Arnaldo Cherubini
Manuale di rilievo e documentazione grafica delle strutture architettoniche e archeologiche
Roma 2008
Introduzione.
Questo manuale ha l’ambizione di insegnare ad eseguire rilievi architettonici ed archeologici o, più in generale, documentazione grafica del patrimonio storico-artistico. E’ mia intenzione limitare al minimo l’esposizione teorica relativa al disegno geometrico in generale ed alle nozioni fondamentali di materie quali la topografia o la geometria descrittiva, al fine di dedicare tutto lo spazio disponibile all’esperienza pratica ed all’illustrazione delle tecniche, a mio avviso, più utili ed essenziali per lo svolgimento di questa attività. Sono infatti certo che chi sta per sfogliare queste pagine, ritenendole in qualche modo consone alle proprie esigenze, abbia già una certa base culturale data dalla scuola in cui tutti, bene o male, hanno potuto apprendere qualche elemento di disegno. Non mi riferisco alla singola attitudine che rende alcune persone più dotate di altre di quella che comunemente si chiama “bella mano” (che non può essere insegnata da nessuno), quanto alle nozioni che vengono fornite, ad esempio, nel corso delle lezioni di educazione artistica o di educazione tecnica, a cui tutti abbiamo più o meno entusiasticamente partecipato. La mia simpatica professoressa delle medie diceva sempre, per incoraggiarci, che la scrittura non è altro che una forma di disegno e che, dunque, se eravamo stati capaci di apprendere le regole della prima non si capiva perché mai dovevamo avere difficoltà con il secondo. Rovesciando il concetto, il disegno tecnico, in definitiva, non è altro che una forma di scrittura che risponde ad una serie di convenzioni ed ad una grammatica che lo rendono universalmente esplicabile e comprensibile (a patto che le si rispetti!), e che mi accingo ad esporre. In genere l’ambito di applicazione del disegno tecnico è comunemente riferito all’esposizione di progetti di carattere edilizio, meccanico, design industriale, ecc., la cui funzione è di descrivere le varie parti e/o componenti di manufatti da realizzare in base, appunto, ad un dato progetto, ovvero di rappresentare degli oggetti ideali. Anche la rappresentazione di manufatti esistenti (ad esempio il rilievo e la documentazione grafica di murature di qualsiasi epoca) viene realizzata con il disegno tecnico e, dunque, sottintende alle stesse regole. Oltre a quelle squisitamente tecniche, che saranno oggetto di un’esposizione più dettagliata nelle pagine seguenti, vorrei qui enunciarne alcune di interesse più generale che dovrebbero sempre influenzare tutto il nostro operato. La prima regola fondamentale cui dovrebbero sottostare i nostri elaborati è quella della fedeltà della rappresentazione rispetto all’originale. Questo dovrebbe valere non solo per quanto riguarda le dimensioni fisiche di quest’ultimo rese nella scala di riduzione prescelta con la massima precisione possibile, ma anche per le sue caratteristiche formali, il materiale di cui è composto o costruito, il suo stato di conservazione, le relazioni che esso ha con altri elementi eventualmente contigui od adiacenti, le eventuali connessioni che possono farlo appartenere in un dato periodo o fase costruttiva. Un buon rilievo archeologico od architettonico non dovrebbe essere solo un bel disegno, preciso e magari “carino” per il modo in cui è stato restituito sulla carta; quanto, piuttosto, uno strumento essenziale per chi dovrà comprendere la natura e la storia di un certo manufatto o per chi, non potendolo vedere dal vero, ne verrà a
conoscenza a mezzo di una pubblicazione. Più il manufatto sarà stato “indagato” e percorso nella sua interezza, tanto maggiore sarà la quantità di informazioni che potrà acquisire l’osservatore e, quindi, questi potrà essere in grado di comprendere le sue caratteristiche nello svolgimento del lavoro di studio. La seconda regola dovrebbe essere quella della chiarezza dell’esposizione delle informazioni raccolte. La rappresentazione di un manufatto si svolge necessariamente attraverso una serie di scelte discrezionali mediante le quali, partendo dalla sua complessità (relativa allo sviluppo spaziale ed alle caratteristiche tipologiche e formali), questo viene “tradotto” in una serie di elementi grafici bidimensionali essenziali (in definitiva un insieme di linee rette o curve) che ne descrivono le dimensioni e l’aspetto. La chiarezza cui si fa riferimento dovrebbe ispirare la scelta di tali elementi, quindi la definizione della caratterizzazione, della scala di riduzione (che inevitabilmente comporta delle perdite di dettaglio), della grafica in generale e di quanto altro attiene all’interpretazione delle peculiarità di ogni manufatto dovrebbero rispondere alle finalità del lavoro che si sta eseguendo e, soprattutto essere all’altezza del contesto in cui si sta lavorando. L’età “media” del patrimonio storico e artistico di questo paese e lo stato di pressoché totale abbandono in cui versa, fanno si che (per cause naturali od accidentali) in ogni momento qualche sua parte possa essere distrutta, seriamente danneggiata, oppure sottratta alla collettività cui appartiene. Lo studio e la documentazione di tale patrimonio sono alla base della sua conservazione, non solo come presupposto a qualsiasi tipo di operazione di restauro, ma anche come memoria e conoscenza degli elementi che lo compongono. Maggiore sarà l’attenzione di chi cura la sua documentazione, tante più saranno le possibilità che tale patrimonio non vada perduto, nel senso più ampio del termine. Anche se questo periodo sembra essere particolarmente buio per quanto riguarda la conservazione e la valorizzazione di questo bene (nel senso che le risorse che vengono destinate a tale attività calano di anno in anno e con esso le possibilità di lavoro per chi opera nel settore), la assoluta necessità culturale di un’inversione di tendenza lascia ancora intravedere delle prospettive per la nostra attività. Ancora una precisazione. L’attività di colui (o colei) che cura il rilievo o la documentazione grafica è spesso definita di “disegnatore”, termine nel quale alcuni vedono una specie di menomazione professionale. Ora, a prescindere dal fatto che nonostante i progressi della fotografia e dell’informatica, a tutt’oggi il disegno non può assolutamente essere sostituito dalla ripresa fotografica, la figura professionale del disegnatore, dovrebbe essere parte assolutamente necessaria ed integrante nel processo di studio e conoscenza del nostro patrimonio, in grado di inserirsi e coordinarsi con le varie figure di archeologo, storico, storico dell’arte, che generalmente compongono un’equipe di lavoro. Non solo, infatti, non sarebbe pensabile un restauro oppure uno scavo archeologico in cui le varie figure professionali lavorino ognuna per proprio conto e con tempi propri (salvo alla fine collazionare insieme le rispettive opere), ma l’attività di documentazione possiede una tale importanza da esigere un’impostazione collegiale e dei continui confronti con le altre. Sta dunque al professionista disegnatore il compito di delineare, di volta in volta, le responsabilità e le funzioni che gli competono all’interno di un dato progetto, di concerto con le altre figure.
Oltre all’esposizione di concetti generali di disegno tecnico e di procedure per lo svolgimento del lavoro, un capitolo di questo libro è dedicato all’esperienza concreta di rilievo della Domus della Nicchia a Mosaico di Ostia Antica (RM), realizzato con il permesso della competente Soprintendenza Archeologica. Tale manufatto è stato scelto in base alle sue caratteristiche architettoniche ed allo stato di conservazione, che ne fanno una buona palestra di apprendimento. Si tratta infatti di una costruzione di cui resta conservata una discreta parte dell’alzato di quasi tutte le strutture murarie. La domus ha anche subito varie trasformazioni, con l’impiego di tecniche e materiali costruttivi diversi, ponendo così una serie di problemi di lettura delle parti funzionali e, quindi, di rappresentazione di queste ultime. Oltre alle strutture portanti in muratura, sono inoltre conservati alcuni resti di particolari architettonici decorativi che sono stati rilevati in dettaglio, al fine di avere una documentazione grafica complessiva con la produzione di elaborati che definiscono l’edificio in pianta, prospetti e sezioni nella riduzione più consueta (scala 1:50), fino a rappresentarne gli elementi decorativi più notevoli (scala 1:20 e 1:5). Le tecniche usate sono state sia quella del rilevamento diretto, con l’ausilio della fettuccia metrica ed altri strumenti elementari di misura, che quella del rilevamento strumentale. Per meglio simulare un reale contesto lavorativo, e dunque il suo svolgimento pratico, si è simulato di aver ricevuto l’incarico di curare la documentazione grafica della domus nell’ambito di uno studio volto a definirne le varie fasi costruttive e le destinazioni d’uso che si sono succedute nel tempo. Ancora qualche precisazione. Alcune delle illustrazioni che accompagnano il testo raffigurano degli edifici o, più in generale, delle strutture architettoniche assolutamente frutto della fantasia di chi scrive. Tali elementi sono stati composti con spirito eclettico, accostando soluzioni tipologiche e/o componenti architettonici assolutamente inconsueti o, peggio, del tutto errati sotto il profilo storico o strutturale, al solo fine di evidenziare particolari problemi metodologici o proporre soluzioni tecniche o procedurali. Mi scuso, pertanto, con i lettori più attenti che potranno trasalire guardando pagine in cui troveranno accostate soluzioni bislacche ad elementi “veri” con assoluta casualità. Le soluzioni grafiche proposte per quanto riguarda la caratterizzazione, a diverse scale, di alcuni tipi di murature classiche o la rappresentazione delle stratigrafie murarie hanno solo carattere di proposta e non vogliono assolutamente avere la pretesa di mostrare “come si fa” questo lavoro o, peggio, come si disegna. Come ho già affermato in precedenza, non si tratta tanto di fare dei bei disegni, quanto di essere chiari nell’esposizione di ciò che abbiamo capito del nostro monumento. Roma, ottobre 1996. Arnaldo Cherubini Post-introduzione Si, avete letto bene: Roma 1996. Questo lavoro ha impiegato circa 12 anni a vedere la luce su una pubblicazione, per una serie di problemi.
In primo luogo quello del tempo disponibile: essendo il sottoscritto una persona che svolge questa attività come principale occupazione è stato difficile trovare il tempo e la fantasia nei “buchi” lasciati dal lavoro per completare questo libro. In secondo luogo alcuni malintesi con gli editori: non avendo esperienza di pubblicazioni ed editoria in generale, sono stato costretto a seguire i capricci di alcuni di questi, fino a stufarmi ed interrompere il rapporto. Ovviamente il testo è stato via via revisionato ed aggiornato, specie per quanto attiene alle tecniche informatizzate, cercando di mettere il lettore al corrente non tanto delle ultime novità, quanto delle più recenti specializzazioni ed ambiti di lavoro emersi negli ultimi anni, in particolare nel settore della cartografia. Ho deciso invece di mantenere alcuni paragrafi (in particolare quello sulla topografia realizzata con strumentazione ormai obsoleta) perché ritengo che chi si accinga ad iniziare questa attività potrebbe non disporre delle risorse tecniche di uso corrente e, piuttosto, potrebbe avere a disposizione un vecchio teodolite ed una stadia. Alla fine mi sono risolto per l’autopubblicazione sul web, iniziativa che ritengo essere estremamente democratica nei confronti di tutti (autori e lettori) e vantaggiosa dal punto di vista economico. Certo, ci sono anche degli inconvenienti, quali la necessità di acquistare sul web mediante carta di credito o altre forme di denaro virtuale e, soprattutto, non c’è la possibilità di andare in libreria e sfogliare un volume per farsi un’idea più precisa, però non si può avere tutto dalla vita. Per quanto mi riguarda, ho fatto il possibile: dal prezzo di copertina (che, avendo tolto il distributore, si riduce alla somma dei costi di stampa, del diritto di autore e dell’utile –20%- del sito) il mio diritto per copia è meno di 2 euro, a fronte di circa un anno e mezzo di lavoro. Per essere più trasparente possibile, e per far conoscere un progetto di cartografia informatizzata presentato anche su queste pagine, mi sono cimentato con l’allestimento di un sito web (www.arnaldocherubini.it), su cui potrete trovare notizie, approfondimenti ed ulteriori esempi di quello che leggerete sulle pagine seguenti. Saranno estremamente gradite critiche, suggerimenti, lamentele e chiacchiere al mio indirizzo di posta elettronica: arnaldo.cherubini@libero.it Vorrei qui ringraziare Anna Gallina Zevi e Maria Antonietta Ricciardi, rispettivamente Soprintendente e funzionario della Soprintendenza per i Beni Archeologici di Ostia, per avermi concesso ed agevolato il rilievo della Domus della Nicchia a Mosaico. Mio figlio Lorenzo mi ha fatto perdere un sacco di tempo ma lo ringrazio lo stesso per l’entusiasmo che mi ha sempre comunicato con la sua allegria. Radio Popolare Roma ha fornito l’ottimo background di musica e chiacchiere che mi ha fatto compagnia per tutto il tempo passato davanti alla tastiera e sul tavolo da disegno. Roma, ottobre 2008
Indice
Introduzione
pag. 5
La rappresentazione grafica 1. Concetti di geometria descrittiva proiezioni ortogonali piani di proiezione convenzioni grafiche lo spazio cartesiano applicazioni
pag. 11 pag. 11 pag. 13 pag. 16 pag. 18 pag. 22
2. I rapporti di riduzione rappresentazione in scala, errori ammissibili scale grafiche caratterizzazione e problematiche di stampa
pag. 29 pag. 34 pag. 34
3. Il rilievo diretto breve parentesi tecniche di rilevamento principali procedure convenzioni grafiche consigli pratici le quote altimetriche il rilievo dei prospetti
pag. 37 pag. 37 pag. 37 pag. 44 pag. 51 pag. 57 pag. 59 pag. 65
4. Il rilievo strumentale ed il calcolo delle coordinate principali tipologie di strumenti cenni di topografia restituzione grafica delle coordinate l’impostazione di un rilievo altre applicazioni pratiche
pag. 75 pag. 75 pag. 79 pag. 94 pag. 99 pag. 110
5. Il rilievo dei particolari architettonici tipologia tecniche per il rilievo rilievo di oggetti tridimensionali
pag. 117 pag. 117 pag. 119 pag. 125
6. Caratterizzazione e lucidatura definizione delle superfici e dei materiali convenzioni grafiche la restituzione in studio
pag. 135 pag. 135 pag. 141 pag. 147
7. Le tecniche informatizzate disegno automatizzato digitalizzazione e costruzione di un disegno programmi di calcolo topografico vettorializzazione e gestione delle immagini cenni di fotogrammetria conclusioni
pag. 155 pag. 155 pag. 159 pag. 165 pag. 166 pag. 169 pag. 172
Ambiti di lavoro 8. L’analisi del monumento tecniche costruttive fasi costruttive e trasformazioni delle strutture concetti di stratigrafia analisi stratigrafica delle strutture restituzione e convenzioni grafiche
pag. 175 pag. 176 pag. 183 pag. 187 pag. 193 pag. 194
9. Documentazione grafica del patrimonio storico artistico il rilievo architettonico il rilievo archeologico strutture e complessi archeologici rilievo di scavo il disegno dei materiali archeologici finalità
pag. 201 pag. 202 pag. 204 pag. 206 pag. 206 pag. 210 pag. 214
10. Un’esperienza di rilievo: la domus della Nicchia a Mosaico di Ostia Antica pag. 215 il rilievo diretto pag. 216 il rilievo con lo strumento pag. 219 la restituzione pag. 224 l’analisi della struttura pag. 229 pag. 241 pag. 241 pag. 243 pag. 245
11. La cartografia tematica la Carta Archeologica la base cartografica l’acquisizione dei dati 12. Cartografia ed informatizzazione: il progetto
Archeo
definizioni strategia del progetto progetto di informatizzazione di un’area archeologica il progetto Archeoviewer 13.
Viewer
pag. 249 pag. 249 pag. 252 pag. 253 pag. 254
Appendice. Programmi per il calcolo dei dati strumentali pag. 259
14. Bibliografia
pag. 265
Concetti di geometria descrittiva.
Questo capitolo illustra le nozioni fondamentali del disegno tecnico, a partire da quella basilare delle proiezioni ortogonali. Il disegno non è altro che una rappresentazione: della realtà, di un’idea, di un progetto. Per esempio, per rappresentare i prospetti di una casa vista posso fare una serie di segni che indicano il suo profilo, la cornice del tetto e le aperture sui muri. I segni che traccerò sulla carta potranno essere compresi o meno dagli altri, a seconda di quanto l’immagine da me tracciata sarà veritiera e soprattutto a seconda di quanto sarò stato capace di aderire al modo consueto di rappresentare un dato oggetto. L’immagine prospettica, se realizzata accuratamente, dà una buona idea generale di esso ma non permette di cogliere esattamente le proporzioni dei vari elementi che lo costituiscono. Quella assonometrica è più precisa per quanto riguarda le proporzioni ma inevitabilmente ne deforma la visione, a seconda dell’inclinazione degli assi principali. L’immagine proiettata su un piano parallelo alla facciata, per quanto abbozzata e pur con i limiti che le derivano dal fatto che elimina la terza dimensione dell’oggetto, è quella che più si accosta al modo “normale” di rappresentare il prospetto di una casa. Noi ci occuperemo di immagini generate secondo il metodo delle proiezioni ortogonali e del modo in cui queste si costruiscono: pochi concetti elementari che definiscono un criterio per concepire lo spazio (reale o virtuale) e gli oggetti che gli appartengono e che illustrano le convenzioni per renderlo comprensibile quando lo si disegna sulla carta (fig. 1). Proiezioni ortogonali. L’operazione elementare di proiezione di un punto geometrico su un piano (piano di proiezione) prevede il tracciamento, a partire dal punto, di una semiretta perpendicolare al piano stesso. Il punto di intersezione tra la semiretta ed il piano rappresenta l’immagine del punto geometrico (fig. 2). Se immaginiamo un segmento di retta AB giacente su un piano parallelo a quello di proiezione, la sua immagine sarà un altro segmento A’B’ uguale a quello originale, le cui estremità si troveranno in corrispondenza dei punti di intersezione tra le semirette condotte dal segmento AB al piano ed il piano stesso (fig. 3). Se AB giacesse su un piano non parallelo a quello di proiezione la sua immagine verrebbe ridotta in lunghezza proporzionalmente all’inclinazione del piano (fig. 4). Pensiamo ora alla proiezione di un oggetto: un tipico esempio è quello del cubo, composto da sei facce piane e dagli spigoli che si trovano in corrispondenza delle intersezioni.
manuale di rilievo e documentazione grafica
Fig. 1. Prospettiva, assonometria e proiezioni ortogonali delle facciate di un edificio.
Fig. 2. Proiezione di un punto su un piano. Fig. 3. Proiezione di un segmento giacente su un piano parallelo a quello di proiezione.
Fig. 4. Proiezione di un segmento giacente su un piano non parallelo a quello di proiezione. Notare che il segmento AB ha sempre la stessa lunghezza e posizione al centro del piano cui appartiene, mentre la sua immagine A’B’ ha lunghezza variabile a seconda dell’inclinazione del piano che contiene AB.
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concetti di geometria descrittiva
A seconda della posizione del cubo rispetto al piano potremo vedere una sola faccia (un quadrato), due facce (due rettangoli) o tre facce (tre parallelogrammi) (fig. 5). Pensando di far coincidere il piano di proiezione con il mio occhio, dovrebbe essere abbastanza facile capire come sono state prodotte le immagini delle varie facce perché è intuitivo pensare che, a seconda di “come guardo” (se mi sposto intorno al cubo, che sta fermo) oppure di come si muove il cubo rispetto al mio occhio (che sta fermo), l’immagine che si ottiene è diversa. Proviamo però a ripercorrere brevemente le operazioni elementari che ci hanno portato all’immagine finale. Innanzitutto abbiamo escluso dalla proiezione le facce che non erano rivolte verso il nostro occhio perché, essendo il cubo opaco, non potevamo vederle. Abbiamo poi preso in considerazione solo gli spigoli che delimitavano quelle visibili, tracciando l’immagine di ognuno come se si trattasse di un singolo segmento, per ricomporre successivamente le immagini delle varie facce nella visione proiettata complessiva. Il ragionamento funziona esattamente nello stesso modo anche se, al posto del cubo, ci trovassimo di fronte ad un oggetto qualsiasi, ugualmente opaco e composto di facce e di spigoli, a prescindere se siano retti o curvi. A questo punto, se pensiamo ad una qualsiasi struttura architettonica come ad un insieme di facce e di spigoli, il gioco è fatto: l’unica eventuale difficoltà concettuale sta, nel caso di un oggetto complesso, nella scelta degli spigoli che la definiscono secondo il piano di proiezione prescelto, ma di questo parleremo più avanti. Piani di proiezione. Il piano di proiezione può essere teoricamente inclinato a piacere ma, per convenzione, si considerano esclusivamente i piani orizzontali o verticali che definiscono delle proiezioni, rispettivamente, in pianta o in prospetto. La distanza tra l’oggetto ed il piano e’ ininfluente perché, essendo le rette di proiezione tutte parallele tra loro e perpendicolari al piano di proiezione (si definisce l’osservatore come posto all’infinito), la loro lunghezza non deforma l’immagine che si ottiene (fig. 6). La posizione dell’oggetto rispetto al piano invece è importante perché quest’ultimo può, a seconda dei casi, intersecare o meno l’oggetto. Ovvero, se il piano passa attraverso l’oggetto ne determina una sezione che avrà un certo profilo dato dai punti posti in corrispondenza del taglio (e che, a sua volta, conterrà l’immagine dei punti che sono visibili dal piano di sezione), se il piano è esterno tutto si svolge come descritto finora. Ricorrendo ad un altro esempio classico, se l’oggetto è una zucca ed il piano di proiezione corrisponde a quello tracciato da un coltello che si muove per tagliarla, se la lama passa al di fuori della zucca non la tocca affatto, se passa al suo interno (ad esempio al centro) la taglia in due parti e potremo vedere, oltre al profilo esterno, anche il cavo interno ed i semi. Quanto detto finora vale sia per i piani orizzontali che verticali, quindi le piante possono essere sezionanti o no l’oggetto ed i prospetti possono essere sezioni-prospetto o prospetti propriamente detti. Se pensiamo alla nostra casa iniziale, una pianta sezionante sarà quella che ci mostra la disposizione interna degli ambienti, con i muri verticali (esterni ed interni) e gli infissi (idem) sezionati, la pianta non sezionante sarà quella che ci farà vedere la casa dall’alto, con il tetto, il camino ed il giardino circostante (fig. 7). Nel caso in cui il piano sezioni l’oggetto, quindi, oltre all’immagine della proiezione del suo contorno 13
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Fig. 5. Proiezioni ortogonali di un cubo. Nel caso a) il piano di proiezione è parallelo ad una delle facce. In b) il piano è parallelo solo agli spigoli verticali. In c) il piano ha un’inclinazione del tutto arbitraria rispetto alle facce ed agli spigoli del cubo. I numeri posti sugli spigoli dovrebbero facilitare la lettura di queste viste assonometriche. Nel caso c) la faccia del piano di proiezione rivolta verso di noi sarebbe opposta a quella su cui appare la vista del cubo, quindi si immagina il piano trasparente, in modo da poter vedere l’immagine proiettata. Le facce del cubo campite sono quelle opposte a quelle visibili nella proiezione. Le situazioni illustrate in a) e b) sono consuete nel rilievo architettonico (piano di proiezione parallelo ad una faccia o ad uno spigolo), quella in c) praticamente non si usa mai. Le rette di proiezione si intendono sempre ortogonali al piano di proiezione. Fig. 6. Piani di proiezione verticali e orizzontali. A prescindere dalla effettiva giacitura dell’oggetto da rappresentare, la verticalità e l’orizzontalità dei piani di proiezione vengono definite in modo assoluto rispetto allo spazio. La direzione verticale, pertanto, è quella indicata dal filo a piombo (diretta verso il centro della terra), mentre quella orizzontale, perpendicolare alla precedente, è quella assunta da un liquido in stato di quiete. Le immagini usate in figura, dovendo essere rappresentate su dei piani disegnati in assonometria, risultano deformate secondo l’inclinazione dei margini dei piani stessi.
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concetti di geometria descrittiva
Fig. 7. Piani di proiezione esterni o secanti l’oggetto. Le proiezioni a lato rappresentano le reali immagini ortogonali della nostra casa. Notare le linee a tratto-punto che rappresentano le tracce dei piani di proiezione. Mentre la posizione (altezza e distanza dalla casa) dei piani A e C è ininfluente ai fini della proiezione generata, per i piani B e D la rispettiva posizione è importante perchè determina il taglio delle sezioni corrispondenti e quindi, ad esempio, la presenza o meno delle finestre nel profilo della sezione. Notare come i piani E ed F, posti in posizione diversa da B e D, determinano delle sezioni completamente diverse.
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vedremo anche quella degli altri punti che si trovano, e che sono visibili, al suo interno. Gli oggetti “visibili” sono quelli che sono rivolti verso la faccia del piano verso cui stiamo guardando. Per questo le sezioni hanno un “verso” (determinato dalla direzione delle semirette di proiezione) e, quindi, dato un certo oggetto, potremmo avere due immagini diverse di una sezione che hanno in comune solo il profilo. Ad esempio, nella casa di prima, per la stessa pianta interna potremmo avere l’immagine rivolta verso l’alto che ci fa vedere, oltre ai muri tagliati, anche le travi del tetto ed il tavolato che sostiene le tegole e l’immagine rivolta verso il basso che ci mostra il pavimento. Inoltre, a seconda dell’altezza del piano di sezione della pianta, potremmo avere un disegno che taglia i muri cogliendo le aperture delle porte e delle finestre ed uno che passa al di sotto della soglia di quest’ultime che sezionerà solo i muri sottostanti. Convenzioni grafiche. Per convenzione, a meno di casi particolari oppure di esigenze di rappresentazione di dettagli inconsueti (piante strutturali ingegneristiche, decorazioni sui soffitti o presenza di particolari architettonici notevoli, ecc.), le piante si intendono sempre rivolte verso il basso e con il piano impostato ad un’altezza tale da cogliere tutte insieme le aperture dell’edificio appartenenti allo stesso livello. Di solito si disegnano diverse piante per i vari piani terra, cantine, primo, secondo, soffitte, ecc. e solo eccezionalmente diverse piante per lo stesso piano (in caso di soppalchi, diversi ordini di finestre, spazi a doppia altezza con presenze particolari, ecc.). Le sezioni, oltre ad essere disegnate come proiezioni, devono anche essere indicate sugli elaborati per far capire all’osservatore i punti per cui passano i rispettivi piani ed il loro verso. Ovviamente l’indicazione di una sezione deve essere riportata su un piano di proiezione diverso da quello su cui giace ovvero, nella misura in cui si considerano solo piani orizzontali o verticali, su quello ad essa perpendicolare. Nel caso di una sezione-prospetto, ad esempio, l’indicazione di questa va riportata sulle piante con una linea (l’immagine del piano di proiezione su giace la sezione) che per convenzione viene disegnata a tratto-punto con delle frecce alle estremità, o simboli grafici analoghi, che ne determinano il verso. Le sezioni vengono denominate generalmente con delle coppie di lettere o di numeri che vengono anch’essi indicati sulle estremità della linea tratteggiata e che, a seconda dell’ordine con cui vengono indicate, ne definiscono ulteriormente il verso, specie nei casi in cui ne esistono due passanti per la stessa linea con versi opposti. Ad esempio la sezione A-A’ ha verso opposto alla sezione A’-A (oppure, rispettivamente, A-B e B-A, 1-2 e 2-1, ecc.). Talvolta le sezioni-prospetto (che di seguito chiameremo solo sezioni), anziché essere disposte su un solo piano, si trovano su piani paralleli al fine di evidenziare alcuni aspetti particolari dell’oggetto. Sono le cosiddette sezioni a baionetta, che si indicano con una linea a tratto-punto spezzata e che vengono disegnate proiettando i punti che si trovano in corrispondenza dei piani paralleli (fig. 8). Per quanto riguarda i prospetti, essendo anch’essi proiezioni di punti su dei piani, questi ultimi sezionano anche quello che si trova al di fuori dell’oggetto. Nel caso di un edificio, per esempio, anche i prospetti (proiettati su dei piani esterni a questi ultimi) sezionano il terreno circostante, permettendo di rappresentarne l’andamento altimetrico oppure eventuali scale, muri di contenimento, ecc.. Quando il terreno intorno ad un edificio non è pianeggiante, 16
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Fig. 8. Sezioni prospetto. Le sezioni prospetto A-A’ ed A’-A sono a baionetta ed hanno verso opposto. Notare le viste diverse che si ottengono dalla proiezione degli elementi interni ed esterni della casa mentre il profilo della sezione, seppur ribaltato, rimane invariato. La linea a tratto-punto sui prospetti serve ad indicare la traccia dell’interruzione (“baionetta”) dei due piani. La sezione prospetto 1-2 contiene la sezione della scala esterna e la proiezione del retro della casa. Se il piano fosse passato nella posizione indicata con la linea tratteggiata non avrebbe potuto indicare il profilo della scala.
Fig. 9. Proiezioni del prospetto e della pianta del vaso. I punti indicati sulla parete del vaso devono trovarsi sulla traccia di un piano verticale (non rappresentato) passante per il centro del vaso. Fig. 10. Corrispondenza tra il prospetto e la pianta del vaso. Le misure dei diametri delle varie circonferenze, misurate sui due elaborati, devono essere uguali.
Fig. 11. Costruzione della pianta a partire dal prospetto. A sinistra, tracciati gli assi, proiettare dalla sagoma del prospetto i punti notevoli fino all’asse orizzontale, quindi tracciare le varie circonferenze. Per la costruzione del prospetto dalla pianta (a destra) la procedura è la stessa, salvo la ulteriore necessità di misurare le altezze dei vari elementi indicati in figura.
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a questo punto, è importante indicare sulla pianta il punto (sarebbe più corretto dire la linea) per cui passa il piano su cui giace il prospetto per mostrare con esattezza dove il terreno assume quel determinato profilo che si è disegnato. Dicevamo prima della importanza di scegliere i punti da proiettare nel caso di oggetti complessi per rendere un’immagine di questi più comprensibile possibile. Una prima selezione va fatta sicuramente includendo tutti i punti che ne definiscono il contorno visibile dal piano di proiezione. Se prendiamo ad esempio un vaso da fiori rovesciato di cui dobbiamo disegnare la pianta dall’alto ed il prospetto, possiamo cominciare da quest’ultimo, disegnandone la sagoma. A prescindere dall’operazione pratica di disegno, di cui ci occuperemo più avanti, pensiamo ora alla procedura concettuale: la sagoma del vaso è l’insieme di punti che, proiettati sul piano, delimitano il nostro oggetto alle varie altezze (fig. 9). Se ci fermassimo qui il nostro vaso sarebbe ben poco comprensibile per chi non lo avesse mai visto nella realtà, quindi dobbiamo aggiungere altri particolari. L’orlo del vaso, in quanto orizzontale, è caratterizzato in proiezione da un’immagine lineare e lo stesso vale per le linee circolari decorative che lo avvolgono. Per la pianta il discorso è praticamente lo stesso, prendendo la circonferenza estrema, quella interna dell’orlo, le varie linee decorative e quella del fondo. L’esempio del vaso è servito ad introdurre l’argomento delle relazioni che intercorrono tra gli elementi che costituiscono un dato oggetto e che è possibile ritrovare tra la pianta ed il prospetto o, più in generale, tra le rappresentazioni orizzontali e quelle verticali. E’ ovvio che, se avremo ben disegnato il nostro vaso, il diametro dell’orlo esterno in pianta dovrà essere uguale alla lunghezza della linea che lo rappresenta in prospetto, così come per la base e tutto il resto. Se avremo disegnato sulla carta lucida o su qualsiasi altro supporto trasparente, sovrapponendo i due disegni al punto giusto troveremo delle esatte corrispondenze tra i vari elementi (fig. 10). Questo fatto ci permette anche di risparmiare un sacco di lavoro perché, se esistono tali corrispondenze (dovute al fatto di lavorare su dei piani disposti secondo delle direzioni assolutamente parallele od ortogonali), nulla ci vieta di utilizzarle per costruire i disegni successivi al primo. Ad esempio, una volta disegnata la pianta è possibile sfruttare questa per costruire il prospetto, innalzando delle linee verticali in corrispondenza dei punti notevoli di cui, pertanto, sarà sufficiente prendere le altezze da terra ed unirli secondo le loro rispettive posizioni nello spazio. In questo caso avremmo potuto anche iniziare dal prospetto ed utilizzare successivamente questo per costruire la pianta, ma generalmente si usa disegnare prima quest’ultima (fig. 11). Gli esempi mostrati finora possono sembrare un po' banali ma, se ben capiti, sono in grado di fornire gli elementi essenziali per procedere con qualsiasi altro tipo di oggetto e disegnarlo proiettandolo su qualsiasi piano nello spazio. Lo spazio cartesiano. Il problema dello spazio cartesiano a tre dimensioni è, anch’esso, un’astrazione logica estremamente semplice anche per chi non ha studiato la 18
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geometria analitica, purché se ne afferrino i meccanismi basilari. Darò di seguito qualche cenno elementare introducendo dei concetti che riprenderemo successivamente, quando parleremo del rilievo indiretto con lo strumento. Lo spazio cartesiano a tre dimensioni è caratterizzato da tre piani principali sulle cui intersezioni giacciono i tre assi fondamentali X, Y, Z (fig. 12). Per convenzione, gli assi X ed Y si intendono sempre orizzontali e l’asse Z si intende sempre verticale. Ogni piano, quindi, contiene solo due assi da cui prende il nome: XY, XZ ed YZ; il primo è quello orizzontale, gli altri due sono verticali e tutti e tre sono perpendicolari tra loro. I tre piani definiscono uno spazio, appunto, a tre dimensioni (generalmente chiamate lunghezza, larghezza ed altezza) che ha un’origine nel loro punto di intersezione (lo “spigolo” formato dalle tre “facce”). I tre assi X, Y e Z hanno, dall’origine, un verso di orientamento che definisce dei valori positivi alle unità di misura che li suddividono procedendo da sinistra verso destra, negativi quelli in senso opposto. Le unità di misura possono essere di qualsiasi tipo (centimetri, metri, pollici. ecc.). Un punto qualsiasi che si trovi all’interno di questo spazio può avere tre possibilità (fig. 13): coincidere con l’origine, trovarsi su uno dei piani, essere esterno a tutti e tre i piani (ce n’è un’altra, banale, in cui il punto si trova su uno degli assi, giacendo in realtà su due piani, in pratica assimilabile con la seconda). Consideriamo, per ora, l’ultima possibilità: proiettando il punto su ognuno dei piani avremo tre immagini che si trovano in una certa posizione rispetto all’origine e rispetto agli assi X, Y e Z. Proiettando l’immagine del punto sugli assi principali avremo, su questi, tre segmenti che avranno (ovviamente scegliendo la stessa unità di misura) un certo valore di x, y e z (di seguito adotteremo la convenzione di usare le lettere maiuscole per gli assi e quelle minuscole per i valori). I tre valori trovati (ax, by e cz, dove a, b, c sono valori numerici qualsiasi) si chiamano coordinate del punto e definiscono inequivocabilmente la sua posizione nello spazio. Immaginiamo di trovarci in una stanza che sia il nostro spazio cartesiano (fig. 14): il pavimento sarà il piano XY e due pareti i piani XZ e YZ, trascurando per ora le altre due pareti ed soffitto. L’imposta a terra delle pareti saranno gli assi X ed Y e l’angolo formato dalle due pareti sarà l’asse Z. La posizione del lampadario (immaginando che sia ridotto ad un punto geometrico coincidente, ad esempio, con la lampadina) sarà definita da tre valori di x, y e z che non saranno altro che le distanze dall’angolo formato dalle pareti e dal pavimento (origine). Riprendendo l’analisi della posizione di un punto rispetto ai piani cartesiani, consideriamo ora la seconda possibilità: il punto giace su uno dei piani, per esempio quello orizzontale. In questo caso il punto non ha “un’altezza”, quindi la coordinata z ha valore 0 e la proiezione del punto sugli assi X e Y darà certi valori delle coordinate x ed y. La posizione del punto sarà sempre determinata da tre valori (ax, by, 0z) ma, se affermiamo in partenza che il punto giace sul piano XY, il valore nullo di z può essere omesso per semplicità. Qualsiasi altro punto giacente sullo stesso piano avrà la stessa coordinata nulla per la z. Ora, tornando alla nostra stanza (fig. 15), se il lampadario cadesse a terra (secondo una direzione perfettamente verticale e senza rimbalzare) non avrebbe più un’altezza e si troverebbe a contatto con il piano XY del pavimento e sarebbe caratterizzato da due sole coordinate. Se confrontiamo, però, l’immagine del lampadario sul piano del pavimento nelle due diverse posizioni 19
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Fig. 12. Lo spazio cartesiano a tre dimensioni. I segmenti 0-1-2-3 rappresentano delle unità di misura generiche.
Fig. 13. Posizione di un punto nello spazio cartesiano, esterno ai tre piani. La proiezione del punto A sui piani produce le tre immagini A’ (piano XY), A’’ (XZ) ed A’’’ (YZ); ax, by e cz sono le proiezioni sui singoli assi delle rispettive immagini del punto. Nelle visioni proiettate laterali la direzione positiva degli assi X, Y, Z è stata orientata nello stesso verso dell’assonometria solo per facilitare l’associazione logica con quest’ultima. Nella realtà, per convenzione, gli assi si orientano sempre con i versi positivi verso l’alto e verso destra.
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Fig. 14. Associazione dello spazio fisico con lo spazio cartesiano. Le coordinate spaziali del lampadario (punto A) x=1.5 y=2 e z=2.5 sono state ottenute con lo stesso procedimento della figura precedente.
Fig. 15. Punto giacente su uno dei piani. In a), il lampadario (punto A) giace sul pavimento in corrispondenza di A’, immagine proiettata della sua posizione originaria. I valori delle coordinate x e y sono gli stessi, mentre quello di z è diventato uguale a zero perchè il punto non ha più una quota rispetto al piano XY. Confrontando questa rappresentazione del piano XY con quella della fig. 14 si può notare come siano assolutamente identiche. Se in entrambe le figure avessimo impostato un piano di sezione rivolto verso il basso e posto ad una quota superiore alla porta avremmo avuto sempre la stessa proiezione (b).
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(sospeso e caduto) avremmo sempre la stessa coppia di coordinate x e y, quindi l’operazione di proiezione di un punto su un piano elimina il valore della coordinata il cui asse è parallelo alla direzione di proiezione. Se la stanza avesse avuto il soffitto decorato, anche la proiezione di questo sul piano XY del pavimento avrebbe avuto le stesse caratteristiche di quella del lampadario. Anche per le pareti vale lo stesso discorso: se avessimo disegnato il prospetto di quella contenente la porta, ponendo il nostro piano di proiezione al di là del lampadario, avremmo l’immagine di quest’ultimo, e quella della porta, indipendentemente dalla loro profondità e distanza dalla parete. Più avanti ci occuperemo del modo in cui, materialmente, vengono determinate le misure degli oggetti e la loro reciproca collocazione nello spazio; per ora diciamo solo che, se conoscessimo i valori numerici delle coordinate x, y, z dei punti notevoli degli oggetti (spigoli della cornice del quadro e della mostra della porta, ecc.) potremmo disegnarli direttamente sulla carta senza doverli misurare o proiettare, come succede nel rilievo indiretto. Anche in questo caso è importante il verso in cui “guardiamo” con la nostra proiezione. Se il piano di proiezione si fosse trovato a mezza altezza tra il pavimento ed il soffitto e se avessimo guardato verso il basso avremmo disegnato il pavimento su cui avremmo potuto, volendo, proiettare lo stesso il lampadario e la decorazione del soffitto, ma solo come immagini virtuali perché, materialmente, non saremmo in grado di vederli. Per concludere facciamo solo qualche altro breve accenno allo spazio cartesiano. I piani e gli assi principali considerati finora sono in realtà solo la porzione positiva di questi che, in effetti, proseguono anche oltre l’origine determinando la restante parte “negativa” dello spazio tridimensionale, in cui le coordinate dei punti hanno almeno un valore negativo (ad esempio, il punto 2x, 3y e -2z) si trova “al di sotto” del piano XY, il punto -2x, x3y, -2z si trova al di sotto di XY ed “al di là” dei piani XZ e YZ, ecc.). Esistono inoltre anche gli spazi cartesiani “relativi” all’interno di un sistema che si definisce “assoluto”, che hanno una diversa origine e/o un diverso orientamento, ecc.. Abbiamo già visto che se il piano di proiezione si trova all’interno o all’esterno dell’oggetto determina delle modificazioni sull’immagine di quest’ultimo; dopo questa parentesi sullo spazio cartesiano possiamo aggiungere che se, ad esempio, un piano verticale non è parallelo a quelli principali XZ e YZ, l’immagine degli oggetti giacenti su questi ultimi sarà deformata proporzionalmente all’inclinazione del piano di proiezione, ovvero se questo fosse parallelo ai piani principali ed avessimo degli oggetti disposti secondo direzioni diverse avremmo lo stesso delle deformazioni. Applicazioni. Queste considerazioni ci permettono di spiegare una regola pratica per lo svolgimento di un rilievo di un edificio le cui pareti (come spesso capita) non sono disposte (in pianta) in modo ortogonale. Immaginiamo di avere un edificio a forma trapezoidale (fig. 16) con tre lati ortogonali tra loro ed il quarto obliquo. Inquadrandolo in un sistema di assi cartesiani di cui quelli XZ e YZ paralleli ai lati ortogonali, su cui potremmo proiettare i prospetti esterni. Se, per proiettare il lato obliquo usassimo un piano parallelo ai precedenti avremmo una visione notevolmente deformata. Il piano di proiezione dovrà essere, necessariamente, parallelo a tale lato e, dunque, obliquo rispetto ai piani cartesiani principali. In questo caso avremmo creato un sistema cartesiano “relativo” al precedente. 22
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Fig. 16. Proiezioni ortogonali di un edificio a pianta trapezoidale. Il nostro sistema cartesiano è orientato parallelamente ai lati ortogonali dell’edificio (spigoli superiori, in senso antiorario, 3-4, 4-1, 1-2). I piani di proiezione A, B, C, D sono parallelli al sistema cartesiano. I prospetti in basso evidenziano come l’immagine della facciata obliqua (spigoli 2-3) sia deformata (proiezioni sui piani C e D) dalle viste orientate secondo il sistema cartesiano. Il prospetto E è stato proiettato su un piano (non rappresentato) parallelo al lato obliquo. Notare, oltre alla visione di scorcio del lato non parallelo al piano di proiezione (prospetti C, D, E), anche la vista dello spessore della mazzetta della finestra. Per esigenze di rappresentazione in assonometria, i prospetti C e D presentano un rovesciamento dell’immagine proiettata (come se il piano cui appartengono fosse visto in trasparenza), pertanto la vista corretta è quella del prospetto in basso.
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Come abbiamo già visto, una volta tracciata la pianta possiamo usarla per abbozzare le linee generali dei prospetti (fig. 17). Per ogni parete rettilinea avremo già disegnato le aperture delle porte e finestre e quindi potremo, sovrapponendo un altro foglio, tracciare la linea di imposta del prospetto a terra (che in questo caso assumiamo come orizzontale) facendola coincidere con l’allineamento del muro e da questa tracciare delle linee verticali (leggi ortogonali all’imposta) in corrispondenza degli spigoli di tali aperture di cui, a questo punto, basterà conoscere le altezze da terra e del vano per averle già collocate nella posizione giusta, cioè secondo le rispettive distanze planimetriche ed imposte altimetriche. Questa semplice operazione pratica corrisponde, dal punto di vista concettuale, a posizionare il piano di proiezione del prospetto in questione parallelamente alla traccia della parete in pianta al fine di avere un prospetto che non subisca deformazioni oppure per determinare facilmente e con precisione le deformazioni che subiranno gli altri elementi dell’edificio che sono disposti obliquamente rispetto alla parete in questione. Le linee verticali che si “alzano” sul prospetto in costruzione corrispondono alla proiezione degli spigoli delle aperture, conducendo per queste dei piani verticali (che producono, come immagine proiettata, appunto una linea), perpendicolari al piano di proiezione. Tali linee ci indicano la posizione approssimata degli spigoli delle aperture, ovvero la loro “verticale”, ovvero ci dicono che lo spigolo “sta lì”, lasciandoci solo l’incombenza di determinarne l’imposta (da terra, dalla finestra sottostante, ecc.) e l’altezza. Se poi le aperture sono strombate o di forma varia (fig. 18), il fatto di averle ben rilevate in pianta ci aiuta moltissimo a determinarne l’immagine residua che si avrà sul piano di proiezione corrente. Altra grande utilità di tale operazione è quella che ci permette (se necessario) di costruire i disegni di prospetti e sezioni di notevoli dimensioni “a pezzi”, cioè per singoli elementi comodamente gestibili che possono essere assemblati e montati insieme a posteriori con l’ausilio della pianta, ma di questo parleremo meglio nella parte pratica. Questa breve carrellata nel campo delle proiezioni ortogonali e della geometria descrittiva dovrebbe aver fornito gli elementi essenziali che sono indispensabili per cominciare a svolgere un lavoro di rilievo. Eventuali approfondimenti potranno essere condotti su testi specifici di geometria analitica e descrittiva anche se è consigliabile procedere con la pratica e verificare se i concetti appena esposti “tornano”.
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Fig. 17. Costruzione dei prospetti a partire dalla pianta. Avendo già compiuto il rilievo della pianta è sufficiente proiettare i punti notevoli per avere gli elementi base (spigoli estremi, mazzette delle aperture) per la realizzazione degli alzati. Per comodità è preferibile eseguire tale operazione su dei fogli di carta lucida sovrapposti a quello della pianta, la quale sarà orientata, di volta in volta, in modo da avere la linea di imposta a terra orizzontale (ad esempio nel caso del prospetto del lato obliquo) ed il prospetto da costruire in posizione “eretta” rispetto al verso in cui stiamo guardando il disegno, per evitare di disegnare i prospetti “specchiati”. I prospetti C ed E di questa figura, ad esempio, sono appunto specchiati (l’ordine delle aperture è inverso, confrontare con quelli della figura precedente, riferita allo stesso edificio) e sono stati disegnati solo come riferimento “negativo”. La posizione della pianta per il prospetto B, invece, è corretta. Sulle piante sono evidenziate anche le tracce dei piani di proiezione. Fig. 18. Esempi di costruzione di prospetti dalle piante. Notare l’utilità di questa procedura nel caso di elementi architettonici particolari, come in b). Non potendo disporre della traccia della pianta, infatti sarebbe oltremodo oneroso e difficile riuscire a determinare lo scorcio della lesena e degli altri dettagli eventualmente posti sul tratto di parete curva.
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Fig. 19. Proiezioni ortogonali di una figura geometrica complessa. Le linee di costruzione che partono dalle varie viste e che coincidono con i punti omologhi non sono altro che le tracce dei piani passanti per tali punti, che determinano il “luogo” in cui si trovano i corrispettivi delle altre viste. Lo schizzo assonometrico renderà più chiaro questo concetto. Il piano XY è stato traslato in basso per permettere la vista, anche se parziale, della pianta. Notare il ribaltamento del piano YZ in posizione allineata con XZ: tale operazione coincide con la procedura adottata sulla vista piana (quadrante in basso a destra, con le linee a 45°, corrispondenti a 1/4 di cerchio) per avere una vista verticale “eretta” di tale prospetto. Senza questa operazione, per analogia con il piano XZ, avremmo avuto il prospetto YZ “sdraiato”, con la piramide in posizione orizzontale. Volendo, potreste approfondire il tema costruendo una pianta che sezioni la figura all’altezza della metà della piramide ed una sezione, parallela ai lati lunghi del parallelepipedo e passante per il centro.
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Una buona esercitazione, si può fare con i piccoli temi sulle proiezioni, in cui si ha una descrizione scritta di una figura geometrica complessa di cui bisogna costruirne le proiezioni secondo diverse viste. Un piccolo esempio da svolgere insieme (fig. 19). “Costruire le proiezioni ortogonali sui piani XY, XZ e YZ di una figura composta dai seguenti solidi geometrici: un cubo di cm. 3 di lato, poggiante al centro di un parallelepipedo di lati cm. 4x6x2 (lunghezza, larghezza, altezza) e sormontato da una piramide a base quadrata coincidente con la faccia superiore del cubo alta cm. 2. La figura avrà i lati lunghi della base del parallelepipedo inclinati di 30° rispetto all’asse X.” Le linee di costruzione che partono dalle varie viste e che coincidono con i punti omologhi non sono altro che le tracce dei piani passanti per tali punti, che determinano il “luogo” in cui si trovano i corrispettivi delle altre viste. Lo schizzo assonometrico (disegnato in scala 1:2, per ragioni di spazio) renderà più chiaro questo concetto. Il piano XY è stato traslato in basso per permettere la vista, anche se parziale, della pianta. Notare il ribaltamento del piano YZ in posizione allineata con XZ: tale operazione coincide con la procedura adottata sulla vista piana (quadrante in basso a destra, con le linee a 45°, corrispondenti a 1/4 di cerchio) per avere una vista verticale “eretta” di tale prospetto. Senza questa operazione, per analogia con il piano XZ, avremmo avuto il prospetto YZ “sdraiato” in posizione orizzontale. A questo punto potreste pensare di approfondire il tema costruendo una pianta che sezioni la figura all’altezza della metà della piramide ed una sezione, parallela ai lati lunghi del parallelepipedo e passante per il centro.
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I rapporti di riduzione.
