Linea Diretta

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anno 2 - numero 12

12 settembre 2014

PIAZZA ARMERINA

AGRIGENTO

TRIS

IAZIONI C O S S A E V O U N O N O C NAS

FOGGIA in primo piano

Ciardullo-fabozzi Nel ricordo del Pm Sirignano

maresCa Beni confiscati, codice unico contro 1 le mafie

salVaTore CanTone Inizia la rivolta di Pomigliano


nuoVe assoCiazioni/1 piazza armerina, l’antiracket nella città di boris giuliano pag. 3

l’anniVersario Ciardullo-Fabozzi, giustizia è fatta pag. 7 il fenomeno la mafia dietro il racket dei parcheggiatori abusivi pag. 8

nuoVe assoCiazioni/2 agrigento, il nuovo con Confindustria pag. 4

assoCiazioni anTiraCKeT mesagne, “legalità e sicurezza” nel regno della sacra corona pag. 9

nuoVe assoCiazioni/3 la svolta di Foggia Cristina Cucci: «Uniti contro il pizzo» pag. 5

sTorie anTiraCKeT Con Cantone inizia la rivolta di pomigliano pag. 10/11

l’inTerVisTa maresca: «beni confiscati, serve un codice unico contro le mafie» pag. 6

neWsleTTer anTiraCKeT allegata a www.antiracket.info anno 2 - numero 12 12 seTTembre 2014

il libro il manifesto di Dalla Chiesa pag. 12

Direttore Tano Grasso Direttore responsabile Giuseppe Crimaldi reDazione Tina Cioffo Carmen del Core daniele marannano

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amminisTrazione Corso Umberto i, 22 80122 napoli - tel. 081 5519555 email: segreteria@antiracket.it comunicazione@antiracket.info in attesa Di registrazione presso il tribUnale Di napoli


NUOVE ASSOCIAZIONI/1

piazza armerina, l’antiracket nella città di boris Giuliano

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Di tina Cioffo

i sono voluti due anni di intenso lavoro con incontri riservati, avvio di percorsi mirati e colloqui con le forze dell’ordine. L’obiettivo era far nascere un’associazione antiracket a Piazza Armerina, in provincia di Enna. Lo scopo perseguito grazie anche all’impegno di Renzo Caponetti componente del direttivo della FAI è stato raggiunto. L’associazione antiracket ed antiusura sarà presentata il 12 settembre presso il Teatro Garibaldi di Piazza Armerina con la partecipazione del sindaco Filippo Miroddi, del prefetto di Enna Fernando Guida e del prefetto Santi Giuffrè commissario antiracket. Al fianco dei 12 soci fondatori, guidati dal presidente Antonio Romano ci sarà pure il presidente della FAI Giuseppe Scandurra. «Siamo in un particolare periodo storico con l’obbligo di illuminare le zone d’ombra per l’intero settore economico che è duramente messo alla prova dalla crisi e dallo sconforto che imprenditori e commercianti stanno vivendo», afferma il presidente Romano, 59 anni ed amministratore di impiantisca elettrica, idraulica e di energie rinnovabili. «La mancanza di commesse e la sostanziale curva discendente del mercato ha evidenziato uno straordinario aumento dell’usura», spiega ancora il presidente che definisce il fenomeno una forma devastante molto radicato. La causa è individuata nel mancato credito delle banche. Eppure nel paese siciliano, dichiarato nel 1997 patrimonio dell’Unesco per la sua Villa del Casale, con poco più di 20mila abitanti e su una superficie di 300 chilometri quadrati ci sono sei filiali. Ai sei direttori di banca ligure, toscana, emiliana, laziale veneta e due siciliane, Romano è andato a consegnare personalmente l’invito alla presentazione dell’associazione di Piazza Armerina. «Dobbiamo avviare un discorso serio con i dirigenti degli istituti, non possiamo continuare a guardare rassegnati il taglio creditizio ed il conseguente ricorso a l l ’u sura. E’ un circuito

