Roberto Morgese Verso Santiago
Capitolo 1
«Sic adfirmo et sentenzio, sine ullo dubio e per Deus voluntatem, ut infamissimus latro, maxime perniciosus pro proprietatem domini nostri, excellentissimus Duca de Martogne, damnatus est ad movere et caminare per ager et ager»
«Ma che cosa ha detto?» sussurrò Odo alla madre.
La donna, pur non avendo capito del tutto, comprese che le cose si stavano mettendo piuttosto male per il marito, portato in giudizio.
Anche il ragazzo sentiva il peso della situazione, eppure la sua espressione era un misto di preoccupazione, rabbia e malcelata antipatia per l’assurdo personaggio che aveva parlato, così minuto e potente allo stesso tempo.
Il vescovo di Arles era, in effetti, un omino alquanto goffo. Indossava un basso cappello tondo con una larga falda piatta da cui pendevano due nappe rosse e portava sulle spalle un paramento luccicante di fili
d’oro zecchino e d’argento che, anziché ispirare reverenza e rispetto, pareva pesargli come un macigno. La sua piccola faccia rugosa sembrava quasi il muso di una tartaruga che spuntava timidamente dal carapace, pronta a ritrarsi in difesa. In più il religioso sudava vistosamente, colpito in pieno dai raggi del sole che penetravano dalla vetrata della cattedrale a fianco del palazzo del duca di Martogne, signore e padrone del luogo.
A rendere ancor più ridicolo l’ometto era quello strano modo di parlare, un po’ cantilenante, nella “lingua della giustizia” come si diceva tra la gente, anche se sarebbe stato più esatto definirla “dell’ingiustizia”, visto i risultati a cui troppo spesso portava. Il miscuglio di disprezzo e di scherno era amplificato da ciò che stava accadendo all’inviso prelato, il quale continuava a ripetere un evidente gesto di fastidio. Era come se volesse scacciare un insetto molesto che lo importunava. Eppure, ronzii non se ne sentivano.
Il ragazzo si chiese quindi a che cosa fosse dovuta quella stizza insistente. Spostò lo sguardo dallo scranno sul quale il vescovo impaludato si trovava assiso e scorse Milo dietro un pilastro.
Si rigirava tra le dita una canna di fiume cava, corta e sottile, mentre un sorriso da giustiziere gli
illuminava lo sguardo. Ogni tanto infilava la mano in un sacchettino di pelle che gli pendeva dalla cinta. Ne estraeva qualcosa di piccolo, un sassolino o una lenticchia, che infilava nell’imboccatura del suo attrezzo a fiato. A quel punto faceva capolino dalla grande colonna di pietra e soffiava nella canna con tutto il fiato che aveva, mirando al prelato ma badando bene a non farsi notare dalle guardie. Era certo, d’altronde, di godere della complicità della popolazione, che non avrebbe mai denunciato il gesto irriverente, anche se avrebbe preferito che fosse stato rivolto al duca, ancor più inviso del vescovo.
Nessuno, infatti, poteva sopportare il regime di sopruso che Martogne aveva stabilmente istituito nel proprio territorio. Duri lavori nei campi di sua proprietà e pesanti tasse da pagare in denaro, sementi e animali da cortile per ciò che si ricavava dal proprio piccolo appezzamento, spaccandocisi la schiena fin quasi allo sfinimento. Tutta quell’abbondanza il duca se la spartiva, appunto, con il vescovo, suo ossequioso alleato.
Non c’era quindi da meravigliarsi se nessuno dei presenti all’evento si prendeva la briga di interrompere quel fuoco di fila contro l’asservito uomo di chiesa. L’ometto, del resto, stava pronunciando una sentenza di condanna nei confronti di un povero
contadino, quindi si sarebbe meritato anche di peggio. Forse addirittura di essere trafitto da una freccia divina, altro che sassolini e lenticchie!
«Ergo, adveniat illum» proseguì solenne e stridulo l’uomo tartaruga, alzando ieraticamente l’ossuta mano destra, sulla quale faceva bella mostra un appariscente anello d’oro con incastonato un prezioso e grosso rubino e un’incisione che non si poteva distinguere da lontano. «Usque ad remotissimam terram de Sant’Iago de Campus Stellarum et perdonum imploraberit pro maleficio suo et pro nobilitate et gloria de lo duca de Martogne!» concluse alzando il volume della voce.
Se non fosse stato per la paura di una terribile ritorsione, probabilmente qualcuno avrebbe riservato lo stesso sprezzante trattamento della cerbottana anche allo spietato signore di Martogne, grande accusatore in quello sbrigativo e sommario processo. Ma nessuno osò tanto.
Distratto dalla sfrontatezza e dal coraggio di Milo, Odo non riusciva a mettere del tutto a fuoco la gravità della situazione, che pur lo coinvolgeva direttamente.
“Non avrò mai il suo sangue freddo” congetturava. “E non so se avrò mai neppure la forza d’animo del mio buon padre, che ha addirittura sfidato la legge per darci da mangiare”.