Questo capitolo illustra i concetti fondamentali della riduzione in scala che si opera per poter disegnare un oggetto. Infatti, salvo i casi di rilievi in scala 1:1 di oggetti relativamente piccoli , in tutti gli altri si operano delle riduzioni. Il rapporto di riduzione o, come si dice comunemente, la scala di un disegno rappresenta il rapporto proporzionale che esiste tra l’originale e la sua riproduzione. Dire, cioè, che un prospetto è stato disegnato in scala 1:50 significa dire che il disegno è 50 volte più piccolo dell’originale, in ogni sua parte ed a prescindere dall’unità di misura adottata. Ovvero, significa che un’unità misurata sul disegno corrisponde a 50 unità al reale, ovviamente usando sempre la stessa quando si procede alle misurazioni sul modello e sulla riproduzione. Il procedimento è molto più semplice di quanto non sembri dalla sua spiegazione. Quando si deve cominciare un lavoro di rilievo la prima cosa da fare è quella di misurare, sia pure con una certa approssimazione (meglio se per eccesso), l’oggetto da rilevare per stabilire con esattezza il formato della carta da usare. La carta deve essere sempre calcolata con abbondanza, sia perché è sempre utile avere un po' di “bianco” intorno al disegno per poter tracciare schizzi, appunti, ecc., sia perchè ci possono sempre essere sorprese in corso d’opera quali aumenti dell’area da rilevare, aggiunte di particolari, errori nell’orientamento dell’oggetto ecc.. Rappresentazione in scala, errori ammissibili. La riduzione in scala di un oggetto può essere realizzata con una serie infinita di metodi, dal calcolo a memoria all’uso del righello graduato (“scalimetro”), alla calcolatrice tascabile. Quello che sconsiglio vivamente a tutti è senz’altro l’uso dello scalimetro, sia per gli errori di stima che può indurre alle scale a denominatore più piccolo (per l’aumento della distanza tra gli indici), sia perché, soprattutto, disabitua al ragionamento logico che sta alla base del calcolo della riduzione (conosco più di una persona talmente abituata ad usarlo che, se sprovvista, non è assolutamente in grado di lavorare con altri strumenti). Al contrario, chi si abitua ad usare i normali strumenti di misura per il disegno (squadrette, righelli ecc.) può operare, all’occorrenza, anche con mezzi molto più semplici quali metri a stecca o simili. Quello che consiglio vivamente è il calcolo a memoria della riduzione del disegno e l’uso dei normali strumenti di misura, con un procedimento semplicissimo: una volta misurato al reale con il metro l’elemento da disegnare, tracciare sulla carta la linea corrispondente cercando di leggere sulla squadretta direttamente la misura in scala (fig. 20) . Ad esempio, se stiamo disegnando in scala 1:50 ed abbiamo misurato un muro lungo, al reale, m. 1.25, sapendo che in questa scala 1 centimetro equivale a 50 centimetri (ovvero a mezzo metro) e che 1 millimetro corrisponde a 50 millimetri (cioè a 5 centimetri), leggiamo direttamente sulla riga graduata prima
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i metri interi (nel nostro caso 1, cioè due centimetri) e poi le frazioni (nel nostro caso 25 centimetri, cioè 5 millimetri). Un altro procedimento mentale abbastanza rapido è quello di concepire prima la riduzione in scala 1:100 (che, insieme a quella 1:10, è senz’altro la più intuitiva e veloce) e poi di raddoppiare algebricamente la misura ridotta per avere quella in scala 1:50 (ovviamente un disegno in scala 1:50 è grande il doppio di uno in scala 1:100). Tornando al nostro esempio della misura reale di m. 1.25, tracciare (o solo pensare) una linea di cm. 1.25 e poi raddoppiare direttamente quest’ultima misura per avere il segmento in scala 1:50 lungo cm. 2.50. Un ultimo esempio con l’ausilio della calcolatrice tascabile (strumento che, per l’ingombro ormai ridottissimo, il basso costo e l’utilità indubbia per qualsiasi evenienza, sarebbe bene avere sempre con sé). Una volta misurato l’elemento in centimetri (conviene sempre adottare la stessa unità di misura del disegno per evitare errori macroscopici di trascrizione), impostare il valore corrispondente sulla calcolatrice (il m. 1.25 di cui sopra sarà digitato “125”) e dividere per il fattore di riduzione (nel nostro caso 50, che potrebbe essere impostato in memoria per evitare di digitare ogni volta troppe cifre) per avere sul display il valore reale del disegno (2.50) e disegnarlo all’istante. Ho fatto degli esempi per la scala 1:50 perché è quella più usata per i rilievi di edifici o resti di questi. Le altre scale più ricorrenti sono 1:20, 1:10 ed 1:5. La prima è un po' più macchinosa, la seconda è immediata come quella 1:100 e la terza è direttamente assimilabile a quella 1:50, moltiplicandone per dieci i valori. Insomma, fate come vi trovate meglio, magari provando vari metodi se non ne avete uno già collaudato (sicuramente ne troverete di migliori) e scegliendo sempre quello che vi farà sbagliare meno e che sarà più veloce, privilegiando quelli a “basso contenuto tecnologico” (con la strumentazione più semplice possibile) ed usando innanzitutto il cervello, perché quando si sta in cantiere, spesso o quasi sempre in condizioni disagiate, al caldo o al freddo, ecc., meno cose si usano e meglio viene il lavoro, meno si rischia di perdere qualcosa e più si è in grado di finire alla svelta e bene. Di questi problemi parleremo più diffusamente quando affronteremo il tema del cantiere e dell’attrezzatura, per ora vorrei soffermarmi sul problema dell’errore legato alla riduzione in scala. Su questo argomento torneremo spesso, sia perché l’errore umano (di lettura della misura, di calcolo, di restituzione grafica) è sempre in agguato, sia perché tale errore è una caratteristica intrinseca alla riproduzione degli oggetti, al punto di essere oggetto di una teoria che lo affronta scientificamente. L’errore di lettura, salvo i casi più grossolani, è legato innanzitutto al tipo di strumento usato per misurare (dal triplometro al teodolite elettronico, in ordine decrescente) ed alla precisione dell’operatore. A prescindere dalle caratteristiche tipologiche dello strumento, l’esatta o meno taratura di questo può produrre differenze anche notevoli, specie se se ne usano diversi. L’ideale sarebbe di poter usare sempre lo stesso, in modo che l’errore sia costante ed apprezzabile con esattezza una volta individuato (il disegno sarebbe tutto teoricamente - ugualmente proporzionato con la stessa difformità rispetto al rapporto nominale di riduzione), anche se questo è praticamente impossibile (pensate a dover misurare con la stessa fettuccia una pianta e l’altezza di un prospetto alto tre metri!). Diciamo che, preferibilmente, si dovrebbe cercare di usare meno attrezzi possibile, eventualmente verificandoli reciprocamente prima di iniziare. 30
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Fig. 20. Trasposizione diretta delle misure in scala. In a) la squadretta è “letta” come si farebbe su uno scalimetro: considerando ogni centimetro come fosse mezzo metro ed ogni millimetro come 5 centimetri. In b) la seconda procedura proposta: si traccia la linea nella scala di 1:100 (cm. 1.25) e si raddoppia la lunghezza del segmento disegnato.
Fig. 21. Tabella comparativa degli spessori dei pennini. I tratti di pennino riportati sono quelli più in uso nel disegno tecnico. Nella tabella a lato sono raffigurati gli spessori reali cui tali segni farebbero riferimento secondo un rapporto di riduzione puramente numerico. Se, ad esempio, consideriamo lo spessore di un pennino 0.6 nella scala 1:50, avremmo: mm.0.6x50=mm.30, ovvero la nostra riga sul foglio di carta corrisponderebbe ad una striscia larga mm. 30 (3 centimetri) al reale. Per la scala 1:100 si omette la rappresentazione perché eccessiva per la grandezza di questa pagina (la nostra riga di 0.6 sarebbe larga 6 centimetri!). Le linee sulla tabella a lato, per esigenze tipografiche, non risultano effettivamente larghe quanto indicato nei rispettivi valori numerici. Pur conservando la proporzionalità tra i diversi tipi, fa fede solo il dato numerico.
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Talvolta, viste anche le condizioni spesso poco agevoli in cui si lavora, la stessa lunghezza misurata da persone diverse (o addirittura dalla stessa persona !) risulta diversa. Questo significa che si fanno stime diverse di lettura, specie di piccole unità, e che talune condizioni (tensione della fettuccia, accessibilità dell’oggetto - angoli interni, luoghi scomodi, ecc. -) non sono sempre replicabili. In questi casi sarà bene procedere a calcolare la media aritmetica delle letture prima di procedere alla riduzione. Ora, una volta calcolata con discreta esattezza una lunghezza al reale e la sua riduzione nella scala del disegno, un’altra possibilità di errore è data dalla resa grafica del disegno. Facciamo un po’ di conti. In un disegno in scala 1:50 1 centimetro al reale corrisponde a 0.5 millimetri sulla carta. Ognuno di noi ha determinate prestazioni visive, cioè è in grado di dare un certo apprezzamento alla lettura, per esempio, di una squadretta e quindi di stimare con una precisione relativa le lunghezze. Inoltre il tipo di segno che si sta usando (spessore e durezza della mina della matita, ecc.) dà una certa definizione ai segni che tracciamo. Se poi pensiamo di dover produrre degli elaborati finali a china con i normali pennini, il tratto dato da un pennino “normale” quale lo 0.2 equivale per il suo solo spessore, nella scala 1:50, ad una “striscia” larga 1 centimetro al reale (si pensi a quanto avviene in una pianta lucidata con uno 0.6!) (fig. 21). Le suddette considerazioni servono ad affermare che non esiste una precisione assoluta, ma solo una approssimazione più o meno grande alla misura reale a seconda dell’accuratezza del lavoro. Proviamo a tracciare alcune ipotesi di condizioni ideali ed ottimali in cui lavorare. Abbiamo già detto che gli strumenti di misura dovrebbero essere sempre gli stessi (compresi quelli per disegnare sulla carta) per avere lo stesso margine di errore proporzionale. Per quanto riguarda il segno questo dovrebbe essere tracciato con una punta sempre acuminata e con una mina più dura possibile (a seconda del supporto), al fine di avere un disegno pulito, in cui poter cogliere con chiarezza l’inizio e la fine di ogni linea. Anche la mano che disegna dovrebbe essere la stessa per uniformare l’approssimazione della stima e, cosa fondamentale, coincidere sia nella fase di restituzione che in quella di lucidatura a china. Il supporto, infine, dovrebbe essere indeformabile per evitare che il disegno, con il passare del tempo e le variazioni climatiche, muti le proprie dimensioni a scapito della perdita della proporzionalità tra le diverse parti. Il supporto indeformabile più comune è il film di poliestere nei diversi spessori, che sono inversamente proporzionali alla deformazione possibile. Di questi problemi, però, ci occuperemo meglio in seguito. Gli esempi numerici presi in considerazione in precedenza hanno dato un’idea dell’approssimazione dell’errore per la scala 1:50. Se proviamo a fare un raffronto tra i valori indicati e gli altri rapporti di riduzione più usati (1:100 e 1:200) avremmo il raddoppio o addirittura la quadruplicazione di quelli iniziali. La tolleranza dell’errore per le carte topografiche ed i rilievi in generale è anche oggetto di normativa da parte degli enti pubblici che ne fanno uso e generalmente è riportata nei capitolati di appalto di tali lavori.
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i rapporti di riduzione
Fig. 22. Scale grafiche. A lato potete vedere degli esempi di scale da 1:5 a 1:50, realizzate con lo stesso stile. A prescindere da quest’ultimo, notare che è stata sempre indicata la misura al reale relativa ad un centimetro, per far riconoscere facilmente il rapporto di riduzione della tavola, qualora non fosse ben visibile la relativa indicazione scritta (oppure nel caso di riduzioni, per riconoscere la scala del disegno originale). Le indicazioni sulla figura sono solo per voi, nel senso che in genere non si scrive, a fianco della scala grafica, il valore del rapporto di riduzione. Notare anche l’indicazione dell’orientamento che, solo sulle piante, di solito si pone vicino alla scala, ai margini del disegno.
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manuale di rilievo e documentazione grafica
Il Catasto Italiano adotta la seguente formula : T = 0.00025N + 0.05 D con N = denominatore della scala, D = distanza misurata sulla pianta. Scale grafiche. Oltre all’indicazione numerica scritta del rapporto di riduzione di un disegno (didascalia “rapp. 1:50 …”), è buona norma indicare sempre tale valore con l’ausilio di una scala grafica. A prescindere dalla sua veste, appunto, grafica, questa consta di un segmento misurato con delle partizioni che indicano le varie misure al reale corrispondenti al rapporto di riduzione. La scelta delle partizioni varia a seconda del rapporto di riduzione, ma in genere si usa indicare sempre il metro, la sua metà ed alcuni suoi multipli, anche a seconda delle dimensioni del disegno. Nelle piante si usa affiancare alla scala grafica anche un simbolo indicante l’orientamento del disegno rispetto al nord (fig. 22) . L’utilità fondamentale della scala grafica sta nel fatto che, se il disegno subisce delle riduzioni (oppure ingrandimenti) in fase di pubblicazione, riproduzione, ecc., anche la scala è parimenti ridotta, consentendo lo stesso la lettura delle dimensioni originarie dell’oggetto avendo come riferimento le misure al reale. Per evitare di dover fare collages tipografici in fase di stampa è bene che la scala grafica si trovi a ridosso del disegno originale. Concludendo, un breve cenno alle scale di riduzione di disegni già esistenti. Talvolta può capitare di dover integrare dei disegni fatti da altri, oppure di dover lavorare su basi già disegnate, come i posizionamenti sui catastali, ecc. di cui si possiede solo una copia ridotta o deformata secondo una scala inconsueta di cui non si conosce l’esatto rapporto di riduzione (capita spesso con le fotocopie o con eliografie) ed in cui non esiste scala grafica. In tal caso, qualora sul disegno non ci sia alcuna indicazione di misura tra due o più punti (ad esempio, un progetto architettonico quotato) non resta altro da fare che recarsi sul posto e misurare una serie di lunghezze tra alcuni punti notevoli (ben identificabili sul disegno), sia al reale che sulla carta. Il rapporto tra queste lunghezze (prese nella stessa unità di misura) ci darà la scala esatta del disegno ridotto. A questo punto non ci resta altro che correggere con una nuova riduzione “meccanica” (con gli scanner di grande formato che producono copie scalandone le dimensioni), o in ambiente CAD con una scansione digitalizzata e ridimensionata, il nostro disegno di base, oppure disegnare anche noi utilizzando la stessa scala sul supporto originale e procedere all’operazione di riduzione (o ingrandimento) in un secondo momento, se si pone l’esigenza di avere un elaborato in scala “canonica” (1:50, 1:100, ecc.). Caratterizzazione e problematiche di stampa. Quanto detto finora riguarda, in gran parte, la restituzione effettuata a mano nel rilievo diretto e, più in generale, la restituzione grafica degli elaborati finali. Anticipando qualche parola sul paragrafo dedicato alla caratterizzazione, possiamo sicuramente affermare che quest’ultima deve essere attentamente valutata in funzione della scala in cui verranno rese le strutture da rilevare. Particolari minuti e/o tessiture murarie dense di elementi non potranno essere sempre rappresentate con tutte le linee che contengono perché, altrimenti, non avrebbe senso la rappresentazione di un oggetto a scale diverse. Nella dicitura “scala in cui verranno rese” va compresa, oltre alla realizzazione delle tavole definitive, anche la possibilità che il nostro lavoro venga pubblicato. In tal caso la riduzione dello stesso è quasi sempre necessaria 34
i rapporti di riduzione
e, pertanto, la densità dei disegni e lo spessore delle linee possono fare dei brutti scherzi nelle bozze di stampa. Altro discorso, invece, vale per quanto attiene al rilievo strumentale ed alla restituzione su CAD. I punti di dettaglio del disegno (e, dunque, la lunghezza delle linee che li uniscono) sono delle semplici coordinate immateriali e le misure lette sullo schermo non risentono minimamente della riduzione in scala (cioè, nell’ambito del CAD il disegno è in scala 1:1 e si riduce solo in fase di stampa, ma di tutto questo si parlerà più avanti). Ciò non significa, ovviamente, che tali lavori siano esenti da errori ma, semplicemente, che questi ultimi riguardano solo la fase della misurazione (relativamente al grado di precisione degli strumenti, le condizioni ambientali e l’accuratezza dell’operatore) e non quella della restituzione. Nel caso degli elaborati CAD, infatti, il vero originale di un disegno non è più quello su supporto trasparente (carta lucida o poliestere) ma il file generato dal programma usato. Ovviamente anche in questi ambiti vale quanto detto sullo spessore delle linee, la densità dei disegni ecc. per quanto attiene alla scala di restituzione ma, diversamente dal disegno a mano, tali elementi possono facilmente essere verificati e modificati con pochi tocchi di mouse. Se i lavori sono da pubblicare, infine, si possono tranquillamente realizzare due serie di elaborati con pochissimo lavoro in più: una per la stampa di tavole tradizionali di grande formato ed una (curando gli spessori e la visualizzazione degli elementi più minuti) direttamente ridotta per la pubblicazione, direttamente sotto forma di file grafici.
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Il rilievo diretto.
Breve parentesi. Finora abbiamo affrontato alcuni temi teorici essenziali (probabilmente già noti a molti lettori, ma un po’ di ripasso me lo sono concesso!), aggirando i massimi sistemi e guardando sempre al lato pratico delle questioni. Da qui in poi arriva la “polpa” del manuale, ovvero i temi più concreti per svolgere l’attività di rilievo e documentazione grafica. Per quanto attiene al primo sull’indice avrete già verificato la principale distinzione tra rilievo diretto e rilievo strumentale (indiretto), comunemente indicati nella maggioranza dei testi. In realtà, secondo me, la terminologia più appropriata (e quella che maggiormente riflette la realtà di questo ambito di lavoro) sarebbe tra rilievo “storico” e rilievo moderno. Le differenze fondamentali tra i due stanno nella metodologia e (in stretta connessione) negli strumenti di lavoro. Mentre il primo è rimasto sostanzialmente invariato nel corso degli anni (senza, per questo, aver perso la sua validità negli ambiti in cui è necessario), praticamente con la stessa strumentazione, semplice ed economica, il secondo è in continua evoluzione. Sia per quanto riguarda gli strumenti che per le tecniche di rilevamento, il rilievo strumentale si sta aggiornando in maniera quasi repentina, legato com’è al progresso della strumentazione elettronica (teodoliti, distanziometri laser, GPS, computer, ecc.) e del supporto software che ne è parte integrante. Qualcuno si chiederà se ha ancora senso usare il metro a stecca o parlare di triangolazione mentre si trovano distanziometri laser a prezzi ormai raggiungibili da (quasi) tutti. Secondo chi scrive un senso esiste, e le pagine che seguono cercheranno di dimostrarlo. Tecniche di rilevamento. Il rilievo diretto è sicuramente il più usato ed il più semplice da eseguire, e spesso costituisce un’integrazione indispensabile a quello indiretto. La differenza fondamentale tra i due sta nel modo di effettuare le misurazioni. Nel primo esse vengono fatte con vari tipi di strumenti (metro a stecca, fettuccia metallica o in fibra, canna metrica, ecc.) direttamente sull’oggetto il quale, necessariamente, dovrà essere più o meno accessibile. Nel secondo le misurazioni vengono fatte con l’ausilio di strumenti ottici (livello, tacheometro, teodolite, distanziomentro, ecc.) muniti di cannocchiale e mirino che, con una serie di tecniche di elaborazione dei dati delle letture, ci permettono di conoscere le dimensioni di oggetti non accessibili o posti ad una certa distanza. Altro metodo di rilevamento indiretto è la fotogrammetria, che permette di misurare le distanze analizzando con diversi metodi delle coppie di fotografie di un dato oggetto, ripreso da posizioni diverse. Spesso il rilievo indiretto è compendiato da quello diretto, per curare i dettagli e la caratterizzazione. Espressa con poche parole, l’operazione di rilievo diretto si riduce alla fase di misurazione dei vari elementi componenti un certo oggetto ed a quella di restituzione sulla carta, secondo un dato rapporto di riduzione, dei suddetti elementi secondo le stesse caratteristiche ed i reciproci rapporti che hanno nello spazio.
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Ricordando brevemente quanto esposto nel capitolo precedente, l’operazione di rilevamento consiste nel proiettare i punti di un oggetto su un piano, orizzontale o verticale, misurandone le dimensioni reali e disegnandole in scala ridotta. Partiamo dal rilievo della pianta, cioè dalla proiezione su un piano orizzontale. Ovviamente la riproduzione dell’immagine dell’oggetto dovrà essere proporzionale all’originale in tutte le sue parti, quindi è essenziale determinare i rapporti spaziali che legano i punti tra loro. Dati cioè due punti qualsiasi di cui si misura la distanza e la si riproduce sul disegno in scala (operazione elementare in cui basta tracciare un segmento, alle cui estremità si trovano i due punti), per collocare un terzo punto sul disegno occorre fare in modo che mantenga le stessa distanze che ha, nella realtà, dai precedenti. Nel rilievo diretto si procede secondo due metodi fondamentali: la triangolazione e la coltellazione. La prima consiste nel misurare la distanza tra i due punti (che chiameremo base) e riportarla sul disegno. Misurate le distanze tra i punti della base ed il terzo, tracciare due archi di cerchio a partire dai primi due, alla cui intersezione si troverà il punto da posizionare: se, infatti, il raggio di una circonferenza è costante, il punto che si trova all’intersezione delle circonferenze sta da ogni centro (cioè da ognuno dei punti della nostra base) ad una distanza pari a quella misurata. Praticamente si procede in questo modo (fig. 23). Prese le varie misure e tracciata la base, si apre il compasso di una misura pari alla prima distanza (facendone coincidere le punte con le tacche di un righello), lo si colloca sul punto a cui corrisponde la distanza da tracciare e si disegna l’arco; si apre poi rispetto alla seconda misura, si colloca sul secondo punto e così via. La prima raccomandazione è quella di non fare confusione tra i punti e le rispettive distanze, altrimenti si avrebbe un’immagine rovesciata (speculare) del terzo punto. Per prevenire questo errore, comunissimo per chi è alle prime armi, è bene assegnare ai vari punti dei numeri o delle lettere di identificazione, trascrivendo quindi le distanze con tali indicazioni (ad esempio, chiamando i punti A e B, la distanza sarà AB, ecc.). L’immagine rovesciata corrisponderebbe a quella che si avrebbe invertendo il senso di proiezione, ovvero posizionando il piano di proiezione nella posizione opposta rispetto ai punti. Attenzione anche al verso in cui si tracciano gli archi: se infatti tracciate le circonferenze intere, vedrete che si incontrano in due punti opposti rispetto alla base, entrambi posti sulla stessa perpendicolare a quest’ultima. Anche l’orientamento delle distanze, quindi, è importante per avere l’intersezione collocata dalla parte giusta della base. I punti successivi possono essere presi (leggi misurati) teoricamente da qualsiasi altro elemento già disegnato, ma anche su questo è bene fare qualche considerazione. Quanto già esposto rispetto alla possibilità di compiere errori ci consiglia di procedere con cautela nella scelta dei punti, visto che la nostra opera di restituzione non è perfetta ma ha solo un certo margine di precisione. Aggiungere una distanza con un certo margine di errore ad un’altra imperfetta significa diminuire la precisione complessiva, quindi sarebbe auspicabile riuscire a prendere le varie distanze sempre dalla stessa base o, se questo non è possibile, verificare un punto anche rispetto ad un terzo (in tal modo si 38
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avrebbero i due punti della base come elementi di costruzione ed il terzo come verifica), in modo da avere una serie di caposaldi cui fare riferimento. A parte questa regola fondamentale, è bene procedere secondo il seguente ordine di preferenza: * scegliere sempre una distanza breve rispetto ad una più lunga; * preferire sempre dei punti identificabili con chiarezza (ad esempio: spigoli di muri o di blocchi squadrati, angoli ben accessibili, dettagli architettonici ben conservati, ecc.) ad altri poco definiti (fig. 24); * fare in modo che il punto da collocare si trovi al vertice di un triangolo equilatero o preferire un angolo (formato dalle due distanze) acuto piuttosto che ottuso; * in generale, scegliere sempre dei punti agevoli da misurare rispetto a quelli, magari più significativi, posti in modo meno accessibile, in cui aumenta la possibilità di sbagliare la lettura della distanza. La triangolazione (che prende il nome dal fatto di prendere in considerazione dei triangoli ideali, ai cui vertici si trovano i tre punti di cui due noti) è il metodo più preciso ed affidabile, anche se richiede del tempo per impostare il compasso, tracciare, segnare il punto (e cancellare successivamente gli archi). Una variante, che perde un po' in precisione ma che fa risparmiare un po' di tempo, è quella in cui, tracciato il primo arco di compasso, si fissa la seconda distanza direttamente con la squadretta, impostando lo zero di questa sul secondo punto e “staccando” il segmento in corrispondenza della misura esatta sull’arco (fig. 25). La coltellazione (termine derivato dalle fonti romane relative alle tecniche di rilevazione agrimensoria) procede invece per misurazioni ortogonali. Partendo sempre dalla base misurata e disegnata, la posizione del terzo punto è determinata dalla distanza di questo, misurata ortogonalmente rispetto alla base e dalla distanza, sulla base, dell’intersezione da una delle estremità (fig. 26). Anche in questo caso è importante procedere con ordine, perché i punti da misurare potrebbero trovarsi sia a destra che a sinistra della base e la distanza delle intersezioni misurate su quest’ultima potrebbe essere confusa tra un estremo e l’altro (detto così sembra complicato, la figura dovrebbe essere più chiara). Questo metodo è molto meno preciso, anche se più rapido, per la difficoltà a compiere delle misurazioni al reale (sulla carta, con l’uso di due squadrette, l’errore di ortogonalità è molto più contenuto) veramente ortogonali alla base che, oltretutto, deve essere un’entità concreta (un elemento lineare, una fettuccia ben tirata, un muro, ecc.) mentre nella triangolazione è sufficiente misurare la distanza tra gli estremi e procedere poi direttamente da questi ultimi. Diciamo che rimane una tecnica accettabile per le piccole misure, cioè nei casi in cui la base non è molto lunga ed il terzo punto poco distante (massimo 1.5 o 2 metri) dalla stessa. Per le distanze maggiori è assolutamente sconsigliabile a meno che non si abbia a disposizione uno squadro agrimensorio per determinare l’ortogonalità degli allineamenti ma a questo punto si perde un sacco di tempo e, quindi, viene meno la caratteristica fondamentale del metodo. In entrambi i metodi è assolutamente necessario ridurre all’orizzontale le distanze misurate al reale, poiché il piano su cui proiettiamo i nostri punti si trova in questa posizione. Questo significa, per quanto abbiamo detto nel primo capitolo, che i punti saranno rappresentati sulla carta senza tenere conto della loro altezza relativa e che, soprattutto, le misure non possono essere prese con lo 39
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strumento (metro, fettuccia) disposto obliquamente. Si procede nel modo seguente. Se i punti da misurare si trovano alla stessa altezza (oppure se la loro natura permette di prendere comunque la misura orizzontalmente, ad esempio due spigoli di muro sufficientemente alti, ecc.) sarà sufficiente aver cura di disporre lo strumento di misura ben teso ed in posizione orizzontale, magari con l’ausilio di una livella (detta “da muratore”). Se i punti si trovano ad altezze diverse sarà necessario misurarli con l’ausilio di un filo a piombo e lo strumento di misura teso ed in piano (fig. 27). Il filo a piombo perfettamente verticale (privo di oscillazione e ben piazzato) posto sopra o sotto il punto da misurare proietta sul piano orizzontale ideale la posizione del punto e riduce la misura della distanza al suo minor valore (se la fettuccia fosse inclinata darebbe dei valori maggiori, direttamente proporzionali all’inclinazione). Piccole varianti all’uso del filo a piombo possono essere la livella, facendone coincidere un spigolo con il punto da misurare e tenendola verticale con l’ausilio della apposita bolla, oppure un elemento rettilineo (di legno o di metallo) con cui prolungare l’elemento da misurare se questo appartiene, per esempio, ad uno spigolo di cui si è accertata la verticalità. Per comodità e per velocizzare le operazioni di rilievo, se si sta rilevando un edificio od un rudere architettonico, è meglio segnare prima sugli spigoli da misurare l’indicazione dell’orizzontale (oppure di più piani orizzontali) operando con una fettuccia elastica ben tirata e verificata con una livella (meglio sarebbe poter disporre di un livello ottico, con cui fare una battuta di punti, oppure di una livella laser) e poi procedere con gli strumenti di misura direttamente dai segni tracciati. In questo modo si è più sicuri di operare con un piano veramente orizzontale e, soprattutto, si scindono le operazioni di verifica alla livella e di lettura della fettuccia, con grande beneficio per entrambe sia per la precisione che per la velocità di esecuzione (fig. 28). Nel caso di una struttura insistente su un terreno provvisto di dislivelli, con i piani di imposta delle murature ad altezze diverse, oppure disposta su più piani, ecc., il fatto di tracciare più orizzontali (a quote diverse) di riferimento, necessario a poter fisicamente prendere le misure e/o cogliere con il disegno gli elementi notevoli della struttura, corrisponde all’operazione teorica di annullare la coordinata z e di portare tutti gli elementi su uno stesso piano ideale (un po' come si fa per le sezioni a baionetta). Per correttezza sarà bene indicare sul disegno i punti in cui è avvenuto il salto di quota con una linea tratto-punto che delimiti le varie aree rilevate a quote diverse.
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Fig. 23. Triangolazione di punti. Misurata e disegnata la base AB, la posizione di C è individuata dai due archi di circonferenza. Attenzione al verso con cui si disegnano gli archi: la posizione di C’ (in basso a sinistra) è speculare rispetto a quella di C. Per posizionare D è meglio riprendere le misure dalla base iniziale ed eventualmente verificare da C. In questo caso l’errore commesso posizionando D in D’ (in basso a destra), avendo già C, appare immediatamente evidente.
Fig. 24. Esempi di punti da utilizzare per le misure. E’ bene preferire sempre gli spigoli ben conservati a quelli rotti o smussati, oppure degli elementi dalla geometria ben definita.
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Fig. 25. Metodo rapido di restituzione dei punti con la triangolazione. L’arco con centro in B è stato tracciato con il compasso, il segmento AC è stato misurato direttamente con la squadretta, facendone coincidere lo zero con il punto A.
Fig. 26. Coltellazione. In a) la posizione di C, D, E è determinata dalle perpendicolari all’allineamento AB passanti ad una certa distanza dal vertice iniziale. In questa tecnica occorre prestare attenzione ai seguenti aspetti: le distanze tra il vertice A e le intersezioni con i vari segmenti ortogonali devono essere prese in modo progressivo e non parziale; i punti vanno disegnati nel verso giusto rispetto all’allineamento di base. In b) sono rappresentati i punti C’ e D’, di verso errato, e le misure prese in modo parziale.
Fig. 27. Metodi per la corretta misurazione delle distanze orizzontali. Nel caso di strutture dotate di murature a vista, se queste sono abbastanza regolari si possono usare come riferimento orizzontale anche i filari di mattoni o dei blocchi. Oltre che nei casi rappresentati, il filo a piombo si usa anche per i punti posti più in alto di quello da cui si prende la misura.
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Fig. 28. Salti di quota nelle piante. Nel caso di una struttura come questa, non è possibile impostare un unico piano di sezione orizzontale che colga tutte le murature, nè è possibile prendere fisicamente le misure in luoghi inaccessibili (troppo bassi o troppo alti). Sono stati quindi impostati tre piani orizzontali misurandone i rispettivi dislivelli, riportati sia in pianta che in sezione. Osservando quest’ultima si può facilmente notare come, in effetti, i piani di sezione 2 e 3 taglierebbero anche la collinetta al centro, mentre il piano 1 vedrebbe (solo) proiettate le murature sulla destra sezionate dal piano 3. Una pianta come questa (che taglia tutta la struttura) non sarebbe dunque geometricamente corretta se si omettesse di indicare le aree realizzate con piani posti a quote diverse, qui delimitate dalle linee a tratto-punto.
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Principali procedure. La triangolazione e la coltellazione sono alla base del rilevamento diretto, ma non sono gli unici metodi cui fare riferimento nello svolgimento del lavoro. A prescindere dal tipo di rappresentazione (proiezione in pianta o in prospetto) si può operare secondo due fondamentali e diverse procedure: produrre uno schizzo quotato con tutti gli elementi utili a definirlo successivamente in pulito in altra sede oppure procedere contestualmente, sul posto, con la misurazione ed il disegno definitivo. Prima di descriverle nel dettaglio, esaminiamole criticamente. La prima procedura ha senz’altro il pregio di ridurre drasticamente i tempi di cantiere e, per certi versi, offre la possibilità di disegnare la restituzione in modo più preciso, comodo e veloce. Il fatto di limitarsi a tracciare uno schizzo su cui apporre le quote misurate, specie in caso di cattive condizioni atmosferiche, luoghi disagevoli, ecc., produce sicuramente un abbattimento dei costi generali (anche “umani”) e dei tempi complessivi di produzione ma impone una grande cura e precisione sia nella redazione della base disegnata che, soprattutto, nella misurazione degli elementi, in quanto non consente un riscontro diretto tra le varie misurazioni e non dà la possibilità di verificare eventuali errori o dimenticanze nelle misure prese. E’ comunque vero che raramente si riesce a portare a termine un rilievo con un solo giorno di cantiere e che, dunque, questo metodo può procedere per successive approssimazioni in cui si traccia (e si restituisce) dapprima la struttura fondamentale e via via i vari dettagli e caratterizzazioni. La seconda procedura richiede senz’altro dei tempi complessivi più lunghi e, talvolta, impone dei grandi disagi a chi dovrà disegnare in posizioni e condizioni climatiche non certo indicate per un’opera così “di fino”. L’aspetto positivo più notevole sta nell’opportunità di riscontro immediato delle misure prese, con la possibilità di correggere gli errori ed integrare le omissioni procedendo in modo ordinato, oltre al contatto sicuramente più diretto con il manufatto che produce una maggior sensibilità verso gli aspetti “paralleli” del rilevamento (individuazione di fasi costruttive, differenze di materiali, ecc.). Sicuramente è più indicato per chi ha meno esperienza, purché si abbia cura di trascrivere sulla carta i valori delle misure in modo da poterle, nel caso di errori, confrontare tra loro o di tracciare di nuovo, senza dover ripetere le misurazioni. Sempre per chi è alle prime armi, questo metodo può essere utile anche per programmare con una certa attendibilità i tempi di produzione, nella misura in cui è facilmente stimabile il progredire della restituzione giorno per giorno. Ovviamente è possibile anche integrare le due procedure e, talvolta, è proprio da tale unione che scaturisce un lavoro ottimale di documentazione. L’ideale sarebbe proprio nel mezzo, procedendo speditamente nella fase di abbozzo generale del rilievo con la prima procedura e curare successivamente tutti i dettagli sul posto, specialmente durante la fase di caratterizzazione degli elementi proiettati. Passiamo ora ad una descrizione più precisa. Abbiamo detto che lo schizzo quotato necessita di una discreta esperienza nel rilevare a vista e senza misurazioni preventive, tutto lo sviluppo dell’oggetto sulla carta. Ciò implica la necessità di tracciare uno schizzo fuori scala (ovvero disegnato senza badare a rappresentare con esattezza i rapporti proporzionali) comprendente tutti gli elementi che compariranno sulla pianta su cui apporre le quote che verranno misurate (fig. 29). Dovendo scrivere queste ultime sul disegno, spesso in gran numero, sarà utile avere una penna di colore diverso da quella con cui si sono tracciate le strutture per dare il giusto risalto ad entrambe. Il disegno dovrebbe essere di 44
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Fig. 29. Esempio di schizzo quotato. La stampa di questo testo non permette di cogliere la differenza tra un lavoro eseguito con penne di diversi colori ed uno “monocromatico”. Nel primo caso, anche se c’è sovrapposizione di segni, la leggibilità risulta molto maggiore. Notare anche la realizzazione di dettagli a parte per meglio rendere delle situazioni più minute ed apporvi le relative quote. Le diagonali contrassegnate con l’asterisco sono state prese attraverso i vari ambienti per “legare” il più possibile la geometria alquanto irregolare dell’alloggio. Le dimensioni dello schizzo sono state adeguate al formato di questa pagina, nella realtà avrebbe dovuto essere più grande. La restituzione grafica di questo schizzo si trova nella fig. 39.
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dimensioni abbastanza grandi per contenere tutte le informazioni che saranno trascritte e per dare risalto ai dettagli (mazzette, cornici, lesene, proiezioni, ecc.); l’ideale sarebbe un disegno grande, almeno, come un elaborato in scala 1:50. Se la struttura fosse complessa e/o dotata di numerosi ambienti si può frazionare la pianta in una serie di disegni convenientemente grandi, avendo cura di annotare con chiarezza i punti di unione tra un elemento e l’altro con dei riferimenti riportati su entrambi i fogli (eventualmente tracciando anche un abaco di insieme). La regola fondamentale è di non lesinare con le informazioni e con le note perché., quando ci si trova a casa o in studio a disegnare, tante cose non si ricordano più e gli unici dati per procedere ci sono forniti dal lavoro che abbiamo fatto in cantiere. Se ci fossero elementi più minuti rispetto al resto della struttura si possono fare dei tasselli a scala maggiore per definirli meglio ed avere più spazio per le note. Per tracciare uno schizzo ordinato e fedele è possibile aiutarsi con piccoli espedienti per cercare di proporzionare i vari elementi tra loro. Usare un block notes o un quaderno a quadretti aiuta a disegnare le linee ortogonali e, se per esempio sulla struttura sono presenti elementi modulari o seriali (pavimentazioni a piastrelle, decorazioni ad intervalli regolari, elementi architettonici quali lesene, colonne, ecc.), a scandire lo spazio in unità di misura finite. Talvolta si ha la fortuna di poter disporre di un disegno originale in scala della struttura (catastale, progetto di massima, vecchi rilievi da verificare, ecc.); in questo caso non rimane altro che usarlo come base, eventualmente ingrandito, verificando che tutti gli elementi da rilevare siano riportati sulla carta. Quando è pronta la base si tratta semplicemente di prendere tutte le misure e trascriverle con esattezza. Anche per le misure occorre procedere con un certo metodo ripetendo, magari nello stesso ordine, ambiente per ambiente le stesse operazioni per ridurre la possibilità di dimenticarsi qualcosa (ad esempio, misurare insieme tutti i lati, le diagonali, le misure parziali delle aperture, ecc., nella sequenza che vi pare migliore). Alla fine di ogni ambiente ricontrollate tutto prima di passare al successivo e, prima di andare via, ripetete l’operazione: mancherà sempre qualcosa! L’ideale sarebbe procedere alla restituzione al più presto, per mantenere il ricordo del luogo e di quello che si è appena fatto. Se questo non è possibile, abbiate almeno cura di cominciare a disegnare prima di tornare sul posto per le operazioni successive, in modo da poter integrare la documentazione eventualmente mancante e non trovarvi a doverlo fare a posteriori, quando si pensa di aver chiuso il cantiere. Le quote parziali (fig. 30) devono essere sempre prese in progressione a partire, su ogni lato, dal medesimo punto. In tal modo, se si commettono degli errori di lettura o di trascrizione, questi saranno limitati al solo elemento errato e non, come accadrebbe nel caso opposto, sommati ad eventuali altri. Se si misura una parete che contiene una porta, per esempio, anche se sarebbe sufficiente misurarne una sola mazzetta e l’ampiezza, sarà meglio concludere la misurazione fino alla fine della seconda mazzetta, anche per avere un riscontro con la misura totale. Se si ha un po' di tempo in cantiere, si può anche fare una veloce verifica delle quote usando la calcolatrice: ovviamente la somma delle quote parziali degli ambienti deve tornare con quelle generali e, nel caso di ambienti comunicanti, queste con quelle totali. 46
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Fig. 30. Quote parziali progressive ed assolute. In a) e b)sono rappresentati i due sistemi di quotatura. Quello inferiore (assoluto) può rivelarsi più veloce (tra l’altro può non richiedere una seconda persona a reggere la fettuccia) ma contiene un maggior margine di errore per il trascinamento che si produce tra i vari elementi. Le quote delle lesene in b), ad esempio, contengono due errori che, servendosi del sistema assoluto, produrrebbero uno slittamento del resto della parete. E’ comunque indispensabile una misura totale (complessiva) di controllo. Nel dettaglio in c) sono riportate le quote dei particolari che, una volta posizionati gli elementi principali (nicchia e lesena), possono essere espresse come distanze “locali”. Questi metodi valgono sia per le piante che per gli alzati. Fig. 31. Rilievo di elementi curvilinei. Nell’esempio a) la nicchia AB e la lesena CD sono state rilevate con delle coltellazioni locali (per la lesena è stato poggiato un elemento rigido e rettilineo parallelamente alla parete per determinarne la sporgenza). Nell’esempio b) gli stessi elementi sono stati misurati mediante triangolazione dagli estremi A e B e da due punti di appoggio X e Y esterni, posizionati da punti posti sulla parete (B e C, D ed E), da cui si è fatto base per il rilievo della lesena. Ovviamente occorre verificare anche le distanze delle basi AB e XY. Per la nicchia si può impostare un terzo punto intermedio Z, come nell’esempio seguente. Nell’esempio c), avendo già posizionato con altre misurazioni i punti 1, 2, 3, 4 e 5, 6, sono stati impostati altri punti di appoggio. Z giace sulla retta 5-6 ed è stato semplicemente posizionato sull’allineamento, ad una
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certa distanza misurata. K e J sono stati triangolati da altri punti noti e sono serviti come base per ulteriori misurazioni della parte convessa. Le misurazioni di entrambe le facce di una parete curvilinea sono indispensabili per verificarne la regolarità dello spessore che, non di rado, potrebbe risultare diverso. Il riscontro tra l’interno e l’esterno di una struttura “chiusa”, comunque, dovrebbe essere fatto mediante una poligonale. In b) e c) sono state distinte con linee tratteggiate le triangolazioni principali. Fig. 32. Posizionamento e verifica di elementi circolari chiusi. Avendo già posizionato i vertici 1, 2, 3, 4, i punti A, B, C, D servono a collocare con esattezza la colonna ed a verificarne il diametro. Il cerchio costruito per A, B, C (è sufficiente tracciare le tre corde e le relative mediane per trovare il centro, vedi dettaglio b)), se regolare, deve passare anche per D. In caso contrario, provare con altri tre vertici ed usare il quarto come verifica. Se l’elemento si presenta irregolare dovrà essere preso un numero maggiore di punti.
Fig. 33. Rilievo di spigoli ed angoli smussati. Gli esempi a) e c) si riferiscono a spigoli convessi, quelli b) e d) ad angoli concavi. Avendo già determinato gli allineamenti su cui giacciono i punti A, B, C, D, per costruire le sagome esatte occorre disegnare con esattezza i punti estremi. Nei casi a) e c) è sufficiente tendere la fettuccia oltre lo spigolo per segnare il punto in cui inizia la curvatura, per quelli b) e d) occorrono delle osservazioni più accurate. I punti esterni di appoggio X e Y sono ricavati, rispettivamente, per semplice prolungamento “fisico” degli allineamenti o per triangolazione. Da questi è possibile, a seconda della scala del disegno e dell’accuratezza richiesta, prendere misure per coltellazione o triangolazione.
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Quanto esposto finora ha un’applicazione immediata per quanto riguarda il rilievo di strutture ed ambienti caratterizzati da elementi (murari e non) rettilinei, per i quali è generalmente sufficiente misurarne i punti estremi per determinarne l’allineamento e la posizione (fig. 31). Nel caso di strutture caratterizzate da elementi curvilinei, è necessario prendere molti più punti per riuscire a disegnare la curvatura esatta (che, talvolta, non è costante, cioè è composta da diversi segmenti circolari). La tecnica che permette un più alto grado di precisione è, come al solito, la triangolazione che, peraltro, è l’unica utilizzabile con gli elementi convessi. Se nella struttura da rilevare sono presenti delle colonne oppure elementi in muratura circolari (fig. 32) occorre determinarne il diametro (e verificarne la regolarità) e la posizione. Anche in questo caso l’unico metodo valido è la triangolazione, mediante la quale prendere almeno quattro punti (qualora si stimi, a vista, la perfetta circolarità dell’elemento) sulla superficie dell’oggetto. Ricostruita, con l’ausilio della costruzione grafica della circonferenza passante per tre punti, la traccia che avrebbe in pianta la nostra colonna se fosse un cerchio perfetto, il quarto punto serve per verificarne, appunto, la regolarità. Se il divario fosse notevole occorrerà prendere altri punti a distanza regolare, in modo da poterli congiungere ed avere una sagoma approssimata dell’elemento. Lo stesso procedimento si applica anche agli elementi aventi pianta poligonale regolare, prendendo ovviamente i punti in corrispondenza degli spigoli, sempre nel numero minimo di quattro, e procedendo alla costruzione della figura geometrica canonica passante per tre punti (o della circonferenza ad essa circoscritta) ed alla sua verifica. Altre piccole complicazioni possono venire da intersezioni di murature formanti angoli smussati o arrotondati, specie se convessi (accade spesso per le mazzette di porte e finestre, piedritti di archi e volte, ecc.). Gli esempi in figura rappresentano alcuni casi tipici (fig. 33). Uno dei problemi fondamentali del rilievo delle strutture murarie chiuse (dotate di copertura), oppure delimitate da pareti di notevole altezza, è la determinazione degli spessori delle pareti prive di aperture o dell’ingombro di ambienti nei quali non è possibile accedere. Nel caso in cui fossero presenti varchi nelle murature gli spessori possono essere determinati come in figura 34. Se ci fossero degli ambienti in cui non si può accedere per le misurazioni, dobbiamo “girare intorno”, con il nostro rilievo, all’oggetto di cui dobbiamo disegnare la sagoma. Estendendo questo concetto al caso più generale di una struttura chiusa di cui dobbiamo rilevare sia l’interno che l’esterno, il problema che ci si pone è lo stesso: legare le due sagome secondo le reciproche relazioni spaziali, collocando ogni vertice al posto giusto senza avere la possibilità di procedere ad operazioni di verifica sugli spessori murari attraverso le aperture. Nel metodo del rilevamento diretto (nel rilievo strumentale il problema, visto l’alto grado di definizione che lo caratterizza, si pone con meno evidenza) occorre procedere con la massima precisione con le operazioni di triangolazione, determinando in primo luogo un reticolo di base (poligonale) da cui, successivamente, prendere tutti gli altri punti notevoli della struttura. La poligonale va costruita come una cosa a sé, nel senso dovrebbe essere misurata e disegnata prima di procedere a rilevare gli altri punti. Può essere aperta o chiusa (meglio quest’ultima, perché si può verificare) e, per la sua 49
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Fig. 34. Esempi di misurazione di spessori. Nei casi a) e b) la misura di S è data dalla semplice differenza aritmetica dei valori a e b, purché si abbia cura di misurare in senso ortogonale agli allineamenti principali (nel caso b) si può ricorrere all’asse delle aperture). Nel caso c) la costruzione di S è praticamente solo geometrica, pertanto si dovrà prestare particolare attenzione alla restituzione grafica del rilievo. Un aiuto può venire dal tracciamento, ove possibile, delle diagonali d e d’ (indicate, nel disegno, con linea tratteggiata) o di altri eventuali collegamenti di riscontro tra i due ambienti, anche non in corrispondenza degli angoli, come nell’esempio d), con l’allineamento AB, posizionato mediante le relative distanze parziali, e le relative diagonali “locali”.
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costruzione, si possono usare indifferentemente punti appartenenti alla struttura da rilevare oppure esterni ad essa, compresi eventuali picchetti da piantare appositamente a terra, alberi, pali, ecc.. All’occorrenza, le basi per le successive triangolazioni possono essere prese anche sugli allineamenti determinati dai vertici della poligonale. Nel tracciamento della poligonale occorre tenere presente la regola fondamentale secondo la quale minore è il numero dei vertici e minore è la possibilità di compiere errori (di misurazione, di calcolo e di restituzione grafica). Nel rilievo diretto tale regola (che impone spesso di scegliere i punti a notevole distanza tra loro) va però mediata con la necessità di fare misurazioni a distanza non troppo elevata, per ridurre il margine di errore indotto dall’uso della fettuccia da m. 50 o, peggio, dalla necessità di misurare diversi segmenti con quella da m. 20. Accade spesso, per “entrare” con la poligonale esterna dentro degli ambienti chiusi, di dover tracciare dei bracci a partire da un lato o da un vertice di questa, il cui orientamento deve essere determinato con la massima esattezza. Se vi è spazio a sufficienza, è meglio tracciare bracci ortogonali agli allineamenti della poligonale già tracciata. In questo caso torna utile la relazione espressa dal teorema di Pitagora, riguardo i rapporti esistenti tra i lati di un triangolo rettangolo (il quadrato costruito sull’ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati costruiti sui cateti), che ci permette di tracciare in cantiere, con buona precisione, rette ortogonali tra loro (quindi facilmente disegnabili) con il semplice ausilio della fettuccia. Tra gli infiniti triangoli rettangoli che si possono tracciare con i cateti aventi determinate relazioni proporzionali, due in particolare sono spesso usati per questo genere di operazione: quello aventi due cateti uguali di lunghezza 1 ed ipotenusa 1.41 (1 2 + 1 2 = 1.41 2, arrotondando quest’ultimo termine) e quello con i cateti di 3 e 4 ed ipotenusa 5 (3 2 + 4 2 = 5 2). Tali relazioni numeriche valgono per qualsiasi unità di misura (metri, centimetri, ecc.) e, ovviamente, anche per i vari multipli e sottomultipli (2-2-2.82, 6-8-10, 1.5-2-2.5, ecc.) (fig. 35). Nel caso del triangolo con i lati 3-4-5 in pratica si procede così: si unisce con lo scotch, sulla fettuccia, lo zero con il punto corrispondente a 12 metri (somma di 3+4+5), si pone lo zero sull’allineamento di cui occorre tracciare la perpendicolare, si fa coincidere il punto a 3 metri con il vertice successivo sullo stesso allineamento per cui dovrà passare la perpendicolare, si tende la fettuccia in corrispondenza del punto che, alla misura di 7 metri, darà il terzo vertice del triangolo per cui passa l’ortogonale cercata. Ovviamente la procedura qui esposta vale anche per i multipli e sottomultipli di tali misure. Se non c’è abbastanza spazio per compiere queste misurazioni, ovvero se le condizioni del contesto non permettono di tracciare un allineamento perpendicolare ad un lato della poligonale, è comunque possibile determinare l’inclinazione esatta del braccio tramite l’applicazione di semplici regole grafiche di costruzione (fig. 36). Convenzioni grafiche. Per quanto attiene la restituzione degli elementi architettonici (in pianta, prospetto e sezione), specie se costituiti da diversi livelli, esistono delle convenzioni di cui ci limiteremo ad esporre le linee fondamentali ed i principi teorici. In realtà tale argomento “verrebbe prima” di altri esposti finora (ad esempio, già in sede di tracciamento dello schizzo quotato occorre sapere “cosa si vede” sull’elaborato che abbiamo di fronte) ma, per comodità, si è preferito esporlo in questa sede. 51
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Fig. 35. Poligonale. Per rilevare correttamente e posizionare la struttura al centro della figura rispetto al contesto è stata tracciata la poligonale chiusa 1-6, parzialmente appoggiata al contesto urbano, ed il braccio 7 per legare la sagoma interna del manufatto a quella esterna. In particolare, i vertici 1, 2, 3, 4 sono stati posizionati con le normali operazioni di triangolazione, il vertice 5 è posto sul prolungamento dell’allineamento 2-3, il vertice 6 sull’allineamento 5-6 perpendicolare a 4-5 e su quello passante per 1 ed ortogonale a 5-6. I vertici intermedi A, B, C, posti sugli allineamenti già tracciati, sono serviti sia come basi locali, per il rilievo della sagoma esterna, sia come punti di verifica della poligonale, mediante le rispettive distanze (una sorta di diagonali locali). Gli allineamenti ortogonali 4-5-6, 1-6-5 e 1-D-7 sono stati realizzati con il metodo della fettuccia a 12 metri. illustrato in basso. In pratica si procede così: si uniscono sulla fettuccia lo zero con il punto indicante 12 metri (3+4+5); si pone il punto a 4 metri in corrispondenza del punto, sull’allineamento dato, per cui dovrà passare il braccio ortogonale, si fissa lo zero (unito a 12 m.) sullo stesso allineamento e si tende la fettuccia in corrispondenza del punto a 7 m. (3+4).