vizioso che deve essere spezzato e per farlo dobbiamo andare alla radice del problema chiamando in causa tutti i soggetti deputati», aggiunge Romano lasciando già intravedere le iniziative attorno alle quali l’associazione intende impegnarsi. Un programma di attività che vedono prioritario la scuola, i giovani e la sensibilizzazione al consumo critico. «Abbiamo un tessuto sociale particolarmente pronto tant’è che abbiamo già ricevuto le prime richieste di adesione di altri operatori ANTONINO ROMANO economici. I cittadini ci imprenditore anguardano con attenzione e tiracket nel settore anche dall’amministrazioimpiantisco. Rone comunale abbiamo ot- mano ha 59 anni, è sposato tenuto un primo sostegno con Giuseppe Rita, ha due con l’assegnazione della figli. Andrea di 31 anni lasede in via Santa Rosalia, vora con lui in azienda mennei locali della ex Pretura. tre Roberta 29 anni aiuta la Chiederemo però un’as- mamma in pasticceria. Rosunzione di responsabilità mano ha subito una richiesta sempre maggiore anche di estorsione nel 2009, nel alla Provincia e alla Regio- territorio di Aidone. Grane. Ci rendiamo conto – zie anche alla sua denuncia confessa il neo presidente- scattò l’operazione Old One, che siamo un’avanguardia eseguita dalla Squadra Mosociale ma non vogliamo bile in collaborazione con continuare ad esserlo». La il Reparto operativo del cosede sarà intitolata, in un mando provinciale. Vennesecondo momento, alla ro arrestate quattro persone memoria di Giorgio Boris che erano riuscite a ricomGiuliano nato a Piazza Ar- porre i vertici mafiosi. merina e ricordato come un brillante investigatore della Polizia di Stato e capo della Squadra Mobile di Palermo. Fu ucciso dal mafioso Leoluca Bagarella con sette colpi di arma da fuoco alle spalle. Giuliano stava indagando su di lui dopo essere riuscito a scoprire il suo nascondiglio e sulla scomparsa del giornalista Mauro de Mauro.

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NUOVE ASSOCIAZIONI/2

agrigento, il nuovo con Confindustria

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Di tina Cioffo

ieci soci, giovani e meno giovani, imprenditori e professionisti, di Agrigento e della Provincia. E’ questa la forza trasversale che Andrea Messina 33 anni, commercialista, presidente dell’associazione agrigentina antiracket Libero Futuro immediatamente vanta come punto a favore. «Ci sono stati molti avvicinamenti ed incontri ma la selezione -assicura Messina- è stato piuttosto severa, d’accordo con il modello di Libero Futuro e con i pareri espressi dalle forze dell’ordine con i quali abbiamo rapporti quotidiani così come con la maggior parte delle istituzioni e delle associazioni di categoria presenti sul territorio». Prima fra tutte c’è Confindustria in seno alla quale è nata poi l’esperienza associativa incentivando la battaglia culturale per il cambiamento sociale e la lotta alle mafie. Un naturale cammino di crescita evidenziato in seguito anche dal protocollo stipulato tra Confindustria Sicilia e la Federazione Antiracket Italiana sottoscritto il 12 novembre 2013 presso la Prefettura di Caltanissetta alla presenza fra gli altri del Commissario nazionale

antiracket e del Procuratore distrettuale antimafia. «E’ chiaro – sostiene- che la nostra associazione non è nata sull’onda di una emozione ma sulla base di un’attenta riflessione e di un percorso cominciato almeno cinque anni fa in seno alle sollecitazioni di Ivan Lo Bello e delle denunce presentate da alcuni soci». Tra i componenti c’è Giuseppe Catanzaro, vicepresidente di Confindustria Sicilia ed Enrico Colajanni. Lo stesso presidente Messina ha denunciato un tentativo di condizionamento mafioso all’interno di una gara di appalto. L’obiettivo è costruire una forte credibilità sul territorio per poter essere valida sponda. «Il nostro – dice il presidente- è un percorso stratificato e solido che si fortifica sempre di più grazie anche alla rete di conoscenze e di risorse che ognuno di noi ha e che mette a disposizione del gruppo». Con le idee chiare anche le prerogative lo diventano e Messina non ha dubbi sull’organizzazione delle prossime iniziative che vedrà l’associazione impegnata sul terreno della lotta all’usura, al racket, alla sensibilizzazione del consumo critico, all’assistenza delle vittime e all’accompagnamento degli imprenditori nei processi contro gli estorsori.« Lo abbiamo d’altronde già fatto - spiega Messina- nel processo Ouster scaturito dall’omonima operazione che nel 2012 ha permesso l’arresto di alcuni affiliati di Licata, mettendoci al fianco delle vittime nel momento più difficile del procedimento in tribunale. Essere accanto alla vittima vuol dire concretamente dire di no ai mafiosi. Quando l’imprenditore vede tra il pubblico i parenti dei mafiosi ma vede anche la forza amica dei soci dell’associazioni e di altri colleghi che capiscono il momento e che lo sostengono va avanti con maggiore energia». «Agrigento è una città particolare – continua Messina- è la città del gettito pubblico, bloccandosi il trasferimento ed indebolendosi il settore imprenditoriale perché non è sufficientemente capitalizzato è chiaro che il rischio di usura è molto più alto. Un rischio che teniamo ben presente e dinanzi al quale lavoreremo con prevenzione ed attività pratiche». Guardia alta pure per il fenomeno estorsivo che nonostante gli arresti e le operazioni di polizia continua ed essere una realtà presente soprattutto per quel che riguarda gli appalti pubblici.

