendolo impenetrabile. Fatto sta che il drago era all’interno del tumulo, con le ali dispiegate sul tesoro, e conosceva a memoria ogni pezzo, ogni moneta, ogni frammento della sua favolosa e inutile ricchezza.

Ebbene, uno schiavo che fuggiva dal padrone per evitare una giusta punizione si era infilato in una fessura tra le rocce e aveva scoperto casualmente un cunicolo che arrivava fino alla caverna del drago. Per sua fortuna, in quel momento il drago dormiva, e lui (vinto il terrore iniziale) era riuscito non solo a tornare indietro

Approfondimenti

Gli schiavi

La schiavitù era largamente diffusa nel mondo antico. Nell’Alto Medioevo (tra il VI e il X secolo) essa perde importanza sul piano economico, ma non scompare, anche se la diffusione del Cristianesimo porta con sé un miglioramento nelle condizioni di vita degli schiavi. Gli schiavi erano soprattutto prigionieri di guerra.

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illeso, ma a portare con sé anche una delle preziose coppe che facevano parte del tesoro, con l’intenzione di regalarla al padrone per ottenere il suo perdono.

Appena svegliatosi, il drago si era accorto del furto. Da trecento inverni sorvegliava gelosamente il tesoro, ne conosceva a memoria ogni singolo pezzo e nessuno aveva mai osato sfidarlo: la scoperta lo rese come pazzo. Più volte girò intorno al tumulo per studiare le tracce del ladro, e non vide niente. Gonfio d’ira, attese la notte e appena il sole fu tramontato si scagliò per la campagna circostante in una nube di fuoco, seminando distruzione e desolazione come solo i draghi sono in grado di fare.

E così lo Straniero prese a sputare fiamme, a bruciare le chiare case. Si alzò un bagliore d’incendio, fra l’orrore di tutti: non voleva lasciare nulla di vivo, il Nemico volante per l’aria...

Beowulf venne subito avvertito. Quel maledetto stava impoverendo il suo popolo e per di più distruggeva le difese che lui aveva approntato e che per tanti anni avevano garantito ai Geati la pace e il rispetto dei vicini. Bisognava affrontare quel flagello – e spettava a lui: un esercito non sarebbe servito a niente, i draghi si possono sconfiggere solo in singolar tenzone.

Beowulf aveva affrontato altre prove difficili, dopo la lotta con Grendel e con l’orchessa sua madre. Per esempio, quando era salito sul trono, si era scatenata una guerra, perché alcuni non riconoscevano il suo potere, e per salvarsi la vita una volta aveva dovuto tuffarsi in mare e nuotare per trenta ore con tutta l’armatura addosso. Eppure non solo era sopravvissuto, ma aveva sempre sconfitto i

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suoi avversari, aumentando la propria fama e ottenendo onore presso tutti i popoli del mondo.

A quei tempi, però, era giovane, le forze erano ben diverse da adesso. Ma Beowulf sapeva qual era il suo dovere e partì, solo, per affrontare il drago e mettere a repentaglio un’ultima volta la propria vita in un’eroica impresa.

Sapeva dov’era il tumulo del tesoro. Penetrarvi era però quasi impossibile, adesso che il drago montava la guardia senza mai dormire. Beowulf si sedette per terra, in cima all’altura, e attese: e mentre attendeva ripensò alla propria vita. “A sette anni ho lasciato mio padre per seguire il re di allora. Quando questi se ne andò in convento, disperato per la morte prematura di suo figlio, si scatenò una guerra, e io vi presi parte: quanti nemici ho ucciso! Quante imprese mi hanno conquistato la fiducia del nuovo re! E adesso devo affrontare questo nuovo flagello, perché se mi tirassi indietro rovinerei tutto quanto ho fatto in precedenza e nessuna delle mie grandi vittorie mi procurerebbe gloria eterna se concludessi la vita con un atto di vigliaccheria”.

Il drago non usciva dalla caverna, né lui poteva entrare, perché sarebbe finito arrostito dalle fiamme nel giro di pochi minuti. Così si mise all’imbocco della grotta e lanciò un forte richiamo. Il guardiano del tesoro lo sentì, riconobbe la voce di un uomo ed emise dalle fauci una fiammata che invase tutto il sotterraneo e sfiorò il suo sfidante. Beowulf scosse lo scudo per verificarne la robustezza, sguainò la spada e si preparò alla catastrofe.

La lotta con il drago

Giunse strisciando il drago, in una nuvola di fuoco, precipitandosi incontro all’eroe. Beowulf si riparò dietro allo scudo e vibrò

25 LE IMPRESE DEL PRODE BEOWULF

un colpo con la spada, ferendo il mostro e provocando in lui un accesso di rabbia folle. Dalla bocca eruttò una fiammata mortale e Beowulf si sentì ribollire i polmoni, tanto l’aria si surriscaldò intorno a lui. Stringendo gli occhi, lanciò un’occhiata alle proprie spalle: sapeva di essere solo, eppure...