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Fig. 36. Costruzioni geometriche elementari. Talvolta conviene (specie nel caso dell’impostazione di una poligonale o di punti di appoggio al nostro rilievo), piuttosto che restituire sulla carta delle situazioni planimetriche irregolari o complesse, tracciare direttamente sul terreno delle costruzioni semplici e di diretta esecuzione sul foglio da disegno. Esempio a). Costruire graficamente sul terreno la perpendicolare n alla retta m passante per A. Segnare i due punti B e C su m, posti a pari distanza da A. Tracciare da B e C due archi di circonferenza con raggio BC (si può usare la stessa fettuccia, con lo zero fissato ai punti e l’estremo con la misura fissato ad una punta che tracci l’arco). La retta n passerà per A e per le intersezioni dei due archi. Esempio b). Dato l’allineamento p di una poligonale, tracciare il braccio r inclinato a piacere e passante per A. Per la restituzione grafica di r è sufficiente staccare due segmenti AD ed AE (meglio se di misura finita) su p ed r. Misurare la distanza DE e disegnare il triangolo ADE con la normale procedura della triangolazione, sul prolungamento di p ed r fissare altri due punti F e G (e la relativa distanza FG) per la verifica. Se non c’è spazio per i prolungamenti, F e G possono essere presi nel precedente tratto di r. Eventualmente si può effettuare l’operazione inversa, tracciando sul disegno la retta r e posizionandola sul terreno con le stesse operazioni fin qui descritte, operando con la fettuccia a mo’ di compasso.
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Abbiamo già definito le piante ed i prospetti e sezioni come determinati dall’intersezione di piani geometrici, rispettivamente, orizzontali e verticali con il nostro edificio. Nel caso delle prime, generalmente la quota cui si imposta il piano può determinare delle variazioni della restituzione, ovvero il nostro piano può sezionare o vedere proiettati alcuni elementi anziché altri. Un caso tipico è quello delle aperture delle pareti (porte, finestre, nicchie, absidi, ecc.) che, se non si trovano ad un’altezza compatibile, potrebbero non essere tutte visibili nel disegno. In linea di massima si cerca di condurre il piano ad una quota tale da comprendere più elementi possibile, provvedendo eventualmente a riportare le proiezioni (graficizzate con linee tratteggiate o a punti) delle altre aperture. In questo caso si possono distinguere gli elementi che si trovano al di sopra o al di sotto del piano ricorrendo a tipi diversi di tratteggio (da indicare in legenda). Altri elementi da riportare come proiezione sono gli spessori delle murature portanti in corrispondenza di vani di porte e finestre, elementi orizzontali (travi, aggetti delle murature, volte, sagome di controsoffittature, ecc.). Per le volte si usa proiettare la sagoma della generatrice (volte a botte) o gli spigoli formati dalle intersezioni delle superfici curve (crociere, padiglioni, pennacchi, imposte di cupole, ecc.) (fig. 37). Una rappresentazione particolare è richiesta dalle rampe delle scale. Se pensiamo che il piano di sezione di una pianta, dovendo cogliere (possibilmente) tutte le aperture delle murature, passa mediamente ad un’altezza di circa un metro e mezzo dal pavimento (in modo da includere anche le finestre), si dovrebbe facilmente capire come la pianta tagli le rampe in corrispondenza di ogni piano comprendendo almeno sei o sette gradini della rampa che sale. Le scale, quindi, si disegnano tagliate con verso obliquo a tale altezza (cioè con una certa quantità di gradini visibili), in modo da lasciar vedere “al di sotto” la rampa che parte dal piano inferiore. Questo determina la visione parziale della prima rampa (al piano terra o in cantina), la cui restante parte viene solo riportata come proiezione dei gradini che si trovano al di sopra (sotto, se c’è, si vede l’ambiente sottoscala). All’ultimo piano, viceversa, l’ultima rampa si vede per intero, senza essere sezionata. Ovviamente, se le rampe fossero di larghezza diversa o disposte in posizione planimetrica non coincidente, da quelle superiori si devono vedere le porzioni di quelle inferiori che risultassero visibili (fig. 38). Per quanto riguarda i prospetti e le sezioni non ci sono particolari prescrizioni, a meno delle seguenti: * sui prospetti esterni le cui finestre fossero dotate anche di persiane, generalmente si omette di disegnare queste ultime; * a meno di esigenze particolari, sui disegni che contengono anche altri elementi proiettati visti di scorcio, se questi ultimi sono oggetto di specifici elaborati, nei primi si disegna solo la sagoma; * su prospetti e sezioni non si usa inserire proiezioni di elementi che si trovano dietro al piano di proiezione (rispetto al verso in cui “guarda” la sezione”) a meno delle rampe delle scale (negli edifici a più livelli è doveroso condurre almeno una sezione sul corpo scala) il cui sviluppo, talvolta, viene inserito per far comprendere la distribuzione verticale.
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Fig. 37. Convenzioni per il disegno delle piante. Lo spaccato assonometrico mostra le quote cui si riferiscono le piante a lato, recanti ciascuna le proiezioni degli elementi notevoli non sezionati. Dovendo realizzare una sola pianta è preferibile la 2 in cui si possono cogliere tutti gli elementi architettonici presenti, differenziando i tipi di linea per indicare quelli posti sopra o sotto il piano di sezione. Notare il ribaltamento sull’orizzontale e la proiezione della volta a botte e del frammento di arcone.
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Fig. 38. Esempi di scale. Il vano scala raffigurato (ridotto per esigenze di spazio, l’originale è stato disegnato su Autocad in scala 1:50) appartiene ad un edificio a tre livelli. Dal basso: piano terra, primo e secondo. Notare, su ogni pianta, le proiezioni delle strutture superiori (pianerottoli, rampe) e delle rampe inferiori. Al piano terra la scala si interrompe alla quota del piano di sezione lasciando vedere l’ambiente del sottoscala.
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Consigli pratici. Passando alla fase di restituzione, la prima cosa da fare è tagliare la carta in misura sufficiente, come abbiamo già visto. I vari ambienti vanno costruiti prendendo due lati alla volta, legati dalla rispettiva diagonale che chiude il triangolo; gli ambienti contigui vanno disegnati preferibilmente seguendo gli allineamenti delle pareti portanti, costruendo così il disegno “a strisce”. Nel disegnare gli ambienti è meglio tracciare prima lo schema complessivo, privo di dettagli ed aperture (tranne quelle indispensabili per legare gli uni con gli altri) e vedere se torna, passando poi a rifinire il disegno con tutto il resto. Gli eventuali elementi decorativi proiettati (pavimentazioni, dettagli architettonici quali lesene, pilastri, cornici, proiezioni di volte e scale, ecc.) vanno disegnati alla fine, una volta verificato che tutto sia preciso, vista la cura ed il tempo che richiedono. Se procedendo in un certo verso (cioè secondo una certa sequenza di ambienti) qualche elemento non torna, anziché bloccarvi provate a cambiare verso di lavoro o a “girargli intorno”, a volte torna lo stesso con gli ambienti adiacenti o, perlomeno, sarete in grado di circoscrivere l’errore (fig. 39). Finché il disegno non è tutto definito cercate di usare un tratto leggero: farete meno fatica a cancellare, il disegno resterà più pulito e potrete sempre ripassarlo successivamente. Se il disegno è complesso e richiede parecchio tempo e lunga manipolazione, talvolta si arriva alla fine e le parti disegnate all’inizio non si leggono quasi più, specie se avete proceduto partendo dal basso del foglio (la parte di disegno che è più vicina a voi). Per evitare questo inconveniente, innanzitutto procedete dall’alto oppure, una volta arrivati ad un certo punto, staccate il foglio e ripassate le linee sul rovescio: resteranno così protette dall’usura fino alla fine del lavoro. Potete fare lo stesso anche se dovrete cancellare delle parti che si trovano a ridosso di altre che non vanno toccate, ripassando queste ultime sul rovescio e cancellando poi al dritto con tutta tranquillità. Sempre al fine di aver un disegno leggibile per la successiva fase di lucidatura a china (se pensate che dovrete vedere sotto un altro foglio un disegno fatto a matita con il contrasto dell’inchiostro che avete in primo piano, il fine è tutt’altro che irrilevante) si possono ripassare, a scelta sul retro o sul dritto, i punti estremi di ogni linea con un pennino sottile indicandoli con un puntino che vi farà da preziosa guida per accostarvi la squadretta e tracciare le linee, specie se di notevole spessore. Passando all’altra procedura di rilievo rimangono da dire poche cose perché valgono quasi tutte quelle esposte finora. Visto che il disegno procede “dal vivo” in cantiere sarà molto più semplice verificare passo dopo passo la correttezza delle misure, l’orientamento ed il verso della proiezione e, soprattutto, la fedeltà della riproduzione in scala rispetto all’originale. Il disegno dovrà essere sviluppato seguendo le stesse raccomandazioni fatte sopra per la restituzione dello schizzo quotato, avendo cura di non partire dal bordo della carta ma di lasciare un certo margine per eventuali errori di orientamento, aggiunte, ecc.. e per evitare di arrivare, alla fine, a dover fare delle “prolunghe” perché l’edificio non entra nel foglio. Ovviamente la misura abbondante va mutuata con le dimensioni effettive e con la possibilità di disegnare con comodo in cantiere, nel senso che è inutile iniziare con dei fogli smisurati ed essere costretti a tagliarli. Vista la durata complessivamente maggiore del lavoro di restituzione e, in particolare, vista l’usura dovuta al modo in cui si lavora, le precauzioni di cui 57
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Fig. 39. Esempio di restituzione dello schizzo quotato della fig. 29. La figura illustra le due fasi del lavoro. In a) la restituzione di tutti gli ambienti, in scala 1:50, priva di aperture (tratto sottile). Una volta messo a punto lo schema generale della pianta si è passato alla definizione dei dettagli (tratto piÚ spesso). Per il posizionamento di questi ultimi ci si è avvalsi delle quote parziali e/o delle diagonali locali prese per i vani delle porte e delle finestre.
In b) uno stralcio della pianta definitiva, realizzata con pennini di diverso spessore e recante le varie proiezioni e partizioni di infissi.
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sopra relative alla conservazione della leggibilità sono da tenere in notevole considerazione, magari provvedendo, ogni volta che si stacca il disegno alla fine della giornata, a ripassare sul rovescio l’opera svolta. Se avrete abbastanza spazio sul foglio, la trascrizione delle misurazioni è meglio farla direttamente su quest’ultimo, per evitare di trovarsi con una serie di foglietti volanti con il rischio di perderli. Il disegno della pianta è generalmente l’operazione più impegnativa del rilievo, perché la costruzione dei prospetti e delle sezioni (a meno di trovarsi di fronte a manufatti particolarmente impegnativi e decorati) è facilitata dal lavoro svolto in precedenza. Abbiamo già affrontato nel capitolo sulla geometria descrittiva il tema della proiezione dei punti notevoli dalla pianta ai prospetti (o viceversa) e ne parleremo ancora, più concretamente, nella parte relativa al cantiere. In questa sede vorrei principalmente dare alcuni consigli sui vari modi di procedere. La difficoltà dell’opera di rilievo per quanto riguarda i prospetti (maggiormente che per le piante) è innanzitutto legata al rapporto di riduzione previsto per questi ultimi. Senza fare grandi anticipazioni sul tema della caratterizzazione, possiamo lo stesso affermare che è ovvio che la quantità di lavoro necessaria per rendere, per esempio, una parete in mattoni in scala 1:20 è notevolmente maggiore di quella richiesta per lo stesso oggetto in scala 1:50. Con il diminuire del denominatore della scala aumentano in modo esponenziale i punti da dover misurare e riportare sulla carta e, quindi, anche le tecniche possono avere delle varianti. Mettendo per un attimo da parte il problema della caratterizzazione delle superfici, la costruzione di un prospetto è relativamente semplice: si tratta perlopiù di tracciare la sagoma estrema della parete, inclusa la sua imposta a terra, e di collocare al giusto posto le eventuali aperture ed i dettagli strutturali o decorativi che sono presenti (fig. 40). Questi elementi, se già disegnati in pianta, si possono posizionare sul disegno con il metodo delle “verticali” cui abbiamo già accennato e quindi, almeno per la sagoma di questi, l’opera di rilevamento si riduce a misurare e riportare le altezze di tali elementi. Qualche difficoltà si può incontrare nel caso di manufatti caratterizzati da elementi aggettanti (imposte di volte, cornici, ecc.) o con andamento curvilineo, ma tutto sommato l’operazione è discretamente semplice. La costruzione dei prospetti con le verticali può essere compiuta indifferentemente in cantiere o altrove, vista la brevità ed il poco impegno. In questa fase è bene avere cura di apporre su ogni elemento delle indicazioni scritte riguardo la sua natura (ad esempio, indicare se trattasi di una finestra, porta, spigolo di setto trasversale, ecc.) e/o nominando i punti notevoli con gli stessi segni usati per la pianta (lettere o numeri) perché una volta staccato il disegno del prospetto da quello della pianta, avremo di fronte solo un foglio bianco solcato da poche righe verticali. Se poi avremo una serie di prospetti per lo stesso edificio, oppure le due facce di ogni muro, insomma una serie di pezzi di carta con pochi segni sopra, sarà indispensabile dare ad ognuno di questi un nome per distinguerlo dagli altri. Le quote altimetriche. Un problema comune sia alle piante che ai prospetti è quello della quotatura altimetrica del rilievo, ovvero l’indicazione delle varie altezze su cui insistono i diversi elementi che costituiscono la nostra struttura. Tali indicazioni sono necessarie alla lettura generale del manufatto ed a chiarire le relazioni 59
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Fig. 40. Costruzione dei prospetti. Come già illustrato nella fig. 17, la costruzione degli elementi principali di un prospetto è un’operazione abbastanza semplice. Una volta composto il prospetto il disegno va integrato con la misurazione delle altezze relative ai vari elementi. Negli schemi a lato sono raffigurate le procedure per la realizzazione della sezione prospetto A-A’ e del prospetto esterno B-B’. Le misure in altezza evidenziate sono solo alcune di quelle necessarie per la restituzione completa, come si evince dal dettaglio (in alto a destra) della ghiera dell’arco, in cui sono indicate alcune misurazioni prese sia con la coltellazione che con la triangolazione. Notare, nello schema di B-B’, i riferimenti apposti per la sovrapposizione con la sezione prospetto, la cui restituzione verrà aggiunta solo in fase di lucidatura. L’esempio vuole mettere in evidenza il problema della quotatura altimetrica e delle relazioni spaziali esistenti tra elementi posti a quote diverse. Da questo punto di vista, infatti, la pianta non ci fornisce alcun dato: il fatto di essere in grado di mettere a registro i due elaborati secondo il loro allineamento planimetrico non è sufficiente a definire completamente le loro relazioni nello spazio. Per sapere “come” il prospetto BB’ si sovrappone ad A-A’ occorre conoscere non solo quanto vanno traslati “a destra o a sinistra” ma anche quanto “in alto o in basso”, ovvero la loro posizione spaziale relativa e reciproca, vista la differenza dei piani di imposta dei vari componenti (loggia, facciata dell’edificio, porticato, ecc.).
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spaziali esistenti tra le sue diverse parti e l’ambiente circostante, pertanto vanno riportate su tutti gli elaborati (piante, prospetti, sezioni). Se abbiamo, ad esempio, un edificio composto di due piani fuori terra e un piano interrato, le quote altimetriche dei vari livelli (compreso quelle esterne) indicate sulle relative piante ci permettono di capire subito l’altezza dei vari piani sia in rapporto alla strada che tra di loro. Lo stesso accade per le sezioni in cui, anche se il piano di sezione non interseca la strada esterna, possiamo ugualmente capire i dislivelli esistenti leggendo le quote degli elementi sezionati. Le quote altimetriche possono essere assolute o relative a seconda, rispettivamente, che si riferiscano al livello del mare (quelle usate in tutta la cartografia) oppure ad altri elementi notevoli della struttura da rilevare. Le une sono legate alle altre da semplici rapporti algebrici e non di rado si procede rilevando una sola quota altimetrica assoluta (cui si associa la quota base relativa) e legando a questa tutte le successive (fig. 41). Tornando all’esempio precedente, se si quota la strada davanti all’accesso dell’edificio a m. 30.50 s.l.m. (sul livello del mare) e si indica questo punto come la nostra 0.00 q.r. (quota relativa), dire che il piano terra ed il piano interrato si trovano, rispettivamente, a +0.30 q.r. e -4.30 q.r., significa affermare che si trovano anche, sempre nello stesso ordine, a m. 30.80 s.l.m. e m. 26.20 s.l.m. e che il dislivello esistente tra i due piani è di m. 4.60: le operazioni svolte sono state, ovviamente, delle semplici operazioni aritmetiche. Le quote altimetriche si esprimono sempre (salvo rarissimi casi) in metri lineari e sono indicate da numeri decimali aventi sempre due cifre dopo la virgola (cioè m. 30.50 e non, anche se il valore è lo stesso, m. 30.5). Le quote relative sono, di norma, indicate con il segno + o -; quando non sono presenti quote negative si omette il segno di quelle positive. Le quote assolute che si indicano sui rilievi non sono misurate, ovviamente, a partire dal mare (il cui livello, peraltro, è mutevole a seconda delle stagioni e delle maree e, quindi, di fatto rappresenta un valore convenzionale determinato a livello geografico) ma vengono desunte dalla cartografia del luogo, in cui sono indicati dei punti fisici quotati con l’ausilio degli strumenti topografici (vertici catastali, IGM, elementi di impianti tecnologici quali fogne, acquedotti, ecc.). Nel rilievo diretto “puro” (cioè quando non si ricorre affatto all’uso dello strumento) la quotatura altimetrica è un’operazione che presenta qualche difficoltà e un discreto margine di errore. In pratica gli unici mezzi a disposizione sono rappresentati dalla fettuccia elastica e dalla livella o dal livello ad acqua (per le misure orizzontali) e dal filo a piombo e gli strumenti di misura elementari (per quelle verticali), con le quali è possibile determinare i dislivelli i dislivelli esistenti tra le diverse parti del nostro edificio. Anche se questi mezzi (usati con attenzione e precisione) possono darci una certa affidabilità nell’ambito di una struttura di piccole dimensioni, non possiamo certo pretendere di poterli usare per misurazioni da effettuare a media e grande distanza, quindi potremo rilevare delle quote relative tra i diversi livelli solo entro un modesto ambito. Le relazioni esistenti tra questi e dei punti quotati in modo assoluto dovrà necessariamente essere determinato con misurazioni effettuate con uno strumento ottico.
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Fig. 41. Quotatura altimetrica. Nella sezione A-A’ sono evidenziati i diversi sistemi di quotatura altimetrica (assoluta o relativa) e le relazioni esistenti tra i diversi livelli della struttura. Le stesse informazioni possono essere desunte dai valori indicati sulle piante degli stessi ambienti raffigurate in basso (dal basso: piano cantina, piano terra). La quotatura altimetrica viene generalmente espressa in metri lineari con due cifre decimali. Nelle piante, il punto che precede il valore di quota rappresenta il luogo fisico in cui è stata presa la misura. Notare la quota base relativa (30.50=0.00 q.r.) riportata su entrambi i lati della sezione per evidenziare l’orizzontale di riferimento dell’elaborato, da cui possono essere eventualmente prese delle misure in scala direttamente sul disegno per ulteriori riscontri o misurazioni di altezze. Con riferimento al problema esposto nella fig. 40, possiamo affermare che la conoscenza dei dati altimetrici può essere riferita ai soli valori numerici di quota o direttamente a dei riferimenti grafici da usare, indifferentemente, per la messa a registro dei vari componenti gli elaborati.
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Fig. 42. Rilevazione delle quote altimetriche. La quota base (a prescindere dal tipo di strumento con cui è stata impostata) è partita da un’altezza agevole per le misurazioni (un metro dal calpestio) nel punto più alto del piano terra. Da questo, sfruttando le varie aperture (porte, finestre, vano scala), è stata riportata negli ambienti posti ai vari livelli con l’indicazione dei salti di quota effettuati. Per comodità, in questa fase abbiamo lavorato su uno schizzo di sezione quotato. Le misure così ottenute sono tutte parziali (al pari di quelle prese in pianta per i dettagli di una singola parete) e sono state riportate (come valori provvisori) anche sulle piante. Per quanto riguarda la misurazione delle varie altezze (volte, vani di aperture, ecc.) è bene fare riferimento sempre all’orizzontale di base piuttosto che al pavimento, il quale potrebbe presentare dislivelli anche notevoli. La sezione definitiva (costruita dalle piante al pari di un prospetto) ha poi messo in relazione i vari livelli. Notare gli spessori dei solai e delle volte ottenuti per differenza come nella procedura già esposta per le pareti in pianta. Nei dettagli in basso, lo schema di funzionamento del livello ad acqua (vasi comunicanti) e la regolazione del filo elastico con la livella.
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Il livello ad acqua è composto da un tubo flessibile recante alle estremità due tubi rigidi trasparenti con delle tacche graduate. Il funzionamento e l’uso sono abbastanza semplici: lo strumento sfrutta il principio fisico dei vasi comunicanti e permette di calcolare i dislivelli o battere dei piani orizzontali ponendo una delle estremità in corrispondenza della quota base e portando l’altra nei vari punti da quotare. La colonna d’acqua indica sempre il livello orizzontale e le eventuali differenze possono essere misurate con il metro. L’operazione di quotatura con i suddetti mezzi praticamente consiste nel misurare le varie altezze (positive o negative) degli elementi che ci interessano facendo riferimento ad una quota base che viene riportata da una parete all’altra, da un ambiente all’altro, ecc., con l’ausilio della fettuccia elastica (regolata dalla livella) che rappresenterà la direzione orizzontale. La quota di partenza può essere un elemento qualsiasi (una soglia di porta, un pavimento, uno spiccato di fondazione, ecc.) che potrà, eventualmente, essere quotato in modo assoluto in un secondo momento. Se la nostra quota base è situata a terra sarà bene innalzarla ad una certa altezza per non incappare in eventuali dislivelli positivi del terreno; per semplificare i calcoli è bene scegliere sempre dei valori interi o arrotondati al primo decimale (1 metro, 1.5, ecc.). A partire dalla quota base (eventualmente maggiorata) si comincia a riportarla da un punto all’altro della struttura tendendo la fettuccia e regolandone l’altezza con una livella, appoggiandosi agli elementi in alzato (spigoli, pareti, eventuali alberi, ecc.) che si trovano a quell’altezza. Arrivati in corrispondenza dell’elemento da quotare (ad esempio un’altra soglia, l’inizio di una scala, ecc.) si misura l’altezza tra l’elastico (che rappresenta la stessa altezza della quota base) ed il punto interessato con un metro rigido o un triplometro perfettamente verticale, eventualmente regolato con la stessa livella. Le quote altimetriche si riportano innanzitutto sulla pianta, avendo cura di indicare il punto esatto in cui vengono misurate, e successivamente sugli altri elaborati secondo delle convenzioni grafiche che vedremo nel capitolo sulla lucidatura. Se la nostra struttura è caratterizzata da notevoli dislivelli (del calpestio, di eventuali elementi architettonici quali pozzi, parti interrate, ecc.) è più agevole partire da una quota base situata in posizione elevata, da cui eventualmente (se i dislivelli fossero di misura tale da non consentire fisicamente la regolazione dell’orizzontale e/o la misurazione) abbassare l’orizzontale della quantità occorrente (misurata sempre con esattezza e con valori interi). In questo caso, se l’elemento architettonico a cui vorremmo assegnare il valore 0.00 q.r. non coincidesse con il punto fisico da cui partire con l’orizzontale (cioè si trovasse in posizione ribassata o sopraelevata), una volta completata la fase di misurazione dei valori reali basterà procedere ad un semplice calcolo algebrico che ridefinirà i nuovi valori dei punti quotati in base alla quota base relativa prescelta. Ad esempio, se il punto che vorremmo portasse la quota 0.00 si trovasse a +0.50 q.r. e un’altro a -1.30 q.r., i nuovi valori saranno, rispettivamente, di 0.00 q.r. e -1.80 q.r. Se la struttura è costituita da più livelli occorre determinare le altezze che li separano ed, eventualmente, misurare le variazioni altimetriche all’interno di ogni piano. Per i singoli livelli si procede come sopra, avendo cura di far partire le orizzontali dalle aperture (leggi finestre) che si potranno utilizzare per misurare le altezze da un piano all’altro, facendo poi calare all’esterno un filo a piombo ed una fettuccia metrica per calcolare i dislivelli tra un piano l’altro. Le 64
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varie quote relative ad ogni piano verranno poi convertite in quote relative generali con il solito calcolo, a partire da quella scelta come base (fig. 42). Il rilievo dei prospetti. Per quanto riguarda il rilievo dei prospetti la necessità di scegliere tra le varie procedure non si ripropone con la stessa intensità, ovvero non ha più molto senso parlare di triangolazione o di coltellazione, oppure di schizzo quotato o di disegno in cantiere, come si è fatto per la pianta. Avendo già proceduto a disegnare la costruzione del prospetto (che potremmo, volendo, assimilare ad uno schizzo quotato) con l’ausilio della pianta, abbiamo di fronte un ampio ventaglio di possibilità che, pur con delle varianti a seconda del tipo di lavoro, proveremo ad elencare qui per sommi capi. Dovendo fare un rilievo poco dettagliato (per esempio in scala 1:100) ed avendo poco tempo a disposizione per il cantiere, possiamo comportarci come nel caso dello schizzo quotato (fig. 43), misurando dalla quota base le altezze degli elementi che ci interessano e trascrivendole sulla costruzione per terminare l’opera in un luogo più agevole, magari aiutandoci per la caratterizzazione delle superfici (che, come vedremo più avanti, in questa scala è molto limitata) con delle fotografie o con delle indicazioni sui materiali a vista. Anche per le scale superiori (se, ad esempio, si deve disegnare una quantità notevole di prospetti) è possibile usare questa procedura, salvo poi integrare il disegno in cantiere con le caratterizzazioni del caso. Ovviamente si può anche procedere al disegno diretto sul posto di tutti gli elementi (anche nei rilievi sommari); vorrei consigliare questo metodo perché, a fronte di un modesto incremento dei tempi, produce un notevole aumento della precisione, dell’attenzione verso i dettagli e della qualità complessiva del lavoro. Per quanto riguarda i metodi da usare, sempre schematizzando per grandi linee e considerando delle situazioni tipiche, il rilievo dei prospetti fa essenzialmente riferimento a quello della coltellazione in quanto si tratta perlopiù di elementi in cui le direzioni orizzontale e verticale sono ben determinate. Una regola essenziale (talvolta, immotivatamente, trascurata anche dai professionisti) è quella di indicare sempre un riferimento orizzontale sui disegni che rappresentano gli alzati di un qualsiasi manufatto. Il riferimento orizzontale (detto anche orizzontale di riferimento e rappresentabile graficamente in vari modi che avremo modo di esporre successivamente) ha una serie di funzioni e di utilità (fig. 44): * rendere evidenti eventuali inclinazioni, specie se poco rilevabili a vista, delle imposte delle murature, dislivelli di queste e/o del terreno, dissesti, ecc.; * poter leggere con chiarezza e comparare tra loro eventuali elementi (aperture, coperture e loro piani di imposta, scale, piani, ecc.) che si trovino, magari su fronti diversi dell’edificio, ad altezze diverse; * indicare eventuali quote altimetriche assolute o relative; * dare infine la possibilità di cogliere sul disegno, con un colpo d’occhio, tutto quello che si trova ad un’altezza diversa tra un elaborato e l’altro. Ottemperando a tale regola, inoltre, si facilita il lavoro di cantiere, specialmente se, eseguendo i rilievi per la pianta, abbiamo già segnato i vari punti da misurare secondo una stessa (o più) quota orizzontale. Avendo già dei riferimenti verificati con la livella o con lo strumento ottico, passando al rilievo di prospetti e sezioni è sufficiente tendere una fettuccia elastica affiancata da una fettuccia metrica tra i punti estremi dei vari prospetti per avere già un riferimento orizzontale affidabile su cui prendere le misure in altezza. 65
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Fig. 43. Schizzo quotato dei prospetti. Il prospetto a lato è stato rappresentato sommariamente, con l’indicazione delle quote principali e dei dettagli più significativi. La linea di imposta a terra, trattandosi di terreno di riporto, privo di importanza dal punto di vista archeologico, è stata determinata con poche misure. Notare sull’orizzontale l’indicazione della quota altimetrica in riferimento a quella base scelta per il resto della struttura (0.40 q. r.). Tale dato sarà utilizzato in fase di lucidatura per poter montare i vari prospetti secondo la loro reale collocazione spaziale, pensando, ad esempio, ad una struttura composta di una serie di elementi murari impostati a quote diverse. Notare anche le quote orizzontali sulla cresta del muro e sui blocchi di tufo, per la restituzione di tali elementi non deducibili dalla pianta.
In basso la restituzione di parte del prospetto.
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Fig. 44. Esempio di elaborati recanti l’indicazione dell’orizzontale. I prospetti a lato appartengono allo stesso lavoro e fanno riferimento a diverse aree di uno stesso complesso caratterizzato da una serie di fasi costruttive. La presenza dell’orizzontale di riferimento permette di cogliere con grande immediatezza i dislivelli esistenti tra le varie parti del complesso, i loro spiccati di fondazione, le soglie delle porte, ecc.. In mancanza di tale indicazione, al contrario, avremmo avuto una serie di prospetti “vaganti”, la cui lettura complessiva sarebbe risultata molto più lacunosa.
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Qualora i riferimenti orizzontali usati per le piante fossero diversi da un ambiente all’altro (per le caratteristiche fisiche dell’edificio o anche solo per esigenze di lavoro) è fondamentale misurarne la differenza di quota per riportarla sui vari, rispettivi, prospetti con delle indicazioni altimetriche assolute o relative, cioè misurate o tutte rispetto ad una quota base o, di volta in volta, tra di loro. Indicando l’orizzontale di riferimento su prospetti e sezioni si possono comparare le varie altezze e quanto altro sopra descritto. Ovviamente sugli elaborati definitivi dovrà essere unica, cioè indicante la stessa quota, ma sui disegni di cantiere potrà benissimo variare, a seconda delle esigenze, purché si abbia cura di prendere nota delle eventuali differenze di quota. In pratica si procede così: su ogni prospetto dell’edificio occorre riportare una linea orizzontale (tramite una fettuccia elastica fissata alle estremità ed una fettuccia metrica) che intersechi i vari punti notevoli (spigoli, mazzette, ecc.), da cui prendere di volta in volta le misure in alto o in basso (con un metro a stecca o altro strumento di misura, possibilmente rigido), in corrispondenza degli stessi. Tale linea orizzontale dovrà ripetersi alla stessa quota da un prospetto all’altro. Ovviamente la fettuccia elastica (ben tesa!) rappresenta fisicamente l’orizzontale mentre quella metrica (che inevitabilmente non sarà mai perfettamente tesa) ci consente di prendere la misura (con uno scarto accettabile) da uno degli estremi al punto in cui la nostra misurazione verticale si interseca con l’orizzontale. Se la misurazione verticale viene fatta in corrispondenza di elementi già riportati dalla pianta, e quindi già proiettati sulla costruzione, la misura orizzontale non serve perché si tratta solo di staccare sul disegno il valore corrispondente dell’elemento preso in considerazione. Se dobbiamo disegnare qualcosa che non è stato proiettato sulla costruzione (perché non presente in pianta o solo omesso), serviranno sia la misurazione verticale che quella orizzontale (fig. 45). Praticamente si costruisce il disegno per punti di cui misuriamo le coordinate rispetto ad un sistema cartesiano relativo, avente l’asse X coincidente con l’orizzontale e l’origine posta sullo zero della fettuccia. In questa fase si può benissimo lavorare in due, uno al disegno e l’altro alla fettuccia, e darsi indicazioni come per il gioco della battaglia navale tipo “10 a destra e 25 sotto” ed il punto è subito collocato. Qualora non ci si trovi in corrispondenza di elementi verticali ben definiti (spigoli od altro) è importante verificare, specie se si ha poca esperienza, la verticalità del metro ricorrendo ad una livella, per non produrre deformazioni nel disegno. Con questo sistema si possono definire tutti gli elementi più comuni di un prospetto, disegnare con esattezza oggetti ad andamento lineare inclinati (è sufficiente definirne le estremità alle rispettive altezze), elementi curvilinei (prendendo le altezze di vari punti), spezzate (idem), ecc.. Il procedimento fin qui illustrato, abbastanza semplice ed intuitivo, avrà solo qualche complicazione e/o variante in casi particolari. Se gli elementi del prospetto si trovano all’incirca sullo stesso piano della parete (salvo qualche lieve aggetto delle decorazioni architettoniche, ecc.) non ci saranno grandi problemi di restituzione. Quando, invece, ci si trova in presenza di elementi fortemente aggettanti o rientranti bisognerà predisporre alcuni accorgimenti (fig. 46): 68
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Fig. 45. Misurazione dei prospetti. La fettuccia elastica dovrà essere tesa con l’ausilio di chiodi o altri fissaggi su dei riferimenti orizzontali presi con il livello ad acqua o con la livella a bolla. Le misure sugli elementi più vicini alla fettuccia possono essere prese direttamente con il metro. Quelli posti a distanza maggiore dovranno essere posizionati (rispetto alla fettuccia metrica) mediante il filo a piombo. E’ bene verificare anche la verticalità degli spigoli delle mazzette. La collocazione della fettuccia elastica (posta a 1-2 centimetri dalle pareti) serve anche a verificare l’effettiva linearità delle stesse. Nel caso di elementi aggettanti (lesene, ecc.) o di riseghe delle pareti, ovviamente, le fettucce verranno collocate un tratto alla volta.
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* se sarà possibile collocare la fettuccia dell’orizzontale sul piano più aggettante, e se questo sporge di poco, sarà sufficiente piazzare il metro verticale in corrispondenza della fettuccia e staccare la misura su questo con l’ausilio della livella in orizzontale, posta in corrispondenza del punto da misurare; * se gli aggetti sono notevoli o numerosi sarà meglio collocare una serie di fettucce orizzontali, disposte ognuna su un piano di facciata, lavorando su quest’ultimo come se fosse un oggetto a sé stante, avendo cura di misurare con esattezza il dislivello esistente tra le varie fettucce e di riportarlo sulla carta e, soprattutto, di legare in verticale lo zero delle varie fettucce tra loro, calando un filo a piombo che le intersechi (e misurando su ogni fettuccia ogni punto di intersezione) o disponendone un’origine comune sulla stessa verticale. Praticamente si tratta di costruire il disegno per strisce orizzontali, assemblate verticalmente dal riferimento con la pianta o da altro artificio. La stessa tecnica di disaggregazione ed assemblaggio si usa anche quando non si può avere una visione di insieme del prospetto, come, ad esempio, nel caso di una facciata rivestita da un ponteggio, dai cui piani di servizio si può vedere e lavorare solo su una porzione orizzontale di prospetto. La moltiplicazione dei riferimenti orizzontali torna utile anche quando si hanno distanze verticali notevoli o quando, per esigenze di caratterizzazione, si devono misurare molti elementi sulla stessa facciata (pensate a quanti mattoni contiene una parete in opera laterizia da disegnare in scala 1:10!) (fig. 47). Se sul prospetto sono presenti elementi curvilinei complessi o di cui si vuole riprodurre con notevole precisione l’andamento (archi, decorazioni, nicchie, ecc.) sarà bene usare la coltellazione solo per determinarne le imposte o alcuni punti notevoli e procedere poi triangolando da questi (che diventeranno una o più basi) tutti gli altri. Questa tecnica talvolta torna utile anche nel caso di murature irregolari come l’opera poligonale o di decorazioni geometriche particolarmente “rompicapo” da ricostruire, in cui la triangolazione, portata da un vertice all’altro, aiuta un po' a districarsi e risulta sicuramente più precisa. Ovviamente la triangolazione può tranquillamente essere usata anche per costruire l’intero prospetto, se è necessario riprodurlo con il massimo dettaglio. In tal caso, per comodità, sarà meglio scegliere i punti della base in modo che si trovino in alto, per potervi appendere due fettucce metriche (facilmente manovrabili dal basso) e procedere speditamente con le misurazioni. E’ comunque necessario collocare l’orizzontale di riferimento per avere un’indicazione di quota e, soprattutto, per rendere comparabili eventuali elementi con andamento inclinato. In questi ultimi casi non ha molto senso procedere con lo schizzo quotato e si fa sicuramente prima a compiere tutta l’opera in cantiere, eventualmente frazionando i disegni che risultassero di dimensioni eccessive in porzioni che, con l’ausilio della pianta, potranno essere facilmente ricomposte (come si è già accennato nel capitolo delle proiezioni), purché si faccia attenzione al parallelismo dei piani di proiezione o, se questo non esistesse, evidenziando tale fatto sugli elaborati relativi. Avevamo accennato, sempre relativamente alle proiezioni ortogonali, al fatto che, nel caso di un manufatto caratterizzato da una disposizione planimetrica degli ambienti (o di alcuni elementi) non ortogonale, la costruzione del prospetto dalla pianta tornava utile a definire lo scorcio secondo cui venivano visti gli elementi non allineati con il piano di proiezione (fig. 49). 70
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Fig. 46. Esempi di misurazione sui prospetti. In a) il riferimento orizzontale è poco aggettante rispetto agli altri elementi della facciata, quindi per misurare le altezze è sufficiente usare un metro rigido verticale e la livella posta in corrispondenza dell’elemento da misurare.
In b) la fcciata è articolata su diversi piani, quindi è meglio fissare diversi riferimenti orizzontali, avendo cura di misurarne esattamente i dislivelli e di allineare lo zero delle fettucce metriche secondo un riferimento verticale (filo a piombo) ortogonale alla facciata (dettaglio c)).
Nel caso d) di una facciata alta o coperta dai ponteggi, in cui non è possibile avere una visione di insieme del prospetto, questo va disegnato per fasce orizzontali, ciascuna avente un proprio riferimento quotato ed allineato verticalmente con gli altri. L’assemblaggio delle varie parti, se il lavoro è stato impostato correttamente, può essere compiuto direttamente in fase di lucidatura. L’importanza, nei vari esempi, dell’allineamento verticale delle fettucce è ovvia: in mancanza di questo dato avremmo tante strisce di prospetto vaganti (specie se prive di elementi verticali “passanti” quali spigoli, lesene o paraste alte, grandi specchiature decorative), prive di riscontri precisi. Le stesse piante dei vari livelli, se non sovrapponibili, non potrebbero esserci di grande aiuto.
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Fig. 47. Moltiplicazione dei riferimenti orizzontali. Dovendo rilevare delle murature particolarmente caotiche è meglio riportare più orizzontali di riferimento per ridurre le misurazioni e velocizzare la restituzione. L’esempio a lato è stato realizzato in scala 1:20 con l’interasse dei riferimenti orizzontali a 40 centimetri. Il primo riferimento in basso è quello di base, già usato per la realizzazione della pianta.
Fig. 48. Rilievo dei prospetti mediante triangolazione. Le basi prescelte possono essere posizionate mediante coltellazione. Se queste sono poste in alto è possibile fissare gli estremi di due fettucce per compiere delle misurazioni simultanee. Qualora le murature siano ricche di elementi irregolari occorre segnare con un pennarello i punti in cui si prendono le misure. Per ogni blocco è sufficiente prendere due o tre punti: una volta definito il suo orientamento nel prospetto, gli altri vertici possono essere presi con delle triangolazioni locali, più sbrigative, indicate in basso a sinistra.
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Fig. 49. Misurazioni su elementi non paralleli al piano di proiezione. Il prospetto della struttura a lato è stato correttamente costruito dalla pianta. Per quanto riguarda le misurazioni da compiere sul tratto obliquo (vedi assonometria), per le verticali si è fatto riferimento all’orizzontale 1bis, disposta parallelamente al lato con andamento inclinato ed alla stessa quota di quella principale 1. La proiezione degli elementi non visibili dalla pianta (arco di scarico, andamento della parete crollata), e dunque non collocabili secondo lo scorcio corretto in fase di costruzione del prospetto, è stata realizzata mediante coltellazione rispetto all’orizzontale 2, parallela alla parete principale ed al piano di proiezione, per determinarne con esattezza la posizione relativa rispetto al resto della parete.
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In questo caso, prendendo le misure in cantiere, bisogna tenere presente che mentre i punti proiettati dalla pianta mediante il tracciamento della verticale giacciono sicuramente su quest’ultima e, quindi, sono già visti di scorcio, tutte le altre misure non verticali dovranno essere prese parallelamente al piano di proiezione del prospetto. In pratica questo significa che, se è teoricamente valido piazzare una fettuccia elastica orizzontale per prendere le misure verticali (perché l’orizzontale coincide sempre, a prescindere dall’inclinazione del piano), non si può collocare una fettuccia metrica parallelamente al prospetto inclinato per prendere eventuali misure orizzontali, le quali devono essere prese da una fettuccia tesa parallelamente al piano del prospetto principale.
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Il rilievo strumentale ed il calcolo delle coordinate. Questo paragrafo illustra i fondamenti teorici e pratici del rilievo eseguito con strumenti ottici, senza avere la pretesa di essere un trattato di topografia. Pur avendo tentato di ridurre al minimo la parte teorica (lasciando tale onere a testi ed autori molto più competenti e qualificati del sottoscritto) ho creduto giusto citare in diverse occasioni le formule e le indicazioni che sono alla base del calcolo e, soprattutto, indicare procedure e strumentazioni ormai divenute desuete nel panorama lavorativo del settore. Tale scelta è stata fatta pensando a coloro che si accostano ora alla professione, che potrebbero non disporre delle risorse tecniche ed economiche di uso corrente e che, invece, potrebbero avere a disposizione un vecchio teodolite ed una stadia. Principali tipologie di strumenti. A differenza del rilievo diretto, quello strumentale è caratterizzato dal fatto che le misure non vengono prese direttamente sull’oggetto ma con l’ausilio di strumenti ottici di lettura a distanza. Questi consistono essenzialmente in un cannocchiale dotato di mirino, ruotante su una base posta su un cavalletto, e permettono di misurare le distanze esistenti tra loro ed il punto mirato e l’angolo che la direzione di mira forma con un’altra data (ovvero una direzione che rappresenti qualcosa di notevole nel contesto, ad esempio il nord magnetico). Il livello ottico è lo strumento più semplice, sia per le sue caratteristiche costruttive che come modalità d’uso (fig. 50). Nel livello il cannocchiale è fisso sulla direzione orizzontale e l’unico elemento in grado di ruotare (rispetto al cavalletto) è la base. Questa è fornita di un goniometro che, azzerato su un dato allineamento, permette di leggere l’angolo formato dalla direzione in cui si sta puntando rispetto all’allineamento. Il suo nome deriva appunto dalla posizione fissa sull’orizzontale del cannocchiale rispetto alla base il quale permette, una volta fissato il cavalletto (un treppiede con le gambe telescopiche) e regolata la posizione della base mediante una livella a bolla contenuta nella stessa, di tracciare un piano perfettamente orizzontale con i puntamenti del cannocchiale, ovvero di inquadrare nel mirino tutti i punti (visibili) posti sul piano dell’orizzonte. A prescindere dal modello e dalla casa, il livello ha un uso molto limitato come strumento per il rilievo indiretto e la sua funzione, in questo ambito, è essenzialmente di appoggio, per determinare i dislivelli del terreno e/o degli edifici, per tracciare allineamenti e per determinare sull’oggetto le orizzontali di riferimento. Uno strumento complementare, praticamente un accessorio, è la stadia (che si associa anche ad altri strumenti). E’ composta da più elementi lineari (in legno o metallo), graduati in centimetri, che vengono montati tra loro a formare una stecca lunga dai due ai quattro metri che viene impiegata in posizione verticale. Può essere usata sia come strumento di misura diretta, appoggiata all’oggetto da misurare, sia per leggere sul mirino del cannocchiale i valori stimati. La sua graduazione è spesso graficizzata a grandi elementi con elevato contrasto, per essere visibile a grande distanza. Nelle misurazioni effettuate a breve distanza si può benissimo sostituire con un triplometro o un qualsiasi
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Fig. 50. Livello ottico e schema del tacheometro e teodolite Il livello è caratterizzato dall’avere l’asse ottico del cannocchiale fisso in posizione orizzontale, dunque parallelo alla base. Una volta messa in bolla quest’ultima, il cannocchiale traccia un piano orizzontale. Il cerchio graduato posto sulla base permette di leggere (con relativa precisione) gli spostamenti angolari del cannocchiale rispetto ad una direzione prescelta (a). Negli altri strumenti il cannocchiale ruota su un piano verticale e la base su un piano orizzontale.
Il centro dello strumento si trova all’intersezione tra l’asse ottico, quello di rotazione del cannocchiale e quello di rotazione della base (alidada) (b).
La base viene messa in bolla con la livella sferica, rispetto al piano di appoggio del cavalletto, mediante le viti calanti che permettono piccoli spostamenti verticali dei rispettivi vertici (c).
Lo strumento è dotato di due cerchi graduati, orizzontale e verticale, la cui lettura avviene mediante un microscopio (d).
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Fig. 51. Lettura della stadia. Le indicazioni contenute nel mirino consentono di stimare la distanza tra lo strumento e la stadia. La porzione di quest’ultima visibile tra i fili superiore ed inferiore, infatti, aumenta proporzionalmente alla distanza, a prescindere dall’inclinazione del cannocchiale.
Fig. 52. Coordinate cartesiane e polari. Nel sistema cartesiano la posizione di A rispetto all’origine O è data dalle coordinate X e Y che esprimono la distanza di A dai due assi misurata secondo una direzione normale a questi ultimi. Nel sistema polare la posizione di B rispetto a P è data dall’angolo formato dalla retta che li unisce rispetto alla direzione prescelta e dalla distanza PB. La direzione prescelta può avere qualsiasi inclinazione (a).
In b) è evidenziata la relazione data dalla sola distanza: le varie posizioni B, B’, B’’ si trovano tutte sulla circonferenza di raggio PB.
In c) possiamo vedere le informazioni date da direzione, verso e valore dell’angolo, prive della distanza tra i punti: B può trovarsi in una qualsiasi posizione sulla retta
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metro rigido, le cui suddivisioni sono molto più leggibili e, soprattutto, sono meglio stimabili i sottomultipli dell’unità di misura. Esiste anche una nuova generazione di livelli elettronici, detti numerici, che utilizzano una stadia recante codici a barre e che producono automaticamente su display i dati di lettura delle distanze e dei dislivelli con errori estremamente contenuti (da 1.5 a 0.4 mm/km), con eventuale possibilità di registrare i dati direttamente su memorie portatili e di riversarli direttamente nell’elaboratore. Il tacheometro ed il teodolite, quali che siano le caratteristiche costruttive e i dettagli di funzionamento, sono entrambi costituiti dal cannocchiale, questa volta ruotante su un piano verticale rispetto ad un’asse posto parallelamente alla base, la quale ruota anch’essa sul piano orizzontale (fig. 50 b,c,d). Sia il cannocchiale che la base sono provvisti di due goniometri (cerchi graduati) posti all’interno della struttura e la cui lettura avviene mediante dei microscopi con tacche di riferimento. La graduazione dei cerchi è in angoli centesimali (un angolo giro è uguale a 400c) o sessagesimali (360°, anche se ormai desueta) ed il grado di precisione è determinato dalla ulteriore suddivisione dei gradi e dal tipo di lettura che è consentito dal microscopio. Le bolle per la regolazione dell’orizzontalità sono diverse, di cui una, sempre presente, sferica sulla base ed altre, toriche (segmenti di toro, la figura geometrica corrispondente all’anello a sezione circolare simile ad una ciambella), poste o sul basamento del cannocchiale o direttamente su di esso. La regolazione della base rispetto al piano del cavalletto avviene a mezzo di tre viti (calanti), poste in corrispondenza delle gambe di quest’ultimo, che permettono piccoli spostamenti in verticale, fino ad allineare i tre punti di appoggio sullo stesso piano orizzontale. Essi si distinguono essenzialmente nei tipi da cantiere, più robusti e meno sofisticati (e meno precisi) e di precisione, ma lo schema di funzionamento è lo stesso. Nei modelli più vecchi, la lettura della distanza tra il punto e l’osservatore (stazione) avviene in associazione con la stadia. All’interno del mirino sono presenti (fig. 51), oltre al reticolo ortogonale che indica, una volta che lo strumento sia stato collocato in posizione sul treppiede e regolata l’orizzontalità della base, le direzioni orizzontale e verticale, due altri fili orizzontali (filo superiore ed inferiore) posti alla stessa distanza rispetto al filo del reticolo (filo medio) (esiste un altro tipo ormai in disuso, in cui i fili superiore ed inferiore sono mobili a seconda dell’inclinazione del cannocchiale, che definiscono lo strumento come autoriduttore). Lo schema di funzionamento dei fili è abbastanza semplice: se guardiamo attraverso un’apertura (posta in prossimità del nostro occhio) un dato oggetto, questo apparirà piccolo o grande, in parte o intero, a seconda della distanza che esiste tra noi e l’oggetto, in misura direttamente proporzionale a quest’ultima. Se l’oggetto è la stadia e l’apertura corrisponde alla visuale delimitata dai fili superiore ed inferiore del cannocchiale, noi vedremo una porzione piccola o grande della stadia a seconda se questa sarà vicina o lontana dallo strumento. Essendo la stadia graduata, è possibile determinare con esattezza la misura del segmento di stadia che vediamo attraverso i fili estremi e, tramite facili calcoli aritmetici, determinare la distanza da misurare. L’unica variabile che complica il calcolo è data dall’inclinazione del cannocchiale, ma di questo parleremo in dettaglio più avanti, quando illustreremo il funzionamento dei vari strumenti. Lo strumento più sofisticato e preciso è il teodolite elettronico con distanziometro ad infrarossi o laser (stazione totale). Lo schema generale dello strumento è quello già descritto, salvo la variante della lettura dei cerchi graduati 78
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che è digitale, tramite dei sensori elettronici che leggono i valori e li fanno apparire su un display su cui l’operatore vede i valori reali, senza dover procedere ad alcuna stima. E’ un po' come la differenza che esiste tra i vecchi orologi analogici e quelli, appunto, digitali: nei primi si stimano i minuti in base alla posizione delle lancette, negli altri si legge direttamente l’ora esatta. Ma la vera rivoluzione portata da questo strumento sta nella tecnica di lettura delle distanze: il distanziomentro elettronico, piazzato sopra il cannocchiale e collimato con questo, emette un fascio di raggi infrarossi che vengono riflessi da un sistema di specchi (prisma o scopo riflettore) posto su un’asta che ha rimpiazzato la vecchia stadia e che viene collocata sul punto da misurare. Il distanziometro stima la differenza della frequenza del raggio e, in tempo reale, calcola la distanza e ne visualizza il valore corrispondente sul display. Il distanziometro inizialmente era uno strumento a sé, montato con un adattatore al cannocchiale del teodolite, oppure integrato con quest’ultimo in un apparecchio unico chiamato stazione totale. Nei modelli più evoluti il fascio di raggi infrarossi è sostituito da un raggio laser che, per le brevi distanze e su determinate superfici, elimina anche la necessità dello specchio riflettore e, quindi, della persona (canneggiatore) addetta a posizionarlo nei vari punti. Quando si vogliono ottenere delle misurazioni molto precise nel calcolo dei vertici di poligonale, il prisma si monta, con degli adattatori, direttamente su un secondo cavalletto, il quale servirà poi come base per una seconda stazione dello strumento. La portata di questi strumenti varia a seconda delle marche e dei modelli (ovviamente a classi superiori corrispondono altrettante portate e prestazioni generali), da circa 3-400 metri a diversi chilometri (strumenti per misurazioni geodetiche o per grandi lavori stradali o ferroviari). Nel nostro caso, quindi, sarebbero sufficienti i modelli con prestazioni più modeste, purché abbiano dei buoni valori di approssimazione per quanto riguarda la lettura degli angoli e la collimazione del cannocchiale (fondamentali per l’esatta collocazione planimetrica e, soprattutto alle medie e grandi distanze, per quella altimetrica). L’avvento degli strumenti elettronici ha modificato profondamente anche le procedure di trascrizione dei dati di campagna. Mentre per i modelli ottici si procedeva con il classico libretto su cui annotare le varie letture (con il conseguente aumento del rischio di errore di trascrizione), le nuove generazioni di strumenti offrono sempre la possibilità di trascrizione automatica dei dati di lettura (angoli, distanze, brevi note) su memorie elettroniche (interne od esterne al corpo della macchina) in grado di riversarli direttamente nell’elaboratore tramite software applicativi di gestione dei dati topografici. A parte la diversa qualità a seconda dei modelli e delle marche, la precisione di simili strumenti e, soprattutto, la rapidità di svolgimento dell’intero lavoro rappresenta un notevole passo avanti. Cenni di topografia. Prima di passare ad alcuni esempi pratici sull’uso dei vari strumenti, affrontiamo brevemente i fondamenti teorici che sono alla base del loro funzionamento. Nel capitolo relativo alle coordinate cartesiane abbiamo descritto la loro logica e le modalità da seguire per determinare la posizione di un punto nello spazio a due o tre dimensioni. Quello delle coordinate cartesiane non è però l’unico metodo (fig. 52). 79
manuale di rilievo e documentazione grafica
Fig. 53. Raffigurazione del sistema polare riferito allo strumento. Il punto P è il centro della stazione, attraverso cui passano l’asse ottico del cannocchiale e l’asse di rotazione del cerchio orizzontale. B, C e D sono i punti da rilevare in termini di distanza (a prescindere dalla tecnica usata) e variazione angolare. Ovviamente nel corso delle misurazioni la direzione prescelta è fissa per poter mettere i punti in relazione tra loro. Anche se posti a quote diverse, B, C e D possono essere proiettati su un piano orizzontale per la loro restituzione grafica. Fig. 54. Sistemi di coordinate polari. I sistemi polari in a), b) e c) sono caratterizzati da diverse direzioni e da una serie di punti. Questi ultimi, invece, sono pertinenti solo ai relativi poli P, Q, R.