Andrea Messina

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NUOVE ASSOCIAZIONI/3

la svolta di foggia Cucci: «uniti contro il pizzo»

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Di giUseppe Crimaldi

l coraggio, o se volete anche una consapevolissima incoscienza legata al megio di sé che ogni persona perbene riesce a tirare fuori, lo ha trovato presto. A soli 33 anni Cristina Cucci ha piena consapevolezza del peso della nuova responsabilità. Nasce nel capoluogo dauno la seconda associazione antiracket e antiusura che fa della provincia di Foggia la seconda importantissima realtà della FAI. E così, dopo Vieste, si raddoppia. Giovane, intelligente, simpatica e solare. Basta guardarla negli occhi: sono sufficienti poche battute per intuire che Cristina Cucci è la persona giusta al posto giusto per rappresentare il fronte del “no” al pizzo e all’usura in terra di Capitanata. “Si parte con l’entusiasmo dei neofiti - dice a “Lineadiretta” la presidentessa della nuova associazione antiracket che verrà tenuta a battesimo il 22 settembre in Prefettura, a Foggia con il viceministro dell’Interno Filippo Bubbico e il commissario nazionale Santi Giuffrè - e questo secondo me resta un punto di forza”. Come nasce la decisione di impregnarsi in prima linea con la FAI? “Può sembrare banale, e invece è la pura verità. Da un incontro alquanto casuale”. Ci racconti. “Un anno fa a Foggia venni convinta da alcune amiche a presenziare alla cerimonia nella quale si ricordava il sacrificio di Giovanni Panunzio. Il clima era già favorevole e io lo avvertivo: sentivo che anche qui in città si muoveva una forte voglia di riscatto e che c’era come del resto c’è oggi tantissima gente che non ci sta all’idea di chiudere bottega e andar via. Fu allora, e per puro caso, che conobbi Tano Grasso. Parlando con lui mi convinsi ancor di più di un fatto: qui a Foggia in tanti parlavano e promettevvano un impegno diretto ma poi non si concludeva mai nulla di concreto”. “Decisi di mettermi in gioco. Fu un atto di fede, che oggi rinnovo insieme con altri amici e colleghi, nei confronti della Federazione delle associazioni antiracket e dello stesso suo presidente onorario: una persona che - l’ho capito - ha la grande dote di riuscire a guardare lontano, al di là delle contingenze e dei singoli momenti”. E poi? Che è successo nel corso di quest’ultimo anno? “Abbiamo iniziato a lavorare. Incontri, riunioni. E alla

fine eccoci qua. Siamo già in 15, e siamo uno più motivato dell’altro”. In che settore opera lei? “Sono titolare di un’azienda che si occupa di “wedding event planner”: organizzazione di eventi matrimoniali”. Ha già trovato sulla sua strada gli esattori del “pizzo”? “Sì, ed è una brutta e triste storia. Successe poco più di un anno fa. Avevo appena avviato l’attività, una sede in centro e tanta voglia di lavorare in un settore che si sta rivelando proficuo. Era il 2013. Un giorno arrivò una telefonata: la voce maschile dall’altro capo della cornetta arrivò subito al dunque: “Tu sei nuova qui. Se vuoi lavorare prepara 2000 euro, altrimenti ti facciamo saltare in aria il negozio”. E lei che fece? “Alle 13,30 risposi al telefono e alle due meno un quarto Cristina Cucci ero in caserma, dai carabinieri. Ai quali raccontai tutto. Non ebbi la minima esitazione nel fare quella scelta, e oggi sono doppiamente soddisfatta. Anche se non volevo credere a quello che mi era successo raccontai tutto a mio marito, andammo insieme a denunciare la cosa. Scattarono le indagini e venne individuato il responsabile di quella telefonata. Poi si scoprì che, pur non trattandosi di un personaggio legato alla criminalità organizzata, era un giovane che aveva già un precedente specifico”. Che cosa la colpì maggiormente di questa brutta vicenda? “Mi scosse l’idea che qui a Foggi può capitare che uno si sveglia la mattina e decide di mettere a segno un’estorsione. Un fatto grave. Dopo la denuncia non ho avuto più problemi: ma so bene che resta ancora tanto da fare, e per questo ho deciso di scendere in campo con tutti gli altri”.