Il pensiero, infatti, tornò subito dopo ad Armand, il villico portato in giudizio davanti al vescovo per aver sottratto da un carro una cesta di noci destinate alle riserve alimentari del nobile padrone. Armand l’aveva rubata per sfamare i suoi figli, Odo e i tre fratelli minori.
L’amara contingenza limitava quindi, per il primogenito dell’accusato, il divertimento per la beffarda prodezza dell’amico. Non era sufficiente vedere il potere così bellamente sbeffeggiato da un semplice ragazzo di campagna armato di cerbottana, per fare passare in secondo piano il timore che l’esito del processo che si stava celebrando potesse diventare persino tragico e spietato, proprio in quel luogo che avrebbe dovuto essere la casa della misericordia di Dio. Era quella la cupa fonte della sua preoccupazione.
Odo non intese neppure la conclusione della sentenza, ma il volto in lacrime di Marta, sua madre, e l’aria distrutta del padre gli fecero infine intendere che si trattava di una condanna molto pesante.
«Quale pena gli hanno inflitto?» chiese allora impaziente rivolto a lei che, affranta, riusciva solamente a singhiozzare, mentre Armand veniva trascinato via in catene. Stava per essere rinchiuso nelle umide segrete della rocca, da cui ben poche persone erano
uscite vive. Chi si era salvato, in ogni caso, aveva ancora i segni che quell’ambiente insalubre e il trattamento senza pietà da parte delle guardie gli avevano lasciato addosso.
«Come faremo ora?» La povera donna alzò la sua supplica al cielo.
«Avrebbe dovuto pensarci prima, il suo Armand» commentò sarcastico il duca rivolto alla poveretta in prima fila tra la folla. «O forse avrebbe semplicemente potuto chiedermi qualcosa da mangiare… io non gliel’avrei di certo negato».
All’udire quelle false affermazioni una rabbia sorse incontrollabile dalle viscere del giovane Odo, spingendolo ad avventarsi contro il nobile che gli aveva appena voltato le spalle.
«Che cosa ci ricaveresti?»
La mano di Milo, spuntato quasi dal nulla, lo bloccò. Aveva lasciato la sua postazione di tiro e aveva assistito alla scena. Era quindi venuto provvidenzialmente a fermare Odo prima che il suo impulso lo conducesse alla rovina. È vero, l’amico non aveva il suo coraggio né quello del padre, ma quando perdeva il controllo non era più consapevole dei propri gesti. Quell’attacco gli sarebbe stato fatale.
«Trova piuttosto un modo per aiutare tua madre: ora sei tu l’uomo di famiglia» gli fece notare.
La prontezza di Milo nell’affrontare le situazioni più disparate era pari alla sua capacità di passare dall’atteggiamento di scherno appena dimostrato a una saggezza misteriosa. Era una delle caratteristiche che il giovanissimo contadino apprezzava maggiormente nell’amico: la sua abilità di far fronte alle cose della vita con il buon senso di un anziano che aveva vissuto molte esperienze.
Odo ci rifletté. In effetti, aveva già iniziato da qualche anno ad aiutare nei campi, ma si limitava a eseguire i compiti che gli venivano assegnati. Non sapeva se sarebbe stato in grado di gestire da solo le bestie o i coltivi. Quale sostentamento avrebbe mai potuto procurare alla madre e ai fratelli?
In quel momento, però, un macigno ancor più pesante gravava sul suo cuore, una paura alla quale non sapeva dare risposta, poiché non aveva compreso le parole del vescovo. Avrebbe più rivisto il padre?
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«Ed è arrivato quindi il momento che io vi sveli l’identità di colui che ci ha fatto del male, perché è meglio anche per voi sapere da chi dovrete guardarvi»
«Dillo anche a noi!» si sentì improvvisamente scherzare una voce proveniente dal buio intorno al piccolo accampamento. «Anche se lo sappiamo già!»
Tutti e tre si voltarono in quella direzione e il cavallo diede segni di nervosismo quando dall’ombra sbucarono due personaggi inaspettati, ma già noti al ragazzo.
Appena li riconobbe, il blemmo si gettò tra le loro braccia.
«Siete proprio voi!»
I tre fratelli deformi si erano appena riunificati.
Il giovane Odo, un semplice contadino, intraprende il Cammino di Santiago per espiare la condanna inflitta al padre. La sua colpa: aver rubato al duca di Martogne delle noci con cui sfamare i figli. Lungo la strada incontra degli strani personaggi, esseri umani fenomenali, e Gemma, una ragazza segnata da un destino simile al suo.
Intanto al villaggio, Milo, il misterioso amico di Odo, è sulle tracce di un pericoloso alchimista che sta seminando morte per tutta la regione.
In un susseguirsi di indagini e rocambolesche avventure, Odo, Gemma e Milo si rendono conto che il viaggio è stato un vero e proprio cammino, oltre che attraverso il mondo, anche dentro loro stessi.
Odo si era accorto di essere molto diverso da quando era partito. Durante il viaggio era cambiato. Aveva lasciato il borgo come una foglia al vento, con una sola certezza: la direzione verso cui viaggiare. Ora, invece, sapeva sviluppare la propria caparbietà in un progetto concreto.