In d), invece, tutti i punti sono correlati: le relazioni esistenti tra i singoli punti ed il relativo polo (distanza ed orientamento) sono legate agli altri sistemi tramite i rapporti che esistono tra i vari poli. La spezzata che unisce i poli P, Q, R, caratterizzata dalla linea tratteggiata più spessa, si chiama poligonale.
In e) abbiamo mantenuto le relazioni all’interno dei sistemi polari di P, Q e R ma abbiamo modificato le distanze tra questi ultimi, ottenendo un sistema di punti diverso dal precedente. Se avessimo avuto un quarto vertice S coincidente con P la poligonale sarebbe stata chiusa (linea tratteggiata sottile).
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Esistono infatti anche le coordinate polari, che ci permettono di definire la posizione di un punto rispetto ad un altro o ad un insieme di altri, mentre in quelle cartesiane la posizione di un punto è data rispetto ad un altro (origine) ed ai piani (o agli assi). Partiamo dallo spazio a due dimensioni. Un punto può essere definito dalla distanza a cui si trova rispetto ad un altro, ma questo dato non è sufficiente: se infatti disegniamo due punti A e B e tracciamo una circonferenza dal centro di A, avente raggio uguale alla distanza, affermare che A si trova a x centimetri da B significa semplicemente dire che B si trova sicuramente sulla circonferenza (il raggio è costante, dunque la distanza è sempre la stessa), ma non definisce la sua esatta posizione. Se al dato della distanza aggiungiamo anche l’angolo formato dal segmento che li unisce, rispetto ad una direzione qualsiasi nello spazio (ad esempio dal lato orizzontale del foglio), ecco che la posizione di B è determinata in modo inequivocabile. I due elementi (la distanza e l’angolo) sono le coordinate polari (polo è il punto di origine) del punto B rispetto ad A, data una direzione principale. In realtà, per determinare la posizione di B, bisogna anche indicare il verso dell’angolo (la direzione, oraria o antioraria, secondo la quale si misura l’angolo positivo) che, per convenzione, si intende orario. Calandoci per un attimo nella realtà (fig. 53), il polo coincide con il luogo in cui si fa stazione con lo strumento (per l’esattezza, date le caratteristiche costruttive di tutti i modelli, è il punto fisico di intersezione tra l’asse longitudinale del cannocchiale ed il suo asse di rotazione), la distanza è quella misurata tramite la stadia (ed il relativo calcolo aritmetico) oppure, direttamente, tramite il distanziometro, l’angolo è quello letto sul cerchio graduato orizzontale posto in corrispondenza della base dello strumento, dopo aver azzerato tale cerchio puntando verso una direzione nota. Su quest’ultima operazione torneremo più avanti. Tornando alla teoria, il centro della stazione è pensabile come un punto proiettato sul piano orizzontale passante per esso (il nostro spazio a due dimensioni) ed il punto misurato in termini di distanza e di angolazione è riducibile ad un secondo punto proiettato sullo stesso piano. Se i punti sono una serie (fig. 54), avremo un sistema di coordinate polari che, sempre rispetto al polo, avranno per ciascun punto una coppia di valori indicanti la distanza e l’angolo che questa forma (per ciascun punto) con la medesima direzione data. Possiamo anche pensare, nel caso di molti punti, a diversi sistemi di coordinate, cioè a gruppi di punti aventi un proprio polo, la cui posizione reciproca è definita: a) all’interno di ogni sistema, dai rapporti esistenti tra le varie distanze e dai relativi angoli per ogni punto; b) tra i diversi sistemi, dai rapporti esistenti tra i vari poli. Per rendere un po' meno astrusa tale definizione, pensiamo di dover disegnare un insieme di punti formanti tre sistemi di coordinate. Dato il primo gruppo di punti con il relativo polo (il primo sistema), i successivi assumono una posizione relativa rispetto al precedente nel senso che saranno disegnati a partire dalla distanza e dall’angolo che formano rispetto al primo sistema di coordinate polari. Per legare tra loro diversi sistemi di coordinate è sufficiente misurare la distanza e l’orientamento reciproci dei vari poli. Una volta posizionati i vari poli al posto giusto secondo la loro posizione reciproca, tutti gli altri punti dei vari sistemi facenti riferimento ai poli saranno collocati secondo la loro posizione 81
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relativa, quindi sia rispetto al “proprio” polo, sia rispetto agli altri poli e, in definitiva, rispetto a qualsiasi altro elemento. Qualora si abbiano diversi sistemi e diversi poli, la linea spezzata che unisce questi ultimi è detta poligonale, chiusa o aperta a seconda che il suo sviluppo si concluda con la coincidenza o meno del primo e dell’ultimo polo (vertice). Anche su questi concetti torneremo in seguito, parlando di topografia e dei metodi pratici per risolvere il problema della restituzione del rilievo indiretto. Abbiamo già detto che nella proiezione su un piano si azzera (cioè non se ne tiene conto) l’altezza che i vari punti hanno rispetto al piano. Per definire, però, la posizione di un punto nello spazio a tre dimensioni è necessario indicare anche l’altezza relativa tra i punti. A prescindere dal numero di sistemi di coordinate, se tutti i punti sono posti sullo stesso piano (compreso il polo) il problema coincide con quello dello spazio bidimensionale. Se, invece, sono posti su piani diversi occorrerà aggiungere altre informazioni (fig. 55). Innanzitutto assumiamo un piano orizzontale di riferimento, ad esempio quello passante per il polo. La posizione di ogni altro punto sarà dunque definita dalla distanza (inclinata) che lo separa dal polo, dall’angolo che questa forma rispetto alla direzione nota (fin qui come per il caso precedente) e dall’angolo formato dalla direzione della distanza rispetto al piano orizzontale di riferimento. Quest’ultima informazione è quella che ci permette di determinare l’altezza del punto: è ovvio, infatti, che più un punto si trova in alto (o in basso) rispetto al piano della stazione, più la retta che lo congiunge al punto alla stazione (la distanza) sarà inclinata e l’angolo assumerà valori maggiori. Per maggior precisione possiamo dire che, data la distanza misurata secondo la direzione di una retta inclinata sia rispetto ad una retta giacente sul piano orizzontale (la “direzione data”) sia rispetto al piano stesso, le misure degli angoli vengono determinate: a) per quello orizzontale dall’angolo formato dalla proiezione (su tale piano) della retta inclinata della distanza e dalla retta della direzione nota; b) per quello verticale (zenitale) dall’angolo formato dalla retta inclinata e dalla retta verticale passante per il punto di stazione. La proiezione della distanza inclinata si dice distanza ridotta all’orizzontale o alla verticale. Con riferimento a quanto detto finora sugli strumenti (ad eccezione del livello, il cui cannocchiale fisso sull’orizzontale non permette di misurare gli angoli verticali), una volta messo lo strumento in stazione ponendone la base sull’orizzontale e azzerandone il cerchio graduato orizzontale puntando verso una direzione nota, la collimazione di un punto posto ad un’altezza diversa da quella del cannocchiale produce una variazione dell’angolo azimutale e la determinazione dell’angolo zenitale di inclinazione. La lettura della distanza inclinata completa le informazioni, che a questo punto vanno elaborate per estrarne i valori che ci interessano, ovvero la proiezione della distanza inclinata sul piano orizzontale (passante per il centro dello strumento) per determinare la posizione del punto in pianta e la proiezione della suddetta distanza sulla retta verticale (uscente dal centro) per determinarne la quota. Le procedure e gli enunciati teorici di cui abbiamo parlato finora sono gli elementi basilari della branca della topografia che prende il nome di celerimensura. Il rilievo indiretto consiste essenzialmente nella misurazione con lo strumento dei punti notevoli di un dato luogo e nella restituzione sul disegno degli elementi che lo costituiscono. Con l’associazione dei semplici dati di 82
il rilievo strumentale ed il calcolo delle coordinate
Fig. 55. Sistema polare nello spazio. I punti P e A si trovano su due piani diversi, dunque esiste un certo dislivello tra loro. In questo caso la posizione di A rispetto a P è definita da: * l’angolo orizzontale che forma la proiezione della distanza (inclinata) sul piano passante per P rispetto alla direzione prescelta; * l’angolo che la distanza forma con l’asse verticale passante per P; * la distanza intercorrente tra i due punti. Per quanto riguarda gli angoli verticale ed orizzontale va notato che mentre quest’ultimo è variabile a seconda dell’orientamento dato alla direzione, quello verticale va sempre riferito all’asse verticale passante per P. I valori della distanza ridotta, invece, sono sempre gli stessi a prescindere dalla direzione, trattandosi di proiezioni ortogonali all’asse ed al piano.
Fig. 56. Rilievo celerimetrico di un terreno. Se da una stazione battiamo i punti corrispondenti ai vertici del confine e del fabbricato, possiamo disegnare la planimetria del terreno e dei manufatti esistenti (in alto). Se battiamo dei punti allineati su un pendio calcolandone anche la quota, possiamo tracciarne il profilo (in basso).
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lettura (distanze ed angoli) e delle relazioni esistenti tra gli elementi della figura geometrica del triangolo (note dallo studio della trigonometria) è possibile ricostruire la posizione relativa di un insieme di punti che definiscono il luogo in questione. Facciamo qualche esempio. In un terreno agricolo con una casa posta all’interno dei confini è sufficiente misurare i vertici (e, successivamente, unirli sul disegno) dei confini e gli spigoli del fabbricato per avere la pianta di tale terreno (fig. 56). Se misuriamo (battiamo) una serie di punti sul terreno posti sullo stesso allineamento e ne calcoliamo anche la quota, possiamo disegnare un profilo dello stesso. Se misuriamo un notevole numero di punti e li riportiamo in pianta, avendone calcolato la quota, possiamo fare un piano quotato o disegnare delle curve di livello. Eccetera. Anche senza conoscere a fondo la topografia (che, in realtà, è molto più complessa di quanto mi sto sforzando di far apparire) è dunque possibile procedere con un rilievo sfruttando le tecniche più elementari di calcolo e restituzione. L’operazione senz’altro più onerosa (mettendo per un attimo da parte la buona conoscenza dello strumento) è quella della conversione delle coordinate polari in quelle cartesiane a meno che non si abbia la possibilità di usare un programma dedicato alla topografia, nel qual caso è sufficiente introdurre i dati delle letture strumentali per avere tutto il lavoro (disegno compreso) già fatto, in tempi brevissimi. La conversione delle coordinate è il passaggio obbligato per riuscire a disegnare con esattezza i punti battuti con lo strumento. Disegnare direttamente con le coordinate polari, infatti, è estremamente complicato ed impreciso: a prescindere dalla scala di riduzione, infatti, se può essere relativamente facile disegnare i segmenti di proiezione delle distanze sul piano orizzontale (per il piano verticale, come vedremo più avanti, il problema si riduce quasi sempre al calcolo dei valori delle quote) è veramente difficile riuscire a disegnare gli angoli rispetto al loro reale valore. Anche facendo uso di goniometri giganteschi o dello strumento (da disegno) chiamato coordinatore polare, tracciare delle rette in cui risultino i decimi o i centesimi di grado misurati dallo strumento è un’impresa praticamente impossibile. L’errore nel caso degli angoli porta delle conseguenze assolutamente rilevanti (fig. 57). Pensiamo infatti che, mentre le misure delle distanze risentono della riduzione in scala, quelle degli angoli no (non esiste un angolo di 30° al 100!). Oltre all’errore di riduzione della distanza in scala (onnipresente), più aumenta la lunghezza della linea più l’errore nel disegno dell’angolo produce uno scarto nella posizione del punto restituito e la somma di eventuali errori (per esempio con diversi sistemi di coordinate) può portare del tutto fuori strada. Per avere un’idea della dimensione dell’errore indotto dalla grafia di un angolo, provate a collimare un punto col teodolite ed a leggere il valore dell’angolo; spostate poi il cannocchiale di pochi decimi di grado e guardate nel mirino: avrete una misura “dal vero” dell’errore, senza considerare quello grafico della restituzione. Nel disegnare dei punti di cui si conoscono le coordinate cartesiane, invece, l’unica attenzione dovuta è quella relativa all’ortogonalità che deve essere costante tra gli assi X e Y e le rette con cui si determinano le posizioni dei punti, oltre alla solita cura all’esatta restituzione dei valori in scala. Ovviamente è molto più facile tracciare delle rette ortogonali che dare delle esatte inclinazioni al centesimo di angolo. Per convertire le coordinate polari in cartesiane esiste un metodo classico che sfrutta una serie di formule trigonometriche, i cui calcoli possono essere fatti con l’ausilio di una semplice calcolatrice tascabile. 84
il rilievo strumentale ed il calcolo delle coordinate
La scienza topografica è un argomento troppo complesso per essere affrontato in modo esauriente nelle poche pagine che gli sono concesse in questa pubblicazione. Ci limiteremo, pertanto, ad esporre solo alcuni concetti basilari che potranno trovare riscontro immediato nei lavori più semplici di ordinaria amministrazione, rimandando a sedi molto più autorevoli e qualificate l’approfondimento teorico di tale argomento, con la sola considerazione che ci è data dal fatto che, in ambiti limitati nella complessità e nell’estensione fisica, gli standard di precisione raggiunti dagli strumenti di misurazione sono tali da compensare l’approssimazione data dall’uso delle formule elementari di conversione qui di seguito esposte. Le operazioni di rilevamento planimetrico ed altimetrico, inoltre, sono complicate anche da altri fattori quali la pressione e la temperatura atmosferica, l’altitudine a cui si opera, la curvatura della superficie terrestre, ecc., che entrano in gioco (e delle quali occorre tener conto nelle operazioni di calcolo) nelle misurazioni che comportano distanze maggiori di 400 metri. Anche per questo tipo di problematiche “superiori” si rimanda a fonti più qualificate, con il conforto che ci può fornire la considerazione che, nel lavoro di tutti i giorni, raramente si opera con tali parametri i quali, tra l’altro, sono gestibili direttamente solo con strumenti di tipo elettronico; questi ultimi, infine, sono spesso dotati di procedure informatizzate che tengono conto di tali fattori già in fase di rilevamento dei dati. Abbiamo già accennato al caso di più sistemi di coordinate polari che sono posti in relazione tra loro tramite la risoluzione della poligonale ai cui vertici si trovano i vari poli. Prima di affrontare il problema della conversione delle coordinate polari in cartesiane dei singoli punti rispetto al polo, vediamo brevemente quello della risoluzione della poligonale che, lo ricordiamo, può essere chiusa o aperta. Cominciamo dalle poligonali aperte. Queste sono definite da un certo numero di vertici e da una serie di rette che li congiungono formanti, due a due, una serie di angoli orizzontali. Per definizione l’angolo di un vertice è quello di cui deve ruotare il lato precedente, procedendo in senso orario, per sovrapporsi al lato seguente, una volta fissato il verso secondo il quale viene percorsa la poligonale (fig. 58). Nella pratica le poligonali vengono tracciate facendo stazione con lo strumento in corrispondenza dei vari vertici e collimando con il cannocchiale il vertice precedente e quello successivo, azzerando il cerchio azimutale (orizzontale) di volta in volta su quello precedente. Per il primo vertice il cerchio si azzera verso una direzione nota. Per calcolare le coordinate cartesiane dei vertici della nostra poligonale occorre conoscere quelle di almeno uno dei vertici, nel caso in figura il vertice A (XA, YA). Gli elementi noti saranno, quindi, i valori XA, YA; le distanze AB, BC e CD e gli angoli β e γ. Le incognite saranno XB, YB; XC, YC; XD, YD. Cominciamo dal vertice B (fig. 59). Conosciamo la distanza AB e l’azimut (AB), quest’ultimo calcolato rispetto alla direzione nota Y, ovvero le coordinate polari di B rispetto ad un sistema cartesiano locale con origine in A. Le coordinate cartesiane di B, relative ad A, sono date dalle formule: (xB )A = AB sen (AB) (yB )A = AB cos (AB) Le coordinate cartesiane di B, assolute rispetto al sistema generale, sono date dalla somme algebriche: YB = YA + (yB)A XB = XA + (xB)A 85
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Fig. 57. Esempi di scarto angolare I segmenti raffigurati a fianco sono lunghi 10 e 12 centimetri e sono stati disegnati con uno scarto angolare di 1° sessagesimale rilevato con il tecnigrafo. Se la scala del disegno fosse di 1:100 avremmo, rispettivamente, un errore di posizione al reale di circa 15 e 20 centimetri. Fig. 58. Poligonali aperte. La poligonale ABCD è stata percorsa da A verso D. Gli angoli OeO dei vertici B e C sono calcolati in senso orario e rappresentano la rotazione che, in corrispondenza dei rispettivi vertici, dovrebbero compiere i lati AB e BC per sovrapporsi (sempre nello stesso ordine) a BC e CD (a). In b) possiamo vedere la stessa poligonale realizzata con lo strumento. Ovviamente da ciascun vertice verranno battuti anche una serie di punti topografici, la cui visualizzazione viene omessa. La procedura per il tracciamento della poligonale sarà la seguente. Facendo stazione in A si azzera il cerchio orizzontale dello strumento verso una direzione nota scelta a piacere. Questa potrebbe essere il nord magnetico, mediante una bussola o il declinatore, un allineamento stradale o altro. Nei calcoli che seguiranno, tale direzione sarà quella dell’asse Y del sistema cartesiano locale cui la poligonale farà riferimento. Una volta azzerato il cerchio si collima il punto di stazione B e si leggono il valore dell’angolo orizzontale e la distanza AB. Le operazioni relative al calcolo delle quote altimetriche per il momento vengono omesse. Battuti tutti i punti visibili da A si sposta la stazione in B e si collima il vertice A, azzerando il cerchio orizzontale in questa posizione e leggendo di nuovo la distanza BA. La doppia lettura servirà da verifica e, in sede di calcolo, verrà considerata l’eventuale media. Quindi si collima il vertice C, effettuando le solite letture angolari e della distanza BC. Avendo azzerato il cerchio in direzione di A, l’angolo letto in C è effettivamente quello che compirebbe il braccio AB per sovrapporsi a BC. La sequenza procede con la stazione posta in C, l’azzeramento verso B, la rilettura della distanza, la lettura dell’angolo in D e della distanza. Arrivati in questa posizione, ultimo vertice della poligonale, si deve solo azzerare il cerchio verso C e ribattere la distanza DC.
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il rilievo strumentale ed il calcolo delle coordinate Fig. 59. (pagina precedente) Calcolo della poligonale AB. In a) possiamo vedere in forma grafica i dati in nostro possesso, ovvero le coordinate polari di B rispetto al polo A riferiti ad una direzione prescelta (cfr fig. 52 e segg.). In b) tale relazione è riferita ad un sistema cartesiano avente l’asse Y parallelo alla direzione prescelta in A. Le coordinate di questo, xA, yA, possono essere effettivamente note (se ad esempio A è un punto topografico identificato, con proprie coordinate geografiche) oppure fissate arbitrariamente, volendo coincidenti con l’origine O. Le incognite, dunque, sono le coordinate xB e yB, ovvero quelle che ci permettono di restituire graficamente il punto B. I valori ricavati (xB)A e (yB)A sono rappresentati in figura e consistono nella proiezione ortogonale della distanza AB sugli assi X e Y. La somma xB = x A + (x B)A rappresenta dunque la posizione effettiva di B rispetto al sistema cartesiano cui i valori iniziali assegnati ad A (xa, ya) fanno riferimento. Se avessimo imposto xA=yA=0, supponendo A coincidente con l’origine, (xB)A e (yB)A avrebbero espresso contemporaneamente la posizione relativa di B rispetto ad A ed assoluta rispetto al sistema cartesiano. Notare che, in questo caso, la yB avrebbe avuto valore negativo.
Proseguendo con il vertice C (fig. 60), questo verrà dapprima riferito ad un sistema locale in B e, con la stessa sequenza, successivamente riferito al sistema generale. Di B abbiamo già calcolato le coordinate; altri termini noti sono la distanza BC e l’angolo β (nella pratica determinato azzerando il cerchio dello strumento in corrispondenza di A e collimando il vertice C). Per poter applicare le formule precedenti dobbiamo determinare l’azimut (BC), applicando la seguente relazione: (BC) = (AB) + β - 180° data dalla uguaglianza degli angoli B’BA e (AB) perché alterni interni; sommando il primo con β si ottiene l’angolo concavo B’BC; sottraendo 180° si ottiene l’azimut cercato. Una volta conosciuto l’azimut (BC) le coordinate relative ed assolute di C sono date da: (xC)B = BC sen (BC) XC = XB + (xC)B (yC)B = BC sen (BC) YC = YB + (yC)B Passando al vertice D (fig. 61), gli elementi noti sono la distanza CD e l’angolo γ. Per conoscere l’azimut (CD) applicheremo la relazione: (CD) = (BC) + γ + 180° Si noti che questa volta abbiamo sommato anziché sottratto 180°. Osservando la figura possiamo notare che l’angolo C’CB è uguale all’azimut (BC); sommandolo con γ si ottiene l’angolo convesso C’CD; sommando 180° si ottiene l’azimut (CD). Proseguendo con la stessa sequenza si ottengono gli altri valori cercati. La regola generale per scegliere il segno da dare al valore di 180° nella somma algebrica è la seguente: l’azimut di un lato di una poligonale si ottiene sommando l’azimut del lato precedente con l’angolo che formano i due lati: se tale somma è maggiore di 180° (200c per i gradi centesimali) si sottrae tale valore; se la somma è minore di 180° si aggiunge (regola di propagazione degli azimut). Talvolta la somma supera il valore di tre angoli piatti (540° o 600c), quando l’azimut precedente è quasi prossimo all’angolo giro e l’angolo supera i 180°. In tal caso occorre sottrarre 540° (o 600c). Una volta completati i calcoli può tornare utile conoscere la distanza tra i vertici estremi A e D. Essa è data dalle seguenti relazioni: tg (AD) =
AD =
∆X XD − XA = YD − YA ∆Y
∆X ∆Y = sen(AD) cos(AD) 87
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Fig. 60. Calcolo del vertice C. In a) troviamo lo schema grafico dei dati noti di C: l’angolo β (ottenuto azzerando il cerchio dello strumento e collimando poi C) e la distanza BC. Per poter applicare la formula usata per calcolare B dobbiamo riferire C allo stesso sistema di coordinate, dunque ci occorre l’angolo azimutale (BC). Tale dato si desume da semplici osservazioni di geometria: (AB) è uguale a β’, dunque β’’=(AB)+β. Sottraendo l’angolo piatto a β’’ si ottiene l’azimut (BC). In b) le stesse relazioni polari sono espresse in riferimento al sistema cartesiano usato in precedenza. Conoscendo l’azimut (BC) la procedura per il calcolo di C è la stessa già esposta per B.
Fig. 61. Calcolo del vertice D. In a) è rappresentato il solito schema relativo al vertice D. Si noti che, in questo caso, l’azimut (CD) è stato ottenuto aggiungendo un angolo piatto alla somma γ’+γ=γ’’, in cui γ’=(BC). Il sistema cartesiano generale di riferimento è rappresentato in b). Va sottolineato come le relazioni xD=xC+(xD)C e yD=yC+(yD)C valgono lo stesso anche se, graficamente, salta agli occhi che l’ascissa di D si ottiene sottraendo il valore relativo di D rispetto a C (xD)C a quello assoluto di C (xC): il valore numerico del seno di questo angolo (compreso tra 270° e 360°) è negativo. Una volta completati i calcoli è possibile effettuare la restituzione della poligonale che, operando con semplici valori numerici per dei riferimenti ortogonali, la peculiarità di svincolare i vertici tra di loro. Questo significa che, a meno di errori commessi in fase di rilievo di campagna o di calcolo, ogni vertice è posizionato in modo univoco ed autonomo e che eventuali errori in questa fase non coinvolgono altri vertici.
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Fig. 62. Calcolo di poligonali non orientate. Se non si conoscono le coordinate “vere” di A o non esiste una particolare direzione cui fare riferimento, si fa coincidere A con l’origine (xA=yA=0) e la direzione con uno degli assi (in questo caso con quello delle ascisse). L’azimut (AB), quindi, sarà uguale a 90°, i valori del seno e del coseno, rispettivamente, a 1 e 0 e le seguenti coordinate di B: xB=AB (distanza) . 1; yB= AB . 0.
Fig. 63. Poligonale chiusa. La poligonale ABCDEA presenta l’ultimo vertice coincidente con il primo e, se ben rilevata, consente una maggiore precisione della restituzione, ovvero permette di evidenziare gli eventuali errori. Il valore dell’angolo α va rilevato alla fine, reimpostando la stazione, azzerando su E e collimando B. Un’alternativa alla poligonale chiusa, intesa come metodo di verifica, può essere quello di ribattere A facendo stazione in E, come fosse un punto qualsiasi. I valori delle coordinate xA, yA, calcolate come punto di E, dovrebbero essere uguali a quelle inizialmente assegnate o conosciute.
Fig. 64. Errore di chiusura. La figura evidenzia la componente grafica dell’errore. Il valore di ∆, infatti, rappresenta la lunghezza dell’ipotenusa del triangolo rettangolo avente come cateti δx e δy, quale sia il loro segno. In caso di valori negativi, infatti, il triangolo rettangolo avrebbe solo un diverso orientamento.
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La procedura appena esposta presuppone la conoscenza delle coordinate del primo vertice e dell’azimut relativo rispetto ad una direzione nota (poligonale orientata). Spesso, però, capita di dover tracciare poligonali non orientate e dalle coordinate non note (fig. 62). In questo caso si adotta l’espediente di far coincidere il primo vertice con l’origine degli assi ed il primo lato con uno di questi ultimi (indifferentemente X o Y), in modo da avere il primo azimut uguale a 90° ( oppure a 0°, nel caso si scelga come asse coincidente quello Y) e le coordinate del secondo vertice uguali a 0 (y o x, a seconda dell’asse prescelto) ed al valore assoluto della distanza (x o y, viceversa). Il resto della procedura è uguale all’esempio precedente. Volendo una maggiore precisione nel tracciamento della base topografica si ricorre alle poligonali chiuse (fig. 63). In questo caso gli scarti angolari e nella determinazione delle distanze causati da eventuali errori appaiono in tutta la loro evidenza e si può procedere ad una loro stima e, se occorre, alla loro correzione. Le poligonali chiuse sono caratterizzate dalla conoscenza del valore del lato posto tra il primo e l’ultimo vertice e dell’angolo corrispondente. Nell’esempio in figura, i valori noti sono: i lati AB, BC, CD, DE, EA; gli angoli α, β, γ, δ, ε; le coordinate cartesiane di A e l’azimut (AB). Le incognite sono: XB, YB; XC, YC; XD, YD; XE, YE. La prima verifica si fa sui valori degli angoli: la somma degli angoli interni di un poligono è uguale a tanti angoli piatti quanti sono i lati, meno 360° (400c); la somma degli angoli esterni è uguale a tanti angoli piatti quanti sono i lati, più 360° (400 c). Sommando i valori degli angoli letti dallo strumento ci si può trovare di fronte ad una differenza tra il valore teorico e quello effettivo. Se questa è minore della tolleranza consentita (il Catasto italiano prescrive la seguente formula: T = 3 - n , dove T è la tolleranza e n il numero dei vertici) occorre procedere alla compensazione degli angoli o, nei casi più gravi, tornare sul posto con lo strumento e verificare le letture. La compensazione angolare si effettua con la ripartizione del valore di lettura, in parti uguali, tra tutti gli angoli della poligonale. Una volta corretti gli angoli si procede al calcolo degli azimut con lo stesso procedimento già illustrato: (BC) = (AB) + β +- 180° (200c); (CD) = (BC) + γ +- 180°; (DE) = (CD) + δ +- 180°; (EA) = (DE) + ε +- 180°. Calcolati gli azimut si procede al calcolo delle coordinate cartesiane relative (ogni vertice rispetto al precedente) con le formule seguenti: vertice B (xB)A = AB sen (AB) 90
(yB)A = AB cos (AB);
il rilievo strumentale ed il calcolo delle coordinate
vertice C vertice D vertice E vertice A
(xC)B = BC sen (BC) (xD)C = CD sen (CD) (xE)D = DE sen (DE) (xA)E = EA sen (EA)
(yC)B = BC cos (BC); ( yD)C = CD cos (CD); (yE)D = DE cos (DE); (yA)E = EA cos (EA).
I valori ottenuti sono coordinate parziali dei vertici rispetto a quelli precedenti. Prima di procedere al calcolo delle coordinate totali occorre fare la somma algebrica, di verifica, di tutte le ascisse e tutte le ordinate. In una poligonale chiusa tali somme devono essere sempre uguali a zero. Se questo non avviene siamo in presenza di errori nella lettura delle distanze ed i valori di scarto si indicano con δx e δy (fig. 64). L’errore di chiusura lineare della poligonale è dato dalla seguente formula: ∆ = δx 2 + δy 2 Anche in questo caso le norme del Catasto prevedono dei valori limite della tolleranza espressi dalle formule: T = 0.06
∑l
T = 0.8 n
dove Σl è la somma di tutti i lati ed n il numero dei vertici. Esistono altre formule più “benevole”(con tolleranza maggiore) riguardanti i casi in cui il terreno è scosceso o fortemente accidentato, ma l’uso ormai diffuso degli strumenti elettronici rende ovvia l’applicazione di quelle più restrittive. Ad di là dei problemi normativi esistono anche dei limiti di buon senso: tanto più il lavoro richiede accuratezza e precisione del rilievo, quanto meno ha senso accettare dei valori difformi da quelli teorici. La compensazione delle ascisse e delle ordinate si effettua in due modi: ripartendo δx o δy proporzionalmente alla lunghezza dei vari lati o proporzionalmente (rispettivamente) ai valori delle ascisse e delle ordinate (quest’ultimo è prescritto dalle norme del Catasto). Per procedere con il primo metodo, si ottiene un quoziente unitario dividendo il valore δ (x o y) per la sommatoria dei lati. Tale valore si moltiplica poi per la lunghezza dei singoli lati per ottenere l’ascissa (o l’ordinata) corretta. I nuovi valori corretti -(xB)’A, ecc.- saranno sottratti algebricamente (tenendo conto del segno) ai precedenti valori delle ascisse se δx risulta positivo, sommati se quest’ultimo risulta negativo. Lo stesso vale per le ordinate, a seconda del segno di δ y. Fatta la correzione delle coordinate parziali si passa al calcolo di quelle totali, con la stessa procedura delle poligonali aperte: XB = XA + (xB)’A YB = YA + (yB)’A e così via. Anche in questo caso, è raro dover calcolare delle poligonali già orientate e si procede, come già esposto per quelle aperte, ricorrendo all’espediente di far coincidere il primo punto con l’origine di un sistema di assi cartesiani relativo ed il primo lato con uno degli assi, ottenendo così un azimut fittizio (0 o 90°) con cui poter effettuare i calcoli (fig. 65). Una volta verificata l’esattezza dei dati rilevati per la poligonale (aperta o chiusa) e calcolate le coordinate cartesiane dei vertici, si può procedere al calcolo di conversione delle coordinate polari dei singoli punti battuti da ogni stazione, con la stessa procedura illustrata in precedenza. Si determina innanzitutto l’azimut del punto dal valore dell’angolo letto dal rispettivo vertice (rispetto al sistema cartesiano principale della poligonale), quindi si moltiplica il valore della distanza per il seno o il coseno dell’azimut 91
manuale di rilievo e documentazione grafica
Fig. 65. Poligonali chiuse non orientate. Come per le poligonali aperte, anche quelle chiuse possono essere appoggiate direttamente ad un sistema cartesiano, facendo coincidere il primo vertice con l’origine ed uno dei bracci con un asse. La stessa poligonale, infatti, è stata riferita all’asse X appoggiandovi il braccio AB (in alto) ed all’asse Y appoggiandovi EA (in basso).
Fig. 66. Calcolo delle coordinate di un punto. Il punto 1 è stato battuto dal vertice A, quindi la sua risoluzione prevede prima un sistema di coordinate riferito alla stessa stazione. I valori relativi ottenuti (x1)A, (y1)A sono quindi trasformati in assoluti rispetto al sistema cartesiano generale. Il punto 2 è stato battuto da B. Il suo azimut γ dovrà essere riferito al sistema principale, quindi dovrà essere calcolato in relazione ad (AB): γ = (AB) + β - 180° Fig. 67. Determinazione delle quote altimetriche (pag. seguente). Finora abbiamo considerato solo il calcolo delle coordinate planimetriche. Per quanto riguarda quelle altimetriche (z) il problema è più semplice. La distanza inclinata misura il segmento che unisce il centro della stazione al punto da misurare, considerato in corrispondenza della lettura al filo medio della stadia o al centro del prisma riflettore. Il prodotto D = ctg ϕ esprime il dislivello (positivo o negativo) esistente tra il centro della stazione ed il punto letto sulla stadia o sul prisma. Per conoscere i reali dislivelli del terreno tra il punto di stazione e quello fisico da misurare occorre tenere conto dell’altezza h dello strumento e di quella l del punto rispetto alla stadia o al prisma. La formula (zP)S = D ctgϕ + (h-l) esprime appunto tale valore.
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il rilievo strumentale ed il calcolo delle coordinate
La formula finale zP = zS + (zP)S tiene conto anche della quota (assoluta o relativa) del punto di stazione nel contesto della poligonale.
Fig. 68. Restituzione grafica dei punti. La carta millimetrata stampata su poliestere dovrebbe essere lasciata sempre pultita, quindi è meglio sovrapporre un foglio “bianco” su cui disegnare gli assi, i punti e tutte le indicazioni scritte. Questa affermazione è motivata anche dalla necessità, secondo il mio modesto parere, di lavorare su un foglio privo dei riferimenti della carta millimetrata che servono solo a confondere il disegno nel caso, frequentissimo, in cui la struttura da rilevare non abbia una vera ortogonalità e, soprattutto, non sia allineata con il reticolo millimetrico. Nell’impostare gli assi cartesiani occorre avere cura di posizionare l’origine in modo da lasciare ampio spazio a tutti i punti, compresi quelli aventi eventuali coordinate di segno negativo. Sarebbe bene, pertanto, disegnare prima quelli aventi valori maggiori, per verificare se il rilievo è tutto compreso nel foglio. I riferimenti numerici sugli assi X e Y possono essere riportati direttamente nella scala del rilievo da restituire. Le indicazioni scritte dei punti dovrebbero comprendere, oltre al nome, anche la quota z e le eventuali notizie riportate sul libretto di campagna.
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manuale di rilievo e documentazione grafica
per ottenere, rispettivamente, l’ascissa e l’ordinata (relative al vertice) cercate. I valori delle coordinate assolute del punto si ottengono, infine, dalla somma algebrica delle sue coordinate relative con quelle assolute (calcolate in precedenza) del vertice corrispondente (figg. 66, 67). Tradotta in formule, la procedura è la seguente. per le coordinate relative alla stazione: (x P)S = D sen θ (y P)S = D cos θ (z P)S = D cotg ϕ + (h + l) con (x P)S, (y P)S = coordinate del punto rispetto alla stazione; (z P)S = dislivello esistente tra il punto di stazione ed il punto fisico; D = distanza inclinata; θ = angolo azimutale del punto; ϕ = angolo zenitale; h = altezza strumentale; l = altezza della stadia al filo medio oppure del prisma. Le coordinate assolute del punto rispetto al sistema cartesiano della poligonale si ottengono dalle seguenti: XP = XS + (x P)S YP = YS + (y P)S ZP = ZS + (z P)S con XP YP ZP = coordinate assolute; XS, YS ZS = coordinate della stazione. Riassumendo brevemente, il rilevamento strumentale di un’area si articola nelle seguenti operazioni: a) rilievo di campagna con l’impostazione della eventuale poligonale e la collimazione dei vari punti di dettaglio; b) (qualora si sia lavorato con uno strumento ottico e la stadia) calcolo delle distanze e dei dislivelli di ogni punto, compresi quelli formanti la poligonale, tramite l’elaborazione dei dati relativi alle letture ai fili inferiore e superiore e dell’angolo zenitale; c) verifica e calcolo della poligonale (chiusa o aperta) con le coordinate dei vertici; d) calcolo delle coordinate cartesiane dei singoli punti di dettaglio; e) restituzione grafica, alla scala voluta, dei punti e dei vertici della poligonale; f) eventuale integrazione con il rilievo diretto e restituzione grafica del disegno finale. La restituzione grafica delle coordinate. L’avvento dei calcolatori ha visto anche la comparsa di tutta una serie di programmi applicativi di calcolo topografico in cui tutto è molto più semplice e rapido. Una volta impostato lo strumento usato (il programma può compensare automaticamente anche gli errori di lettura, a seconda del tipo) è sufficiente digitare i dati di ogni punto, assegnando a ciascuno un codice di identificazione, per avere in brevissimo tempo il tabulato con tutti i punti e le relative coordinate cartesiane (espresse in Nord -Y- ed Est -X-) che non devono essere altro che restituiti graficamente. Alcuni programmi, poi, possono anche generare il disegno dei punti (compatibile con i programmi CAD e successivamente, da questi, manipolabili e stampabili su carta) nella scala voluta, tracciare le curve di livello ed i profili del 94
il rilievo strumentale ed il calcolo delle coordinate
terreno secondo determinati allineamenti, ecc., il tutto con una precisione assoluta. Per quanto riguarda la restituzione grafica dei punti espressi in coordinate cartesiane si possono seguire due metodi: manuale o informatizzato. Il primo è relativamente semplice (fig. 68): su un foglio di carta millimetrata sufficientemente grande (meglio se stampata su poliestere, in modo da avere un riferimento preciso sia per le misurazioni che per l’ortogonalità degli assi) se ne sovrappone un altro di poliestere su cui disegnare i singoli punti usando il reticolo della carta millimetrata per “staccare” i valori delle coordinate espressi nella scala prescelta. Ovviamente i codici assegnati ad ogni punto in sede di rilievo di campagna vanno riportati sul disegno (è meglio associarvi anche i valori delle quote altimetriche, in modo da avere tutte le informazioni sullo stesso elaborato). Il disegno va ripassato a china con la massima cura (gli eventuali spostamenti delle posizioni dei punti equivarranno ad averli battuti in modo errato) e diverrà la base per il rilievo da completare a mano sul posto. Non disponendo di altro originale, tuttavia, sarà bene fare una copia prima di iniziare la restituzione della pianta definitiva in cantiere. Chi dispone di un calcolatore ed un programma CAD potrà fare un lavoro più veloce e preciso costruendo un disegno automatizzato con tutti i punti battuti, assegnando a ciascuno la coppia di coordinate corrispondente. Lavorando in Autocad, ad esempio (fig. 69), è sufficiente scegliere il comando “Point” (scegliendo le dimensioni ed il tipo di rappresentazione con le opzioni “pdmode” e “pdsize” in funzione del gusto e della scala di stampa) e digitare, per ogni punto, i valori X ed Y delle coordinate. Per assegnare ad ogni punto il rispettivo codice (e l’eventuale valore di quota Z, vedi quanto detto poco sopra) si può lanciare il comando “Dtext” dando come punto di inizio della riga di testo gli stessi valori delle coordinate dei punti (tale procedura consente di verificare anche l’esatta digitazione dei valori durante l’esecuzione di “Point”) e scrivendo poi, come testo, il codice di ognuno. Lavorando in ambiente CAD, ovviamente, non si tiene conto della scala della restituzione (i valori digitati saranno direttamente quelli reali), che verrà impostata solo in fase di stampa su plotter. Per quanto riguarda la fase di restituzione grafica del rilievo, il disegno sarà in realtà costituito solo da una serie di punti con l’indicazione di riferimento, praticamente una cosa quasi illeggibile, per cui è molto importante scegliere i punti giusti e riportare tali indicazioni sul libretto di campagna (e, quindi, sul disegno). Quali punti scegliere? Teoricamente più punti si battono e maggiore è la definizione del rilievo strumentale, quindi minore la possibilità di compiere errori nella fase di integrazione manuale del disegno. In realtà è sufficiente battere solo un certo numero di punti essenziali e fare il resto, poi, a mano (fig. 70). Nel rilievo di una struttura architettonica, ad esempio, è sufficiente prendere le estremità di ogni muro, avendo cura di scegliere ogni volta degli spigoli ben conservati oppure le parti di paramento integre, per averne tutti gli allineamenti e poter cominciare a costruire uno scheletro di pianta. Ovviamente sui muri devono essere riportate (fisicamente) punto per punto le stesse indicazioni (numeri, lettere, codici alfanumerici) che trascriveremo sul libretto di campagna, per poterle confrontare con quelle del disegno restituito. 95
manuale di rilievo e documentazione grafica
Fig. 69. Esempio di restituzione CAD. La figura è stata realizzata con Autocad e stampata in scala 1:50. Per esigenze tipografiche l’immagine è stata ulteriormente ridotta. I punti sono stati generati con il comando “point”, avendo scelto per “pdmode” l’opzione 2. I caratteri, scritti con il comando “dtext”, sono stati inclinati di 45° per cercare di evitare loro sovrapposizioni alla successiva restituzione del rilievo. Ovviamente la dimensione dei punti e dei caratteri, nonchè lo spessore del loro tratto, dovranno essere attentamente calibrati in funzione della scala del disegno: a mio avviso tali elementi dovrebbero essere meno visibili possibile, per non recare fastidio durante l’integrazione a matita e la lucidatura. Per chi non ha molta dimestichezza di tali procedure, pertanto, sarà meglio fare una stampa di prova su carta prima di sprecare poliestere. Eventuali modifiche a tali impostazioni potranno essere apportate con i comandi “pdsize” per i punti e “chtext” o “chprop” (a seconda delle versioni) per il testo, lasciando immutate la posizione (fondamentale) degli stessi. Digitando i valori delle coordinate dei punti è sufficiente assegnare solo quelli di x e y, tralasciando la quota z. A meno di altre applicazioni previste, infatti, è inutile costruire dei punti con caratteristiche tridimensionali se dovremo stampare solo una vista piana (sul piano XY).
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il rilievo strumentale ed il calcolo delle coordinate
Fig. 70. Esempi sulla scelta dei punti. La struttura in a) è caratterizzata dalle murature in pessimo stato di conservazione. Ciò sarebbe stato un problema nel caso del rilievo diretto per quanto riguarda la necessità di trovare dei punti “buoni” posti alla stessa quota per le misurazioni. Usando lo strumento, invece, abbiamo potuto scegliere gli spigoli migliori anche se posti a quote diverse. Nel caso della parete con la porta, avente la faccia esterna inclinata, però, siamo stati costretti a battere i due punti alla stessa quota per poterne determinare l’allineamento preciso. Si noti anche il punto 3, battuto sullo spigolo della mazzetta, immaginando l’angolo adiacente impraticabile con la stadia, da cui si è fatto base, con il punto 2, per la triangolazione locale dell’angolo. Da notare anche i punti 4, 5, 8, 9 sulla parete contenente l’abside: i punti 5 e 8 sono stati battuti distanti dagli angoli sia perché questi ultimi sono deformati sia, soprattutto, per verificare l’allineamento dei due tratti di parete rettilinea. Battendo i punti 1 e 2 si è avuto cura di misurare anche la quota orizzontale della cresta del muro. Nella struttura in b) si immagina di non poter collocare un’altra stazione. Oltre agli spigoli 10, 11, 12, pertanto, sono stati battuti anche una serie di picchetti a terra (punti 13-16) che serviranno da basi per le successive triangolazioni per rilevare il resto della struttura. I punti sugli spigoli sono stati battuti alla stessa quota per poter eseguire delle misurazioni più precise. I picchetti 15 e 16 sono stati collocati, con l’ausilio dello strumento, sullo stesso allineamento per agevolare la restituzione. In entrambi i casi, una volta disegnati gli allineamenti delle pareti, la posizione delle aperture è stata determinata con delle semplici misurazioni.
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Se avremo fatto un buon lavoro, quando torneremo sul posto, non dovremo fare altro che congiungere con delle linee i punti estremi di ogni allineamento, un po' come i giochi delle parole crociate in cui si compongono le figure unendo i punti numerati. Anche se i punti non sono indicati in sequenza (numeri progressivi, ecc.), il riscontro che si opera sul posto con la struttura reale permette ugualmente di raccapezzarsi nella distesa di puntini che troveremo sul foglio. Non è necessario prendere tutti gli elementi di un muro (finestre, porte, ecc.) perché, se si è in grado di tracciarne l’allineamento e di indicarne le estremità, tutte le altre misure possono essere prese direttamente sul posto in modo veloce e preciso. Anche per altri tipi di strutture, quali edifici chiusi, luoghi angusti e/o con condizioni di visibilità limitata (scale, corridoi, serie di ambienti con alte pareti, ecc.) l’uso intensivo dello strumento è poco redditizio per la notevole quantità di tempo che si impiega per spostarlo continuamente, dovendolo rimettere ogni volta in stazione. In questi casi è preferibile ricorrere al rilievo strumentale solo per fissare con precisione alcuni punti importanti (ad esempio, quelli necessari a legare il rilievo interno con quello esterno) e, successivamente, agganciarsi a questi per continuare il rilievo con il metodo diretto. Accennavamo prima alla possibilità di avere più sistemi di coordinate polari, legati tra loro dalle relazioni esistenti tra i vari poli. Le poligonali si usano quando l’area da rilevare ha una conformazione tale da non consentire la lettura di tutti i punti (perché non fisicamente visibili) da un’unica stazione, ad esempio a causa di dislivelli del terreno o per una successione di ambienti con le pareti abbastanza alte, oppure a causa della vegetazione rigogliosa. In casi simili si procede con una prima stazione da cui si battono tutti i punti visibili, quindi si sceglie un secondo luogo idoneo (da cui sia possibile vedere un’altra serie di punti, compreso quello in cui si trova la prima) per una stazione, si batte anche questo punto dalla prima, si sposta lo strumento sul punto scelto e si mette in bolla, si batte come primo punto il luogo della stazione precedente e si azzera il cerchio azimutale su questo allineamento, si procede poi a battere tutti i punti visibili, e così via di stazione in stazione. Il fatto di leggere due stazioni consecutive da entrambe le posizioni serve a correlarle tra loro e, quindi, all’insieme dei punti battuti: la lettura fatta dalla prima stazione serve a legare la seconda al primo sistema di coordinate (cioè a dire che, rispetto alla prima, la seconda si trova ad una data distanza e posta con una certa angolazione), la lettura fatta dalla seconda verso la prima e l’azzeramento del cerchio orizzontale servono a legare il secondo sistema di coordinate al primo (cioè a dire che, rispetto alla direzione principale di riferimento del primo sistema di coordinate, la seconda stazione assume come principale la direzione misurata dalla prima e, da questa direzione, misura gli altri punti dando loro una posizione relativa al primo sistema). La quantità di lavoro necessario, sia in fase di cantiere che di calcolo, al tracciamento di una poligonale è dunque notevole e direttamente proporzionale alla possibilità di errore (nel senso che, se si sbaglia un singolo punto l’errore è circoscritto, ma se si sbaglia un vertice di poligonale l’errore “trascina” con sé tutti i punti ad esso legati e le successive stazioni), quindi è bene fare attenzione nella scelta dei vertici al fine di ridurne al massimo il numero. 98
il rilievo strumentale ed il calcolo delle coordinate
L’impostazione di un rilievo. Immaginiamo di disporre di un teodolite tradizionale sprovvisto di distanziometro (di questo parleremo nel capitolo dedicato all’esperienza della domus della Nicchia a Mosaico di Ostia Antica) e di una stadia e di dover rilevare un rudere di edificio di cui restano due ambienti contigui ancora coperti a volta, e due ambienti le cui pareti sono meno alte ma ugualmente insormontabili (fig. 71). Arrivati sul posto (sorvolando sulle fasi preliminari di sopralluogo e di primo approccio al nostro oggetto da rilevare), va innanzitutto scelto il primo luogo in cui fare stazione. Le sue caratteristiche fisiche dovrebbero essere di massima visibilità (ideali sono i luoghi posti ad una certa altezza, eventualmente anche sulle stesse strutture murarie, se le loro condizioni lo permettono) di una buona parte dei punti notevoli della struttura, sgombro dalla vegetazione e con il suolo in condizioni tali da poter segnare a terra il punto fisico coincidente con il centro della stazione (con un chiodo o un picchetto inamovibile). Dovrà inoltre darvi la possibilità di girare intorno al cavalletto con comodità, quindi attenzione a non piazzarlo sull’orlo di rupi o addossato ad un muro. Sarà bene infine che si trovi in posizione protetta, se possibile, dal sole e da possibili pericoli di cadute, urti, ecc.. Piazzato il cavalletto (infiggendone con forza le punte nel terreno) si fissa lo strumento alla base mediante una grossa vite che consente delle traslazioni limitate. Si procede quindi alla messa in bolla, ruotando le tre viti calanti che si trovano in corrispondenza delle gambe del cavalletto e che provocano degli spostamenti verticali (in alto o in basso) al vertice della base corrispondente. Questa operazione, se si è agli inizi, richiede un po' di tempo e molta pazienza e non c’è manuale che possa insegnarla meglio dei tentativi fatti direttamente. Solo un piccolo trucco per andare più spediti. Se lo strumento dispone di piombo ottico, piazzare il treppiede in modo che sul mirino il punto a terra sia al centro del reticolo. Per mettere in bolla, prima di ricorrere alle viti calanti, alzate o abbassate le zampe del cavalletto mediante le viti di serraggio fino a mettere la bolla al centro della livella sferica. Controllate di nuovo il piombo ottico e, se il reticolo si è spostato dal punto di stazione, allentate il vitone e traslate la basetta fino alla posizione esatta. Correggete poi con le zampe o direttamente con le viti calanti e passate alla livellazione di precisione. Tutti i teodoliti dispongono, oltre che della livella sferica posta sulla base, anche di una (o più) livella torica, che va registrata dopo aver aggiustato quella della base. Praticamente la prima dà un’orizzontalità approssimata e la seconda completa l’operazione con estrema precisione. La livella torica (che, a differenza di quella sferica posta sulla parte fissa della base, si trova su quella girevole) va regolata (cioè, lo strumento va regolato in base a questa) ponendola dapprima parallela a due delle tre viti calanti, le quali vanno registrate, con lievi spostamenti, una alla volta (fig. 72). Definita l’orizzontalità di questo allineamento si ruota la parte girevole (alidada) di 90°, allineando la livella con la terza vite, che deve essere registrata (solo questa!) per completare la regolazione. Il concetto teorico è il seguente (fig. 73): le prime due viti sono assimilabili a due punti nello spazio (per i quali passa una sola retta, giacente sulla base dello strumento) che vengono spostati fino a raggiungere l’orizzontalità assoluta. Per due punti passano infiniti piani e, di questi, solo uno corrisponde all’orizzontale, quindi ne occorre un terzo (per tre punti passa un solo piano) per completare l’operazione. Avendo già livellato la prima retta, la rotazione di 90° dello strumento vale a dire che, del nuovo allineamento, una 99
manuale di rilievo e documentazione grafica
Fig. 71. Esempio di rilievo strumentale. Si presti attenzione alla scelta dei punti: oltre a tutti gli spigoli esterni dei fabbricati sono stati battuti anche tutti gli angoli visibili degli ambienti 1 e 2 per avere dei riscontri sullo spessore e l’allineamento delle pareti. I punti A, B, C, D, oltre a fungere da riferimento per gli spessori, serviranno anche da basi per la triangolazione del resto degli ambienti 3 e 4. S1 e S2 ci danno delle informazioni anche riguardo le quote altimetriche delle strade circostanti e per misurare le altezze, notevoli, delle pareti esterne del fabbricato per la restituzione dei prospetti e delle sezioni. Notare la direzione di S1, impostata sul riferimento del nord magnetico (bussola).