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l ’ in t e r vis t a

Maresca: «Beni confiscati, serve un codice unico contro le mafie» DI GIUSEPPE CRIMALDI

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n codice unico contro le mafie. E un Tribunale distrettuale che abbia competenza in materia di beni confiscati. Fa discutere e comincia a riscuotere consensi anche molto qualificati la proposta lanciata dal pm della Dda di Napoli Catello Maresca. «Occorre ragionare e riflettere a mentte fredda e senza pregiudizi su tutto ciò che riguarda l’utilizzo e dalla gestione dei beni confiscati - spiega - Oggi in Italia contiamo oltre undicimila immobili e quasi due-

a mafia, camorra e ‘ndrangheta si trasforma sempre più in un paradosso inaccettabile. «In tempi di crisi come quelli che stiamo attraversando - spiega - forse dobbiamo convincerci tutti che è giunto il momento di adottare strumenti adeguati che consentano di far pagare alle mafie le spese che lo Stato sostiene per contrastarle. La lotta alla criminalità organizzata non può continuare ad essere considerata o additata solo come un pesante fardello anche in termini economici per le casse pubbliche. E allora perché non inserire i beni confiscati nel circuito legale e ridare al “sistema giustizia” i patrimoni sottratti alla criminalità organizzata? Su questo dovremmo essere tutti d’accordo, ma al primo interrogativo ne segue subito un altro: come si raggiunge questo obiettivo?». Gli Uffici giudiziari di tutta Italia sequestrano ogni anno e recuperano beni - soldi liquidi, immobili, società ed altre utilità dai circuiti illeciti gestiti dalla criminalità organizzata per miliardi di euro. Oltre 5 miliardi di euro negli ultimi 2 anni stando alle stime ufficiose, o comunque reperibili attraverso fonti aperte. Eppure - sottolinea il magistrato - ancora manca persino un’anagrafe completa delle risorse disponibili e del loro impiego. E allora? «Dobbiamo immaginare uno strumento di semplificazione delle procedure e la creazione di un codice unico dei beni mafiosi che semplifichi le procedure e preveda solo due tipi di sequestri e confisca: quello penale e quello di prevenzione; oltre a rendere effettivo il sequestro conservativo per il pagamento delle spese di giustizia a carico del condannato, tra cui rientrano ad esempio quelle per le intercettazioni e quelle per la custodia cautelare. Dovrà anche rendere tassative le ipotesi di destinazione anticipata dei beni, anche prima della confisca definitiva, compatibilmente con le prescrizioni che provengono dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Ma, soprattutto, dovrà prevedere un unico soggetto responsabile della procedura: il Tribunale unico dei beni, che opererà su base distrettuale».

mila imprese: beni sottratti alle mafie che dovrebbero costituire una risorsa anche economica per lo Stato, ma che invece spesso e volentieri diventano una zavorra insostenibile». Nella sua analisi Maresca - che, ricordiamolo, ha speso gli ultimi anni della propria vita professionale affrontando le più delicate indagini sul clan dei Casalesi, culminate nella cattura del superlatitante Michele Zagaria - va dritto al cuore del problema. Che non è un problema da poco: giacché quello della destinazione e gestione dei patrimoni sottratti

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l ’ A N N I V E r S A r I O

Ciardullo-fabozzi, giustizia è fatta Di giUseppe Crimaldi

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eci anni per sfuggire a una vendetta di morte e quindici per ottenere giustizia. Parabola amara, quella raccontata dalla storia di Antonio Ciardullo e Ernesto Fabozzi. Per ricordare il suo sacrificio - scolpito nelle pagine di un’inchiesta complessa e di una sentenza che fa propri i risultati investigativi - non è necessario attendere quella data, il 12 settembre, in cui si consumò uno dei più efferati omicidi di camorra in Terra di Lavoro. Antonio Ciardullo fu massacrato con 20 colpi di pistola insieme con Ernesto Fabozzi il 12 settembre 2008 tra il territorio di San Marcellino e Trentola Ducenta. Aveva 51 anni, Antonio, 43 ne aveva Fabozzi. I killer li sopresero all’interno di un deposito di automezzi non lontano dal cimitero di San Marcellino. I due stavano riparando un furgonefrigo nel deposito di automezzi situato vicino al cimitero di San Marcellino, e su quell’omicidio da subito i pm della Direzione distrettuale antimafia di Napoli non ebbero dubbi, chiara apparve loro la matrice camorristica che riportava a una storia iniziata dieci anni prima. Nel maggio del 1998 Ciardullo aveva denunciato un delinquente, Giuseppe Guerra per estorsione; e Guerra già allora aveva deciso di vendicarsi, tendendogli un agguato al quale Antonio riuscì miracolosamente a sfuggire. Ma nelle terre di Gomorra i fantasmi spesso ritornano. E quegli incubi tornarono a materializzarsi,