Dal nulla sembrò spuntare il giovane Wiglaf, figlio di un suo vassallo. Spinto dal ricordo dei doni ricevuti, aveva seguito il re, pronto ad aiutarlo in caso di bisogno, mentre tutti si nascondevano nei boschi e nelle case di pietra in preda al timore. Per la prima volta quel ragazzo affrontava una battaglia accanto al suo re, ma il ricordo dei benefici avuti lo spingeva ad affrontare il fumo e il fuoco e a dare soccorso al vecchio Beowulf.

Il drago si accorse del nuovo avversario e rivolse contro di lui la sua rabbia: la fiammata che gli uscì dalla bocca distrusse in pochi istanti lo scudo che Wiglaf aveva alzato per proteggersi e gli arroventò l’armatura. Ma Beowulf, pur indebolito e senza fiato, era un guerriero esperto e seppe approfittare dell’occasione: ripensò alle proprie gesta di un tempo, sentì rinascere in sé l’antico vigore e con un braccio che pareva tornato giovane colpì di nuovo la bestia, proprio sulla testa. La spada rimbalzò sulla scaglie del drago e gli sfuggì di mano. Il drago si girò di scatto e lo azzannò alla gola.

Il giovane Wiglaf era destinato a diventare un grande guerriero e in questa occasione lo dimostrò: non ripeté l’errore del sovrano, ma colpì subito il drago più in basso, sulla pancia, dove le scaglie erano più morbide e sottili, e la spada penetrò fino ai polmoni. Il fuoco del drago si estinse. Beowulf sguainò il pugnale e vibrò l’ultimo colpo.

Il nemico era abbattuto. Ma Beowulf era ferito a morte. Il drago gli aveva infatti iniettato un potente veleno e a nulla valsero i tenta-

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tivi di Wiglaf di arrestare il sangue e di medicare la ferita alla gola, che non sembrava molto profonda. Beowulf sentì che le gambe gli cedevano e dovette sedersi. Si guardò intorno un’ultima volta, ammirando la bellezza della sala e la perfezione degli oggetti preziosi che costituivano il tesoro.

“È tutto tuo”, disse a Wiglaf, “il tesoro e la gloria. Tu sei l’unico che ha osato affrontare il drago insieme a me, sei il mio degno erede. Non so se diventerai re, per ora sei troppo giovane, ma anche in futuro non è così importante. Io muoio contento non perché sono stato re, ma perché ho sempre fatto con onore il mio dovere: quand’ero un semplice guerriero, quand’ero un vassallo, e quand’ero re. Ho sempre agito con giustizia, per il bene del mio popolo, e di questo rendo grazie a Dio”.

Si tolse una preziosa collana e la donò al giovane Wiglaf, poi gli ordinò di portare via il tesoro e di seppellirlo in quel tumulo, che da allora in poi si sarebbe chiamato “Tomba di Beowulf”. E con queste parole morì.

Approfondimenti

I funerali

Nell’Alto Medioevo, presso le popolazioni germaniche, i morti potevano essere bruciati (come nel caso di Beowulf) o seppelliti. In entrambi i casi, in loro onore veniva eretto un tumulo, cioè una montagnetta di terra che indicava il luogo della sepoltura o del rogo. Solo nel Basso Medioevo la cremazione venne abbandonata a favore della sepoltura.

Gli furono tributati grandi onori e un funerale quale non si era mai visto prima. Wiglaf rimproverò gli altri vassalli perché avevano abbandonato il loro re nel momento della prova più difficile, ma pochi gli dettero ascolto: adesso che si erano spartiti il tesoro, erano tutti preoccupati dalla possibilità che si scatenasse una guerra per la successione e guardavano la pira di Beowulf quasi distrattamente.

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“Ma questa”, disse Susy, “è una storia triste!”

“Vi avevo forse promesso una storia allegra?”, ribatté zio Dendi. “Vi avevo promesso una storia bella: ti è piaciuta?”

“Sì”, disse Susy.

“No”, disse Bobby.

“Pazienza”, disse zio Dendi. “Ritenteremo. Domani, però”.

Restammo d’accordo che il giorno dopo saremmo tornati alla stessa ora. E andammo a cercare le uova per portarle alla nonna, mentre zio Dendi risprofondava tra i suoi libri.

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Una collana di classici avvincenti e storie senza tempo con cui scoprire il piacere della lettura. Opere fondamentali, trame appassionanti, testi chiari e concisi per arricchire l’apprendimento scolastico. Collezionali tutti!

Regine, cavalieri, draghi e magie

Protagonisti dell’epica medievale sono i cavalieri: eroi dal cuore puro e devoto, senza macchia e senza paura, pronti a sguainare la spada per difendere il proprio onore. Questo libro presenta i poemi che narrano le imprese di Beowulf, di Orlando e del Cid Campeador, simili per impostazione e temi a quelli di Omero e di Virgilio. Prosegue poi con le saghe romanzesche, che intrecciano amore e magia: quelle di Tristano e Isotta, del mago Merlino e di re Artù, di Lancillotto e Ginevra, di Parsifal alla ricerca del Graal.

• Focus di approfondimento sulla chanson de geste e sul romanzo cortese

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