Fig. 72. Regolazione della livella torica. Avendo già regolato quella sferica, la livella torica (oppure quella elettronica, negli strumenti che ne sono dotati) richiede la seguente procedura: a) allineare, ruotando l’alidada, la livella torica con due delle tre viti calanti (1 e 2) che devono essere regolate per portare la bolla al centro; la vista assonometrica fa riferimento a questa posizione; b) verificare la livellazione ruotando l’alidada di 180°, portando la livella nella posizione opposta, ugualmente parallela alle viti 1 e 2 ; qualora la bolla non risulti perfettamente centrata procedere con piccoli aggiustamenti e verifiche in a) e b); c) ruotare l’alidada di 90° portando la livella perpendicolare all’allineamento 1-2; regolare solo la vite 3, lasciando ferme le precedenti. Centrata la livella, verificare ruotandola di 180° e, eventualmente, agire solo sulla vite 3. Una volta completate le operazioni la livella dovrebbe rimanere centrata in qualsiasi posizione si ruoti lo strumento.
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Fig. 73. Principi teorici della livellazione. I punti 1 e 2 rappresentano le prime due viti calanti sulla retta x che giace sul piano della base dello strumento. Una volta regolata orizzontalmente la retta X avremo infiniti piani, variamente inclinati, che passano per essa, dei quali uno solo perfettamente orizzontale (a). Il punto 3 rappresenta la terza vite, x’ è il punto medio del segmento 1-2. La regolazione orizzontale del segmento 3-x’ corrisponde alla ricerca del punto giacente sul piano orizzontale XY (per una retta ed un punto, oppure per due rette, non coincidenti, passa un solo piano) passante per la retta X (b). L’asse Z, ortogonale al piano XY, è parallelo all’asse di rotazione dello strumento Z’, che insiste al centro del triangolo 1,2,3 e la cui immagine a terra è il punto fisico di stazione. Fig. 74. Operazioni sistematiche per la messa in stazione. Le seguenti operazioni devono diventare di assoluta routine. 1. Individuazione del punto a terra, immagine dell’asse verticale dello strumento: mediante il piombo ottico o con un filo a piombo individuare il punto esatto e piantare un riferimento inamovibile (picchetto o tassello). Su questo segnare con un tratto sottile il punto. 2. Misura dell’altezza strumentale tra il punto a terra ed il riferimento sulla spalla dello strumento: molto utile, in questi casi, è il metro a fettuccia metallica a molla (a). Azzeramento del cerchio orizzontale: fissare l’alidada in corrispondenza del valore 0 e bloccare il cerchio orizzontale con l’apposito comando rendendolo solidale con l’alidada. In questa posizione, comunque si ruoti il cannocchiale, il valore del cerchio sarà sempre 0. Collimare quindi l’allineamento prescelto e sbloccare il cerchio, svincolandolo dall’alidada e fissandolo alla base. Dopo questa operazione i valori di Hv dovrebbero cambiare ad ogni spostamento (b).
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estremità corrisponde già al piano orizzontale e resta solo da definire l’altra estremità, corrispondente alla terza vite. Per verificare la perfetta orizzontalità della livella torica si ruota, per ogni operazione, il basamento girevole di 180°, facendo attenzione se la bolla rimane nella stessa posizione e, se no, ripetendo gli aggiustamenti. Una volta completate le operazioni, se lo strumento è ben tarato e non presenta difetti, in qualsiasi posizione si ruoterà l’alidada, la livella torica dovrebbe, una volta ritrovato lo stato di quiete, rimanere nella posizione corrispondente all’orizzontale. Se questo non avviene avete sbagliato qualcosa e dovete ripetere le operazioni: fare delle misurazioni con uno strumento piazzato male significa condannarsi automaticamente a commettere degli errori di lettura (nel senso che gli errori è lo strumento stesso a farli), tanto più notevoli quanto più distanti sono i punti da battere, perché gli strumenti sono concepiti per funzionare perfettamente a livello e l’inclinazione del cannocchiale (data dalla imperfetta posizione della base) produce un aumento dei valori delle distanze lette. Esistono anche strumenti provvisti di dispositivi autolivellanti e/o di controllo elettronico dell’esatto posizionamento in stazione, le cui procedure sono più veloci e semplici di quella appena esposta. Quasi tutti i teodoliti dispongono di un mirino laterale per inquadrare il suolo, provvisto di croce di puntamento e di messa a fuoco (piombo ottico), che serve a vedere dove cade la verticale di tale centro; per gli altri si procede con l’ausilio di un filo a piombo (facente parte dell’attrezzatura del cavalletto), appeso ad un gancio apposito. Oltre al piombo ottico esiste anche la basetta con piombo laser che, attivata, proietta una marca luminosa a terra. Individuato il punto esatto, il segno si può apporre in diversi modi: con un picchetto di legno o di metallo in caso di terreno, con un chiodo di acciaio o un tassello ad espansione (da collocare nel foro praticato da un trapano) in caso di pavimentazione o di suolo duro; segnando con estrema evidenza ed in modo durevole (pennarelli a vernice, incisioni o altro) il punto esatto (con una croce, un puntino con un cerchio intorno, ecc.) (fig. 74). E’ importante lasciare un segno preciso ed indelebile (almeno fino a lavoro finito!) per il punto di stazione perché esso potrebbe servire per una poligonale successiva oppure perché potreste essere costretti ad interrompere il lavoro o, comunque, a dover tornare sul posto per prendere altri punti e, quindi, a dovervi posizionare di nuovo nel punto esatto. Un’altra operazione che dovrà diventare sistematica è quella di misurare l’altezza dello strumento, ovvero l’altezza del suo centro (indicato generalmente con un puntino colorato posto sulla montatura del cannocchiale in corrispondenza del suo asse) da terra e di riportarla sul libretto di campagna. Fatto questo si comincia a lavorare, iniziando dall’operazione fondamentale: orientare il cerchio orizzontale in corrispondenza di una direzione che per voi ha un senso. L’operazione di azzeramento serve a stabilire un’origine per l’angolo misurato dal cerchio azimutale, la “direzione che per voi ha un senso” può essere scelta a piacere collimando uno dei punti notevoli della struttura, un punto esterno che vi consenta di orientare il rilievo rispetto al contesto (esempio, un’altra struttura, una strada, un confine di proprietà, ecc.), un punto topografico conosciuto (riferimenti catastali e territoriali, ecc.). L’azzeramento si ottiene puntando il cannocchiale nella direzione corrispondente all’angolo 0; bloccando, tramite un pulsante, il cerchio 102
il rilievo strumentale ed il calcolo delle coordinate
orizzontale su questo valore; collimando il punto che ci interessa e, infine, sbloccandolo con lo stesso pulsante. Nelle collimazioni successive dovrete vedere valori dell’angolo azimutale diversi da zero. Anche per questa procedura si rimanda al libretto di istruzioni dello strumento che sarà senz’altro più chiaro. A questo punto possiamo iniziare il rilievo vero e proprio, ponendo la stadia (ovviamente con l’ausilio di un’altra persona) a ridosso degli angoli visibili dell’edificio e trascrivendo le letture dello strumento sul libretto di campagna. Nella figura 75 avete un esempio di libretto di campagna con i seguenti dati essenziali: a) numero del punto o della stazione; b) altezza dello strumento (da indicare per ogni stazione) o del prisma; c) distanza inclinata; d) distanza ridotta all’orizzontale; e) dislivello (distanza ridotta alla verticale); f) angolo orizzontale; g) angolo zenitale; h) note. Per meglio definire i valori degli angoli azimutali, se i punti sono visibili dallo strumento, è bene segnarli con il pennarello sull’edificio, collimarli con il cannocchiale, leggere i valori del cerchio e trascriverli, e solo successivamente accostare la stadia (che, dato il suo spessore, non può mai coincidere fisicamente con uno spigolo o un angolo interno) ed effettuare la lettura dei fili eventualmente spostando lateralmente il cannocchiale (fig. 76). Questa raccomandazione vale anche per il teodolite elettronico, considerando al posto della stadia l’asta portaprisma. In questo modo l’angolo orizzontale è realmente quello corrispondente al punto e lo spostamento dovuto alla necessità fisica di approssimare la stadia o il prisma al punto, diventa irrilevante. Talvolta può succedere di non riuscire a collimare il punto esatto, ovvero di non riuscire a puntare il cannocchiale nella giusta direzione: guardando ad occhio nudo vediamo perfettamente il canneggiatore ed il punto da battere ma con l’occhio sul mirino “ci perdiamo”, specie se ci sono molti dettagli o vegetazione rigogliosa e l’ingrandimento del cannocchiale è molto forte. In questi casi è preziosa la presenza della persona addetta alla stadia o al prisma, che ci permette di puntare innanzitutto su questa (di cui conosciamo molto meglio i dettagli) e, seguendone la sagoma, arrivare al nostro punto difficile che ci sarà stato provvidenzialmente indicato con un dito o altro segno. Altri espedienti in questi casi possono consistere nell’agitare qualcosa di un colore vistoso che possa meglio richiamare la nostra attenzione nel mirino o, nei casi peggiori, partire ad inquadrare il nostro amico piazzato in una posizione facile da trovare con il cannocchiale e, successivamente, seguirne il cammino fino al punto desiderato. Un aiuto, in questo senso, è dato dai mirini laterali di cui sono provvisti alcuni strumenti, che permettono di approssimare la visuale del cannocchiale nell’area giusta. Se il terreno è pianeggiante e c’è una buona visibilità (muri bassi, posizione della stazione sufficientemente elevata, ecc.) il calcolo di conversione eseguito “a mano” tornerà più facile se si bloccherà il cannocchiale sull’orizzontale (valore di 100c o 90°, a seconda dei gradi centesimali o sessagesimali del cerchio) e si effettueranno le letture alla stadia da questa posizione. In questo caso, infatti, la costante dello strumento è (nei modelli più diffusi) uguale a 100 e quindi la misura della distanza sarà data dalla semplice differenza tra i valori delle letture fatte ai fili superiore ed inferiore. 103
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Fig. 75. Esempio di libretto di campagna. Nel caso si provveda a preparare uno schema da fotocopiare per la trascrizione dei dati di campagna è importante lasciare ampio spazio per le note e le osservazioni relative ad ogni punto. E’ utile riportare anche una legenda per gli eventuali codici alfanumerici che si volessero assegnare a gruppi di punti. Fig. 76. Collimazione dei punti con la stadia. Per aumentare la precisione della lettura degli angoli è meglio collimare prima il punto privo della stadia e trascrivere sul libretto i valori degli angoli (a). Nell’esempio b) la stadia è stata accostata direttamente allo spigolo, quindi il cannocchiale è rimasto fisso sull’angolo zenitale ed è stata ruotata solo l’alidada per facilitare la lettura della stadia. Nell’esempio c) il punto 42 è a terra, quindi non è possibile leggere la stadia. Il punto è stato collimato e la trascrizione ha riguardato solo il valore dell’angolo orizzontale. Quindi si è alzato il cannocchiale lasciando fissa l’alidada portandolo (se possibile) in posizione orizzontale per facilitare il calcolo della distanza. In questa posizione sono stati letti l’angolo verticale ed i valori della stadia (d). Qualora il punto fisico a terra non fosse visibile dalla stazione occorrerà concordare con il canneggiatore la posizione della stadia (bordo destro o sinistro in corrispondenza del punto) perché dalla situazione d) verranno effettuate le letture di entrambi gli angoli. Si noti la diversa impostazione delle quote altimetriche. Nel caso b) la coordinata z che si ricava dal calcolo sarà la quota “vera” del punto relativa alla stazione se si assegnerà 0 al valore di l oppure, se l verrà considerato per il suo valore reale, rappresenterà la proiezione del punto 35 a terra, dove verrà posto lo zero della stadia. Nel caso d), invece, z sarà la quota effettiva del punto 42. Anche questi dati dovranno essere trascritti sul libretto di campagna.
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il rilievo strumentale ed il calcolo delle coordinate
Qualora i punti non siano visibili direttamente (ad esempio quelli posti dietro alte pareti o vegetazione) e si vede solo la sommità della stadia, occorre stabilire una convenzione con il canneggiatore che dovrà posizionare quest’ultima con uno degli spigoli (destro o sinistro) in corrispondenza del punto. Tale regola deve essere sempre rispettata: in tal modo chi sta allo strumento potrà essere certo che la collimazione del punto e la lettura dell’angolo sarà sempre fatta in corrispondenza della posizione esatta. Proviamo ora a fare un esempio di rilievo strumentale, basandoci sull’edificio rappresentato nella figura 71. Faremo la prima stazione nel punto S1 (da cui sarà possibile battere i punti relativi al fronte esterno dell’edificio ed alla strada) e la seconda in S2 posta all’interno dell’ambiente 2 per leggere i punti interni di quest’ultimo e tutti quelli visibili degli altri ambienti. Per completare il rilievo del fronte opposto a quello di S1, avremo bisogno anche di una terza stazione, S3, da cui batteremo anche i punti D e C nell’amb. 4 (che, al pari di quelli A e B, ci faranno da base per compierne il rilievo con il metodo diretto). La posizione di quest’ultima stazione sarà letta da S2 ma, trovandosi praticamente allineata e visibile, sarà bene fare una lettura di verifica anche da S 1. Terminata la lettura dei punti visibili da S1 (compresa la posizione delle altre due stazioni), si sposta lo strumento sulla nuova posizione. Di questa avremo già la posizione a terra indicata da un picchetto o da un altro segno. In questo caso la messa in stazione dello strumento sarà un po' più complicata, in quanto dovremo collocarlo sulla esatta verticale del punto a terra. La procedura consiste praticamente nel piazzare il cavalletto con il centro della base (da cui avrete fatto penzolare il filo a piombo per avere un riferimento approssimativo) posto all’incirca sul punto. Una volta messo in bolla la base dovrà essere verificata l’esatta centratura del segno a terra (con il filo a piombo o il piombo ottico), rettificare gli eventuali spostamenti della bolla e, solo allora, regolare la livella torica come già descritto. Si procede quindi con la misurazione dell’altezza strumentale e l’azzeramento del cerchio azimutale che deve essere fatto in direzione di S1. Anche se la distanza S1 -S2 è stata già misurata dalla prima è bene ripetere tale operazione per avere dei riscontri in sede di calcolo e poter fare, se necessario, degli aggiustamenti. I punti misurati da S2 sono tutti interni, nella fattispecie angoli interni di pareti, quindi tornerà utile bloccare il cannocchiale sull’orizzontale e porre la stadia poggiata a terra in modo da avere insieme la distanza ridotta, l’indicazione dell’orizzontale di riferimento e l’altezza dell’imposta a terra dei muri, che utilizzeremo anche per i prospetti. Lo spostamento da S2 a S3 avverrà con le stesse modalità già descritte, quindi una volta verificato di aver trascritto tutto (questa operazione fa fatta ad ogni cambio di stazione, prima di spostare lo strumento) potremo tornarcene a casa e procedere al calcolo di conversione delle coordinate. La restituzione dei punti ci darà un disegno come quello illustrato in pianta nella figura 71, con il quale torneremo sul posto e completeremo il rilievo. Innanzitutto uniremo i punti che si trovano alle estremità delle pareti, facendo qualche verifica a campione con la fettuccia. Passeremo quindi ad integrare il disegno con tutti gli elementi che non sono stati letti con lo strumento (quali aperture di porte, finestre, proiezioni delle volte, ecc.) e con il rilievo diretto degli ambienti 3 e 4. 105
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Fig. 77. Rilievo integrato di edifici multipiano. L’edificio raffigurato rappresenta il caso particolare della sovrapposizione di strutture di epoche diverse, ciascuna caratterizzata da propri spessori murari ed impianto tipologico. Più in generale, le strutture realizzate prima dell’avvento del cemento armato sono tipiche per la rastremazione che subiscono le pareti portanti procedendo dai livelli inferiori a quelli superiori. Il problema del rilievo diretto di tali manufatti (a prescindere da eventuali complicazioni planimetriche) consiste nella difficoltà che si incontra nella realizzazione di elaborati sovrapponibili, secondo la rispettiva collocazione dei vari livelli nello spazio, ovvero nell’assenza di riscontri verticali attendibili cui fare riferimento per le singole piante. Il problema (spesso ignorato anche dai professionisti) non è solo di carattere formale: non potendo fare affidamento sulla verticalità ed allineamento degli spessori delle murature risulta difficile anche costruire sezioni come quella qui raffigurata, nelle quali occorre evidenziare eventuali fuori filo, strapiombi, murature in falso (parzialmente o totalmente poggianti su strutture orizzontali), oppure comporre correttamente i prospetti, eventualmente dotati di aperture disposte in modo caotico. In casi come questo (ma sarebbe bene estendere tale pratica a tutti i rilievi di fabbricati non moderni) si dovrebbe ricorrere allo strumento per battere almeno una serie di punti per ogni livello (sia all’interno che sulle aperture esterne) per avere dei riferimenti “obbligati” su cui costruire ogni pianta rilevata con il metodo diretto. Procedendo in tal modo si potranno avere anche le seguenti informazioni: riferimenti altimetrici precisi per ogni livello, da cui sarà possibile rilevare tutte le quote relative o assolute; indicazioni corrette per la costruzione di prospetti
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e sezioni ben allineati sul piano verticale; elementi di verifica generale del lavoro svolto, quali spessori di pareti di ambienti non contigui, proiezioni di aggetti, ecc.. Dal punto di vista topografico il problema consiste nel tracciare tante poligonali secondarie (rispetto ad un’unica stazione o ad una poligonale esterna) quanti sono i livelli della struttura, da considerare come entità separate sia nel calcolo che nella restituzione. Il fatto di avere un’orientamento generale comune permette quindi di riferire le singole poligonali ad un unico sistema cartesiano. La quantità e “qualità” dei punti da battere e delle stazioni da impostare vanno calibrate in base alle esigenze ed alla complessità del manufatto, quindi gli esempi grafici a lato sono puramente indicativi. Qualora non sia possibile impostare tutte le stazioni di ogni livello a partire da un’unica stazione esterna, la poligonale per i piani esclusi potrà passare attraverso la scala o qualsiasi altro collegamento verticale esistente.
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Passiamo ora a definire altri casi in cui l’uso dello strumento si associa al rilievo diretto per il disegno della pianta di edifici. Nel caso di strutture con diversi livelli praticabili, se i muri perimetrali si presentano non allineati verticalmente o con notevoli fuori piombo, può risultare difficile dover disegnare delle piante dei singoli piani con dei riferimenti planimetrici generali, tipo proiezioni di elementi a terra, coperture di ambienti sottostanti, proiezioni di particolari architettonici quali cornicioni, ecc.. In questi casi, infatti, è relativamente facile rilevare con il metodo diretto le piante dei singoli piani ma risulta complicato e/o macchinoso legare le une alle altre in modo che siano sovrapponibili. L’uso dello strumento permette di risolvere il problema in poco tempo e con notevole precisione (fig. 77). Sarà sufficiente fare una stazione all’esterno dell’edificio per battere i punti dello spiccato a terra e degli eventuali elementi accessibili (per colui che tiene la stadia o il prisma) in quota e, sempre da questa stazione, impostare una poligonale che ”entri” in ogni piano passando per le scale o, se siamo proprio fortunati, battendo delle stazioni ad ogni piano in corrispondenza delle finestre (o balconi, o altre aperture). Da ognuna di queste stazioni sarà sufficiente battere alcuni punti notevoli da usare poi come base per rilevare poi a mano oppure impostare una nuova poligonale per ogni piano. Avremo così una serie di poligonali sovrapposte con dei punti in comune che ci permetteranno di sovrapporre i vari disegni con la massima precisione, purché si abbia cura di prestare attenzione ad una serie di accorgimenti: a) visto che nella restituzione di tutti i punti battuti avremmo una serie di segni sovrapposti o a pochissima distanza (corrispondenti ai vari piani), dovremo essere in grado di disaggregare le informazioni e le indicazioni grafiche a seconda del piano a cui appartengono; sarà quindi sufficiente assegnare ai vari punti dei codici di identificazione inequivocabili, distinguendoli piano per piano; b) questo ci permetterà di disegnare, per ogni piano, solo i punti che gli appartengono e quelli comuni di sovrapposizione (stazione esterna, punti di riferimento esterni, rete stradale, ecc.), tralasciando quelli appartenenti ad altri livelli; c) visto che la lettura dei dati strumentali ci fornisce anche le varie differenze di quota, anche in questo caso la precisa indicazione dataci dai codici di piano ci permette di montare con facilità i disegni delle sezioni con le quote corrispondenti. Per esempio, se usiamo dei codici alfanumerici, potremmo dare a tutti i punti del piano terra il codice PT000 (gli zeri indicheranno il numero del punto), al piano primo il codice P1000, al secondo P2000 e così via, adottando lo stesso criterio anche per indicare le stazioni (nello stesso ordine: PTS0, P1S0. P2S0, ecc.). Nel calcolo di conversione poi, se saremo riusciti a leggere le stazioni ai vari piani collimando dall’esterno attraverso le aperture delle finestre (la cosa è abbastanza semplice se si ha parecchio spazio aperto intorno all’edificio, ponendo lo strumento abbastanza lontano da poterne inquadrare nel mirino l’intera facciata con le relative aperture, oppure facendo stazione sul tetto di un edificio antistante), potremmo addirittura considerare le stazioni dei singoli piani e quella esterna come poligonali separate e calcolarle ognuna per conto proprio salvo poi disegnarle tutte insieme per avere un quadro complessivo di verifica dell’intero lavoro (fig. 78). 108
il rilievo strumentale ed il calcolo delle coordinate
Fig. 78. Esempio di restituzione CAD. La figura mostra la restituzione in Autocad dei punti battuti all’interno di una chiesa a due livelli da altrettante stazioni, a loro volta legate da una poligonale. In alto sono stati stampati insieme sia i punti che le linee principali delle due piante, in basso solo i punti. In casi come questo è indispensabile ricorrere ai diversi layer di Autocad cui assegnare i singoli livelli dell’edificio (per poterli gestire separatamente) e, soprattutto, ai codici alfanumerici di identificazione dei singoli punti, pena il caos più totale. Non potendo disporre di un computer o di un applicativo CAD si dovrà procedere alla restituzione manuale (mediante carta millimetrata) su singoli fogli per ciascun livello, avendo cura di riportare i riferimenti generali per la sovrapposizione dei disegni
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Altre applicazioni pratiche. Un’altra applicazione dello strumento ottico è quella della livellazione del terreno per poter tracciare i profili dello stesso e calcolare le quote altimetriche di cui abbiamo già parlato nel capitolo relativo al rilievo diretto. In questo caso è sufficiente disporre di un livello ottico e di una stadia oppure, se si dispone di uno strumento di classe superiore, bisogna bloccare il cannocchiale sull’orizzontale. Si procede poi alle misurazioni, avendo cura di annotare con esattezza i segni + o - da associare ai valori delle varie letture, a seconda che si trovino al di sopra o al di sotto della linea di orizzonte dello strumento; alla fine è sufficiente fare la somma algebrica delle varie altezze per ottenere la reale differenza di quota tra i punti cercata (fig. 79). Se il dislivello è notevole occorre procedere a delle varianti: se si ha il livello bisogna procedere per tratti, compatibili con le altezze misurabili ogni volta con la stadia; se si dispone di altri strumenti è sufficiente inclinare il cannocchiale ed includere nella lettura anche quella del cerchio verticale per poter conoscere la distanza ridotta alla verticale ed associarla alla lettura della stadia. In pratica, con riferimento a quanto già detto per le quote altimetriche, la funzione più elementare dello strumento è quella di sostituire la fettuccia elastica per determinare l’orizzontale di riferimento da cui prendere le diverse altezze. La notevole precisione e la possibilità di effettuare misurazioni anche a grandi distanze (nell’ordine di centinaia di metri) rendono questa operazione estremamente affidabile, specie se si vuole legare le quote relative a quelle assolute del contesto, potendo partire con la livellazione anche da punti noti quotati posti molto lontano dal luogo da rilevare. Di solito l’operazione di quotatura altimetrica e quella di rilievo dei punti per la pianta non sono separate nel senso che, quando si battono i punti per la seconda, si scelgono in posizione tale (o si includono se non fanno parte del disegno) da fungere anche per la prima, in modo da ottimizzare l’uso dello strumento e ridurne al minimo il tempo di stazionamento in cantiere. Bisognerebbe quindi avere una visione complessiva del lavoro che ci permetta di cogliere tutti gli aspetti e le esigenze fin dalle operazioni preliminari per raccogliere tutti i dati necessari nel più breve tempo possibile. Come al solito, anche questa dote si acquisisce con la pratica ma, nel capitolo dedicato all’esperienza diretta di rilievo, proverò a descrivere non solo tutte le operazioni svolte ma anche la logica che le ha suggerite. Vale la pena ricordare, comunque, quanto detto finora sul calcolo di conversione che, restituendoci delle coordinate cartesiane spaziali (quindi indicanti anche la quota del punto in base ad un riferimento di partenza coincidente con l’altezza strumentale della prima stazione), ci fornisce delle informazioni anche rispetto alle quote altimetriche. In questo senso anche la scelta delle stazioni, oltre che dei punti battuti, dovrebbe tenere conto delle esigenze della quotatura, salvo poi procedere ai calcoli algebrici di conversione che ci permettono di modificare i valori ed i segni (positivo o negativo) delle quote assegnando ad una di queste un determinato valore Quanto abbiamo detto finora, all’incirca, definisce l’uso dello strumento per quanto riguarda il rilievo della pianta, ma anche per i prospetti le applicazioni del rilievo indiretto sono molteplici. Innanzitutto possiamo citare la funzione di appoggio data dallo strumento al rilievo diretto per quanto riguarda la misurazione di altezze degli elementi di alzato dei prospetti e delle sezioni. 110
il rilievo strumentale ed il calcolo delle coordinate
Fig. 79. Livellazione. In a) e b) vediamo due esempi di livellazione eseguiti con un livello ottico o un teodolite in cui cannocchiale è stato fissato sull’orizzontale. I dislivelli esistenti tra il punto di stazione S ed i vari punti A, B, C, D è dato dalla differenza tra il valore h (altezza strumentale) ed i rispettivi valori di l (altezza della stadia letta al filo medio). ∆SA (B, C...)= h - l (l’, l’’...). Notare in a) il dislivello negativo di D. Nell’esempio b) l’andamento del terreno ha richiesto una seconda stazione S1, la cui altezza h’ dovrà essere considerata per calcolare i dislivelli dei punti battuti da S1. ∆SC=(h+h’) - l’’. Seguendo tale metodo è bene tracciare sempre uno schizzo di riferimento su cui apporre le quote dei punti e le eventuali annotazioni. In c) troviamo un esempio di livellazione mediante il tacheometro o il teodolite. Con tali strumenti è possibile determinare la distanza inclinata tra la stazione ed il punto e l’angolo zenitale ϕ. In questo caso il dislivello sarà espresso dalla formula ∆SA=Dctg ϕ + (h-l) dove l può essere la lettura al filo medio o l’altezza del prisma. I teodoliti con distanziometro, provvisti di tale funzione, possono esprimere direttamente il valore Dctgϕ del dislivello riferito all’angolo zenitale letto. La formula precedente vale per distanze inferiori a m. 400. Per quelle maggiori va tenuto conto anche della curvatura terrestre e della rifrazione atmosferica che producono una lettura dell’angolo zenitale inferiore a quella che si avrebbe in loro assenza, mediante la formula ∆SA=Dctgϕ + (h-l) + + (1 − K)D2 : 2R, con K= coefficiente di rifrazione, variabile a seconda delle ore, ed R=raggio della Terra. Alcuni teodoliti eletronici possono compiere automaticamente tali correzioni, impostando delle variabili nel sistema.
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manuale di rilievo e documentazione grafica
Abbiamo già parlato (nel capitolo precedente) dell’uso del livello, o degli altri strumenti con il cannocchiale bloccato, per il tracciamento dell’orizzontale di riferimento. Volendo, è possibile prendere tutte le misure delle altezze con l’ausilio della stadia (o di altri strumenti di misura rigidi) e dello strumento, anziché fissare la fettuccia elastica e procedere a mano. In questo modo il lavoro subirà probabilmente dei rallentamenti ma sarà senz’altro più preciso, specie se le misure in altezza saranno di notevole valore (fig. 80). Nel caso di prospetti complessi e ricchi di decorazioni con forti aggetti (che porrebbero non pochi problemi di misurazione manuale), poi, nulla vieta di usare il teodolite, specie se elettronico, battendo i punti sul prospetto in numero e disposizione tali da avere il massimo delle informazioni, come se ci trovassimo a tracciare una pianta “in verticale”, restituendo poi il disegno proiettando le coordinate cartesiane dei punti calcolati sul piano verticale, cioè considerando le sole coordinate x (oppure y) e z. Ovviamente, per procedere in questo modo, è necessario che i punti del prospetto siano agibili per accostare il prisma agli elementi da misurare, come avviene nel caso delle facciate rivestite dai ponteggi o di quelle di altezza ridotta. Un altro metodo di rilevamento strumentale che si usa spesso nel caso di luoghi non accessibili al rilievo diretto è quello delle intersezioni in avanti. L’argomento è molto più complesso dal punto di vista teorico e ricco di varianti di attuazione ma, visto il carattere del libro, accenneremo brevemente solo a questa, anche perché l’avvento delle stazioni totali al laser ha reso desueta tale tecnica, visto che la possibilità di battere punti inaccessibili è diventata una pratica realizzabile con dei costi (eventualmente di noleggio) contenuti. Partendo dai soliti presupposti teorici della trigonometria riguardanti le relazioni esistenti tra i lati e gli angoli di un triangolo, questo metodo permette di calcolare le coordinate di punti inaccessibili sfruttando solo i dati relativi alla lettura degli angoli verticale ed orizzontale (fig. 81). Le letture vanno effettuate, per ogni punto, da due stazioni di cui si è calcolata la distanza di base. In teoria le stazioni dovrebbero essere tre, in modo da avere una verifica costante di ogni dato e calcolarne l’ellisse d’errore ma, vista anche la notevole precisione degli strumenti in circolazione, è possibile procedere con due con un grado di precisione accettabile. La scelta dei punti di stazione deve essere effettuata con cura, badando sia alla effettiva visibilità di tutti i punti da entrambe le posizioni che alla distanza tra queste per poter avere degli angoli di intersezione di valore abbastanza contenuto (l’ideale sarebbe avere un triangolo equilatero formato dalla base e dal punto da misurare). Nel caso di un prospetto molto lungo e con poco spazio antistante per poter collocare le stazioni, sarà bene farne una serie da cui battere, di volta in volta, solo i punti che si trovano in buona posizione, curando di sovrapporne alcuni per la verifica generale. Ovviamente si procede in modo progressivo, facendo una prima stazione con le relative letture di tutti i punti della struttura e della base e, spostato lo strumento, ribattendo (meglio se nello stesso ordine) tutti i punti e la posizione della stazione precedente. La collimazione dei punti dovrà essere fatta con la massima precisione, soprattutto perché non ci sarà nessuno, stavolta, a poterci indicare l’oggetto che stiamo inquadrando. In questo caso è fondamentale identificare con chiarezza ogni singolo punto, visto che non è possibile apporre su di esso alcun segno (abbiamo detto che stiamo lavorando con dei punti inaccessibili). 112
il rilievo strumentale ed il calcolo delle coordinate
Fig. 80. Utilizzo dello strumento per i prospetti. In alto vediamo un possibile uso dello strumento per la misurazione delle altezze dei prospetti e delle sezioni. Il livello (o il teodolite con il cannocchiale orizzontale) sostituisce il filo elastico teso sull’orizzontale e la stadia, vista la distanza ravvicinata, può essere rimpiazzata da un metro rigido con un notevole aumento della definizione della unità di misura. In questo caso le varie misure vanno prese al di sotto o al di sopra dell’orizzontale. In basso le stesse misurazioni sono effettuate con il teodolite elettronico. L’asta standard del prisma è lunga m. 2.15 quindi, considerata l’altezza del canneggiatore, è possibile misurare punti fino a circa 4 metri dal suolo (sono in commercio anche prolunghe da un metro). Usando il teodolite in questo modo non è necessario leggere i valori angolari orizzontali e, se il distanziometro è fornito anche della funzione di calcolo immediato del dislivello, la procedura è notevolmente rapida. Il dislivello misurato, ovviamente, fa riferimento alla quota del punto rispetto al centro dello strumento. In entrambi i casi la posizione planimetrica degli elementi del prospetto (aperture, spigoli) va ricavata a priori dalla pianta o dalla fettuccia metrica tesa sull’orizzontale di riferimento. Qualora quest’ultima non coincida con il centro dello strumento (perché battuta in altra sede da un’altezza strumentale diversa) va riportato anche il dislivello esistente.
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manuale di rilievo e documentazione grafica
Fig. 81. Intersezione in avanti. La struttura raffigurata è stata rilevata con il metodo tradizionale per quanto riguarda le zone accessibili. La cupola e la parte alta della facciata non sono agibili. La posizione del punto P, quindi, è ricavata dall’elaborazione dei dati delle letture angolari effettuate dalle stazioni A e B secondo gli schemi esposti più avanti. Questa procedura permette di ricavare la posizione planimetrica del punto P’ (proiezione di P sul piano XY) e la quota relativa di P rispetto alle coordinate spaziali di A e B. Assegnando a queste ultime dei valori riferiti alla struttura si mette in relazione P con il contesto generale. Non potendo segnare fisicamente i punti inaccessibili occorre definire una procedura precisa per la loro identificazione in sede di restituzione. Un sistema veloce ed economico consiste nello scattare preventivamente una serie di foto con il teleobiettivo di tutti i dettagli che si devono rilevare più qualche vista di insieme. Lavorando con lo strumento si potrà così indicare sulle foto il punto esatto collimato ed assegnargli un codice di identificazione, che verrà poi riportato sul libretto di campagna con le relative letture angolari. A sinistra troviamo lo schema del calcolo planimetrico delle coordinate di P’. Ponendo A coincidente con l’origine e B sull’asse X, gli elementi noti sono le coordinate di A e B (e la distanza) e gli angoli α e β. Trovati i valori delle distanze AP’ e BP’ si trovano le coordinate di P’ riferite ad A e, per verifica, a B. A destra lo schema per il calcolo della quota di P rispetto ad A. La figura rappresenta, in assonometria, il sistema cartesiano precedente con la dimensione Z. Avendo già calcolato la distanza AP’ (distanza AP ridotta all’orizzontale) e conoscendo il valore dell’angolo zenitale ϕ, per conoscere il valore di PP’ (quota di P rispetto al centro della stazione A) è sufficiente considerare il triangolo AP’P, rettangolo in P’. Essendo ε = 90°-ϕ (oppure 100c - ϕ), (zP)A= PP’=AP’tgε. La formula già esposta per il calcolo del dislivello zP = Dctgϕ risulta più laboriosa, dovendo calcolare anche il valore di D=AP. Ovviamente va considerata anche l’altezza strumentale h di A.
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il rilievo strumentale ed il calcolo delle coordinate
Un buon metodo di lavoro è quello basato sull’uso delle fotografie dell’edificio, che avremo scattato in gran numero per ogni particolare e che avremo a disposizione, già stampate, al momento del rilievo. Basterà, infatti, riportare su queste il punto collimato con il cannocchiale ed il codice corrispondente sul libretto di campagna per sapere a quale elemento si riferisca ognuno dei punti battuti. Sarà bene numerare anche le foto ed annotare dei rimandi a queste sul libretto di campagna in corrispondenza di ogni punto. Il calcolo delle coordinate sarà un po' più laborioso, visto che dovremo ricavarci anche le distanze ridotte all’orizzontale di ogni punto dai vertici della base e, quindi, procedere alla conversione come di consueto. Seguendo lo schema in figura, i punti A e B corrispondono alle stazioni fatte con lo strumento ed il punto P quello di cui si vogliono conoscere le coordinate planimetriche, essendo la proiezione di P sul pinao XY. Essendo i primi due visibili tra loro è possibile determinarne la distanza (procedendo anche alla lettura incrociata delle misure); il cerchio orizzontale è azzerato ogni volta collimando l’altra stazione. Del triangolo ABP conosciamo, dunque, la misura della base AB e gli angoli adiacenti alfa e beta. Dobbiamo trovare innanzitutto le distanze AP e BP, ricorrendo al teorema dei seni. Per semplicità si riferiscono i punti ad un sistema di coordinate cartesiane in cui A coincide con l’origine e B è posto sull’asse delle ascisse (o delle ordinate), dunque assegniamo ad essi le coordinate di valore, rispettivamente, 0,0 e n,0 (dove n è la misura della base AB). Gli azimut si calcolano come segue: (AP’) = 90° - α; (BP’) = (AB) + β +- 180°. I nuovi valori trovati costituiscono le coordinate polari di P. Per trovare quelle cartesiane sarà sufficiente applicare le formule già note delle poligonali: (xP)A = AP’ sen (AP’); (yP)A = AP’ cos (AP’); XP = XA + (xP)A; YP = YA + (yP)A. Una prima verifica delle operazioni svolte si può ottenere calcolando le coordinate rispetto a B. Volendo un riscontro maggiore sarà bene impiantare una terza stazione in C e da lì collimare gli stessi punti (con le stesse modalità). A questo punto la base ABC sarà calcolata come una normale poligonale (per ottenere le coordinate cartesiane di ogni stazione) e la distanza ridotta e l’azimut CP saranno ricalcolati come sopra. La suddetta procedura vale per quanto riguarda la collocazione planimetrica del punto P. Per conoscere quella altimetrica sarà sufficiente ripartire dai valori delle distanze ridotte all’orizzontale che, insieme con quelli delle letture al cerchio verticale, ci daranno la misura del dislivello (cioè la coordinata Z, relativa al piano orizzontale passante per il centro del teodolite) per poter collocare P nello spazio tridimensionale e disegnarlo nei prospetti e nelle sezioni. Il complesso di operazioni qui descritte, svolte senza l’ausilio di un elaboratore, è in effetti laborioso ed oneroso, almeno per quanto riguarda la 115
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quantità di tempo necessario in fase di rilievo di campagna e per eseguire i calcoli necessari. L’utilità di tale procedura è perciò notevole in tutti quei casi in cui l’oggetto da rilevare è veramente irraggiungibile, almeno in alcune delle sue parti (ad esempio il campanile o la cupola di una chiesa, una torre priva di aperture verso l’esterno, ecc.), ovvero in cui non è possibile avvicinarsi con il prisma ai punti. Nulla vieta, però, l’uso incrociato del rilievo per poligonazione ed irradiamento con quello dell’intersezione in avanti, purché si presti la massima attenzione nel posizionamento delle rispettive stazioni e nei calcoli di conversione. Prima di concludere questo capitolo vorrei dare qualche consiglio pratico sull’uso degli strumenti in generale. In primo luogo, anche se troverete le stesse parole sui vari libretti di istruzioni, vorrei raccomandarvi di trattarli con estrema cura, sia per il trasporto che per l’uso in generale: a prescindere dalle caratteristiche costruttive e dall’eventuale loro robustezza, si tratta sempre di oggetti che possono risentire di qualsiasi urto o manovra violenta, anche per quanto riguarda la loro manipolazione. Vista la loro precisione (cui demandiamo quella del nostro lavoro), abbiatene cura anche per quanto riguarda le condizioni ambientali ed atmosferiche cui li sottoponete (sole, pioggia, luoghi umidi o polverosi, ecc.) di cui, anche se sono fatti apposta per operare all’esterno, possono risentire. Non fidatevi mai ciecamente di loro: di tanto in tanto, nelle misurazioni di distanze brevi o con altri riscontri oggettivi elementari (misure di angoli noti dalla cartografia, di dislivelli conosciuti o misurati con altri mezzi, ecc.), provate ad operare dei confronti con altri strumenti di misura e verificate gli eventuali scarti, potrebbero avere bisogno di revisione. Se non avete mai avuto uno strumento tra le mani, non partite subito con un lavoro impegnativo e fate piuttosto qualche prova (di lettura dei dati, dei calcoli di conversione e della loro restituzione) su situazioni elementari: avrete modo di mettere a punto la vostra tecnica e voi stessi. Se portate gli occhiali, fate attenzione alla collimazione con il cannocchiale e di lettura al microscopio dei cerchi graduati perché la distanza a cui siete costretti (dalla montatura) a tenere il vostro occhio dal mirino a volte può farvi commettere degli errori: confrontate la vostra visione con quella di qualcuno che non li porta e, comunque, provate a lavorare senza: nella maggior parte degli strumenti c’è anche una ghiera di correzione ottica del cannocchiale appunto per ovviare a questo inconveniente. Non pensate di dover fare, necessariamente, tutto il cantiere con lo strumento se ne avete uno a disposizione: a volte si può fare un lavoro più veloce e con maggior precisione integrando il rilievo indiretto con altre tecniche. Siate precisi, infine, sia in fase di rilievo di campagna (nella lettura dei dati e nella loro regolare trascrizione) che in quella di calcolo (immissione dei dati nel calcolatore o loro elaborazione a mano): le disattenzioni che producono errori grossolani possono saltare subito agli occhi (ed essere risolte tornando sul posto a compiere altre misurazioni) mentre quelle che inducono a piccoli errori di calcolo possono compromettere la precisione generale di tutto il vostro lavoro e, soprattutto, essere notate solo dopo aver completato la fase di restituzione.
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Il rilievo dei particolari architettonici. Questo capitolo si occupa dei problemi relativi al rilievo di tutte quelle parti che sono caratterizzate dalla necessità di essere disegnate con un rapporto di riduzione molto piccolo, ad eccezione dei materiali archeologici e degli oggetti in generale che vengono resi in scala 1:1 e le cui tecniche di rilievo e rappresentazione costituiscono un argomento a parte. I particolari architettonici, infatti, vengono disegnati in rapporti variabili da 1:20 a 1:5, a seconda delle esigenze, delle loro dimensioni e della loro importanza, salvo comparire anche negli elaborati a scala maggiore (se si “vedono” nelle altre proiezioni) con le opportune semplificazioni del segno e dei dettagli che li compongono. In linea di massima, salvo casi eccezionali per la natura e/o l’importanza dell’oggetto, il rilievo è condotto con il metodo diretto (salvo dei riferimenti occasionali tracciati con lo strumento) oppure, appunto nei casi suddetti, con la tecnica fotogrammetrica. Tipologia. Il termine “particolare architettonico” è estremamente generico e può comprendere, ad esempio, cornici e fregi, decorazioni, elementi architettonici propriamente detti (colonne, lesene, basi, capitelli, finestre e porte, architravi, frontoni, timpani, ecc.), rilievi, epigrafi, infissi, mosaici, dipinti. Piuttosto che farne la lista completa (peraltro suscettibile di interpretazioni diverse) è bene cominciare ad operare delle distinzioni che si rifletteranno anche sulla tecnica di rilevamento. La prima, basilare, è quella che, a prescindere dalla natura e dal materiale di cui sono composti, divide i particolari in due categorie: quelli aventi caratteristiche spaziali bidimensionali e quelli tridimensionali. Per “aventi caratteristiche bidimensionali” intendo tutti quei particolari che non presentano aggetti pronunciati ed elementi a rilievo e che possono essere proiettati su un piano senza dover ricorrere a tecniche di riduzione di spessori ed altezze quali, ad esempio, le pavimentazioni, i mosaici parietali, i dipinti, i bassorilievi, le epigrafi e quant’altro si presenti sostanzialmente “piatto”. Tutti gli altri, chi più chi meno, hanno uno sviluppo spaziale a tutto tondo, caratterizzato da aggetti e spessori anche notevoli, e dunque rientrano nella categoria degli oggetti tridimensionali. Gli elementi appartenenti a questa seconda categoria, inoltre, possono essere caratterizzati da una morfologia essenzialmente lineare (in cui prevalgono direttrici rettilinee o con curvature semplici) oppure mistilinea e/o complicata da situazioni di degrado dei materiali. Tanto per fare ancora degli esempi, per elementi “lineari” possiamo intendere oggetti quali cornici, decorazioni geometriche, colonne e lesene, modanature, finestre e porte, ecc., mentre per elementi “mistilinei” gli altorilievi, i fregi in generale, i capitelli e quanto altro abbia uno sviluppo spaziale complesso, connotato da una serie di piani o superfici a curvatura variabile, oltre ai casi di elementi lineari fortemente lesionati o con superfici variamente erose, la cui esatta restituzione presenta non pochi problemi.
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Fig. 82. Particolari architettonici a scale diverse. La figura mostra i particolari di una struttura romana rilevati in scala 1:5 e 1:50. Notare la differenza di dettaglio dei diversi elementi. Il rilievo è stato prima eseguito nel rapporto 1:5 e successivamente ridotto ed inserito nel prospetto generale direttamente in fase di lucidatura.. Il posizionamento su quest’ultimo è stato agevolato da alcuni riferimenti (asse di simmetria ed ingombro massimo) apposti su entrambi gli elaborati durante la restituzione. In questo caso la riduzione è stata fatta a mano per via analitica.