incarnandosi in Giuseppe Setola e nella sua folle strategia del terrore imposta a furor di raid, agguati e colpi di kalashnikov che hanno finito col lasciare una lunghissima scia di sangue e di lutti. Ciardullo, questo accertarono le indagini della Squadra mobile di Caserta, fu assassinato per vendetta: per avere denunciato e fatto condannare con l’accusa di estorsione, Giuseppe Guerra. Il duplice omicidio venne comunque inquadrato nell’ambito del tentativo di Setola e del suo gruppo di fuoco di imporre con omicidi ed attentati un clima di terrore nei territori controllati dall’organizzazione capeggiata dalla fazione “bidognettiana” dei Casalesi. Il processo si è concluso lo sorso aprile davnti ai giudici della Seconda Corte di Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. La famiglia si è costituita parte civile, assistita dall’ufficio legale della Federazione Antiracket Italiana. E oggi lo stesso magistrato inquirente che condusse le indagini e ha sostenuto l’accusa nelle udienze, ricorda l’importanza di quei verdetti. “Con la sentenza che ha confermato il nostro impianto accusatorio decretando, come era giusto che fosse, l’ergastolo anche per l’imputato Letizia, nonostante la sua confessione resa durante la fase dibattimentale”. “Oggi - prosegue Sirignano - è giusto non dimenticare il sacrificio di Ciardullo e di Fabozzi, due delle vittime che si iscrivono a giusto diritto nel lungo elenco di quelle provocate dalla furia omicida di Setola e del suo gruppo criminale. Ricordare Ciardullo, oggi, significa non dimenticare anche il suo sacrificio. Siamo riusciti a fare giustizia e siamo riusciti a dare una risposta alle vittime e alle loro famiglie”.

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F E N O M E N O

La mafia dietro il racket dei parcheggiatori abusivi DI DANIELE MARANNANO

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on è sempre facile comprendere il limite oltre il quale il fenomeno dei parcheggiatori abusivi sia genesi di un dramma sociale ed economico più profondo. Sicuramente esistono molte famiglie che in preda alla disperazione e divorate dalla crisi si ritrovano per strada ad arrabattarsi per racimolare pochi spiccioli per vivere. Accade altrettanto spesso però, che i clan mafiosi, come emerge dall’ultima operazione antimafia palermitana denominata Apocalisse, assegnino ai loro sodali le aree dove insediarsi per gestire abusivamente il mercato dei parcheggi. Uno spaccato in cui piazze ed angoli più trafficati di città come Palermo, vedono decine di uomini (controllati dai clan), improvvisarsi parcheggiatori, che gestiscono quotidianamente le soste di migliaia di automobili. Un giro di denaro che solo nel capoluogo siciliano produce migliaia di euro. Sono delle più disparate le formule con le quali i parcheggiatori si approcciano per chiedere soldi in cambio di un posteggio sicuro e garantito, ma una delle più comuni è: me lo fa prendere un caffè?!. In realtà, più che una reverenziale richiesta di offerta, si tratta di una pretesa che assume i contorni di una estorsione con modalità che precipitano in minacce più esplicite e dirette se l’automobilista accenna a soprassedere e a respingere tali desiderata. E se l’avventore ha la sfortuna di imbattersi contro uno di quei parcheggiatori che non è di buone in-

tenzioni, non pagare il servizio significa ritrovare la macchina danneggiata, se non addirittura rischiare di essere aggredito, come purtroppo è accaduto qualche giorno fa ad una coppia nel centro di Palermo. L’automobilista dopo essersi rifiutato di liberare il posto auto e pagare due euro per la sosta è stato aggredito dal parcheggiatore, palermitano, e per questo poi soccorso e portato all’ospedale Bucchieri La Ferla. La prognosi è di 20 giorni per le lesioni al volto e la frattura del pollice. Gli stereotipi ci dicono che molti dei parcheggiatori sono extra comunitari in cerca di soldi e di lavoro. In realtà per la maggior parte dei casi il mercato è controllato e gestito direttamente da italiani che appartengono ad organizzazioni criminali e che si servono di immigrati poveri ed affamati. Anche per tali piaghe, come è nelle dinamiche di opposizione alle più comuni forme estorsive di matrice mafiosa, se a resistere e a non assuefarsi a tale problematica fossero in molti sicuramente non esisterebbero storie di cronaca come quella che oggi ci ritroviamo a raccontare. Per molto tempo e diverse ragioni si è convissuto e quindi alimentato tale fenomeno, oggi è arrivato il momento di dire basta ed emulare il gesto di quei pochi che non si piegano alla prepotenza di chi sotto l’egida della criminalità organizzata si impone indebitamente, perché certi fatti, come l’aggressione di qualche giorno fa, subita peraltro da un bengalese, non accadano più.

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S T O R I E

an t i r ac k e t

Con Salvatore Cantone inizia la rivolta di Pomigliano

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DI TINA CIOFFO

a compostezza negli atteggiamenti e la pacatezza dei toni dimessi ma convinti, sono probabilmente il tratto peculiare della sua stessa esistenza. Salvatore Cantone è un imprenditore di impiantistica industriale, con cantieri dislocati sul territorio nazionale e ha deciso di dire no al racket. Tutto cominciò nel mese di luglio del 2005. Cantone si trovava a Bologna per seguire da vicino un cantiere quando in azienda a Pomigliano si presentarono due persone. In quel momento in ufficio c’era il fratello di Salvatore ma chiesero di lui. Lo contattarono telefonicamente e gli dissero che Franco Panico alias ‘don franco o summsiello’, reggente dell’omonimo clan della zona di S. Anastasia e Somma, voleva parlargli. Nel giorno stabilito Salvatore si presentò all’appuntamento. Nessuno ne era a conoscenza se non la moglie Rosita ed il fratello. Era una palazzina a due piani, piena di telecamere a circuito chiuso e porte blindate, imperante la statua della Madonna ad altezza uomo e sotto di essa le fotografie di persone morte. La moglie del camorrista lo fece aspettare in sala da pranzo. Panico, che in quel periodo era agli arresti domiciliari, si presentò in pantaloncini corti, canottiera rosa, tatuaggi sul corpo e ed una catenina d’oro al collo. Appoggiò la pistola sul tavolo e la persona che aveva accompagnato Cantone uscì. «Mi disse: “io sono don Franco e comando tutto, questa è la mia zona e siccome tu hai una bella azienda che si trova nel mio territorio per il momento mi devi dare 20mila euro all’anno da divedere in tre tranche a Ferragosto, Natale e Pasqua. Ora, visto che siamo a luglio e che tra poco è già il 15 agosto comincia a darmi la prima parte”. Che fosse una richiesta estorsiva mi era chiaro ma gli chiesi per quale ragione avrei dovuto consegnargli quel denaro». La risposta fu: “noi abbiamo le famiglie da dare a campare comprese le famiglie dei carcera-

ti e dobbiamo pagare gli avvocati che ci difendono quando andiamo in carcere, visto che mi sono preso informazione sulla tua attività adesso tu mi devi dare questi soldi”. Salvatore obiettò che anche lui doveva pensare ai dipendenti della sua azienda e alle loro famiglie ma non per questo andava ad estorcere soldi ad altre persone. All’orecchio del capoclan suonò come un inaccettabile rifiuto e con la pistola in pugno minacciò di incendiargli l’azienda e di fare del male alle sue figlie. «Ricordo – parla Cantone- precisamente la sensazione che mi attraversò, diventai pallido ma la mia non era paura sentivo montarmi la rabbia perché quell’uomo pretendeva di comandare me, la mia azienda e sapeva tutto della mia famiglia. L’unico mio pensiero era uscire da quella casa e allora gli dissi che gli avrei dato 1500euro facendo conto si trattasse di un’opera di beneficenza ma lo avvertì che nel caso in cui mi avesse chiesto ancora del denaro lo avrei denunciato». Arrivati vicino alla statua della Madonna, il capoclan si inginocchiò e si fece il segno della croce. «E’ un fotogramma che non riesco a cancellare. Da fedele non potevo e non potrò mai accettare che un camorrista assassino ed estorsore pensi di avere la benedizione divina». Dopo qualche giorno, un parente di Panico, la stessa persona che aveva accompagnato Cantone al colloquio, andò in azienda per ritirare la busta con il denaro. «La soddisfazione sul viso del corriere mi disgustò», ricorda l’imprenditore che sperò di non dovere avere più niente a che fare con quel tipo di gente. Ma a marzo,

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S T O R I E

an t i r ac k e t

dopo otto mesi, altri due personaggi si presentarono dicendo “portate dei soldi alla persona che voi già conoscete”. «Mi rifiutai e andarono via. Trascorsero altri sei mesi, durante i quali era scoppiata una guerra tra i clan della zona, i Summsielli contro i Sarno, e poi di nuovo un’altra richiesta di denaro seguita da un altro rifiuto. Qualche giorno dopo alle sei del mattino squillò il telefono di casa, mio fratello mi avvisava che in azienda ci avevano rubato di tutto. Era una ritorsione. Andai in azienda con mia moglie e sul posto trovai mio fratello con alcuni dipendenti. Avevano rubato un camion, un sollevatore elettrico, delle attrezzature come trapani, flexs, del materiale arrivato il giorno prima perché dovevamo iniziare un cantiere come plafoniere, filo, tubo, ecc. e poi tutti gli indumenti e le scarpe antinfortunistiche dei dipendenti che servivano per il cambio di stagione. Avevano causato un danno per circa 120mila euro. Ci avevano messo sul lastrico». Il dilemma era pagare ed accettare la sottomissione o denunciare tutto. In ufficio, lo sguardo di Salvatore Cantone si fermò su una foto che ritraeva la moglie e le sue due figlie di 17 e 12 anni. In quel preciso istante decise che