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il rilievo dei particolari architettonici
Prima di passare ad una breve rassegna delle tecniche esecutive del rilievo dei particolari, vorrei introdurre alcuni concetti generali sulle procedure da seguire. Nel caso in cui i dettagli da rilevare a scala minore compaiano anche in altri elaborati (pensiamo ad esempio ad un prospetto di un tempio, da rilevare in scala 1:50, e di cui occorre disegnare i dettagli del fregio in scala 1:10) è buona norma procedere prima al rilievo dei dettagli e successivamente ad inserire questi, ridotti della misura necessaria, nell’elaborato a scala maggiore. Questo garantirà una maggior precisione al lavoro e una caratterizzazione più precisa dell’elemento nel disegno di insieme oltre a velocizzare, quando è possibile, le operazioni di cantiere nei casi in cui il dettaglio si ripete sempre uguale o con poche varianti (fig. 82). La riduzione del dettaglio potrà essere fatta a mano per via analitica, meccanicamente con la fotocopiatrice o, se è richiesta una notevole precisione, con procedimento fotografico. In tutti e tre i casi è necessario avere la massima cura nel riportare su tutti i disegni (del dettaglio e di insieme) dei riferimenti grafici per posizionare con esattezza il disegno ridotto, specie se il lavoro di assemblaggio viene fatto a tavolino, lontano dal cantiere. Per avere una corretta documentazione, generalmente i particolari vengono disegnati con la consueta serie di proiezioni (pianta, sezione e prospetto) e sono oggetto di tavole proprie, che non di rado hanno un formato diverso da quelle di insieme. Nel caso di elaborati generali contenenti una serie di dettagli simili, ovvero quando i dettagli, per la loro quantità, occupano una serie di tavole, per evitare di essere confusi tra di loro è bene identificarli uno per uno (con un codice, una descrizione sommaria, una numerazione progressiva. ecc.) e disegnare un abaco che ne indichi la posizione relativa al contesto generale. Accade spesso che alcuni particolari siano di dimensioni tali o collocati in posizioni tali che le operazioni di rilievo in cantiere risultino poco agevoli o necessitino di attrezzature particolari (pensiamo, ad esempio, a come maneggiare e disegnare in pianta, sezione e prospetti un capitello di marmo alto 1.5 metri poggiato a terra a ridosso di una parete oppure collocato in una cantina buia!). In questi casi occorre tenere presenti tutte le difficoltà tecniche e logistiche già nella fase preliminare di accettazione e formalizzazione dell’incarico, oltre all’organizzazione del cantiere. Quello che vorrei dire, insomma, è che il rilievo dei particolari di un edificio rappresenta, talvolta, un cantiere a sé stante, con proprie e specifiche problematiche, tempi e modalità di attuazione e che il problema non si riduce, semplicemente, a dover fare dei disegni “più grandi”. Il rilievo dei particolari, inoltre, non risponde a delle convenzioni canoniche in termini di grafica, caratterizzazione, impostazione delle viste e dei piani di proiezione come spesso accade, invece, per quello delle strutture murarie, pertanto è bene impostare il lavoro con la committenza, secondo le esigenze del contesto, in tutti i suoi aspetti. Tecniche per il rilievo. Passiamo ora alla descrizione delle varie tecniche, premettendo che quanto segue rappresenta solo una traccia di lavoro, suscettibile di aggiustamenti e variazioni a seconda dei casi. Cominciamo dal rilievo dei particolari “bidimensionali”. Abbiamo già definito questi, con alcuni esempi, come degli oggetti aventi uno sviluppo che è 119
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facilmente riconducibile ad un piano posto, indifferentemente, in posizione ortogonale od obliqua. Il problema, quindi, è relativamente semplice e può essere risolto con tre metodi principali: rilievo a contatto, triangolazione e quadrettatura. Il primo è il rapido e facile da realizzare (fig. 83): si tratta di sovrapporre all’oggetto una pellicola trasparente di acetato od altro materiale analogo e di tracciare su questa, con un pennarello, le linee che descrivono l’oggetto seguendo con la mano quello che si vede in trasparenza: praticamente si ricalca la figura da riprodurre e si ottiene un originale in scala 1:1 che dovrà contenere tutte le informazioni che caratterizzano l’oggetto. Nel caso in cui questo sia di grandi dimensioni, anziché dover gestire un foglio gigante, sarà meglio dividere il rilievo in più parti con dei segni di riferimento per mettere a registro il montaggio dei vari pezzi. L’originale a grandezza reale sarà successivamente ridotto alla scala voluta con l’ausilio di macchine di grandi dimensioni (si trovano nei maggiori laboratori di riproduzione eliografica e sono l’unione di uno scanner ed un plotter) che lavorano con carta a bobine di lunghezza praticamente infinita e larghezza massima di 90 cm. (attenzione dunque alle dimensioni delle parti in cui si divide l’oggetto). Oltre che su carta comune, queste macchine producono riduzioni (o ingrandimenti, se serve) su carta lucida che, tuttavia, sconsiglio per l’alto costo e soprattutto per le deformazioni che subisce il supporto durante la stampa. Una tecnica di riduzione molto più precisa (e costosa) è quella fotografica, realizzata da pochi laboratori specializzati, in cui l’originale è fotografato con macchine a banco ottico e ridotto nella misura esatta direttamente dal negativo (il positivo è una lastra in materiale trasparente come l’originale, il tutto in B\N). La maggiore precisione nella riduzione della fotografia è data, oltre che dalla qualità delle attrezzature, soprattutto dal fatto che la riduzione è ottica, su supporto rigido e realizzata in un’unica fase mentre l’altra può richiedere una serie di passaggi in macchina (tanto più numerosi quanto più si riduce l’immagine) che inevitabilmente producono deformazioni e dilatazioni del disegno. Ovviamente, in entrambi i casi, una volta ottenute le riduzioni delle varie parti, queste si riassemblano e si lucidano direttamente. Con questa tecnica si possono rilevare mosaici, dipinti, raffigurazioni e quanto altro sia disposto su superfici piane oppure, nel caso di superfici curve a direttrice lineare (si pensi alle absidi o alle volte a botte), riprodurre lo sviluppo di queste. Se le superfici sono irregolari o non piane questa tecnica consente degli aggiustamenti disponendo l’acetato ben tirato (su cui disegnare senza premere, per restare allineati con il piano di proiezione), senza però eccedere nella tolleranza: è meglio tralasciare di rilevare in questo modo alcune parti più “avvallate” (e renderle, per esempio, con la triangolazione) piuttosto che ritrovarsele tutte deformate. Anche nel caso di elementi aventi un lieve aggetto (bassorilievi, decorazioni marmoree o a stucco di facce piane. ecc.) si può procedere ancora in questo modo con relativa precisione avendo l’accortezza di porre, sotto il foglio di acetato, una lastra di materiale rigido trasparente (plexiglass, policarbonato, vetro) da posizionare in prossimità dell’oggetto da rilevare in modo che risulti parallela al piano principale di quest’ultimo. In questo caso il rilievo non è esattamente a contatto e, quindi, c’è un certo margine di discrezione (dato dalla distanza esistente tra l’oggetto e la lastra) nel tracciamento delle varie linee; per ridurre al minimo tale margine bisognerà trovarsi con l’occhio sempre in corrispondenza della mano che disegna ed, eventualmente, chiuderne uno in 120
il rilievo dei particolari architettonici
Fig. 83. Rilievo a contatto. Il ricalco delle superfici piane non presenta particolari difficoltà, salvo l’accuratezza dei riferimenti per il montaggio finale. I fogli di acetato andranno inoltre numerati con un certo ordine e, nel caso di situazioni particolarmente caotiche o complesse, riportati su un abaco generale tracciato su uno schizzo di insieme oppure una foto.
Per gli elementi dotati di un certo rilievo (oppure nelle situazioni in cui occorre ridurre al minimo i contatti con la superficie, quali i dipinti più delicati) è necessario ricorrere ad un lastra di plexiglas. Per disporre quest’ultima in posizione orizzontale, ovvero parallela al piano principale dell’oggetto, possono essere usati i supporti regolabili per i pavimenti galleggianti.
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modo da eliminare la visione tridimensionale (che ci dà la profondità dell’oggetto). Ci si potrà anche aiutare con delle squadrette o altro strumento ortogonale che ci aiuti a traguardare l’esatto punto in cui passa la nostra linea di restituzione. Quali linee tracciare sull’originale? La scelta varierà a seconda del caso, dell’oggetto e della scala di riduzione e potrà spaziare dal disegno delle singole tessere di un mosaico (incluse le linee che delimitano i vari colori, le figure e le parti di queste) da rendere in scala 1:5 alla semplice delimitazione degli elementi essenziali di una figura dipinta in scala 1:20. Un fattore importante da tenere presente è il fattore di riduzione dell’originale in scala 1:1; tanto più si riduce la figura quanto più si assottiglia il segno che avrete tracciato quindi fate attenzione allo spessore della punta del pennarello che userete. Anche se la riduzione su cui lavorerete sarà in bianco e nero, l’uso di pennarelli colorati potrà esservi di aiuto per distinguere gli elementi in base alle convenzioni che vi darete, potendo disporre di uno spazio adeguato per sciorinare i vostri originali in fase di assemblaggio e lucidatura, confrontando i segni in B\N delle riduzioni con quelli colorati fatti sul posto. Per ridurre al minimo tali confronti, però (visto che è molto laborioso stendere fogli di grandi dimensioni), non lesinate di scrivere appunti ed osservazioni direttamente sull’originale (attenzione anche qui alla riduzione ed alla leggibilità del testo) per avere tali informazioni direttamente sotto gli occhi in fase di assemblaggio. Questo potrà essere fatto con l’ausilio di semplici segni di sovrapposizione (crocette, puntini, ecc.) da riportare su tutti gli originali oppure con misurazioni precise tramite la triangolazione dei punti notevoli. Quest’ultima, comunque, dovrebbe essere un valido strumento di verifica dei punti principali, specialmente nel caso della riduzione mediante scanner. Abbiate cura, infine, di riportare delle scale grafiche direttamente sugli originali che vi permetteranno una valida ed immediata verifica del fattore di riduzione ottenuto in laboratorio. I principali pregi di questo metodo stanno nella rapidità con cui è possibile portare a termine il cantiere e nella precisione della restituzione, a patto che le riduzioni siano state ben fatte e che l’eventuale assemblaggio delle varie parti sia realizzato con attenzione. L’abbattimento dei costi del cantiere è però compensato dalle spese per il materiale di consumo e, soprattutto, da quelle per le riduzioni (specialmente quelle fotografiche) delle quali, in fase di stesura del preventivo, è bene tenere conto rivolgendosi ai laboratori per documentarsi sui costi. Un altro metodo da seguire può essere quello, già esposto, della triangolazione. Nel caso di superfici non piane o con dei rilievi tali da sconsigliare l’uso della tavoletta di plexiglass, la triangolazione è senz’altro il metodo più preciso ed economico, pur a fronte di un incremento dei tempi di realizzazione del rilievo. Il disegno viene così costruito per punti, prendendo di volta in volta le misure da una o più basi che possono trovarsi al margine dell’oggetto o direttamente sulla faccia da disegnare (fig. 84). La tecnica della triangolazione è stata già illustrata nel capitolo relativo al rilievo diretto, quindi non ci ripeteremo più di tanto. Il limite di questa tecnica, nel caso dei particolari architettonici, sta nella necessità di segnare, sull’oggetto, il punto di cui, di volta in volta, viene presa la misura. Questa necessità è data dalla estrema “volatilità” dei punti in questione finché non si è proceduto a congiungere, sul disegno, il punto misurato con i precedenti, ovvero finché il disegno non ha assunto un senso. Non è possibile, infatti, pensare di prendere prima tutti i punti e poi congiungerli con le relative 122
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Fig. 84. Triangolazione. La figura fa riferimento al rilievo di un pavimento musivo che, a causa degli avvallamenti della superficie, non è stato possibile ricalcare con l’acetato. La triangolazione è stata condotta da una serie di basi (chiodi A, B, C...) che, non potendo essere fissati direttamente sul pavimento, sono stati piantati su una tavola semplicemente appoggiata e resa stabile con dei pesi (oppure dotata di riferimenti rispetto agli angoli dell’ambiente, in modo da poter essere asportata e riposizionata al punto giusto in fasi successive). L’allineamento dei chiodi è stato verificato con un elastico teso e la loro distanza accuratamente misurata. In tal modo la loro restituzione sul disegno è stata semplice e precisa anche rispetto all’ambiente. Notare i punti 1 e 2, già posizionati con la triangolazione, che sono stati uniti con una riga o un metro rigido, da cui sono stati misurati altri punti secondari riportati direttamente sul disegno come punti giacenti su un allineamento dato. Le varianti a tale tecnica possono essere infinite: aumentare le basi (in proporzione a maggiori difficoltà o esigenze di dettaglio) eventualmente con altri allineamenti realizzati inchiodando altre tavole secondarie a formare una specie di telaio, integrare la triangolazione con la coltellazione di elementi locali o minuti, ecc..
Fig. 85. Quadrettatura. Il procedimento è abbastanza intuitivo: scomporre la figura da rilevare in un certo numero di elementi regolari e riprodurla sul foglio da disegno recante gli stessi riferimenti ridotti. Ci si può eventualmente aiutare anche con delle misurazioni locali.
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linee, quindi è necessario avanzare per piccoli passi, definendo il rilievo per elementi finiti e riconoscibili. Non sempre, però, è possibile segnare l’oggetto (pensate a dover tempestare di puntini un affresco!) a meno che non si proceda a proteggerlo con un foglio di acetato, oppure che non si ricorra a dei pezzetti di scotch su cui segnare i punti (sempre che la colla di questo sia compatibile con il supporto). La vostra inventiva, a seconda dei casi, saprà sicuramente trovare delle soluzioni al problema. Come al solito, la quantità dei punti misurati è direttamente proporzionale alla precisione del rilievo ma la misura di questi va calibrata rispetto alla natura e complessità dell’oggetto ed alle vostre capacità di rendere il disegno in modo chiaro e preciso. Ovviamente, ricorrendo a questa tecnica, il disegno dovrà essere redatto direttamente in cantiere per poter avere un riscontro costante con l’oggetto da rilevare. Vista la lentezza con cui procede il lavoro di triangolazione (per definire ogni punto è necessario prendere due misure, sia sull’originale che sulla carta), se il vostro oggetto è ricco di dettagli, potete semplificare un po' il lavoro prendendo meno punti con la triangolazione e misurando sulle linee di congiunzione di questi, presi due a due, le misure parziali di altri punti notevoli che si trovassero in corrispondenza di tali linee: avreste così tutta una serie di punti “secondari” di cui dovrete prendere una sola misura, pur conservando il notevole grado di precisione dato dalla triangolazione. Il metodo della quadrettatura è probabilmente il più veloce ma anche quello con un maggior margine di errore. Consiste nel suddividere il vostro oggetto piano (o con poche irregolarità, non è valido per le superfici curve) in un reticolo di quadrati regolari e perfettamente ortogonali, tramite la sovrapposizione di un foglio di acetato o altro supporto trasparente su cui avrete tracciato, con un pennarello, le linee formanti il suddetto reticolo (fig. 85). Al posto dell’acetato potete anche usare un telaio di legno o di metallo con una orditura di fili ortogonali secondo lo stesso schema (il telaio torna utile in caso di superfici troppo scabrose anche se, aumentando la distanza tra questo e l’oggetto, come per la lastra di plexiglass, aumenta la discrezionalità del rilievo). Il telaio pone qualche problema in più anche quando, per le notevoli dimensioni dell’originale, si rende necessario frammentare il rilievo in diverse parti (a meno che non sia possibile operare con un attrezzo gigantesco !), mentre per l’acetato si possono aggiungere quanti pezzi si vuole. Il telaio, infine, è usato anche per il rilievo di scavo. Piazzato al posto giusto il telaio, il nostro foglio di carta sarà stato già predisposto con la sua riduzione alla scala voluta (oppure potremmo preparare una base su cui sovrapporre il foglio da disegno pulito e con dei riferimenti per le sovrapposizioni). Non ci resta quindi altro da fare che cominciare a disegnare, riducendo ad occhio (o con l’ausilio di qualche misurazione presa tra una maglia e l’altra del reticolo) l’oggetto del nostro rilievo. Il passo della quadrettatura sarà in funzione della scala e della complessità dell’originale, ma vorrei consigliarvi di non andare oltre una maglia di 20 cm. (misurati al reale). Il metodo presenta un notevole grado di approssimazione e il rischio di errore, soprattutto le prime volte, è consistente. Diciamo che occorre un buon occhio critico nei confronti del disegno e delle sue proporzioni e, potendo disporre della presenza di altre persone in cantiere, sarà bene che l’opera 124
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compiuta sia esaminata da qualcuno che non vi abbia lavorato perché alla fine del lavoro, spesso, il reticolo induce alla confusione visiva. Nulla ci vieta, comunque, di integrare tale tecnica con quella della triangolazione per definire alcuni punti più importanti con precisione maggiore. Negli oggetti complessi o, meglio, in quelli caratterizzati da alcune porzioni di decorazione disposte in ordine sparso (come nel caso di dipinti o mosaici recanti notevoli integrazioni di restauro) può accadere di cominciare a disegnare i dettagli collocandoli, sulla carta, all’interno della maglia sbagliata. Per ovviare a tale inconveniente e, comunque, per orizzontarsi meglio sul foglio, si possono numerare le file di quadrati o ricorrere all’ausilio del colore (da riportare anche sul foglio) per tracciare il reticolo. Nel complesso, questa tecnica permette lo svolgimento del cantiere in tempi veramente ridotti e, se si può usare l’acetato senza dover ricorrere al telaio, con dei costi complessivi ridottissimi. A parte il caso delle persone naturalmente fornite di un buon occhio per le proporzioni (che saranno in grado di fare dei capolavori in brevissimo tempo), il grado di approssimazione che ci permette tale metodo è tale da renderlo indicato solo per lavori in cui non si deve badare tanto per il sottile. Rilievo di oggetti tridimensionali. Passiamo ora al rilievo degli oggetti con caratteristiche tridimensionali cominciando da quelli che abbiamo già definito a sviluppo “lineare”. Un tipico esempio ci è dato dalle modanature architettoniche che si trovano un po' ovunque, sia nei resti di edifici di epoca classica o rinascimentale che in altri più recenti, per il riutilizzo sistematico di tali forme operato nell’architettura neoclassica o ottocentesca. Salvo casi particolari, questa tipologia di oggetti presenta, appunto, un andamento lineare o curvilineo regolare, con giacitura perlopiù orizzontale o verticale, ed è realizzata con materiale lapideo che, generalmente, presenta delle condizioni di conservazione discrete. Le varie decorazioni (dentelli, gocce, motivi vegetali, ovoli, astragali, ecc.) con cui talvolta sono arricchite, inoltre, sono spesso dotate di asse di simmetria, si succedono con regolarità e hanno andamento perlopiù ortogonale alla direzione di sviluppo della modanatura, quindi sono discretamente facili da disegnare e, soprattutto, non richiedono, di massima, la misurazione sistematica di tutti gli elementi. Generalmente il rilievo di questo tipo di particolari si inizia dalla sezione che, anche se non fosse esplicitamente richiesta dalla committenza, torna talmente utile alla costruzione della pianta e del prospetto da renderne praticamente indispensabile il disegno. Al rilievo della sagoma di una modanatura si procede secondo due modi fondamentali, entrambi derivati dal metodo della coltellazione, a seconda che l’oggetto sia fisicamente (cioè, anche a prescindere dalla sua collocazione architettonica originale) posto con gli elementi più esterni in posizione aggettante dall’alto o sporgente dal basso (fig. 86). A prescindere dal metodo, se la modanatura non si trova nella giacitura originale (come accade per i frammenti costituiti da blocchi marmorei caduti od erratici) e non è disposta in piano (sia per quanto riguarda la base di appoggio che per gli spigoli) si creano diversi problemi nell’uso dei più comuni strumenti e sarebbe bene, se possibile, provvedere a spostare il frammento nella posizione corretta. Gli strumenti normalmente usati in questi rilievi sono, oltre ai vari tipi di metro (a stecca, a fettuccia metallica, righello in legno o metallo, ecc.), la 125
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livella, il filo a piombo e, talvolta, il profilografo ad aste scorrevoli (pettine) e i nastri di piombo od altro metallo malleabile. Nel caso delle modanature aggettanti è sufficiente fissare un filo a piombo che, a partire dalla parte più alta, penzoli fino alla fine della sagoma. Una volta tracciata sulla carta una riga verticale (a rappresentare la direzione del piombo), si misurano i vari angoli e spigoli della modanatura calcolando, per ognuno, la distanza dalla sommità e quella orizzontale che va dal filo al punto in questione. In questo modo avremo una specie di coordinate cartesiane (tutte parallele alle due direzioni verticale ed orizzontale) dei vari punti caratterizzanti la sagoma che potremo facilmente riportare sul disegno con notevole precisione. Le misure in verticale dovrebbero essere prese sempre a partire dalla sommità, in modo da eliminare l’accumulo di errori dovuto all’eventuale parzializzazione della quota, e possono essere facilitate dal posizionamento di un metro rigido (se sarà possibile collocarlo in condizioni di verticalità e di stabilità permanenti) o di una fettuccia accanto al filo a piombo che, come per la fettuccia orizzontale nel caso dei prospetti, costituirebbe il riferimento preciso della verticale mentre il metro servirebbe per la misurazione. La sagoma degli elementi curvilinei (gole, scozia, toro, ecc.) può essere presa, oltre che negli angoli di intersezione con gli altri profili, anche per alcuni dei punti che le caratterizzano (flesso, massima curvatura, ecc.). Se il blocco si trova nella posizione inversa (oppure se la modanatura appartiene ad una base), la parte più estrema si trova in basso e non è possibile usare il filo a piombo. In tal caso, in luogo di quest’ultimo, occorre piazzare la livella, o un metro rigido messo in verticale con l’ausilio di questa, in corrispondenza dell’elemento più esterno e prendere le misure orizzontali come già descritto. Talvolta la modanatura fa parte di un complesso di decorazioni (trabeazione) che si trovano ancora in situ o facenti parte dello stesso blocco; in tal caso la misurazione dei vari elementi procederà per tutta l’altezza della trabeazione per averne la sagoma complessiva. Se il blocco non è disposto correttamente (ovvero se le facce di giacitura non sono orizzontali sia in senso longitudinale che trasversale) si procede nei modi già descritti, con la complicazione data dal fatto che talvolta non sarà possibile prendere tutti i punti (quelli interni, nel caso che sia inclinato all’indietro) o che bisogna prendere il doppio delle misure. In questi casi è importante prendere non solo la sagoma esterna, ma anche gli elementi che possono evidenziare il piano di giacitura orizzontale (almeno una delle facce di appoggio) per poterne determinare l’attuale inclinazione e correggerla per disegnare il prospetto e/o la pianta secondo la giacitura originaria. Qualora gli spigoli della modanatura (quelli, cioè, che ne determinano la direzione di sviluppo longitudinale) non si trovino in posizione orizzontale non è possibile usare un riferimento verticale per le misure ( filo a piombo o altro), quindi non resta che il nastro di piombo, descritto più avanti. A prescindere dalla posizione e dal metodo di rilievo, qualora la nostra modanatura si presenti lesionata o con delle lacune dovute all’usura o al tipo di materiale (tipici sono i “buchi” del travertino), la sezione dovrà rappresentare il profilo ideale (originale) dell’oggetto (ed, eventualmente, indicare lo stato di fatto con le lacune presenti nella realtà). Se non esiste alcun punto “buono” in cui far passare la linea di sezione in modo da prendere tutti gli elementi nella loro forma originale, sarà sufficiente (dove ci fossero lacune) poggiare alle estremità del profilo in buono stato una stecca rettilinea e prendere da questa le 126
il rilievo dei particolari architettonici
Fig. 86. Rilievo delle modanature. In a) troviamo la situazione più semplice: l’elemento architettonico è nella giacitura corretta, con la parte aggettante posta in alto. E’ sufficiente prendere delle misure orizzontali e verticali in corrispondenza degli spigoli. L’esempio b) è una variante di questa situazione, quando il blocco ha la faccia superiore inclinata (e non riposizionabile) ma gli spigoli orizzontali (se neanche questi lo fossero caso c)- la proiezione con il filo a piombo determinerebbe una sezione deformata). In tal caso si può procedere come in figura, prendendo per ogni elemento due misure e posizionando anche la faccia superiore per avere un riferimento orizzontale corretto per la ricostruzione. In d) possiamo vedere la tecnica da usare nel caso di elementi rientranti o di lacune poste in corrispondenza della linea di sezione: con una stecca si prolunga fisicamente l’allineamento che aggetta per poterlo misurare con precisione. In e) troviamo la situazione opposta ad a), che presenta la sola difficoltà di riuscire a fissare stabilmente il riferimento verticale. In questi casi sarebbe bene staccare le misure sul metro verticale con una livella posta in corrispondenza dello spigolo da misurare e, successivamente, prendere la misura orizzontale con un metro. Sempre in e) sono rappresentati, da sinistra, un nastro di piombo ed un profilografo per il rilievo dei profili in scala 1:1. Usando questi strumenti è necessario disporli secondo un piano (quello di sezione, appunto) ortogonale alla direzione di sviluppo della modanatura.
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manuale di rilievo e documentazione grafica
misure, in corrispondenza del filo a piombo, come se avessimo fatto un’integrazione di restauro. Questa operazione si ripete anche quando ci si trova in presenza di elementi quali gocce, dentelli, ovoli, rilievi in genere. Dato che, per convenzione, la sezione si fà passare per il piano più interno di questi elementi, lasciando vedere in proiezione quello che si trova in aggetto, per determinare la misura di quest’ultimo si posiziona la stecca come sopra descritto. Nel caso in cui il rilievo vada restituito alla scala 1:1, oltre agli strumenti già descritti, il lavoro può essere facilitato e velocizzato (specie con i profili curvi) ricorrendo al profilografo o al nastro di piombo. Il primo è un semplice strumento formato da un manico costituito da due placche che tengono insieme una serie di aghi metallici allineati parallelamente al manico che possono scorrere solo secondo la direzione del proprio asse. Poggiando tale strumento contro una superficie non piana, gli aghi posti in corrispondenza alle parti più sporgenti della superficie si spostano all’indietro, formando il profilo della sagoma nella linea di contatto tra la superficie ed il profilografo. Praticamente è come fare un calco in negativo della modanatura e trovarselo tracciato su un piano (quello dell’allineamento degli aghi) e non occorre far altro che ricalcarlo sul disegno seguendo con la matita la sagoma assunta dallo strumento. Viste le dimensioni medie di questi particolari e quelle standard dei profilografi non succede quasi mai di poter cogliere con un’unica operazione l’intera sagoma della sezione, quindi occorre procedere a tratti, avendo cura di riportare, misurandoli con esattezza, i punti di attacco dei vari segmenti o, meglio, limitare l’uso di questo strumento ai soli elementi curvilinei (toro, scozia, ecc.) che sono sempre delimitati da angoli netti nelle intersezioni con gli altri profili. Il nastro di piombo si usa modellandolo contro la modanatura fino a fargli assumere lo stesso profilo ed usandolo poi come traccia da seguire con la matita, ma per le sue stesse caratteristiche (l’elevata malleabilità si può tradurre in altrettanta possibilità di deformazione una volta staccato dall’originale), non permette di raggiungere una grande precisione ed è più indicato come strumento di verifica del rispetto delle proporzioni generali o nel caso di oggetti disposti in posizione tale da non essere rilevabili con altri strumenti di misura (blocchi “storti” non rimovibili, rilievi da portare a termine in breve tempo, ecc.). Per l’uso corretto di entrambi gli strumenti è fondamentale la loro collocazione in posizione perfettamente verticale, ovvero ortogonale alla direzione di sviluppo della modanatura, pena la deformazione del profilo della stessa. Anche se in realtà, talvolta, la sezione di una modanatura presenta delle irregolarità di profilo dovute a difetti di lavorazione, a meno che il rilievo non verta proprio all’evidenziazione di queste, per il disegno si sceglie una porzione avente delle caratteristiche “medie” e se ne indica la posizione, per correttezza, sulla pianta e sul prospetto. Questi particolari architettonici vengono generalmente rilevati in pianta (se gli elementi, nella loro collocazione originale, erano aggettanti dall’alto, la pianta è appunto rivolta in questa direzione), prospetto e sezione; se l’elemento si presenta molto sviluppato in lunghezza, viste le dimensioni del disegno alle consuete scale di restituzione si usa disegnarne solo uno stralcio, avendo cura di cogliere tutti gli elementi decorativi che si ripetono entro un certo modulo. 128
il rilievo dei particolari architettonici
Fig. 87. Proiezione della sezione in pianta e prospetto. Una volta rilevato il profilo della sezione di una modanatura è facile costruirne le proiezioni in pianta e prospetto. Nel caso di elementi a sviluppo circolare la sagoma della sezione va collocata con la direzione verticale disposta secondo il raggio della circonferenza.
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manuale di rilievo e documentazione grafica
Avendo completato il rilievo della sezione, il lavoro rimasto procederà molto più velocemente: sia per la pianta che per il prospetto non dovrete fare altro che proiettare le linee corrispondenti agli spigoli visibili su un foglio di carta lucida sovrapposto a quello della sezione (oppure sullo stesso, a lato), secondo il verso di visione della proiezione (fig. 87). In effetti la pianta o il prospetto presi a sé non sono altro che una serie di linee parallele, che possono essere “arricchite” dalla sagoma presa in corrispondenza di uno spigolo o caratterizzate con del puntinato che dia risalto e leggibilità almeno ai profili curvi. Nel caso di una trabeazione completa, oltre agli spigoli della modanatura, occorre proiettare anche quelli relativi alle altre decorazioni, aggiungendone la proiezione. La caratterizzazione degli altri elementi (gocce, dentelli, ecc.) è abbastanza facile e veloce perché, a meno di casi particolari, questi si presumono uguali e ripetuti ad interasse costante. In genere la fattura di tali elementi è abbastanza regolare e, per rilevarli, è sufficiente prendere un po' di misure di controllo, individuare il modulo di scansione, disegnare un originale per ogni elemento (su un foglio a parte) e copiarlo, ricalcandolo, sull’elaborato definitivo. Se la modanatura ha sviluppo circolare (anziché lineare), la proiezione in pianta o in prospetto (a seconda che si tratti, rispettivamente, di modanature di basi o di ghiere di archi) dovrà essere disegnata seguendo, dagli estremi visibili della sezione, la curvatura dell’elemento (che dovrà essere rilevata a parte con i metodi descritti nel capitolo sul rilievo diretto). In tal caso la sagoma della sezione dovrà essere collocata, per usarla come base per la proiezione, con gli elementi verticali disposti in direzione radiale. Un’altra tipologia di dettagli architettonici è costituita da tutti quegli elementi caratterizzati da una massa tridimensionale non avente direzioni lineari di sviluppo. Con questa definizione mi riferisco ad oggetti complessi quali capitelli di colonne, decorazioni plastiche, nicchie decorate, ecc., che non hanno elementi riconducibili a sezioni generatrici, né piani principali di riferimento. In realtà il rilievo di questo tipo di oggetti, se è richiesto un alto grado di precisione, dovrebbe essere compiuto con l’appoggio dello strumento o, meglio, con la tecnica fotogrammetrica, cui eventualmente associare il rilievo diretto per la definizione della caratterizzazione ma, visto che raramente si dispone dei fondi necessari, spesso si finisce per operare con il solo rilievo a mano. Il rilevamento diretto di tali particolari presenta notevoli difficoltà e non può essere ricondotto a delle tecniche specifiche, quindi daremo solo qualche cenno basandoci su un esempio classico: il capitello di ordine composito. Come ricorderete, questo ordine architettonico è un’invenzione di epoca romana e deriva dall’unione del capitello ionico con quello corinzio. E’ composto dall’abaco, dalle volute superiori e dal fusto ornato di foglie di acanto, quindi è caratterizzato da una serie di superfici curve che definiscono una serie di elementi giacenti su piani diversi e variamente inclinati (fig. 88). La prima cosa da fare è definire la posizione del piano di proiezione, specie se il capitello si presenta molto eroso o privo della parte superiore (abaco e/o volute) che ne definiscono l’orientamento originario (in tali casi è bene che tale scelta venga fatta insieme con la committenza, in modo da evitare situazioni spiacevoli a fine lavoro). La traccia di tale piano deve essere fisicamente evidenziata sul capitello, ponendo sulla parte superiore una stecca rigida (più lunga della larghezza maggiore dell’oggetto) ben fissata e possibilmente provvista di graduazione metrica. Da tale stecca sarà calato un filo a piombo che, posto di volta in volta in 130
il rilievo dei particolari architettonici
Fig. 88. Rilievo di elementi tridimensionali complessi. Questo aspetto del lavoro è sicuramente il più empirico ed il più aperto all’inventiva dell’esecutore. L’esempio qui raffigurato rappresenta una traccia da seguire per il rilievo di un capitello. Posta una stecca orizzontale sulla sommità, in corrispondenza della traccia del piano di proiezione, da questa viene calato un filo a piombo che servirà da riferimento per la misurazione delle varie altezze dei punti prescelti. Per le misure in orizzontale (parallele al piano di proiezione) è meglio fare riferimento all’asse di simmetria (vero o presunto tale), rappresentato fisicamente da un altro filo a piombo (fisso) posto in tale posizione. I punti (segnati sull’oggetto con un pennarello su pezzetti di scotch) verranno disegnati, quindi, con delle altezze dalla sommità (stecca) e delle distanze orizzontali dall’asse. Volendo eseguire il lavoro con il teodolite ed il distanziometro si dovranno battere anche dei punti necessari all’orientamento spaziale dell’oggetto e del piano di proiezione (abaco e stecca). Per una corretta visualizzazione dei punti restituiti si può procedere in due modi: una volta disegnati i punti con coordinate spaziali su Autocad (vedi anche il capitolo sul disegno automatizzato), quindi avendo costruito una sorta di oggetto tridimensionale, anche se composto di soli punti, lo si può proiettare in pianta con una vista “plan view-world” oppure si può costruire un UCS (sistema coordinate utente) passante per tre punti e parallelo al piano di proiezione. Nel primo caso, una volta stampati i punti in pianta, occorre alzare a mano la verticale di ogni punto ed assegnare a questo la quota relativa. Nel secondo caso il programma genera automaticamente una vista bidimensionale, proiettata sul piano prescelto, di tutti i punti battuti sull’elemento architettonico.
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corrispondenza dei punti notevoli (assi delle foglie, centro, estremità delle volute e così via), ci darà il riferimento verticale su cui prendere le varie misure verticali con la livella ed un metro fissato a fianco del filo. Ovviamente ogni volta che si sposta il filo a piombo dovrà essere misurata la distanza tra la vecchia e la nuova posizione, in modo da poter riportare sul disegno la serie di rette parallele verticali che rappresentano la traccia del filo. Praticamente si ripete la procedura descritta per il rilievo della sezione della modanatura, con la complicazione che occorre traguardare ogni volta l’ortogonalità del punto misurato rispetto al piano di proiezione. In questo modo avremo di nuovo una serie di misure ortogonali, assimilabili a delle coordinate cartesiane, che definiranno il disegno secondo una sommatoria di fasce verticali. Quali punti prendere? Sicuramente tutte le altezze dei vari elementi orizzontali (abaco e sue componenti, base, imposta delle volute, ecc.), quindi tutti i punti situati sull’asse di simmetria, gli assi di tutte le foglie con le altezze di imposta e di sommità, ecc., e, non ultimi, tutti i punti che definiscono la sagoma esterna del capitello. E’ bene procedere per elementi finiti, in modo da avere anche dei punti di appoggio sia per la visione complessiva sia per misure parziali da prendere direttamente sull’oggetto, parallelamente alle direzioni ortogonali ed al piano di proiezione. Per nostra fortuna gli antichi artigiani erano molto precisi e, sempre che siano ben conservati, gli elementi in generale sono abbastanza simmetrici, quindi spesso si disegna (almeno per gli oggetti che vediamo non di scorcio) una sola metà di questi e la si ribalta rispetto all’asse di simmetria, facendo poi qualche verifica sulla parte ribaltata. Se l’oggetto non fosse perfettamente simmetrico l’operazione di ribaltamento può lo stesso tornare utile per disporre di una traccia approssimativa su cui definire con esattezza i vari elementi. Nel complesso, comunque, l’operazione di rilevamento diretto di tali oggetti si compendia con il disegno dal vero (a occhio) con il solo ausilio della misurazione che permette l’esatta riduzione in scala e la conservazione dei principali rapporti proporzionali. Il lavoro sarebbe molto meno empirico se si potesse disporre di attrezzature di precisione quali aste graduate con bracci telescopici ortogonali, da collocare su basi misurate, con i quali prendere, punto per punto, le esatte coordinate senza dover traguardare alcunché, ma i costi di tali oggetti sarebbero talmente alti da non essere più concorrenziali con la tecnica fotogrammetrica. In luogo del filo a piombo da spostare, una volta piazzata la stecca di riferimento è possibile procedere anche con il telaio provvisto di reticolo ortogonale anche se, vista la distanza esistente tra i punti più estremi da questo, la discrezione del rilievo è praticamente uguale al metodo appena esposto. Potendo disporre del teodolite elettronico (il cui uso ha un senso, però, solo nel caso di oggetti di grandi dimensioni) il lavoro guadagna notevolmente in precisione (ma perde in rapidità), sia che si proceda con il normale rilevamento per coordinate polari che con l’intersezione in avanti. Il secondo metodo è stato già illustrato e non richiede altre spiegazioni. Per il primo, invece, occorre determinare con la massima esattezza, oltre a tutti i punti notevoli, anche l’orientamento spaziale del capitello, includendo tra i punti battuti anche quelli relativi alla traccia del piano di proiezione (stecca) ed alla sua sommità (abaco o volute), senza dei quali sarebbe estremamente difficile collocare nella posizione giusta le immagini dei punti proiettati. Una volta 132
il rilievo dei particolari architettonici
restituito il disegno con i punti battuti (attenzione ad identificarli con esattezza) si torna sul posto e si finisce il rilievo a mano. Il rilievo dei dettagli architettonici richiede degli accorgimenti particolari anche per quanto riguarda la caratterizzazione, che ovviamente dovrà essere molto più curata di quella del rilievo di insieme a scale maggiori. Salvo i casi in cui è esplicitamente richiesta una formalizzazione tecnica del tratto tale da ridurre il disegno ad un semplice schema geometrico (ad esempio quando si devono studiare delle tipologie di decorazioni, i loro moduli, ecc.), generalmente la rappresentazione dei dettagli rasenta la tecnica pittorica, dovendo rendere evidenti tutta una serie di elementi che spesso non hanno dei veri spigoli o piani definiti con esattezza e che, dunque, non avrebbero dei punti “canonici” da proiettare. Anche le lesioni e le condizioni di conservazione dei materiali devono trovare, a meno che non sia richiesto di ignorarle oppure di tracciare direttamente lo schema ricostruttivo con le relative integrazioni, una adeguata resa grafica nel rilievo. Si tratta, in pratica, di coniugare il disegno proiettato di quegli elementi che normalmente costituiscono delle tracce di lavoro con l’interpretazione grafica di tutto quello che è ugualmente parte integrante dell’oggetto, pur non avendo caratteristiche fisiche tali da poter essere proiettato. Mi riferisco, ad esempio, a quelle parti di decorazioni o di dettagli che sono talmente poco aggettanti e “tonde”, oppure abrase, da non avere punti notevoli da proiettare ed alle quali, se si applicassero pedissequamente le regole geometriche, non sarebbe possibile dare una resa grafica. In questi casi, spesso, ci si aiuta con l’inserimento di ombre realizzate con puntinato che, anche non rispettandone la teoria e le convenzioni grafiche, sono un valido strumento di illustrazione degli elementi più “difficili”. Praticamente non esistono delle tecniche particolari a riguardo ed il problema si riduce essenzialmente alla singola capacità di arricchire con il disegno realistico quanto si è riusciti a tracciare con i metodi già descritti. Nel capitolo relativo alla lucidatura torneremo sull’argomento con qualche esempio pratico.
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Caratterizzazione e lucidatura.
Il problema della caratterizzazione interessa tutti gli elaborati che si producono nel corso del rilievo, a prescindere dal rapporto di riduzione e dal tipo di proiezione, in pianta o in alzato. In sostanza è l’operazione che permette di definire i tipi di materiale che costituiscono la struttura, le loro caratteristiche e condizioni di conservazione, la loro tessitura e quanto altro è attinente all’aspetto ed alla natura degli oggetti che dobbiamo rilevare. Se, infatti, abbiamo definito l’operazione di rilievo come quella che ci permette di ricostruire sulla carta i rapporti proporzionali esistenti tra le diverse parti di un oggetto, ridotti di una certa misura, in base ad una certa vista, quindi di disegnarne i diversi componenti spaziali, la caratterizzazione consiste praticamente nella esplicitazione delle sue caratteristiche formali e delle superfici. Il fatto di aver ben disegnato in pianta, sezione e prospetto una data struttura architettonica, con tutti i suoi muri, aperture, ambienti, ecc., produce, alla fine, solo delle forme delimitate da linee che ne definiscono la sagoma. Se ci fermassimo qui, il nostro lavoro non sarebbe in grado di dare nessuna informazione riguardo il materiale con cui la stessa è stata costruita, il suo stato di conservazione, ecc. (fig. 90). Teoricamente potremmo anche ricorrere a delle convenzioni, da riportare in legenda, per i diversi tipi di materiali e superfici da rappresentare per esempio con diversi tipi di campitura, utilizzando dei retini o lavorando direttamente con la china sul disegno, dando lo stesso ulteriori informazioni. Se questo modo di operare può essere valido in alcuni casi (rilievi di strutture semplici, a scale superiori a quella di 1:100), quando gli elementi da caratterizzare sono molto vari e la scala è quella consueta di 1:50 il problema non può essere risolto con altrettanta semplicità. A parte una personale avversione verso i retini ed altri strumenti sostanzialmente posticci al disegno (che col tempo, spesso, si scollano, si deformano a seconda delle variazioni climatiche, ecc.), credo di poter affermare che più la caratterizzazione si accosta alla reale immagine dell’oggetto, più il disegno risulta leggibile e gradevole alla vista. Prima di affrontare una sommaria descrizione delle varie convenzioni e tecniche di caratterizzazione, vorrei illustrare i problemi relativi alle varie scale di riduzione ed alle caratteristiche formali degli elaborati a seconda delle suddette. Definizione delle superfici e dei materiali. Il dato di partenza è che il disegno, in quanto proiezione e riduzione su un piano bidimensionale di un oggetto tridimensionale, non potrà mai contenere tutte le informazioni che definiscono quest’ultimo nelle sue varie parti. Ci sono alcune di queste che, per le loro dimensioni originali e caratteristiche morfologiche, normalmente non è possibile rappresentare al di sopra di una certa scala. Facendo qualche esempio, non si riesce a disegnare in scala perfetta una cortina di mattoni al 200, o le stecche di una persiana al 100, oppure tutti gli inclusi di un nucleo di conglomerato cementizio al 50, semplicemente perché lo
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Fig. 90. Proiezione geometrica e caratterizzazione di una struttura. I prospetti a lato sono due rappresentazioni diverse della stessa struttura. La prima evidenzia le sole componenti spaziali, rese con i rispettivi ingombri volumetrici. La seconda, completa di caratterizzazione, distingue i vari elementi (o parti di questi) anche per quanto riguarda i materiali, le tecniche di costruzione e lo stato di conservazione.
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caratterizzazione e lucidatura
stesso spessore del tratto (matita o pennino, indifferentemente) alla data scala rappresenterebbe un oggetto più grande di quello da disegnare, oltre a determinare, qualora riuscissimo a riportare tutti gli elementi in scala perfetta, un generale annerimento di tutto il disegno, in misura tale da comprometterne la lettura. Possiamo quindi affermare che, a seconda del rapporto di riduzione dell’elaborato, la caratterizzazione avrà dei connotati grafici e delle finalità profondamente diversi. Passiamo ora ad esaminarle nel dettaglio (figg. 91, 92, 93): nella scala di 1:500 praticamente non si caratterizza niente, salvo indicare, sui prospetti, le cortine murarie a vista con delle campiture pressoché indifferenziate; nella scala di 1:200 si possono indicare sulle piante le eventuali differenze di muratura (solo nel caso di notevoli spessori di questa, altrimenti non si leggono) con campiture di diversa intensità, nei prospetti si possono evidenziare i differenti trattamenti delle facciate (cortine, intonaci, ricorsi di blocchi) con delle campiture di vario passo, gli eventuali particolari architettonici si rendono se di dimensioni appropriate, con il solo ingombro esterno; nella scala di 1:100 si può cominciare a caratterizzare, in pianta, sezioni e prospetto, le eventuali differenze di materiali distinguendone anche le eventuali tipologie con simboli grafici e campiture che cominciano a dare l’idea dei vari elementi, pur rappresentandoli sempre fuori scala (ad esempio si possono distinguere la muratura di mattoni da quella di tufelli, i blocchi in travertino da quelli in tufo, gli intonaci finiti dalle preparazioni, ecc., disegnandone gli ingombri esterni secondo l’esatto rapporto di riduzione ed adottando una serie di simboli grafici che ne rappresentino le caratteristiche fisiche senza, però, pensare di poterli rendere in scala); praticamente ci si comporta come se si stesse usando dei retini, campendo le varie aree (sempre che queste siano sufficientemente estese da poterci disegnare qualcosa dentro) con gli elementi grafici prescelti; i particolari sono resi, oltre che per la loro sagoma esterna, anche per qualche elemento notevole (ad esempio, in una modanatura di altezza complessiva superiore, al reale, a cm. 20, si possono tirare un paio di linee in corrispondenza degli spigoli formanti gli aggetti principali); nella scala di 1:50 la caratterizzazione assume dei connotati quasi realistici in tutti gli elaborati e si possono evidenziare anche eventuali differenze all’interno di una stessa tipologia di materiali: ad esempio, non solo si possono disegnare i mattoni ma anche eventuali differenze di tessitura, aree erose o mancanti della superficie esterna, ecc.; restano confinate nel campo del fuori scala solo gli elementi che, al reale, misurano meno di 2 o 3 centimetri quali le modanature più sottili o i particolari di decorazione che non si riesce a descrivere con poche linee o puntini; anche in questo caso, però, la resa dei materiali è tale come se fossero stati impiegati dei retini nel senso che, tornando all’esempio dei mattoni, si possono disegnare nelle loro dimensioni in scala (spessore e giunto orizzontale di malta), ma è del tutto inutile procedere ad alcuna misurazione (salvo qualcuna a campione) degli elementi reali, cioè si caratterizza un’area senza pretendere di rappresentarla esattamente com’è, ma solo per mostrare il tipo di materiale con cui è realizzata; nella scala di 1:20 la caratterizzazione comincia a diventare simile alla resa fotografica, nel senso che praticamente tutti gli elementi si disegnano in scala, con le differenze di tessitura e superficie proprie di ogni tipologia e con la possibilità di rendere anche altri materiali di grana più sottile, quali le malte (finora ignorate), il conglomerato (che comincia a somigliare alla realtà, pur senza dover compiere misurazioni dei singoli caementa, che si continuano a 137
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Figg. 91, 92, 93. Caratterizzazione a diverse scale. I disegni a lato e nelle pagine seguenti rappresentano l’intero prospetto di una struttura in scala 1:500 (l’unica compatibile con il formato di queste pagine) e dei dettagli, via via di elementi più minuti, dello stesso elemento rappresentato al 200, 100, 50, 20. Notare le differenze di caratterizzazione e, soprattutto, la maggiore quantità di informazioni che è stato possibile fornire sui diversi elaborati. Per la realizzazione di queste figure, inoltre, sono state usate come basi delle riduzioni fotostatiche di rilievi più dettagliati (ad esempio il pilastro, rilevato in scala 1:20, è stato usato per la rappresentazione 1:50, oppure il prospetto del muro, rilevato in scala 1:50, è stato ridotto al 100 ed al 200 e rilucidato). La caratterizzazione, altrimenti, sarebbe stata necessariamente più sommaria, anche a causa delle più limitate esigenze (e relativo budget) normalmente previste per tali lavori.
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caratterizzazione e lucidatura
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caratterizzazione e lucidatura
disegnare a occhio sulla base di foto o sul posto), i vari tipi di materiali lapidei (le cui caratteristiche estetiche ed eventuali lesioni si possono rendere con discreto realismo), ecc.; i dettagli architettonici sono completi di tutti i loro elementi, in scala, e tutto il disegno può contenere graficizzazioni tendenti a sottolineare eventuali effetti chiaroscurali dati da differenze di piani di giacitura, rientranze, fori, lesioni, ecc., che in genere si rendono con puntinati più o meno fitti, inspessimenti del segno, ombreggiature a matita o aerografo; nella scala di 1:10 ed 1:5 praticamente si disegnano tutti gli elementi dell’oggetto secondo il rapporto di riduzione fissato e, se non ci sono particolari prescrizioni restrittive date dalla finalità del rilievo, gli elaborati finali li contengono tutti, somigliando quasi a delle foto (in bianco e nero); paradossalmente, però, è proprio a queste scale che il disegno rischia di apparire più scarno ed essenziale nel senso che il bianco della carta, per quanto si lavori di pennino, diventa sempre più dominante e difficile da riempire con qualcosa che dia veramente l’immagine dell’oggetto rilevato, avendo a disposizione solo delle linee e dei puntini di diverso spessore. Impostando il lavoro di caratterizzazione, una fase fondamentale riguarda l’organizzazione della legenda e la grafica delle eventuali didascalie che vengono apposte sul disegno, ovvero della codificazione del linguaggio da adottare (fig. 94). Convenzioni grafiche. Nella misura in cui abbiamo definito l’opera di caratterizzazione come quella tendente a dare delle informazioni sui materiali e le superfici degli elementi disegnati nelle loro forme essenziali, il modo in cui tali dati vengono trasmessi a chi dovrà leggere il disegno diventa di fondamentale importanza: più sarà chiaro il processo di sintesi grafica adottato, più il nostro lavoro sarà compreso e (se tutto va bene) apprezzato. Purtroppo (o per fortuna?) non esistono dei canoni rigidi che regolino la caratterizzazione ma solo, piuttosto, delle consuetudini più o meno rispettate. Io credo che, in linea di massima, nell’impostazione di questo lavoro si dovrebbero seguire due regole principali, anche se apparentemente antitetiche: * tutto dovrebbe essere concesso, purché adeguatamente documentato in legenda e facilmente leggibile, ovvero la grammatica del disegno andrebbe calibrata di volta in volta, secondo le esigenze del lavoro che si sta svolgendo; * tanto più la caratterizzazione si accosta all’immagine reale dell’oggetto, tanto meno è necessario ricorrere all’uso della legenda ed è più semplice leggere gli elaborati, ovvero se riusciamo a disegnare un certo materiale come si presenta nella realtà non ci sarà bisogno di andare a confrontare la sua grafica con quella della didascalia (figg. 95, 96, 97). Oltre alle indicazioni di carattere squisitamente grafico, la leggibilità del disegno può talvolta essere molto facilitata dall’inserimento di didascalie che illustrino gli elementi notevoli che si vogliono sottolineare, quali le indicazioni sulle quote (riferimenti altimetrici assoluti o relativi, confronti tra livelli diversi, piani di imposta o di calpestio, ecc.), sui materiali, sulle fasi costruttive, ecc.. Quello delle didascalie è un problema talvolta controverso, perché si possono trovare dei committenti secondo cui i disegni dovrebbero essere più “puliti” possibile. Se, quindi, non fosse possibile concordare in precedenza tali dettagli sarà bene apporre queste su dei radex (copie eliografiche su supporto lucido), piuttosto che sugli originali. Altro elemento variamente interpretato è quello relativo alla caratterizzazione delle integrazioni di restauro che, spesso, vengono rese con 141
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Fig. 94. Esempi di legenda. Le due colonne di riquadri contengono alcune indicazioni di legenda in scala 1:50. Notare l’accostamento, per ogni voce, della vista in sezione e di quella proiettata, sia per le piante che per i prospetti. Nel comporre le immagini della legenda è bene usare sempre dei dettagli effettivamente rappresentati sulle tavole anzichÊ delle generiche campiture, specie per quanto riguarda gli elementi piÚ rari che compaiono sugli elaborati.
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Figg. 95, 96, 97. Esempi di caratterizzazione. Nell’ordine: a lato, pianta di murature di epoca diversa, sezionate o proiettate, rapp. 1:50 (parte del relativo prospetto si trova nella fig. 92); pag. 150: prospetto di struttura romana realizzata con varie tecniche, rapp. 1:50; prospetto di pilastro in laterizio (XV sec.) realizzato in diverse fasi e con restauri antichi (area centrale inferiore), rapp. 1:20; pag. 151: dettaglio di muratura medievale con elementi di riutilizzo (tra cui un frammento di opera spicata) e restauri moderni, rapp. 1:10. Per quanto riguarda la pianta, nel riquadro a destra (saggio di scavo) si vedono delle strutture di epoca classica con andamento affatto diverso da quelle più tarde. La parete in mattoni proiettata sulla sinistra presenta, in sezione, un andamento fortemente inclinato (“a scarpa”) verso l’interno, che determina la vista di scorcio dei filari.
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caratterizzazione e lucidatura
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Fig. 98. Caratterizzazione delle integrazioni di restauro. Adottando le rappresentazioni grafiche proposte nella figura il disegno dovrebbe risultare piĂš pieno ed equilibrato, rispetto alle aree lasciate completamente bianche e prive di qualsiasi informazione.
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aree bianche di cui si traccia la sola sagoma esterna, senza alcuna informazione che illustri la tecnica costruttiva originale degli elementi restaurati. A parte i casi più elementari, in cui l’integrazione interessa un’area completamente circondata da elementi conservati (caratterizzati normalmente) e da cui, dunque, è facile intuire che la parte restaurata appartenga alla stessa tecnica, talvolta il restauro “bianco” può risultare poco chiaro o dare luogo ad equivoci, oltre a produrre problemi di estetica a causa dell’appiattimento generale dell’elaborato. Come si può vedere nella figura 98, credo sia meglio associare ad ogni tecnica muraria una caratterizzazione specifica per le integrazioni che, oltre a riempire il disegno, manifesta chiaramente l’oggetto del restauro, indicandone anche gli eventuali elementi volumetrici. Si noti come si sia ripreso lo stesso linguaggio della caratterizzazione “normale”, riducendone però la complessità (anche per ridurre i tempi di lucidatura) a schemi puramente geometrici. La restituzione in studio. L’ultima fase del lavoro di cantiere è la revisione prima della lucidatura (termine poco felice, indicante la produzione degli elaborati finali a china, una volta effettuata su carta lucida, da cui “lucidare”). A seconda del tipo di incarico e di rapporto con la committenza, questa fase potrà essere svolta direttamente sul posto o in altra sede. In quest’ultimo caso è meglio avere cura di portare, con i disegni, anche la documentazione fotografica che potrà, in caso di contestazioni o di fraintendimenti sulla vostra opera, essere un valido elemento di verifica. La revisione degli elaborati, oltre alla disamina delle matite, in genere è anche l’occasione per stabilire l’impaginazione delle tavole definitive, un “visto, si stampi” per la conclusione del lavoro, ovvero la lucidatura. A tal fine, oltre alle bozze delle singole tavole, è bene predisporre anche delle piccole campionature per la caratterizzazione. Dal punto di vista del tempo necessario a completarla, spesso, la lucidatura rappresenta un onere talmente gravoso da poter tranquillamente essere paragonata alla realizzazione delle matite. Anche questo lavoro necessita di una programmazione per quanto riguarda i tempi e le fasi di realizzazione. Per i primi vale quanto detto in precedenza, ovvero che bisogna fare attenzione a non trovarsi fuori da quanto previsto o richiesto dall’incarico. Tenete sempre presente che, al di là delle singole capacità, un buon lavoro in cantiere se lucidato male o con trascuratezza produce sempre il brutto effetto di annullare tutte le fatiche fatte in precedenza, nel senso che non renderà giustizia della vostra professionalità. Accade anche, infatti, che sia meglio apprezzato un lavoro mal fatto e ben lucidato di un altro fatto bene e lucidato peggio, quindi occorre mettere in preventivo anche una notevole quantità di tempo per tale fase. Per quanto riguarda i costi, la produzione degli elaborati definitivi non necessita di grandi uscite, nella misura in cui (togliendo quelli relativi al luogo di lavoro) sono sufficienti un tavolo, una serie di buoni pennini a china (la cui usura riguarda essenzialmente gli spessori minori quali lo 0.2 e lo 0.1), righe e squadre, il supporto. Per le fasi di realizzazione occorre fare una serie di precisazioni. A meno che la mole di lavoro non sia veramente notevole, sarebbe bene che la lucidatura fosse curata dalla stessa persona (o perlomeno che ci si occupi, separatamente di parti diverse quali le piante e i prospetti, oppure i dettagli) al fine di uniformare al massimo la grafica. Se invece sarà necessario lavorare insieme bisogna stabilire delle (ferree!) regole per avere, alla fine, una serie di elaborati che rispecchino lo stesso linguaggio grafico e le stesse convenzioni. Si dovrà, dunque, stabilire a priori una legenda che contempli tutta la casistica 147
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delle rappresentazioni e, soprattutto, lavorare a stretto contatto di gomito per confrontare continuamente il lavoro svolto. Al limite si può arrivare a dividersi parti compiute dei disegni (rappresentazione di caratterizzazioni, diversi tipi di tecniche murarie o di materiali, ecc.) da realizzare ognuno per conto proprio. A parte questo fatto, il lavoro di lucidatura dovrebbe essere organizzato in sequenza, specie se le tavole contengono elementi proiettati che si ripetono. Talvolta, infatti, i disegni contengono delle parti comuni che avrebbero dovuto essere tenute presenti già dalla fase di costruzione. Mi riferisco, ad esempio alle piante che, se più di una, “vedono” la stessa proiezione degli elementi a terra, oppure ai prospetti ed alle sezioni che, se proiettati su piani paralleli, talvolta sono composti dalle stesse viste. Così come si è proceduto per la fase di costruzione, in cui si è tenuto conto delle parti già disegnate per non ripeterle, al fine di aumentare la precisione e sveltire il lavoro, tutte le parti comuni dovrebbero essere riprodotte direttamente sulle tavole già lucidate, ovviamente conservando dei riferimenti precisi per “incollarle” ai rispettivi contesti. Questo determina una certa gerarchia nella stesura delle tavole, che dovrà eventualmente essere coniugata con il lavoro contemporaneo di più persone. L’esecuzione non necessita di particolari commenti. Le operazioni più consuete sono: predisporre la carta, tagliata in un formato leggermente superiore a quello previsto per le tavole (al fine di avere un margine da rifilare alla fine che, inevitabilmente, è sottoposto a maggior usura e pericoli di sporcarsi, gualcirsi, ecc.), tracciare la squadratura ed i riferimenti per la posizione che avranno i disegni e sovrapporre la tavola all’elaborato a matita, fissandoli reciprocamente con lo scotch. La scelta della carta è fondamentale per la buona riuscita e l’estetica del lavoro, oltre ad influenzare notevolmente il rapporto costi-benefici. Il supporto può essere carta lucida comune di buona grammatura (è la misura del peso della carta espressa in gr./mq., ovviamente il peso è direttamente proporzionale allo spessore e, dunque, alla qualità), a partire da quella di 100 grammi (esistono carte più leggere che, oltre a costare meno, sono anche più trasparenti per il ricalco, ma sono talmente sottili e vulnerabili che non meritano il nostro lavoro), oppure altri tipi di film indeformabili, quali il poliestere, l’astralon, ecc.. I supporti indeformabili sono pellicole plastiche di vario spessore che hanno il pregio fondamentale di non risentire degli sbalzi di temperatura ed umidità che, invece, producono deformazioni anche notevoli nella carta tradizionale. Il più diffuso è il poliestere (prodotto in spessori a partire da 0.2 mm.) che rappresenta un buon compromesso tra costi e caratteristiche merceologiche. Il disegno su tale supporto (che, comunque, costa molto più del lucido) si presenta piacevole alla vista ed al tatto, non dà problemi di carattere ambientale, permette di lavorare con una velocità maggiore (i pennini scorrono più velocemente sulla sua superficie) e di correggere gli errori semplicemente cancellando la china (anche secca) con una gomma da matita inumidita, contrariamente alla carta lucida in cui bisogna “grattare” con la lametta la superficie e, con essa, il tratto a china. L’inconveniente maggiore, o forse l’unico, sta nel maggior tempo di asciugatura della china (dovuto all’impermeabilità della superficie) che, specie per chi è agli inizi, può creare problemi soprattutto con i pennini dal tratto più grosso. Il poliestere, infine, risente in misura maggiore della carta della patina di grasso epidermico che le mani lasciano, specie d’estate, sulle tavole e, quindi, 148
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Fig. 99. Schema di lucidatura su poliestere. La tavola rappresentata è di formato A0 (circa cm. 120x84). Le aree indicate corrispondono, grosso modo, ad altrettante fasi di lavoro caratterizzate da diverse posizioni del tavolo da disegno professionale (cm. 170x100) orientabile. La fascia inferiore (1 e 2), infatti, può essere disegnata con il piano all’incirca orizzontale stando seduti sullo sgabello; quella mediana (3 e 4) necessita del piano inclinato a 40-45° e va disegnata in piedi; quella superiore è accessibile solo con il piano in posizione semi-verticale. Procedendo nella lucidatura secondo l’ordine proposto (compatibilmente con la composizione della tavola) sarebbe bene coprire le parti del disegno finite con dei fogli di carta per limitarne al massimo l’usura.
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richiede più attenzione alla pulizia ed ordine nella lucidatura: per ovviare a questo inconveniente (che provoca un tratto più tenue a causa della china che “non attacca” sul supporto) è meglio procedere per aree dal basso verso l’alto e da destra a sinistra, per disegnare subito quelle poste più in basso sulla tavola (più vicine a chi disegna), maggiormente sottoposte a sfregamento, manate, ecc (fig. 99).. La pulizia delle tavole va fatta con ovatta imbevuta di benzina rettificata. Ovviamente i supporti dei rilievi a matita devono essere dello stesso tipo di quelli usati per la china altrimenti si corre il rischio, specie se la tavola richiede parecchio tempo, di vedere uno dei due arricciato dalle eventuali deformazioni. L’organizzazione delle tavole è fondamentale nel senso che, per avere un buon risultato finale, bisogna studiare bene la disposizione dei singoli disegni rispetto alla squadratura, impostare le dimensioni di quest’ultima in modo che possa sempre contenerli tutti (i lavori con tavole di diverso formato si presentano male e sono scomodi da archiviare), studiare il tipo di caratteri per le scritte, l’eventuale legenda, la scala grafica, i riferimenti altimetrici, ecc., insomma pensare alle tavole definitive come ad un progetto grafico complessivo che ne curi tutti i dettagli. Nel caso di una struttura avente più livelli le piante dovranno essere sovrapponibili e, dunque, dovrebbero avere la stessa posizione rispetto alla squadratura per facilitare tale operazione. Lo stesso vale per i prospetti e le sezioni che, se proiettati su piani paralleli e secondo lo stesso verso, hanno elementi in comune. I prospetti, inoltre, dovrebbero essere collocati in modo tale da avere l’orizzontale di riferimento posta sempre alla stessa altezza (rispetto alla squadratura) per avere una composizione delle tavole più ordinata. Una volta organizzato il progetto di composizione si passa alla lucidatura vera e propria, tracciando con pennini di diverso spessore le linee che costituiscono i nostri disegni. Generalmente si tracciano prima le linee di spessore maggiore e poi le successive. Gli spessori variano, mediamente, dallo 0.6 allo 0.1, a seconda del gusto e della scala del disegno, assegnando quelli maggiori alle parti sezionate ed i più sottili a quelle proiettate. Per dare maggior risalto e profondità al disegno, queste ultime si rendono generalmente con almeno un paio di spessori, scegliendo quelli più grossi per gli elementi in primo piano e/o dotati di aggetti maggiori. Per i prospetti e le sezioni, il risalto può essere aumentato assegnando spessori maggiori alle linee che, se si procedesse a disegnare le ombre secondo i canoni della relativa teoria, produrrebbero ombre portate. Ad esempio, nel caso di vani di porte o finestre le linee che producono ombre portate sono quella superiore e quella sinistra (adottanto la convenzione del fascio di luce proveniente da sinistra e dall’alto) (fig. 100). Gli spessori dei pennini per le parti sezionate sono perlopiù i seguenti: 0.3 per la scala 1:200, 0.4 per 1:100, 0.5 o 0.6 per 1:50, 0.8 o maggiori per le scale inferiori. Per concludere dobbiamo affrontare brevemente l’argomento della squadratura delle tavole e delle didascalie, ovvero di tutto quello che completa il disegno rendendolo esplicito e comprensibile. Per la prima solo poche raccomandazioni: che sia precisa, di tratto regolare (generalmente si usano degli spessori di pennino abbastanza grossi, dallo 0.5 in poi, talvolta si raddoppiano le linee con delle parallele di spessore 150
caratterizzazione e lucidatura
Fig. 100. Lucidatura con spessori diversi. Il prospetto a lato è stato realizzato con due tecniche diverse: la parte sinistra con pennini 0.2 per le decorazioni architettoniche e 0.1 per gli infissi; quella destra con spessori che variano dallo 0.4 allo 0.1 a seconda dell’aggetto e della posizione rispetto ad un fascio di luce inclinato a 45° sia sull’orizzontale del prospetto che sul piano verticale del foglio (un esempio di tale tecnica di realizzazione delle ombre si trova nella fig. 97). Anche il puntinato delle specchiature di intonaco “sbruffato” è stato realizzato con tecnica diversa: quello di sinistra tutto a 0.1 e con una campitura abbastanza regolare, quello di destra alternando 0.1 e 0.2 e con una disposizione più caotica. Notare la differenza di risalto e di resa dei volumi che si può ottenere impiegando una minima quantità di lavoro in più.
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più sottile) e soprattutto che dia aria al disegno, nel senso che lasci un buon margine di bianco tutto intorno. Per quanto riguarda il formato sarebbe bene rispettare quelli UNI per quanto attiene al problema delle copie. Per scrivere le didascalie ci si può avvalere di diverse tecniche. Innanzitutto vorrei raccomandare la massima attenzione a questo aspetto perché è estremamente facile rovinare un buon lavoro con delle scritte brutte, fatte male, con caratteri non appropriati (per forma, grandezza, disposizione, ecc.), con errori o peggio ancora. Nella misura in cui la scrittura è molto più familiare e leggibile della grafica di un disegno, può succedere che si noti molto più una didascalia scritta male piuttosto che un errore grafico del rilievo, ovvero che questa sia molto più evidente di tutto il resto. Le didascalie, inoltre, danno un notevole contributo alla resa grafica generale del disegno e quindi vanno progettate con cura nella disposizione, nel contenuto e nel tipo di carattere. Nell’impaginazione degli elaborati finali occorre tener presente anche la collocazione del cartiglio e delle principali indicazioni sull’oggetto del lavoro e della tavola anche in relazione all’archiviazione sia degli originali che delle copie le quali, spesso, sono gli elementi più usati dai vostri committenti (fig. 101). Queste vengono piegate nel formato UNI A4 (cm. 21 x 29.7) per poter essere introdotte nei comuni raccoglitori per ufficio. La piegatura avviene prima in senso verticale (rispetto alla lettura orizzontale del disegno), in strisce di cm. 21 “a fisarmonica”, e successivamente in senso orizzontale, di tutto il pacchetto prodotto dalle precedenti pieghe. E’ buona consuetudine apporre il cartiglio indicante l’oggetto del lavoro (nome del manufatto, località, committente, esecutore, tipo di elaborato, ecc.) in prossimità dell’angolo superiore sinistro o di quello inferiore destro, in modo che risultino nel frontespizio della copia piegata che sarà così ben visibile per un’eventuale consultazione. Ovviamente questo dovrà essere completamente contenuto nel formato A4 (incluso il bordo di carta che il cianografo lascia a margine della squadratura) per essere compreso in tale sistema di piegatura standard. Per ulteriore chiarezza e per facilitare la ricerca delle tavole, si può disegnare sotto il cartiglio anche uno schema di pianta molto ridotta (key plan) su cui indicare le sezioni o i prospetti o, se la pianta fosse talmente grande o complessa da dover essere disegnata in più tavole, le porzioni di pianta rappresentata. Nel caso di edifici a più livelli si può anche disegnare un prospetto (il più significativo) su cui apporre le indicazioni delle quote del piano di sezione delle varie piante. In tal modo sarà molto comodo cogliere anche le aree interessate dal disegno della tavola, ferma restando la necessità di indicare tali riferimenti anche sugli elaborati a scala normale. Tornando alla scrittura delle didascalie, vorrei citare per prima quella a mano libera, magari in corsivo, che rappresenta un mezzo economico e relativamente veloce per chi è dotato della famosa bella mano e che, se veramente ben fatta, permette di dare alle tavole un tocco di personalità assolutamente notevole. Mettendo da parte i caratteri trasferibili (che, essendo posticci, danno non pochi problemi di durata nel tempo) ed i normografi (ormai antiquati, lenti nell’uso e poco precisi), uno strumento manuale efficiente e relativamente economico era (perché ormai fuori produzione da anni) il cosiddetto ragnetto, che consiste di un supporto per i pennini e di una serie di stecche recanti dei caratteri incisi (diversi per forma, corpo, ecc.). Il supporto è una specie di 152
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Fig. 101. Piegatura delle copie e posizione del cartiglio. Le copie delle tavole (quale sia il loro formato) vengono piegate nel modo indicato a lato: tante strisce verticali di 21 centimetri fino alla fine della tavola e, successivamente, altre piegature di cm. 29.7 (circa). Ponendo il cartiglio nell’angolo superiore sinistro o inferiore destro questo si troverà sempre sul frontespizio della copia piegata. In tal modo, specie nei lavori che richiedono molte tavole, sarà sempre possibile trovare gli elaborati desiderati senza dover aprire tutte le copie. In basso un esempio di cartiglio realizzato con Autocad.
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pantografo ed è fornito di una punta che, fatta scorrere sull’incisione della stecca, permette di tracciare le scritte con assoluta precisione e grazia del tratto. Chi ne fosse ancora provvisto se lo tenga stretto perché è ormai un pezzo di antiquariato. Altro “antico” strumento, più evoluto e costoso, è il plotter da tavolo, costituito da un corpo macchina con una tastiera ed un braccetto mobile su cui si fissano i pennini. In questo caso il testo viene scritto direttamente sulla tastiera e la macchina procede a tracciare con il pennino i caratteri che, a seconda del modello, potranno essere più o meno variati per forma, dimensione, ecc.. Il plotter ha un certo campo di azione e permette, compatibilmente con le dimensioni del carattere, di tracciare anche alcune righe senza doverlo spostare dalla posizione di partenza. Per spostarlo sul foglio si procede direttamente a mano oppure lo si può montare direttamente sul tecnigrafo per avere delle scritte perfettamente parallele ed allineate. Ultimo, ma non in ordine di importanza, è il plotter per il disegno automatizzato. Chi può disporre di un computer e di un programma CAD, anche se deciderà di lucidare, poi, a mano, può svolgere tutto il lavoro di progettazione grafica, squadratura, scritte, ecc. direttamente sul monitor e stampare, presso un centro copie, le tavole definitive complete di tutte le scritte e le indicazioni che, specie se gli elaborati dovranno essere sovrapponibili, saranno realizzate con una precisione pressoché assoluta e dovranno solo essere completate con la lucidatura del rilievo. Se si pensa a tutto il tempo necessario per tracciare le scritte e tutte le altre indicazioni, questa soluzione, per quanto abbia dei costi non del tutto indifferenti, può rappresentare un buon compromesso tra economia e resa del lavoro e diventa ottimale in caso di lavori molto impegnativi e con un gran numero di tavole. Generalmente le didascalie si scrivono con pennini di discreto spessore, a partire dallo 0.3. Le righe di testo aventi sviluppo verticale si scrivono, per convenzione, dal basso verso l’alto con l’asse dei caratteri orizzontale, in modo che l’osservatore possa leggerle in modo normale spostandosi alla sua destra. Una volta completata la lucidatura occorre procedere ad una revisione generale delle tavole, possibilmente con la collaborazione di qualcuno non direttamente coinvolto nel lavoro, che avrà sicuramente una visione più critica e meno indulgente verso eventuali errori o perfezionamenti che si rendessero necessari. L’ideale sarebbe di potersi avvalere di una persona che non abbia mai visto l’oggetto del rilievo, per avere un riscontro diretto di quanto quest’ultimo sia stato in grado di documentare l’esistente. Nel corso della revisione sarà bene procedere anche alla sovrapposizione degli elaborati a matita con quelli a china, tenendo questi ultimi sotto i precedenti: sfruttando il contrasto dato dalla maggiore evidenza della china rispetto alla matita sarà possibile cogliere le eventuali dimenticanze (succedono a tutti!) di parti non lucidate, eventuali slittamenti dei supporti che provocano traslazioni delle diverse parti del disegno, ecc.. Attenzione anche alle didascalie, che a volte contengono errori ortografici assolutamente terribili. Concludendo questo capitolo, vorrei richiamare la vostra attenzione anche sulla fase di copia degli elaborati (che, di consueto, vanno consegnati in originale e tre copie). Per quanto possa sembrare banale, anche la scelta di un buon laboratorio di riproduzione parla del vostro lavoro davanti alla committenza, perché delle brutte copie si leggono male e sminuiscono il disegno. In ogni caso è bene essere presenti al momento della copiatura per farsi fare dei provini e controllare che il vostro lavoro sia trattato meglio possibile. 154
Le tecniche informatizzate. Questo paragrafo nasce praticamente già vecchio perché, mentre sto scrivendo, le novità sia in ambito hardware che, soprattutto, software si susseguono con ritmo incessante. Per questo motivo, piuttosto che parlare di un singolo prodotto, ho preferito fare una breve carrellata sulle funzionalità e le tipologie dei vari prodotti che possono fare al caso nostro. Mi sono solo concesso di inserire alcuni link per i siti di alcuni produttori in cui potrete tenervi aggiornati. Le principali tecniche informatizzate che offrono un valido supporto all’attività di rilevamento architettonico ed archeologico sono il disegno automatizzato, i programmi di calcolo e restituzione dei dati topografici, i programmi per la vettorializzazione delle immagini, le procedure software per la fotogrammetria. Queste saranno velocemente esposte, cercando di spaziare sulle potenzialità offerte dal settore, piuttosto che procedere a fornire un semplice elenco di nomi di programmi. L’esposizione che segue non potrà certo avere carattere esaustivo e vuole essere, piuttosto, una specie di rassegna di possibilità e di modi di operare. Il disegno automatizzato. Il disegno automatizzato o, più comunemente, CAD (Computer Aided Design) è caratterizzato dalla possibilità di operare in ambiente digitale, generando od elaborando delle primitive grafiche (linee rette o curve, campiture, testi, ecc.) in uno spazio a due o tre dimensioni direttamente su video e stampando il disegno finale, alla scala voluta, tramite stampante o plotter. La maggior parte dei programmi CAD opera in forma vettoriale, ovvero genera gli elementi grafici in forma di vettori, assegnando ad ognuno una serie di caratteristiche relative al colore, tipo di linea, coordinate di inizio e fine, piano di appartenenza (layer), ecc.. Illustrando brevemente tali caratteristiche, possiamo dire che il colore delle linee serve essenzialmente ad assegnare ad ogni elemento un dato spessore di tratto in fase di stampa (oltre, ovviamente, a poter meglio distinguere tra loro i vari componenti); il tipo di linea può essere scelto tra un vasto assortimento di linee continue, tratteggiate, tratto punto, ecc.; le coordinate possono essere, indifferentemente, cartesiane o polari, relative od assolute rispetto ad origini del piano (o dello spazio) fissate a piacere; il piano di appartenenza è inteso come classe di elementi che possono essere compresi, raggruppati ed elaborati insieme o separatamente dal resto del disegno (in pratica è come se si disegnasse su diversi fogli di carta trasparente, contenenti ognuno una parte del disegno, e su cui è possibile lavorare -e visualizzarli- in modo autonomo o coordinato) (fig. 102). L’insieme dei dati relativi ad un disegno viene gestito e memorizzato in file generati dal programma secondo le proprie caratteristiche strutturali e logiche, in un formato che, generalmente, può essere gestito solo da calcolatori dotati dello stesso programma (salvo il caso del ricorso ai files in formato DXF, di interfaccia tra i diversi applicativi). Una volta generato un elemento, è possibile cancellarlo o tagliarne una parte, spostarlo, copiarlo, ridurlo o ingrandirlo, ruotarlo e renderlo oggetto di tutta una serie di elaborazioni la cui elencazione sarebbe troppo lunga e noiosa.
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Fig. 102. Piani di appartenenza. La pianta in alto a sinistra è stata realizzata con il programma Autocad. Il disegno di insieme è in realtà composto da una serie di elementi appartenenti a piani (layer) diversi, che possono essere visualizzati (e/o stampati) contemporaneamente o singolarmente (vedi altri dettagli della figura). Questa opportunità risulta estremamente utile quando si devono fare modifiche su singoli elementi oppure quando si sta lavorando su disegni estremamente complessi, la cui visualizzazione parziale permette una maggiore velocità di esecuzione (si impegna una maggiore quantità di memoria della macchina) ed una semplificazione del lavoro.
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le tecniche informatizzate
Ogni programma opera con una serie di comandi, corrispondenti ad altrettante funzioni (che, tra un prodotto e l’altro, sostanzialmente si equivalgono) e che danno luogo alle suddette operazioni. I dati relativi al tipo di elemento che si vuole generare, ovvero al comando che si vuole attivare, possono essere comunicati al computer tramite tastiera, mouse o (se esistono ancora) tavoletta grafica, ovvero, se sono stati generati da altri programmi (come nel caso dei dati di calcolo topografico), direttamente da file contenenti tali informazioni. In pratica per ogni primitiva grafica, una volta scelto il tipo (linea, arco, cerchio, ecc.), il colore e via dicendo, i dati che vengono trasmessi all’elaboratore sono le coordinate di inizio e fine che, oltre a definirne le dimensioni, ne danno un’esatta collocazione nello spazio. Tali coordinate, come abbiamo detto, possono essere cartesiane o polari, assolute o relative ad una determinata origine o ad eventuali altri elementi del disegno (quali intersezioni di linee, mediane o perpendicolari, ecc.). Se di un certo disegno conoscessimo in partenza tutte le coordinate di ogni suo punto notevole (ovvero di inizio e fine di ogni suo elemento), potremmo descriverlo alla macchina facendo uso soltanto della tastiera, senza neanche doverci curare di guardare lo schermo se non per controllare l’esattezza del lavoro svolto. Non conoscendo tali dati, l’operazione di spostare il mouse o il cursore della tavoletta clickando su dei punti che vediamo sullo schermo corrisponde a dare, di volta in volta, dei valori di inizio e fine per i nostri elementi che vengono letti dalla macchina in base allo spostamento relativo dello strumento che stiamo usando. Per quanto riguarda le dimensioni degli elementi del disegno, possono essere dati valori direttamente in scala o pari a quelli reali, nei diversi sistemi di misurazione (metrico decimale o anglosassone), quindi è possibile costruire un oggetto in scala 1:1 e ridurlo nel rapporto desiderato in fase di stampa. Ovviamente anche la visualizzazione su monitor si può gestire a piacere con le funzioni di zoom, a seconda delle esigenze di lavoro, e non influisce affatto sulle dimensioni “reali” degli oggetti generati dal programma. Oltre a poter elaborare gli elementi di un singolo disegno, è possibile anche manipolare quest’ultimo (in parte o per intero) all’interno di un altro file, utilizzandolo come base oppure come componente di un insieme più complesso. Una volta completato il lavoro (oppure, volendo, in qualsiasi momento si voglia procedere a delle verifiche) il file può essere stampato su qualsiasi tipo di supporto (carta, lucido, poliestere) tramite stampante o plotter. Questi ultimi, a seconda del modello e della tecnologia, possono stampare sul supporto tramite testine laser, elettrostatiche, ink-jet, ecc. Le procedure esposte finora sintetizzano, per sommi capi, le operazioni necessarie a comporre un disegno automatizzato. Da diversi anni esistono sul mercato una grande quantità di programmi CAD, operanti sia in ambiente Windows che Mac, in grado di funzionare anche su personal computer di prestazioni modeste. Il programma più diffuso ed usato è sicuramente Autocad, prodotto dalla Autodesk. A mio avviso è uno dei più completi ed esaurienti, dotato di una buona interfaccia utente, di manuali comprensibili e di numerose pubblicazioni illustrative di supporto e soprattutto di una serie pressoché infinita di programmi applicativi dedicati a funzioni specifiche quali il calcolo topografico, il calcolo e la restituzione fotogrammetrica, la progettazione strutturale, ecc..
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A questo punto non ci resta che definire le potenzialità del disegno automatizzato nel rilevamento architettonico ed archeologico. Mettendo per un attimo da parte le procedure specificamente dedicate alla fotogrammetria digitale ed al calcolo topografico, di cui ci occuperemo più avanti e nelle quali la restituzione grafica è strettamente legata alla disponibilità di programmi CAD, anche il rilievo diretto può trovare un proprio ambito di applicazione in ambiente informatizzato. Tale affermazione deriva sia da esigenze di archiviazione dei lavori (che ormai, da anni, talvolta sono richieste in sede di capitolato secondo prescrizioni e standard stabiliti da strutture dedicate alla catalogazione dei beni storici ed artistici), che dalle possibilità offerte dall’uso del computer per le altre attività collaterali e “derivate” dal rilievo, quali la progettazione architettonica per il restauro ed il consolidamento strutturale (con tutto ciò che ne consegue per le attività di computo, gestione di lavori, calcoli statici e degli impianti), lo studio e la pubblicazione degli elementi archeologici ed architettonici, la gestione e l’illustrazione del patrimonio storico artistico in ambiti museografici ed espositivi con tecniche multimediali che utilizzano procedure informatizzate. Innanzitutto è bene fare chiarezza su un dato di fondo: c’è ancora qualcuno che crede che, operando nell’ambito del disegno automatizzato, “basta schiacciare un bottone ed il disegno è fatto”. La tecnologia informatica è ancora lontana da tali livelli da film di fantascienza e la costruzione di un disegno digitale richiede ancora una notevole quantità di tempo (specie nel nostro ambito di lavoro) che è solo parzialmente compensata dalla precisione assoluta o dalla possibilità di riutilizzare gli elementi già tracciati per ulteriori elaborati che contengano parti comuni o simmetriche, oppure come basi per la costruzione di altri oggetti. Inoltre, nonostante l’evoluzione della tecnologia abbia permesso la costruzione di macchine veramente portatili (sia per dimensione che per peso), le modalità di operare proprie del disegno CAD richiedono ancora un ambiente di lavoro che non è possibile trasferire in cantiere e, dunque, continua ad esistere uno sdoppiamento dell’attività tra quest’ultimo e lo studio. Una possibilità è offerta dall’acquisizione tramite scanner degli elaborati cartacei che sono gestibili anche dai normali programmi CAD, con una notevole differenza. A prescindere dal tipo e dalla risoluzione dello scanner, la macchina legge il disegno cartaceo non come insieme di linee aventi delle caratteristiche geometriche vettoriali (le uniche comprensibili da un programma che, con dei calcoli matematici analitici, le gestisce sullo schermo e sulle periferiche di stampa) ma solo come un insieme di punti aventi un certo colore (nel caso tipico, nero su bianco) che vengono riprodotti sul monitor con un insieme di punti luminosi (pixel) aventi una certa collocazione nello spazio bidimensionale coperto dalla scansione. E’ ormai conoscenza diffusa la fondamentale differenza tra la documentazione grafica prodotta in formato vettoriale e quella in formato raster, includendo con ciò anche gli applicativi che permettono sia di gestire i dati sia, soprattutto di visualizzarli a monitor, quindi impiegherò solo poche parole. Il vantaggio della prima rispetto alla seconda è innegabile: da un lato abbiamo la possibilità di gestione dei dati in modo dinamico, operando con pochi tocchi qualsiasi tipo di aggiornamento e visualizzazione degli stessi ed impiegando modeste quantità di risorse hardware, con la precisione garantita dal dato numerico (e, dunque, vettoriale), dall’altra abbiamo un notevole impiego di memoria, e, inevitabilmente, dati statici che, una volta prodotti, non sono praticamente suscettibili di cambiamenti se non duplicando il dato originale e manipolandolo. 158
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Due semplici esempi potranno chiarire meglio tale concetto. Si pensi alla differenza tra un file di testo generato da un qualsiasi word processor ed la scansione di una pagina stampata: entrambi sono dati digitali, nel senso che possono essere gestiti e visualizzati sul schermo di un computer ma, mentre nel primo sarà sempre possibile aggiungere una virgola o cancellare una parola, nel secondo (a meno di ricorrere ad un OCR, ma questo è un altro discorso che ci riporta alla gestione vettoriale) quello che per noi è un testo per la macchina è solo un insieme di pixel luminosi con poca o nulla possibilità di modifica in ambiente grafico. Altro classico esempio è la differenza tra un disegno eseguito con un qualsiasi CAD ed il raster dello stesso ottenuto da una scansione, pur con la massima definizione possibile: mentre nel primo caso è possibile editare in qualsiasi modo gli elementi del disegno, nel secondo si perde tutta la precisione del dato numerico e la possibilità di modificare quanto acquisito. Detto in parole povere, se la macchina “sa” che una certa linea ha una coppia (o una tripla, nel caso dello spazio tridimensionale) di coordinate di inizio ed un’altra per il punto finale, oltre ad altre informazioni logiche sul tipo di linea, ecc., la può indifferentemente cancellare, copiare, spostare, tagliare e via dicendo, operando sempre su un elemento logico, mentre se “ha” una riga di puntini luminosi che corrisponde alla scansione effettuata dallo strumento che ha registrato ogni variazione di tono e colore sulla carta del disegno, le sue informazioni sull’oggetto finiscono qui e tutto ciò che è in grado di fare è gestire i bit relativi ai pixel di partenza. Tutta un’altra cosa. Le immagini acquisite da scanner (raster) possono anche essere gestite come tali all’interno di pubblicazioni composte da programmi di scrittura, di data base con funzione illustrativa oltre a quelli, ovviamente, dedicati alla grafica. Esistono anche applicativi in grado di trasformare i disegni raster in formato vettoriale, di cui accenneremo più avanti. Concludendo, per quanto riguarda la scansione degli elaborati cartacei (per esempio dell’originale a matita del nostro rilievo diretto), effettuarla non significa automaticamente aver informatizzato il nostro lavoro, ma solo di averlo reso disponibile in memoria e visibile su uno schermo, al pari di una semplice fotografia digitale. Digitalizzazione e costruzione di un disegno. La realizzazione di un disegno in ambiente CAD, dunque, richiede una serie di operazioni volte a costruire il disegno in tutti i suoi elementi. Queste possono distinguersi essenzialmente in: costruzione geometrica propriamente detta (tracciando le varie triangolazioni e/o coltellazioni direttamente con il programma CAD), trasferimento dei dati desunti dalla restituzione effettuata su carta tramite digitalizzazione (di una scansione) o costruzione per punti. La prima non richiede particolari spiegazioni: si tratta solo di disegnare con il computer mettendo da parte compasso e squadre. La digitalizzazione (o vettorializzazione) consiste essenzialmente nella possibilità di operare con un file raster rendendone le dimensioni reali (“fisiche”) uguali a quelle dell’oggetto rilevato, eventualmente considerandone la scala di riduzione. Una volta attivato il comando relativo (vedi fig. 103), il disegno che era sulla carta può essere riportato sullo schermo (cioè, i dati relativi alle coordinate dei vari punti costituenti i vertici delle varie linee possono essere inseriti nel file di disegno) clickando con il cursore in corrispondenza dei punti notevoli e tracciando, di volta in volta i vari tipi di linea o gli altri elementi geometrici che costituiscono il nostro elaborato. 159
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Fig. 103. Digitalizzazione. Lavorando in CAD è possibile digitalizzare gli elaborati cartacei tramite il comando “inserisci immagine raster”. Le immagini possono essere .TIF, .JPG ed altri comuni formati grafici. Dopo l’inserimento occorre calibrare l’immagine per correlare le sue dimensioni fisiche con la scala del disegno con i comandi “scala” o “allinea”. La struttura della figura, ad esempio, è stata restituita al 50 e rappresenta una planimetria realizzata a matita su una base topografica di punti battuti con il teodolite. In questo caso la scalatura è stata effettuata con il comando “allinea”, facendo coincidere il raster della restituzione con i punti del file topografico. Se avessimo avuto un disegno di archivio su carta avremmo avuto bisogno o della scala grafica originale o delle misure di alcuni elementi della struttura. Successivamente si generano le linee mediante i vari comandi di disegno, clickando con il puntatore i vertici di ogni elemento (praticamente ricalcando il raster con le linee CAD). Se l’immagine scansita non riesce a coprire tutta l’estensione del nostro rilievo se ne possono aggiungere altre fino alla completa copertura, facendo attenzione alla giustapposizione delle varie parti. Non è raro, infatti, che la scansione produca alcune distorsioni nei disegni che sarebbe bene verificare con alcune misurazioni di controllo, anche per quanto riguarda gli allineamenti.. Nell’originale progetto editoriale le linee del raster erano previste in colore grigio e quelle di Autocad in nero, ma questo non è stato possibile in questo contesto grafico. Mi scuso con i lettori per la poca leggibilità.
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Fig. 104. Costruzione per punti. La costruzione per punti è molto più laboriosa della digitalizzazione ma, specie nel caso dei rilievi, permette una maggiore precisione. In questo caso, infatti, il disegno viene costruito dando alla macchina direttamente i valori numerici dei vari elementi, letti di volta in volta sull’originale cartaceo. Nell’esempio in figura i valori sono riferiti ad un sistema cartesiano generale ma possono essere usati anche altri sistemi di coordinate relative locali. Per la finestra indicata nella figura è possibile, una volta dato il primo punto posizionato rispetto al prospetto, dare direttamente le lunghezze e la direzione dei segmenti che compongono i vari lati con le coordinate polari relative (digitando: @ lunghezza del segmento > angolo di rotazione del segmento). Queste ultime assumono come polo l’ultimo punto attivo realizzato e (nell’impostazione standard) come angolo zero quello tracciato dal segmento in direzione orizzontale a destra del punto. Gli angoli si intendono positivi nella rotazione antioraria (vedi schema al centro).
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Praticamente si tratta di un ricalco del disegno, la cui precisione sarà pari all’attenzione con cui si sono indicati i punti con il cursore, praticamente equivalente alla cura con cui si deve procedere al ricalco della matita con la china. Alternativa alla digitalizzazione è la costruzione del disegno per punti. Questa si realizza misurando sulla carta tutti gli elementi che costituiscono il disegno (espressi in coordinate cartesiane dei vari vertici o in distanze e lunghezze dei segmenti) e fornendo al programma, tramite i vari comandi e funzioni, tali dati per ottenere l’elaborato finale. Questo potrà essere poi modificato, assemblato con altri o utilizzato in parte, stampato e trasferito come qualsiasi altro file generato da un programma CAD (fig. 104). Nel disegno automatizzato seri problemi si cominciano ad avere con la caratterizzazione delle superfici, specie sui prospetti di strutture archeologiche resi in scala 1:50 o superiori. Se per quanto riguarda i materiali lapidei o simili la maggior parte dei programmi, ormai, offre una vasta scelta di retini e campiture che rendono con notevole effetto realistico la superficie di tali elementi, per le murature gli standard di tali programmi non possiedono quasi niente di idoneo e, quindi, non resta altro che definire delle campiture ad hoc secondo le esigenze del lavoro o procedere a costruire (in questo caso l’unica è digitalizzare) la caratterizzazione come se fosse una normale, altra, parte del disegno (fig. 105). Un’alternativa ancora valida potrebbe essere di digitalizzare solo gli elementi principali del disegno e realizzare la caratterizzazione a mano, con i pennini, direttamente sugli elaborati finali plottati. A parte questi problemi, i vantaggi dell’uso del disegno CAD restano notevoli, specie quando si supera la fase di “collaudo” delle procedure e si è riusciti ad impostare un efficiente metodo di lavoro. Oltre ad essere in grado di rispondere ad esigenze di capitolato sempre più frequenti, i disegni digitali permettono di essere gestiti e/o modificati anche in fasi successive, senza perdere tempo a rilucidare, fare copie su lucido o altro, semplicemente richiamandoli nel programma, facendo le aggiunte o le modifiche necessarie e ristampandoli, volendo anche a scala diversa da quella originale, ottenendone dei nuovi originali a tutti gli effetti. In tal modo, quindi, è possibile procedere a qualsiasi revisione degli elaborati (tipica quella dei rilievi ante e post operam nel caso di restauri sull’edificio) oppure usarli come base per la progettazione architettonica di eventuali interventi. Non va sottovalutata neanche la grande praticità e versatilità offerta dal disegno automatizzato per quanto attiene al problema di progettazione grafica degli elaborati finali, già descritto nel capitolo relativo alla lucidatura: una volta completati i disegni, questi possono essere “montati” sulle tavole direttamente su monitor, completi di didascalie (i cui caratteri possono essere scelti e/o variati in base ad un’ampia scelta di tipi) e squadratura, ottenendo dei campioni diversi sui quali effettuare la selezione definitiva. Facendo delle bozze di stampa è possibile anche controllare gli spessori del tratto che (tramite i colori assegnati ai diversi elementi) possono essere variati a piacere (fig. 106). Un’altra notevole potenzialità offerta da questi sistemi è quella di affrontare una sola volta il problema della grafica dei nostri lavori, impostando un disegno tipo con la squadratura, l’intestazione, le scritte delle didascalie, la scala grafica e quant’altro c’è di ripetitivo in questo ambito (scegliendo per 162
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Fig. 105. Caratterizzazione. Le campiture a lato sono alcuni esempi tratti dalla libreria standard di Autocad. Quella in basso, raffigurante una copertura in coppi e tegole, invece, è stata costruita per un lavoro specifico da stampare in scala 1:50. Anche questi elementi, ovviamente, possono essere scalati a piacere con il solo vincolo della eccessiva o carente definizione in rapporto alla scala di stampa. Notare, nel disegno dei tetti, il diverso spessore assegnato alle linee per ottenere effetti chiaroscurali.
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Fig. 106. Prove di composizione. Le tavole raffigurate (riprodotte, per esigenze di stampa, in scala inferiore a 1:500 mentre gli originali sono in scala 1:50) sono state composte con gli stessi elaborati, al fine di studiarne la disposizione e la resa grafica. Gli elementi comuni (squadratura, cartiglio, scala grafica, didascalie) sono stati utilizzati per tutto il lavoro, salvo piccole variazioni per le specifiche di ogni tavola.
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esempio un logotipo per caratterizzare l’esecutore e/o lo studio) e, semplicemente, utilizzandolo in tutti i lavori con gli eventuali aggiustamenti del caso. Programmi di calcolo topografico. Proseguendo nella nostra illustrazione delle procedure informatizzate, troviamo quelle relative al calcolo topografico. Nel capitolo relativo al rilievo indiretto avevamo già accennato alla necessità di calcolare i dati prodotti dalle letture strumentali (espressi in coordinate polari) per renderli in coordinate cartesiane. Tali operazioni di calcolo possono essere svolte manualmente, con l’ausilio di una semplice calcolatrice scientifica, o tramite elaboratore. In questo caso si può ricorrere a semplici programmi fatti in casa (per chi ha una minima esperienza di programmazione) oppure a procedure più sofisticate prodotte da diverse società informatiche. Anche in questo caso non staremo ad enumerare un elenco di nomi quanto, piuttosto, ad illustrare le principali funzioni offerte da tali programmi che, all’incirca, si ripetono pressoché uguali da un tipo all’altro. La prima, fondamentale, funzione cui assolve un software di topografia è quella di calcolo e conversione dei dati strumentali. Questi, viste le diverse caratteristiche tipologiche degli strumenti, possono essere introdotti nel programma da tastiera o in modo diretto (tramite i registratori di dati inseriti o connessi al teodolite). Nel primo caso non è raro che il programma chieda con che tipo di strumento si è operato, al fine di procedere a compensare automaticamente i vari tipi di errore di lettura propri delle diverse classi. In fase di introduzione dei dati è anche possibile aggiungere a questi ultimi delle brevi note per meglio identificare i punti tra di loro (esempio: punto 10, spigolo del fabbricato A, ecc.). Nel secondo caso, esclusivo per i teodoliti elettronici forniti di distanziometro e di lettura digitale dei cerchi graduati, esistono dei sistemi di trascrizione dei dati, direttamente in fase di battuta di campagna, su memorie installate sullo strumento stesso o su apparecchi di supporto, le quali vengono “riversate” nel calcolatore con trasmissione diretta ed elaborazione automatica. Praticamente non si usa più il libretto di campagna e tutto viene gestito dallo strumento e dal programma di calcolo, ovviamente purché siano verificate le rispettive compatibilità tra i sistemi. I dati convertiti in coordinate cartesiane possono essere stampati su tabulato oppure direttamente “disegnati” con un programma CAD (tipica è, in questo caso, la compatibilità con Autocad) il quale produce un file di disegno contenente i punti battuti ed i relativi codici di identificazione, che a sua volta può essere stampato (con tutte le caratteristiche esposte in precedenza) o ulteriormente elaborato su monitor prima della stampa. In quest’ultimo caso, qualora i punti battuti corrispondano tutti a i vertici di sagome note (tipo quelli di confine o gli spigoli di un fabbricato), si possono unire tra loro, secondo uno schema logico, con delle linee per avere già la pianta del rilievo. Numerosi programmi di topografia contengono già delle funzionalità CAD che permettono di svolgere le più comuni operazioni di editing dei file di rilievo. Ovviamente, in entrambi i casi, i programmi in questione provvedono anche al calcolo di eventuali poligonali chiuse o aperte ed ai relativi calcoli di compensazione nel caso di errore di lettura o di trasmissione dei dati, dando 165
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notizia anche dell’entità dell’errore e dei fattori di correzione apportata, per un’eventuale verifica o modifica. Altre funzioni offerte da tali procedure sono il disegno in automatico di profili e curve di livello dei terreni (calcolati secondo il criterio della massima pendenza tra i punti battuti e dell’interpolazione lineare), che a loro volta possono essere modificati prima della stampa definitiva. Partendo da tali procedure, ci sono pacchetti ulteriormente dotati di funzioni dedicate al tracciamento di strade, con i relativi profili, sezioni, calcolo dei movimenti di terra, ecc., lavoranti direttamente in tre dimensioni, le cui caratteristiche esulano dal nostro ambito di lavoro. Quasi sempre queste ultime funzioni sono svolte da moduli aggiuntivi delle versioni di base dei programmi. Quasi sempre, acquistando uno strumento topografico, viene fornito anche un programma per la gestione di dati, spesso nella versione base. Sentendo alcuni colleghi topografi, i software più diffusi e “referenziati” sono Leonardo, prodotto dalla Leonardo Software House e Meridiana, prodotto da Geotop, oltre ad una vasta gamma che potrete trovare sul web. Non ho trovato, finora, programmi gratuiti da scaricare ma, per i due precedenti, potrete scaricare delle versioni demo, funzionanti senza limiti di tempo ma con limitazioni sulla funzionalità, ai seguenti indirizzi: http://www.leosh.com/2007/download.asp http://www.meridianaoffice.com/contenuti/download/download_prodotti_pagin a_menu.html Vettorializzazione e gestione delle immagini. Un’altra famiglia di programmi che può risultare utile al nostro lavoro, specie nell’ambito della restituzione e della post-elaborazione della caratterizzazione, è quella degli applicativi dedicati alla vettorializzazione delle immagini raster. Con questo termine si indica il processo di elaborazione delle immagini scansite per estrarne delle linee (rette o curve) costituite da vettori, dunque gestibili in ambiente CAD. Questa operazione costituisce l’anello di saldatura tra la “semplice” immagine ed il vettore, secondo quanto affermato in precedenza nel paragrafo sul disegno automatizzato, ma con una serie di distinguo. Detta in parole molto povere, l’operazione di vettorializzazione costituisce di fatto una sorta di “ricalco” del disegno al tratto per ottenere, al posto delle file di pixel di cui avevamo già parlato, dei veri e propri vettori, sui quali intervenire con un programma CAD per l’editing. Del ricalco, ovviamente, si occupa il programma in questione. Avevamo fatto, prima, l’esempio dei testi scansiti: la differenza esistente tra una pagina acquisita da scanner ed un testo generato da un programma word processor stava nella qualità dei dati. Nel primo caso il testo della scansione si poteva soltanto vedere a monitor, senza alcuna possibilità di modifica, nel secondo si poteva vedere e modificare con il programma che gestisce la scrittura (ad esempio Microsoft Word). Un esempio di vettorializzazione è un programma che effettua l’operazione OCR (generalmente forniti con l’acquisto di uno scanner): la pagina di testo viene elaborata e confrontata con i modelli di caratteri e viene prodotto un file di testo contenente la trascrizione (in linguaggio macchina) dello stesso in automatico, che può essere gestito come un file scritto in modo tradizionale. Per le immagini avviene lo stesso, salvo che, in questo caso, il programma prova ad unire i pixel contigui per formare delle linee secondo vari criteri che possono essere impostati. In queste pagine parleremo solo delle scansioni da 166
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disegni al tratto, ma le potenzialità di questo tipo di programmi riguardano anche la possibilità di operare su immagini fotografiche a colori. Prima dell’operazione di tracciamento dei vettori si offre anche la possibilità di modificare l’immagine raster per meglio adattarla alle esigenze del contesto (“snellimento” delle linee dei pixel, eliminazione delle imperfezioni e dei punti isolati, ecc.). Tra le opzioni del processo di vettorializzazione si può scegliere se far passare le linee vettoriali per il punto medio di quelle raster o se seguire i margini esterni, il numero di pixel di range, il tipo di linea da adottare, ecc.. Nel complesso, rispetto alle prime versioni uscite qualche anno fa, anche in questo ambito l’evoluzione è stata notevole, sia nella qualità degli elaborati, sia nella flessibilità dei programmi. Personalmente non ho fatto grande uso di questi applicativi o, almeno, non in ambiti di rilievo caratterizzato in modo tradizionale. Un’applicazione molto utile, invece, può essere quella della digitalizzazione della cartografia (ad esempio, catastali o aerofotogrammetrici) da usare come base per i nostri lavori con un contesto topografico: piuttosto che doversi “ripassare” al CAD innumerevoli linee. Attenzione, però, alla qualità degli elaborati finali. Nell’esempio di fig. 106 bis potete vedere la differenza tra la scansione di un rilievo caratterizzato in maniera tradizionale e la stampa del file di Autocad generato dalla vettorializzazione dello stesso disegno. Una prima differenza che balza agli occhi è la freddezza del disegno: il file vettoriale, infatti, contiene tutte polilinee appartenenti allo stesso layer e, dunque, del medesimo colore (stesso spessore in fase di stampa). Un’altra sono le notevoli imprecisioni del tratto rispetto all’originale, anche se ci sono numerose variabili da impostare e sicuramente, con un po’ di tentativi, si può fare di meglio. In realtà non si capisce perché, se uno ha già caratterizzato a mano un disegno, ne debba digitalizzare la scansione, pertanto tale procedura può essere più utile (ed efficace dal punto di vista grafico) vettorializzare delle sagome (ad esempio, la restituzione delle piante o dei prospetti prima della caratterizzazione) per visualizzarle a scala diversa dall’originale. Altro piccolo problema, per esempio nel caso di catastali o disegni contenenti del testo, è che in questo caso il programma non riconosce i caratteri, che vengono semplicemente “disegnati” con delle linee e non come testo alfanumerico. Esistono molti programmi che svolgono tale funzione, specie in qualità di applicativi e plug-in dei principali CAD. Se volete farvi un’idea della tecnica e delle potenzialità che offre (o se volete lavorarci) potete trovare due semplici programmi gratuiti (versioni demo funzionanti con pochissime limitazioni) ai link seguenti: http://www.vextrasoft.com/download.htm http://www.wintopo.com/dl-wintopo.htm Entrambi offrono la possibilità di effettuare modifiche all’immagine di partenza, diverse opzioni per la creazione dei vettori, assegnare una dimensione “fisica” (perché, altrimenti, l’immagine ha solo le dimensioni della scansione, senza riferimento alla scala dell’oggetto) e, dunque, una scala al disegno, ecc.. Oltre all’utilizzo specifico, inteso come ulteriore elaborazione di un disegno già realizzato, può rappresentare un’interessante opzione per quanto riguarda l’archiviazione degli elaborati.