avrebbe denunciato. Salvatore raccontò ogni cosa ai carabinieri di Castello di Cisterna. Dopo dieci giorni ci furono gli arresti ma il capoclan era sfuggito al blitz. Furono mesi difficilissimi durante i quali non mancarono l’isolamento da parte di chi prima si dichiarava amico e la evidente contrarietà dei suoi concittadini. Mai prima di allora un imprenditore si era ribellato alla camorra. Salvatore aveva sua moglie e don Giuseppe Gambardella al quale raccontò ogni dettaglio. Fu il sacerdote a mettersi in contatto con la FAI. Dopo un primo incontro in Chiesa ne seguirono altri, sempre riservati e allargati man mano ad altre persone. Dopo un anno è stata inaugurata l’associazione antiracket di Pomigliano d’Arco con Cantone come presidente. Da quel momento è cominciato un nuovo corso e non solo per Salvatore e la sua famiglia. La sede dell’associazione in via Locatelli, 3, in un appartamento confiscato. E’ nata la catena del consumo critico, i giovani sono impegnati nei temi della lotta alla camorra. L’esistenza del racket non è più negata ma grazie a Cantone e alla sua scelta a Pomigliano ci sono gli strumenti per combatterlo.

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associazione

an t i r ac k e t

Mesagne, “legalità e sicurezza” nel regno della Sacra corona DI CARMEN DEL CORE

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esagne è definita la culla della Sacra Corona Unita, ma non mancano concreti segnali di ribellione. Un gruppo di imprenditori, cittadini comuni e liberi professionisti ha avuto il coraggio di opporsi alle prevaricazioni mafiose. L’associazione antiracket e antiusura “Legalità e Sicurezza” è nata nel 2007. L’attività delle forze dell’ordine e della magistratura nella lotta alla criminalità organizzata, a garanzia della sicurezza e della legalità degli operatori economici, li ha incoraggiati e sollecitati ad una più intensa collaborazione e ha stimolato i cittadini ad una sempre maggiora fiducia nelle istituzioni. Il presidente dell’associazione è Fabio Marini, consulente di produzioni cinematografiche e manager di attori ed artisti. Marini è stato vittima di richieste estorsive nel 2008 – mentre era impegnato a Taranto con una produzione della regista Lina Wertmuller - ma non ha mai avuto dubbi su quale fosse l’unica strada da intraprendere: quella della denuncia. Grazie alla sua denuncia finirono in carcere il boss e gli esecutori materiali. Dopo questo episodio seppe dell’esistenza dell’associazione antiracket nella sua città e ne divenne inizialmente socio e poi, a distanza di qualche anno, presidente, ruolo che ricopre ancora oggi. Attualmente i soci sono 70, ma si tratta di una rete di legalità in continua espansione. Inizialmente erano solo 20 gli imprenditori che avevano avuto il coraggio si alzare la voce contro la mafia del pizzo. Numerosissime sono le attività che l’associazione mette in campo: dalle passeggiate antiracket, per consentire, non solo agli operatori economici ma soprattutto ai consumatori, di conoscere l’importanza del consumo critico, alle “lezioni di legalità”, fatte di esempi concreti di lotta alla criminalità organizzate nelle scuole. “Molto forte è il nostro rapporto con la chiesa locale, attenta al problema delle estorsioni. Organizziamo periodicamente incontri di sensibilizzazione per parlare ai commercianti e agli imprenditori –spiega il presidente – e appuntamenti con le forze dell’ordine per favorire sul territorio una maggiore azione investigativa. L’associazione si è costituita, inoltre, parte civile in vari processi di mafia, alcuni dei quali già conclusi con condanne pesantissime”. Un bilancio più che positivo, ebbene ci sia ancora molto lavoro da

fare - sottolinea con rammarico Marini, anche se è convinto che il movimento antiracket abbia intrapreso la strada giusta. Purtroppo esiste ancora una zona grigia, ma pochi, per fortuna, sono gli imprenditori e commercianti che preferiscono la strada breve e semplice della connivenza con la malavita. “Il nostro lavoro – aggiunge Marini - consiste anche nel far comprendere agli operatori economici che l’illegalità non conviene mai, perché di fronte ad una apparente ed immediata convenienza si nasconde una trappola fatta di prepotenza e soprusi. Anche se la strada della legalità è faticosa, tortuosa e a tratti scoraggiante è l’unica in grado di garantire serenità alle nostre attività e alle nostre famiglie”. Fondamentale nella lotta alla criminalità organizzata è non delegare le forze dell’ordine o la magistratura, ma consentire agli stessi cittadini di collaborare con le istituzioni. E soprattutto il lavoro nelle scuole, nelle chiese, tra le forze produttive e sane del paese, che serve a far comprendere alle vittime di racket o usura che oggi le associazioni sono in grado di aiutarle ad affrontare, passo dopo passo, tutte le fasi dalla denuncia, dall’accompagnamento nei processi, alle pratiche di ristoro di eventuali danni.

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Il Manifesto di Dalla Chiesa DI CARMEN DEL CORE

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n po’ come i grandi manifesti che hanno anticipato i più importanti movimenti politici, religiosi o artistici della storia, anche il Manifesto dell’Antimafia di Nando Dalla Chiesa si prefigge gli stessi obiettivi: quello di proporre delle linee guide nel movimento antimafia in modo da innalzarlo a vero e proprio impegno quotidiano. Il libro mette a fuoco, soprattutto, il versante dell’antimafia sociale. È, infatti, rivolto alle associazioni con l’obiettivo di tracciare un dettagliato percorso per comprendere le mafie e mettere in atto efficaci strategie per contrastarle. L’idea di base è conoscere e saper riconoscere il nemico per poterlo combattere. Ecco perché viene presentata una sintesi delle conoscenze acquisite da Dalla Chiesa sia nella veste di docente e ricercatore di sociologia sia in quella di attivista della società civile. Un occhio critico è, invece, rivolto ai processi di espansione dei gruppi mafiosi nelle regioni del Nord Italia e al funzionamento della cosiddetta zona grigia, che costituisce il vero motore della mafia settentrionale, basata sui rapporti di collusione e complicità. Il Manifesto delinea le “infrastrutture” e gli interventi di breve e medio termine da porre in essere per una adeguata azione antimafia, spesso insufficiente a fronteggiare le organizzazioni criminali, che grazie ad una fitta rete di complicità ed ignoranza, oltre che a sottili capacità strategiche, riescono a radicarsi nel tessuto sociale ed economico del paese. Fondamentale il binomio complicità - ignoranza che rende difficile il riconoscimento delle mafie nelle aree di nuova espansione territoriale accrescendone l’invisibilità. Esse, inoltre, hanno successo perché possono contare sul sostegno di tre precise “categorie antropologiche”: “Complici”, “Codardi” e “Cretini”. La prima categoria si riferisce ai corrotti, ai collusi, ai fiancheggiatori mentre i “codardi” sono i subdoli che per viltà “non vedono, non sentono e non parlano”. L’ultima categoria è rap-

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presentata dai “cretini”, persone ignoranti che in un contesto aggredito dalla criminalità risultano affetti da “inettitudine alla vita pubblica”. Ed ecco che scende in campo il “movimento antimafia”, avanguardia della società civile, che si muove però in un campo “mobile” e “contradditorio”. Minuziosa l’analisi che Dalla Chiesa fa della lotta alla mafia degli ultimi 30 anni e che ha contribuito a creare una situazione di crisi del fenomeno. Un bilancio che il professore considera decisamente positivo. In questo momento storico, l’unica strada da percorrere per il movimento antimafia è attrezzarsi sul piano culturale e morale. Chi ha la presunzione di parlare delle mafie “deve far pensare, più che prendere applausi”, perché non è più sufficiente seminare valori positivi, ma è indispensabile porre l’accento sugli aspetti negativi delle mafie. Troppi i personaggi che propongono uno studio approssimativo del fenomeno e diffondendo luoghi comuni. Ed è proprio questo il più grande punto di debolezza del movimento antimafia “incapace di selezionare e valutare adeguatamente fatti, storie e persone”. Dalla Chiesa propone una inversione di tendenza individuando i terreni privilegiati su cui concentrare le energie nella politica, nell’imprenditoria e nella magistratura – e critica quest’ultima, perché costituisce “spesso una remora allo sviluppo di una lotta coerente alla mafia”. La trasformazione della conoscenza in un fattore generativo di azione, da un lato e lo sviluppo della dimensione organizzativa del movimento stesso dall’altro rappresentano, invece, gli elementi positivi che contraddistinguono il movimento antimafia. Un’analisi attenta che decostruisce l’impegno antimafia e lo rilancia. È uno studio- analisi rivolto ai giovani che dimostrano sempre più un forte senso di scoraggiamento. Per questo bisogna sforzarsi, rimarca Dalla Chiesa, di proporre degli esempi nuovi, degli esempi contrari a quelli del cretino.


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