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Fig. 106 bis. Vettorializzazione di un’immagine raster. Nelle immagini a lato potete confrontare: a destra la scansione di un rilievo restituito a mano con tecnica tradizionale, a sinistra la resa in formato vettoriale della stessa immagine elaborata con un programma di vettorializzazione. Come accennato nel testo tale attività non mi convince nÊ rientra tra le mie principali occupazioni, quindi sicuramente si possono ottenere delle restituzioni vettoriali di gran lunga migliori di questa.
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Cenni di fotogrammetria. La tecnica fotogrammetrica consiste essenzialmente nella possibilità di determinare le dimensioni reali di un oggetto partendo dalla sua immagine fotografica, conoscendone solo alcuni dati. Dal punto di vista teorico, la fotogrammetria costituisce il procedimento inverso di quello volto a costruire l’immagine prospettica: mentre in quest’ultimo caso l’immagine viene determinata conoscendo tutte le dimensioni reali (oppure ridotte in scala sui disegni che lo rappresentano) dell’oggetto, nella tecnica fotogrammetrica si procede a ritroso, partendo dall’immagine prospettica. Il rilievo fotogrammetrico, nella sua accezione più vasta, permette di misurare le dimensioni reali di qualsiasi tipo di oggetto, a prescindere dal loro valore assoluto (da pochi centimetri a molti chilometri), e si articola in diversi procedimenti che, pur differenziandosi nella strumentazione e nella procedura operativa, hanno in comune gli stessi fondamenti teorici. I limiti posti a questo lavoro non ci permettono di approfondire l’argomento più di tanto, quindi ci limiteremo ad esporre alcune nozioni teoriche e, soprattutto, a dare un quadro delle varie tecniche e delle relative strumentazioni che le supportano, dando per scontata anche una certa conoscenza dei fondamenti teorici della prospettiva. Cominciamo a definire il processo di formazione dell’immagine fotografica: l’oggetto inquadrato viene proiettato attraverso l’obbiettivo sulla lastra o pellicola di materiale sensibile che si trova all’interno della camera, in posizione rovesciata rispetto a quella dell’originale. E’ facile intuire la corrispondenza dell’immagine fotografica con quella prospettica, caratterizzata ugualmente da un procedimento di tipo proiettivo (la differenza tra questo tipo di proiezione e quella esposta nel capitolo sulle proiezioni ortogonali sta essenzialmente della posizione del punto di vista, che in queste ultime si suppone all’infinito, generando delle traiettorie parallele, mentre nella prospettiva si suppone posto in un punto finito, generando delle traiettorie convergenti). L’immagine prospettica, al pari di quella fotografica, è quindi caratterizzata dalla presenza di una linea di orizzonte (coincidente con la posizione dell’occhio o dell’obbiettivo), di uno o più punti di fuga (punti di convergenza di rette parallele), del cerchio di distanza (che determina la maggiore o minore riduzione dell’immagine), dei punti di misura (che si trovano in corrispondenza delle intersezioni delle rette passanti per i punti di fuga e per gli estremi dei segmenti che rappresentano la lunghezza in scala dei vari elementi). La stereofotogrammetria trae le proprie origini teoriche dalla visione tridimensionale dell’occhio umano, la quale ci dà la possibilità di avere percezione della profondità di campo grazie alla distanza che intercorre tra i nostri organi visivi. In qualsiasi direzione rivolgiamo il nostro sguardo, infatti, un punto nello spazio ci appare in una certa posizione tridimensionale (rispetto ad un altro di riferimento) perché le traiettorie che uniscono ogni occhio al punto avranno sempre inclinazioni diverse, cioè esiste sempre una differenza tra i due angoli visuali, comunque orientati, detta angolo di parallasse. Questa semplice constatazione ha una serie notevole di applicazioni scientifiche (fino alla possibilità di calcolare le distanze astronomiche) ed è alla base della tecnica stereofotogrammetrica. Mentre una singola fotografia rappresenta un’immagine piatta (la stessa che avremmo se guardassimo con un occhio solo), una coppia di 169
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foto puntate verso lo stesso soggetto e riprese da una certa distanza (tra loro) può ridarci, opportunamente posizionate, la stessa visione tridimensionale che avremmo stando sul posto della ripresa. Le fotocamere impiegate per questa tecnica sono molto più sofisticate di quelle comuni, pur essendo molto più semplici dal punto di vista costruttivo: montano lastre sensibili piane (formato 6x9 o 9x12 centimetri) al posto della pellicola (al fine di limitare le distorsioni prodotte da quest’ultima), sono fornite di obbiettivi dall’ottica di precisione a fuoco fisso, con l’asse ottico perfettamente centrato sul fotogramma e perpendicolare al suo piano. Si impiegano con l’ausilio di un cavalletto uguale a quelli standard per gli strumenti (per poterli agevolmente usare anche per il posizionamento topografico dei punti di ripresa) e si differenziano in monocamera e bicamera solo per il loro numero e per il tipo di base: mentre nel primo tipo la macchina si monta direttamente sul cavalletto (che va spostato per riprendere il secondo fotogramma, con il necessario riposizionamento), nel secondo le fotocamere sono due, montate su un’asta fissata sullo stesso cavalletto, che permette di posizionarle ad una distanza fissa (generalmente 1,20 metri) e di scattare la coppia di foto simultaneamente. In entrambi i tipi è possibile posizionare la macchina con il piano perfettamente orizzontale (per la ripresa di volte o altri elementi piani) o verticale, oppure in base ad inclinazioni standard prefissate. Tutti i meccanismi che ne permettono i movimenti sono di precisione, al fine di poter ricreare le condizioni di ripresa in studio con la massima perfezione. Spesso i punti di ripresa sono diversi per la necessità di “coprire” tutto l’oggetto, se di notevole estensione, o per girare intorno alle sue varie parti, quindi tutta l’operazione deve essere progettata preliminarmente, conoscendo l’angolo di visuale delle macchine, le dimensioni generali dell’oggetto, lo spazio antistante disponibile per le stazioni (il cui numero sarà inversamente proporzionale alla misura del primo), ecc.. Ovviamente i fotogrammi dovranno essere parzialmente sovrapposti, cioè avere delle aree in comune per potersi “agganciare” di volta in volta in fase di restituzione. Le operazioni di ripresa fotografica sono accompagnate sempre da quelle di posizionamento topografico dei punti di presa rispetto all’oggetto (effettuate con lo strumento) e per la misurazione di alcuni suoi punti che definiranno le dimensioni di alcuni elementi. Tali dati serviranno per ricostruire le condizioni spaziali originarie in fase di restituzione. Quest’ultima consiste, in pratica, nel mettere in relazione le coordinate dei punti iniziali, misurati, dell’oggetto con tutti gli altri che saranno ritenuti notevoli (spigoli di aperture, aggetti, cornici, ecc.), ottenendone i valori corrispondenti tramite il calcolo dello spostamento dell’angolo di parallasse che si verifica nella visione stereoscopica di ogni punto, tenendo conto delle condizioni di ripresa. Tale calcolo è risolto in diversi modi e con diversi strumenti, fondamentalmente distinti in restitutori analogici o digitali. I primi sono delle vere e proprie macchine (spesso di notevoli dimensioni) dotate di parti meccaniche (di alta precisione) in movimento sulle quali vengono montate le coppie di fotogrammi poste nello stesso modo (posizione rispetto agli assi verticale ed orizzontale) ed alla stessa distanza (ridotta in scala pari a quella della foto) originali. Guardando attraverso una coppia di oculari è possibile vedere l’oggetto apprezzandone le caratteristiche tridimensionali e, manovrando dei congegni per il movimento delle lastre, è possibile collimare di volta in volta dei punti notevoli dell’oggetto. Usando quelli rilevati sul posto come riferimento topografico (cioè conoscendone le coordinate spaziali), i meccanismi del 170
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restitutore forniranno le triple di coordinate cartesiane di ogni punto collimato, le quali saranno usate per il disegno di restituzione alla scala voluta. I restitutori digitali svolgono la stessa funzione e sono anch’essi delle macchine con delle parti in movimento, ma in questo caso la lettura degli spostamenti dei supporti delle lastre (e quindi il calcolo delle coordinate spaziali) è affidata a dei sensori elettronici gestiti da un elaboratore, con la conseguente riduzione della complessità dei meccanismi e della massa complessiva dell’attrezzatura, che può essere comodamente ospitata su un tavolo (quelli analogici più vecchi e più grandi occupavano un’intera stanza!). Esistono anche delle procedure esclusivamente software per l’elaborazione delle fotografie che, oltre al calcolo delle coordinate (con la solita procedura topografica di appoggio), permettono anche la produzione in parallelo di elaborati CAD che possono essere successivamente gestiti dai programmi di disegno automatizzato più diffusi. In questo caso non si ricorre più alla visione stereoscopica (che era comunque demandata ad un apposito strumento “fisico”) e le fotografie vengono acquisite su monitor tramite scanner o gestite applicandole sulla tavoletta grafica, operando direttamente con il cursore di quest’ultima. Questo tipo di strumentazione ha, ovviamente, ridotto in modo notevole i costi dell’attrezzatura ed il tempo di lavoro di tutta l’operazione di restituzione. Il rilievo fotogrammetrico permette di lavorare (con gli opportuni accorgimenti) su qualsiasi tipo di oggetto di qualsiasi dimensione, sia quelli propriamente detti che gli edifici e le strutture architettoniche ed archeologiche, variando solo il numero di fotogrammi delle riprese e le modalità di posizionamento topografico. Esso viene usato, in genere, per tutti i soggetti che non possono essere rilevati in modo diretto o strumentale (oggetti fragili o delicati o dal complesso sviluppo tridimensionale come gli elementi plastici e le decorazioni architettoniche, dipinti di notevoli dimensioni, facciate di edifici su cui non si possono installare ponteggi o strumenti di sollevamento, complessi monumentali, ecc.) ed in tutti i casi in cui è richiesta una notevole precisione del rilievo ed un veloce lavoro di documentazione in cantiere. Un altro tipo di rilievo fotogrammetrico è il raddrizzamento delle immagini fotografiche. Tale tecnica, la cui classica applicazione è per le riprese di prospetti di edifici fotografati dal basso, consiste nello stampare il negativo proiettandolo su un piano che, riproducendo l’originale inclinazione dell’apparecchio fotografico, permette di eliminare l’inclinazione delle fughe delle rette verticali e di avere, quindi, delle immagini proiettate in modo parallelo all’oggetto. Praticamente si tratta di rideformare (in senso opposto) l’immagine deformata dalla visione prospettica della foto, ricreando ancora una volta le condizioni originarie di ripresa. Anche in questo caso, quindi, occorre procedere a delle misurazioni sul posto ed usare una fotocamera di cui sia possibile conoscere con certezza la posizione rispetto agli assi verticale ed orizzontale. Questa tecnica trova applicazione nel rilievo architettonico di oggetti dotati di elementi poco aggettanti (altrimenti, nella visione inclinata dal basso, gli aggetti occulterebbero buona parte del resto, in misura tanto maggiore quanto l’inclinazione data alla fotocamera, sia per l’esiguità dello spazio antistante che per l’altezza della facciata) e produce delle immagini fotografiche abbastanza precise e di notevole effetto, che possono essere disegnate a ricalco oppure lasciate come tali. 171
manuale di rilievo e documentazione grafica
L’operazione di raddrizzamento può essere effettuata in modo classico, mediante una macchina simile ad un ingranditore (in effetti tale) dotata di un obbiettivo e di un piano orientabile in diverse posizioni e traslabile avanti o indietro per ottenere immagini alla scala voluta (la distanza dall’obbiettivo influisce, ovviamente, sull’ingrandimento del negativo), oppure tramite procedure informatizzate che, con l’ausilio di un elaboratore, possono gestire l’immagine fotografica digitale o acquisita con uno scanner deformandola nella misura cercata. La fotogrammetria trova applicazione anche nel rilevamento topografico territoriale e nella cartografia tramite le riprese effettuate da speciali macchine installate su aerei (aerofotogrammetria) e la produzione di carte aerofotogrammetriche, elaborate con apposite apparecchiature e sulla base di rilievi topografici di appoggio a terra, condotti con gli strumenti tradizionali. Negli ultimi anni si sono sviluppati tutta una serie di programmi per il raddrizzamento delle immagini, praticamente di pari passo con la diffusione delle fotocamere digitali. Di fatto rappresentano un’alternativa economica (da circa 50 a 500euro) per il rilievo di facciate di strutture architettoniche (antiche o moderne) rispetto all’acquisto di una stazione totale al laser (con cui battere i punti inaccessibili). Le funzionalità vanno dal semplice raddrizzamento in ambiente grafico, indicando al programma almeno due linee cadenti, a quello analitico ed alla mosaicatura (assemblaggio di foto parziali secondo una serie di punti di misura comuni) in cui vengono elaborati dei calcoli numerici in base al tipo ed al “peso” assegnato ai vari punti, operando con diversi parametri, a seconda della complessità del programma usato. In questo caso alle immagini vengono attribuiti valori dimensionali reali (o in scala), per agevolare il lavoro di restituzione. In entrambi i casi le foto raddrizzate o “mosaicate” vanno poi disegnate al CAD ed alcuni programmi sono corredati di alcune utility per il tracciamento delle linee in base alle diverse aree dell’immagine. Un programma poco costoso, in italiano e ben recensito sui forum (che non ho provato) si può trovare all’indirizzo: http://www.perspectiverectifier.com/it_index.htm Conclusioni. Facendo un po' un riepilogo di quanto detto finora, sembrerebbe che abbiamo la possibilità di lavorare quasi senza fare più uso della carta, fin dalla fase di rilievo di campagna. Disponendo di un teodolite digitale, possiamo battere tutti i punti necessari, riversarli direttamente nel calcolatore, elaborare in modo logico i dati a disposizione sullo schermo, completare il disegno, comporre le tavole e le didascalie e stampare (solo alla fine) il lavoro svolto. Per dovere di cronaca vanno citati anche sistemi di rilevamento molto più sofisticati, legati all’uso di satelliti (GPS) e di speciali strumenti motorizzati che consentono di lavorare praticamente senza canneggiatore. Facendo poi qualche foto e prendendo qualche misura, infine, possiamo quasi risparmiarci di andare in cantiere. Di fronte alla proliferazione di tanta tecnologia sempre più a basso costo, vorrei a questo punto sottoporvi poche righe di commento, per considerare la nostra collocazione professionale in tale contesto. Leggendo queste brevi note sulle procedure informatizzate, ci si può domandare quanto e quale senso abbia trovarsi ancora a lavorare con il metro e la fettuccia per misurare, come un secolo fa, un certo edificio che ci è stato commissionato, oppure ci si può chiedere quali prospettive per il futuro abbia 172
le tecniche informatizzate
chi non dispone di tali strumenti. Se poi interpelliamo un rivenditore di questi prodotti ed assistiamo a qualche dimostrazione, oppure ci facciamo un giro sulla rete e diamo un’occhiata a qualche depliant, lo sgomento può essere ancora maggiore. Secondo me un senso ancora esiste, sia perché le prestazioni di tali sistemi non sono ancora arrivate a coprire tutte le esigenze del nostro lavoro, sia perché l’uso di tali strumenti, se non rivisto e corretto alla luce dell’esperienza quotidiana sul campo, rischia talvolta di produrre errori anche notevoli. Lo stesso disegno automatizzato, se non affrontato con una buona preparazione teorica e pratica alle spalle, spesso genera elaborati magari perfetti sotto il profilo dimensionale e della riduzione in scala, ma assolutamente piatti sotto quello grafico. Sicuramente, nel giro di non molti anni, chi non avrà provveduto a dotarsi di un’attrezzatura anche minima per il disegno CAD rischierà di trovarsi fuori dal mercato anche perché, ormai ovunque, la gestione computerizzata degli elaborati e la loro archiviazione è diventata un luogo comune in tutte le strutture per la tutela del patrimonio artistico. Tuttavia, talvolta, si assiste al paradosso di ricevere richieste di prestazioni mega nei confronti dei collaboratori esterni da parte di committenti pubblici nei cui uffici si vedono ancora i disegnatori (loro dipendenti) usare ancora la carta lucida anziché i supporti indeformabili. Questo non ci stupisca: dobbiamo però riflettere su quanta e quale tecnologia informatica introdurre nella nostra opera. Specie per chi si trova alle prime armi, sicuramente la tentazione di fare grandi investimenti (avendone i mezzi!) nella strumentazione (intesa sia hardware che software) potrebbe indurre a credere che l’attrezzatura “potente” sia una condizione sine qua non per riuscire a lavorare con successo. Lo stesso mercato induce a sognare, sfornando nuovi prodotti dalle prestazioni miracolose ad ogni stagione. Di fronte a tanta abbondanza credo che l’operazione più onesta, nei confronti della committenza e della nostra opera, sia solo quella di valutare i prodotti che ci potranno permettere di risparmiare tempo e manodopera, oppure di avere margini maggiori, per investire più lavoro per una migliore qualità. Il bottone da schiacciare per avere il lavoro già fatto non lo hanno ancora inventato.
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L’analisi del monumento.
L’operazione di rilevamento, spesso, non si limita alla restituzione grafica delle strutture murarie di un dato manufatto ma, specie nelle strutture archeologiche o in quelle architettoniche, è volta anche a ricostruire la storia del manufatto, determinando la natura ed il numero di interventi che ne hanno modificato l’impianto iniziale, oppure che ne hanno permesso la sopravvivenza nel tempo (opere di restauro, manutenzione, ecc.). In una parola, al rilievo spesso si accompagna l’analisi della struttura o del monumento. Tale affermazione deriva da motivazioni ovvie: quale che sia l’esigenza che conduce alla necessità di commissionare un rilievo (semplice documentazione e catalogazione, ricerca, restauro e manutenzione, ristrutturazione ed adeguamento a norme edilizie riguardanti la sicurezza, l’igiene, ecc.), la conoscenza dell’oggetto non può fermarsi al solo aspetto esteriore, attuale, ma deve spingersi alla comprensione di quanto è successo, nel tempo, all’interno di quelle mura e di quali mutazioni (se ce ne sono state) sono intervenute a modificarne l’impianto e le destinazioni d’uso originarie. Ogni edificio ha una sua storia e molto spesso, nella misura in cui è sopravvissuto ai suoi costruttori e/o abitanti originari, col passare del tempo ha quantomeno avuto bisogno di interventi di manutenzione dei suoi componenti, oppure mutate esigenze abitative e funzionali ne hanno richiesto la modifica di alcune (o tutte) sue parti. Questo si traduce, perlopiù, in ulteriori frazionamenti di ambienti (ad esempio per trasferimenti di parti di proprietà), chiusura o apertura di vani di porte o finestre, mutamenti di destinazione. L’operazione di analisi, per quanto intimamente connessa a quella di rilevamento che, prima tra le altre, porta a “battere” ed osservare la struttura palmo a palmo (quantomeno per misurarla), non sempre è oggetto di incarico alla stessa persona. Questo è dovuto perlopiù alla presenza, all’interno dell’equipe di intervento, di altre figure professionali quali l’archeologo o l’architetto. Non di meno, la figura professionale del tecnico del rilevamento dovrebbe essere in grado di svolgere anche tale compito o, quantomeno, dovrebbe farsi carico di segnalare la presenza di eventuali elementi notevoli nelle strutture che, pur non classificati o datati con precisione, dovrebbero essere traccia di lavoro per chi svolgerà tale compito. La complessità della materia è tale che un solo capitolo non potrà mai dare tutti gli elementi necessari a capire con precisione la storia di tali manufatti che, peraltro, potrebbero appartenere ad epoche diversissime. Inoltre, specie per quanto attiene a tale argomento, nessun testo potrà mai essere esauriente quanto l’esperienza pratica, assistita da una figura docente qualificata. E’ inoltre impossibile, nello spazio di queste poche pagine, rendere pienamente ragione delle tematiche che attengono a tale argomento e, soprattutto, riuscire a dare un panorama pur sommario delle molteplici componenti che costituiscono una struttura architettonica, ovvero l’insieme di opere e materiali che, a partire dal sottosuolo (fondazioni), arrivano sino alla copertura e ne definiscono i caratteri storici, stilistici e costruttivi. Ancora più vasto sarebbe il tema degli impianti idraulici (di drenaggio, di evacuazione, di adduzione), di smaltimento dei fumi dei focolari, oppure quello ancora più impegnativo della enorme serie di tecniche decorative che hanno accompagnato
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l’evoluzione dell’edificio dalla capanna di paglia e fango al palazzo monumentale. Ovviamente, le competenze necessarie ad analizzare quanto rimane di un’abitazione dell’età del bronzo non saranno le stesse di quelle possedute da chi si occupa di edifici rinascimentali, ma solo per quanto riguarda il know how sulle specifiche “tecniche” (morfologiche, strutturali, dei materiali, ecc.). E’ mia convinzione, infatti, che il problema del rilevamento delle strutture sia, dal punto di vista strettamente grafico (“del disegno”), sostanzialmente irrilevante per quanto riguarda l’oggetto del rilievo nel senso che, se si è in possesso di una discreta padronanza dei vari mezzi, può essere del tutto indifferente dover disegnare una domus romana o Palazzo Farnese e tutt’al più la questione si pone in termini di tecnica (di rilevamento) e strumenti da usare o di ricerca di efficaci modi di rappresentazione. In questa sede, pertanto, ci limiteremo ad esporre il problema dell’analisi tecnica nel suo complesso e ad indicare gli elementi più consueti che potrebbero essere indizi di successive modificazioni delle strutture murarie, rimandando ad altre sedi molto più qualificate e competenti il problema. Partiamo da un assunto fondamentale: non è possibile svolgere una seria analisi tecnica di una struttura muraria se non si ha cognizione (almeno in certa misura) delle principali tecniche costruttive che si sono succedute nella storia dell’edilizia. Anche se questa non è la sede adatta e qualificata per un esposizione esauriente, daremo di seguito qualche accenno sulle principali e più diffuse tecniche in uso, a partire dall’epoca romana, rimandando ai testi in bibliografia e, per quanto riguarda l’ambito universitario, al corso di Rilievo ed analisi tecnica dei monumenti antichi, tenuto dal prof. Cairoli Fulvio Giuliani presso la Facoltà di Lettere dell’Università “La Sapienza” di Roma. Tecniche costruttive. Fin dalle epoche più remote l’uomo ha realizzato le sue costruzioni con dei materiali il cui utilizzo si è protratto nel tempo, con diverse modalità, praticamente fino ai giorni nostri: legno, pietra (nel senso più ampio del termine), argilla. E’ solo all’inizio di questo secolo, infatti, che con la comparsa del cemento (ottenuto dalla cottura di pietre aventi specifiche caratteristiche chimiche) e con l’unione del ferro (posto a sopperire le deficienze meccaniche del cemento nelle aree sottoposte a tensioni critiche) a formare una pietra artificiale (calcestruzzo armato) dalle prestazioni eccezionali, la tecnica costruttiva ha subito un reale evoluzione che traccia un solco netto rispetto al passato. Il legno ha rappresentato da sempre un valido materiale da costruzione e tuttora, specie nelle aree geografiche ricche di tale elemento, viene impiegato sia come elemento portante che come sovrastruttura di tamponamento, secondo schemi e tecniche di assemblaggio che, tutto sommato, rispecchiano ancora impostazioni antichissime. La pietra, estratta dalle cave od utilizzata direttamente nelle forme reperibili in natura, contende al legno il primato di materiale più usato e diffuso, specie nell’antichità, ed è stata sempre presente nelle opere umane sia conservando il suo aspetto originario (pur essendo sottoposta a diverse 176
l’analisi del monumento
lavorazioni), sia cotta al fuoco a formare un materiale derivato (la calce) di larghissimo impiego fino ai nostri giorni. Tale elemento, infatti, ha sempre accompagnato l’uomo nelle sue realizzazioni edilizie, specie in quelle più monumentali, tagliata in blocchi o lastre di vario formato, oppure presa dai depositi di erosione, ed assemblata a secco o con l’ausilio di leganti. L’argilla, per le sua diffusione in natura (banchi nel terreno o depositi alluvionali lungo i corsi d’acqua), le sue caratteristiche plastiche e le tecniche di lavorazione che ne hanno diffuso la conoscenza fin da tempi remotissimi (per la produzione di vasellame ed oggetti vari), ha sempre rappresentato un materiale da costruzione eccezionale, impiegato in blocchetti o mattoni di varia forma (crudi o cotti) per le strutture portanti, in sottili lastre (tegole, coppi, ecc.) per le coperture, in elementi decorativi, oppure come legante nelle epoche più antiche. La società romana, fin dal primo periodo, è stata la culla di tutta una serie di tecniche costruttive che, con il passare del tempo e l’estensione dei domini, sono state messe a punto e diffuse su un’area vastissima del nostro continente, dell’Africa settentrionale e dell’Asia occidentale. Le tecniche più antiche, ereditate dalle culture precedenti ed adiacenti territorialmente, sono state quelle che utilizzavano la pietra come elemento principale: l’opera poligonale, quadrata e incerta. La prima deriva dalle grandi costruzioni megalitiche di carattere difensivo (cinte murarie, torri) ed era costituita da grandi elementi in pietra spesso appena sbozzata per ridurre lo spessore dei giunti. La seconda era composta da blocchi squadrati di pietra, travertino o tufo che formavano l’intero spessore del muro ed erano assemblati perlopiù a secco o con un sottile strato di argilla che serviva unicamente a farli scorrere meglio nella sede di giacitura. Un’opera di notevole impegno realizzata con questa tecnica sono le mura serviane di Roma, la prima cinta urbana della città, o l’acquedotto Claudio, entrambi ancora visibili in diversi tratti. L’opera incerta consisteva nell’assemblaggio mediante malta di elementi di piccole o medie dimensioni in pietra calcarea, arenaria o tufacea, uniti a formare le cortine esterne dei muri che contenevano un nucleo di malta di calce con pietrisco di varia natura e dimensione (conglomerato cementizio, da caementa, nome latino degli inclusi), a formare la nota muratura a sacco. Questa elencazione è del tutto schematica e non tiene conto di tutta una serie di differenze tipologiche che variano a seconda dell’area geografica e del periodo in cui le opere sono state realizzate. Il criterio generale che si può qui affermare è che si è passati gradualmente da un impianto strutturale caratterizzato da grandi elementi poco lavorati e montati a secco ad un tipo di muratura composita, realizzata con l’impiego della malta di calce. Dobbiamo attendere fino al I sec. a.C. per assistere alla nascita di una tecnica che, con alcune variazioni, ha sopravvissuto per moltissimi anni: l’opera reticolata. Questa consisteva nella realizzazione delle cortine esterne delle pareti con blocchetti di tufo di forma piramidale a base quadrata (cubilia), posti in opera con malta di calce con la base verso l’esterno e disposta con i lati inclinati a 45° la cui giacitura, nell’epoca di maturità di tale tecnica, rappresentava una tessitura regolarissima. L’interno del muro era costituito dal nucleo di conglomerato cementizio e gli spigoli, impossibili a realizzarsi con i cubilia per la loro inclinazione, erano realizzati con blocchetti dello stesso materiale. 177
manuale di rilievo e documentazione grafica
L’opera reticolata è stata successivamente associata al mattone in laterizio nell’opera mista, caratterizzata dagli spigoli recanti delle ammorsature a denti in laterizio, da fasce dello stesso materiale poste alla base, a circa metà ed alla sommità della parete (realizzate generalmente con cinque o sei filari di mattoni) e dalle specchiature di cubilia. L’opera laterizia è, però, quella che più rappresenta l’immagine della cultura romana. E’ costituita da due cortine esterne di mattoni e malta di calce, unite dal conglomerato con il quale formavano un insieme unico dalle caratteristiche meccaniche e strutturali eccezionali, con il quale sono state realizzati veri capolavori di ingegneria strutturale e di forma architettonica. I mattoni erano prodotti in formati (che oggi definiremmo standard) modulari sulla base del piede romano e che, specie in epoca imperiale, erano realizzati secondo requisiti stabiliti dalla legge. Erano quadrati e, successivamente, venivano tagliati in cantiere in quattro triangoli la cui base veniva usata per formare la cortina esterna, lasciando all’interno i lati tagliati (anche irregolarmente) che fornivano un’efficace presa alla malta del conglomerato. I formati erano il bessale (corrispondente ad 1 piede romano, elemento base della tessitura dei muri), il sequipedale (1.5 piedi, usato in particolare per le ghiere degli archi e delle volte) ed il bipedale (2 piedi, usato, per le sue grandi dimensioni che rendevano più complicata la realizzazione di elementi perfettamente piani, perlopiù per gli spiccati di fondazione e per livellare elementi murari irregolari). Una tecnica costruttiva più tarda e, in qualche modo, figlia della crisi che iniziava a manifestarsi nella complessa struttura economica e sociale imperiale, è l’opera listata (o vittata), caratterizzata dalla presenza di ricorsi di mattoni alternati a filari di tufo tagliato in blocchetti, a formare le cortine esterne unite dal nucleo di conglomerato. Con il passare del tempo (e con l’aumento dell’uso di materiali di reimpiego, provenienti dalla demolizione di manufatti precedenti) i ricorsi di mattoni saranno sempre più radi e sottili e quelli di tufo aumenteranno di conseguenza, parallelamente all’aumento dello spessore del giunto di malta. Questa tecnica, pertanto, non è caratterizzata da un impianto canonico (come quello dell’opera mista o quella laterizia) e comprende, piuttosto, semplicemente l’impiego associato di tali materiali. Anche in questo caso la realizzazione degli elementi più importanti sotto il profilo strutturale e della resistenza (spigoli, ghiere di archi, imposte di volte, ecc.) era spesso demandata all’uso del mattone, il materiale con più notevoli caratteristiche meccaniche. La vera rivoluzione apportata dai costruttori romani nella storia delle tecniche edilizie è però legata all’uso intensivo del conglomerato cementizio nella realizzazione di archi e volte di ogni tipo. Pur non essendo queste un’invenzione romana (un’opinione abbastanza diffusa attribuisce l’invenzione di tale tecnica agli etruschi), lo sviluppo e l’affinamento delle tecniche di realizzazione apportati da questa civiltà ha permesso la costruzione di monumenti che non solo hanno superato prove di durata ed efficienza strutturale di quasi duemila anni, ma costituiscono anche capolavori di tecnologia che non hanno nulla da invidiare alle costruzioni dei nostri giorni. Pensiamo ad esempio all’anfiteatro Flavio di Roma, le cui fondazioni e strutture di sostegno delle gradinate in conglomerato che hanno retto con ottimi risultati (non solo per il tempo trascorso ma anche alle sollecitazioni indotte dal traffico pesante e dalla metropolitana), oppure al Pantheon, la cui cupola ed il sistema di distribuzione dei carichi sul tamburo e le fondazioni sarebbero un’ardua prova anche per un progettista moderno, per non parlare di ponti e viadotti ancora in uso. 178
l’analisi del monumento
La principale innovazione introdotta dai tecnici romani all’opera cementizia sta nella qualità delle malte, nella sapiente distribuzione degli inclusi (ad esempio, nel Pantheon sono stati utilizzati inclusi pesanti -travertino- nelle fondazioni, di medio peso -travertino e tufo- nelle strutture verticali, leggeri solo tufo- nella parte inferiore della cupola e leggerissimi -pomice- nella sommità) e soprattutto nell’introduzione della pozzolana tra gli inerti. Questa, oltre a permettere il tiro del conglomerato anche in presenza di acqua (opere subacquee per ponti, moli, ecc.), ha dato alla malta caratteristiche di resistenza meccanica uniche ed eccezionali, che hanno permesso la sopravvivenza di tali strutture fino ad oggi. Si associ a tutto ciò l’evoluzione delle conoscenze e delle tecniche per la realizzazione di una serie pressoché infinita di strutture voltate di qualsiasi forma e dimensione (dalla semplice volta a botte alle forme eleganti e complesse delle strutture della Domus Aurea o di villa Adriana) e si avrà un panorama completo di quanto l’architettura sia cresciuta nei (relativamente) pochi anni di civiltà romana e dell’eredità da questa lasciata alla storia dell’ingegneria strutturale. Sarebbe troppo lungo, ed esulerebbe dallo scopo di questo libro, tracciare un percorso che definisca la crescita di complessità delle strutture voltate usate o introdotte dai romani e che illustri le innumerevoli varianti apportate ai materiali costituenti l’elemento base del conglomerato (inclusione di contenitori di argilla per alleggerire le strutture, disposizione di vari tipi di laterizi, ecc.), quindi illustreremo graficamente solo gli esempi più classici e ricorrenti di tipologie strutturali (figg. 107, 108, 109). A parte il ricorso all’opera cementizia, le altre strutture orizzontali (solai, tetti) erano realizzate con travature lignee, appoggiate su mensole o incastrate nelle murature, con la sovrapposizione di orditure secondarie o di tavolati direttamente su quella principale e la realizzazione di uno strato di conglomerato su cui era allettato il pavimento, oppure la posa del manto di copertura. Quasi tutte le strutture murarie erano rivestite di intonaco (ad eccezione di realizzazioni espressamente destinate a rimanere a vista), steso a spessi strati sovrapposti (anche in questo caso le malte hanno subito un’evoluzione che ha portato, tra gli altri, alla produzione di un tipo impermeabile all’acqua cocciopesto-, caratterizzato dalla presenza di inerti di terracotta frantumata) oppure rivestite con elementi lapidei (marmo o travertino), fissati con grappe metalliche alla muratura. Gli elementi architettonici (colonne, basi, capitelli, mensole, cornici, decorazioni, ecc.) erano perlopiù realizzati in marmo, travertino o granito ed avevano funzione, oltre che strutturale e decorativa (specie quelli a sviluppo orizzontale), anche di protezione della muratura dagli agenti atmosferici. Sempre in pietra erano anche gli elementi più soggetti all’usura (soglie, gradini, stipiti, ecc.). Le pavimentazioni erano realizzate in marmo o pietra (opus sectile), laterizi (opus spicatum), mosaico, cocciopesto per gli esterni o le zone in presenza di acqua (opus signinum); le coperture a falda con coppi e tegole, tavolati o, nei monumenti più importanti, con lamine metalliche non ferrose. Questa sommaria descrizione non tiene conto, ovviamente, di tutte le varianti nei materiali e nella realizzazione tipiche di alcune aree o periodi particolari e, quindi, anche gli esempi grafici sono puramente indicativi. Il progressivo sviluppo degli studi condotti sulle strutture archeologiche ha permesso, tra l’altro, la crescita della conoscenza degli elementi che le 179
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Figg. 107, 108, 109. Principali tipologie delle strutture voltate. 107a). Volta a botte. E’ la più semplice delle tipologie, sia dal punto di vista costruttivo che come schema statico. La sezione può essere a tutto sesto, ribassata, policentrica, ad ogiva (sesto acuto). Il peso della volta e degli elementi che vi gravano viene scaricato sulle imposte, che devono essere continue. Varianti della volta a botte classica, impostata su un ambiente a pianta rettangolare, sono quella trapezoidale (con pareti non parallele), quella con i piani di imposta obliqui, quella anulare (pareti curve concentriche), quella elicoidale (combinazione delle precedenti: pareti curve ed imposte oblique) usata per i vani scala.
107b). Volta a crociera. E’ la più usata per coprire ambienti a forma quadrata o con lati pressoché uguali, oppure si trova in corrispondenza dell’intersezione di due ambienti coperti da volta a botte. E’ caratterizzata dalle nervature diagonali, poste in corrispondenza degli spigoli, e formata da quattro spicchi. A differenza della volta a botte permette di avere tutte le pareti libere dai carichi strutturali, i quali sono concentrati sugli angoli. Varianti di questa forma sono costituite dall’aumento dei lati della pianta, o dalla sagoma degli archi (ribassati o acuti).
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108. Volta a padiglione. Anche questa è formata dall’intersezione di due volte a botte ma, a differenza di quella a crociera, è caratterizzata dall’avere tutte le pareti di imposta caricate dal peso della struttura. Se una coppia di lati è molto più lunga dell’altra si ha, in pratica, una volta a botte con testate a padiglione (in basso).
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109a). Volta a schifo. Derivata dalla volta a padiglione, è caratterizzata dall’avere la sommità piatta, praticamente una piattabanda con due direttrici di sviluppo.
109b). Cupola. Questa tipologia è stata alla base di alcune tra le più spettacolari realizzazioni dell’architettura nel corso della sua storia. La cupola classica è quella emisferica (quella del Pantheon ha una luce di 43 metri), cui hanno fatto seguito una serie di varianti che hanno affrontato i problemi dello spostamento in alto o in basso della chiave (cupole ribassate o a sesto acuto) o dell’imposta su piante non circolari relativi, rispettivamente, al contenimento delle spinte orizzontali ed ai raccordi angolari con la base. Gli spessori indicati nelle sezioni sono puramente indicativi e privi dell’indicazione delle murature di rinfianco usate per caricare le reni delle volte in muratura o conglomerato.
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caratterizzano, al fine di stabilire con relativa certezza dei criteri per la loro datazione. Questi sono perlopiù legati alla tecnica in sé (di cui, ovviamente, si conoscono solo le date in cui è iniziato lo sviluppo, che derivano dalla datazione di strutture che sono state realizzate in un dato modo), dall’analisi delle malte e dei vari materiali (come il tufo, i cui diversi tipi, cavati da determinate aree, sono databili in base al periodo in cui queste sono passate sotto il dominio romano), dagli spessori dei giunti di malta, dai bolli di fabbrica impressi sui laterizi. Dall’epoca romana fino all’introduzione del cemento armato, praticamente, non ci sono state grandi novità, fatta eccezione per la progressiva introduzione della muratura piena (in pietra o mattoni) al posto di quella a sacco, per l’aumento delle dimensioni dei mattoni e degli elementi in pietra (sempre in senso lato), per l’introduzione delle strutture voltate realizzate con laterizi o pietre o delle travature in ferro al posto di quelle in legno (avvenuta alla fine del secolo scorso) oppure per la modificazione delle tecniche di produzione dei laterizi che ha portato alla realizzazione di elementi cavi di dimensioni maggiori (forati, tavelloni). Fasi costruttive e trasformazioni delle strutture. Questa tanto breve quanto lacunosa storia delle tecniche costruttive aveva lo scopo di introdurre alcuni concetti relativi all’analisi delle strutture. Riassumendo per sommi capi le situazioni più tipiche in cui è possibile distinguere delle diverse fasi costruttive, possiamo dividerle in interventi di restauro e/o manutenzione oppure in vere e proprie modifiche alla distribuzione, alla fruizione o all’impianto generale dell’edificio. Per quanto riguarda i primi possiamo indicare tutte le riprese effettuate sulle cortine murarie, in cui è abbastanza facile notare interruzioni di continuità o di tessitura, variazioni nei materiali o nello spessore dei giunti (in linea generale quest’ultimo ha subito un incremento crescente e costante nel tempo, quindi le riprese fatte su una cortina di mattoni sono quasi sempre distinguibili dallo spessore maggiore della malta, oltre che dalla sua diversa composizione), se non addirittura realizzate con tecnica diversa (fig. 110). Altri indizi di opere di restauro o manutenzione sono le tamponature di vani di porte e finestre la cui muratura soprastante si presenta lesionata (la cui realizzazione era destinata a ripristinare la muratura portante nei punti in cui le aperture costituivano elemento di debolezza strutturale) oppure l’ispessimento di pareti e pilastri in muratura con ulteriori cortine murarie, dovuto perlopiù all’esigenza di aumentare la portanza dell’elemento a causa di cedimenti delle fondazioni o delle strutture di alzato. Talvolta questi ispessimenti (specie se frequenti e di notevoli dimensioni) sono dovuti a necessità statiche legate a sopraelevazioni dell’edificio oppure alla realizzazione di volte non previste in fase di progettazione, dunque rientrano nella categoria delle modifiche all’impianto generale della struttura. Sempre a proposito dei restauri, citiamo infine i rifacimenti e gli innalzamenti delle quote di calpestio di pavimenti e superfici orizzontali in generale, la tamponatura di aggetti e/o il raddoppio di elementi verticali portanti, i rappezzi di intonaci e tutte le differenze riscontrabili nei materiali di rivestimento delle murature o sulla superficie delle pavimentazioni. Riguardo le modifiche e le ristrutturazioni dell’edificio il panorama si fa molto più vasto e complesso, comprendendo sia i piccoli interventi sulla distribuzione degli ambienti o sulle loro aperture, sia quelli più impegnativi che 183
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Fig. 110. Esempi di restauro antico delle strutture murarie. In a) possiamo osservare, in pianta e prospetto, un tipico caso di restauro: le soluzioni di continuità delle cortine non corrispondono sulle due facce della parete e l’estensione dell’intervento o la irregolarità del suo perimetro non denunciano la originaria presenza di porte o finestre.
In b) troviamo la tamponatura di un vano di porta che presenta vistosi problemi statici. In c) il sostegno murario continuo realizzato per una struttura aggettante (mensola). In d), e), f) si possono vedere delle situazioni di restauro statico: rispettivamente, il rinforzo di un arco in opera quadrata con un rinfianco in laterizio, la foderatura di un pilastro per aumentarne la sezione portante, la creazione di una parete addossata ad una precedente.
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Fig. 111. Esempi di modifiche e ristrutturazioni. In a) è raffigurata, in pianta e assonometria, l’intersezione canonica di due muri: la cortina si presenta con i filari allineati ed ammorsati uno sull’altro. In b) la tipica parete appoggiata ad una precedente. La nuova muratura spesso non ha la stessa tessitura (o lo stesso tipo di materiale) e, negli angoli, non si vede alcun elemento “entrare” nell’altra parete. In c) possiamo vedere un vano di finestra realizzato in corso d’opera, con la cortina a vista anche nello spessore del muro e l’elemento di sostegno orizzontale (arco, piattabanda o tavola lignea). In d) una finestra aperta successivamente tramite la demolizione della parete: gli spigoli non sono regolari, in parete si vede il nucleo in conglomerato e non c’è sostegno orizzontale.
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hanno portato alla costruzione di altri volumi (o alla loro demolizione), altri livelli praticabili, ricostruzioni, accorpamento di ambienti o edifici. Tra i piccoli interventi più tipici possiamo citare la suddivisione di ambienti grandi in altri minori con la costruzione di tramezzi divisori, caratterizzati, in genere, dallo spessore minore e, soprattutto, dal fatto di avere le estremità poste in adesione (anziché ammorsate) con le altre pareti (che talvolta conservano ancora l’intonaco originale in corrispondenza del giunto). E’ noto che, in generale ed a prescindere dalla tecnica costruttiva, le intersezioni tra pareti sono sempre caratterizzate dalla continuità della muratura che, eretta in contemporanea, “gira” l’angolo sia con la cortina che con il nucleo di conglomerato, come si può facilmente riscontrare sui resti di murature privi di restauro. La presenza della parete realizzata successivamente è, quindi, sempre denunciata dal modo in cui termina la muratura termina alle estremità salvo i casi, palesi, in cui la parete divisoria è realizzata con tecnica più tarda rispetto al contesto (fig. 111). Ulteriore indizio per l’identificazione di pareti realizzate in fasi diverse è dato dalla tessitura della cortina che, non di rado, presenta le fughe dei giunti non allineate con quelle delle pareti cui si appoggiano. Spesso alla suddivisione degli ambienti si accompagna la necessità di modificarne le aperture di accesso o di illuminazione, con l’apertura di porte o finestre, denunciata sempre dall’assenza di spigoli rettilinei (sono sempre frutto di demolizioni) e di cortina sullo spessore della parete, oppure dalla mancanza di elementi di sostegno orizzontale (archi, piattabande), oppure la loro chiusura, caratterizzata dalla tamponatura del vano che non dimostra di aver avuto problemi di carattere statico. La presenza di elementi murari estranei all’impianto originario dell’edificio è denunciata anche da eventuali incongruenze nello sviluppo planimetrico (ad esempio, in una struttura dalla pianta regolare, con allineamenti discretamente ortogonali, la presenza di muri disposti in modo obliquo o irregolare), oppure da irregolarità di carattere strutturale (in un ambiente con tracce di imposta di una volta a crociera una parete che lo taglia in due non può essere che posteriore) o nelle quote di spiccato delle fondazioni. Altre informazioni possono essere desunte, anche in questo caso, dalla differenza di materiale che si dovesse riscontrare, dalla sovrapposizione con elementi a terra (soglie, pavimenti), dall’interruzione o taglio di elementi decorativi, ecc.. Le scale in muratura sono un altro elemento tipico che denuncia modificazioni di destinazione degli ambienti: quelle originali sono realizzate generalmente in contemporanea con il muro su cui insiste la volta che le sostiene e, quindi, anche sulla cortina di questo si leggono con chiarezza le interruzioni regolari e le variazioni di tessitura (tipica, ad esempio, nell’opera reticolata o mista, è la presenza di cubilia posti a cornice delle alzate e delle pedate) in corrispondenza dei gradini. Viceversa, nei casi in cui queste sono state realizzate a posteriori (talvolta in sostituzione di rampe in legno), si vede bene il taglio e l’inserzione della volta e degli scalini. La costruzione di nuovi corpi di fabbrica di un edificio è sempre denunciata dall’addossamento delle nuove pareti portanti a quelle perimetrali, oltre alla necessaria ridefinizione degli ambienti esterni originari, che possono aver dovuto rinunciare alle aperture di accesso e di illuminazione a causa della presenza dei nuovi. L’accorpamento di ambienti e le unioni di edifici diversi (o di parti di questi) sono spesso caratterizzate da dislivelli nei piani di calpestio, dovute ad 186
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ovvie difficoltà nel mantenere le stesse quote tra un manufatto e l’altro, oltre alle aperture che sono state create per rendere possibile la comunicazione. Quale che sia il tipo di intervento sul nostro edificio, spesso è possibile riconoscere quelli effettuati in epoche più tarde dalla tecnica di esecuzione più sommaria e dalla presenza di materiali di recupero il cui aspetto è, in linea di massima, profondamente diverso da quello delle strutture principali. I criteri fin qui sommariamente esposti fanno riferimento principalmente alle strutture di epoca romana ma, con un po' di riflessione e di attenzione nelle osservazioni, possono essere tranquillamente estesi ad edifici più recenti Riassumendo, gli elementi fondamentali su cui concentrare la nostra attenzione al fine di mettere insieme dei dati di lettura di un edificio sono i seguenti: * tecniche costruttive; * materiali impiegati e, all’interno dello stesso tipo, loro dimensioni e/o natura e loro tessiture; * intonaci, malte e leganti: composizione, aspetto, granulometria (tali elementi possono essere ulteriormente studiati con analisi di laboratorio quali sezioni sottili, prove meccaniche e chimiche, ecc.); * tipologia costruttiva e strutturale; * considerazioni logiche e statiche sulla funzionalità, la giacitura e i rapporti di connessione con le strutture adiacenti. Quanto detto finora prende in considerazione, come si è già detto, la porzione di manufatto normalmente osservabile “dall’esterno”, ovvero tralascia quanto è celato dal suolo (salvo eventuali vani cantinati) o, in alcuni casi, quanto non è direttamente accessibile sulle coperture. E’ abbastanza raro, infatti, trovarsi di fronte un edificio o un rudere in cui l’intervento (di documentazione, di restauro o di analisi) preveda un approccio completo ed esaustivo per tutte le parti che lo compongono, quali eventuali saggi di stonacatura delle murature, l’ispezione delle fondazioni o sostruzioni o delle eventuali opere idrauliche, ecc.. A causa della cronica mancanza di fondi del settore, l’incarico di lavoro “tipo” raramente si discosta dalla solita serie di elaborati consistente in piante, prospetti e sezioni nei quali spesso si fa fatica a rendere il manufatto per quello che realmente è, e riuscire a strappare un ulteriore incarico di redazione di studio delle strutture costituisce già un notevole successo. I dati su cui si deve basare il nostro lavoro analitico, quindi, sono generalmente incompleti in partenza, specie se il manufatto è stato portato alla luce con uno scavo eseguito in epoca abbastanza remota, quando la redazione della documentazione (di scavo e/o di restauro) era estremamente ridotta. Ovviamente, in un contesto che parte già menomato di una serie di elementi di conoscenza, la nostra opera non potrà certo essere esaustiva di tutte le problematiche che emergeranno ed il lavoro che porteremo avanti sarà, spesso, scritto (o disegnato) tutto al condizionale. Concetti di stratigrafia. Come per le indagini archeologiche, anche l’analisi delle strutture architettoniche parte dal concetto di unità stratigrafica (US), intesa come elemento legato al contesto (manufatto e territorio circostante) da precisi rapporti fisici e logici che ne determinano la posizione relativa nella sequenza di azioni che hanno prodotto lo stato attuale dell’oggetto. Ad esempio, una costruzione realizzata in un’unica fase può essere sommariamente suddivisa 187
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Fig. 112. Unità stratigrafiche murarie e matrice di Harris. La sezione in basso illustra, schematicamente, la sequenza stratigrafica riscontrabile dal rustico di un edificio di epoca moderna. USM 1 struttura di copertura UUSSMM 2, 3 muratura perimetrale UUSSMM 4, 6 fondazione UUSSMM 5, 7 magrone USM 8 vespaio USM 9 massetto USM 10 impermeabilizzazione USM 11 tramezzi interni UUSSMM 12, 13 pezzame di drenaggio UUSSMM 14, 15 riempimento trincea USM -16 trincea di fondazione e sbancamento USM 17 terreno originale UUSSMM 18, 19 superficie di calpestio In alto due possibili rappresentazioni di diagramma stratigrafico di tipo Harris relativi a tale sequenza, di cui quello a sinistra organizzato secondo i contatti e l’altro secondo gli eventi.
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nelle unità indicate nella figura 112. Da qui in poi, per cercare di rendere i concetti esposti con elementi più famigliari per chi legge, si è preferito usare esempi riferiti alla moderna tecnologia delle costruzioni, piuttosto che a quella antica. L’analisi stratigrafica riferita ad un edificio, dunque, risulta tanto complessa quanto quella comunemente associata allo scavo archeologico: entrambe richiedono un ragionamento prettamente tridimensionale e pongono dei problemi di lettura incrociata (e di rappresentazione) dei dati riscontrabili sia in pianta che in alzato. Va da sé che, per le ben note difficoltà a rappresentare una struttura architettonica in tutte le sue parti, l’analisi non potrà essere condotta che sul campo, mettendo insieme le osservazioni riscontrabili sugli elaborati grafici con quelle dirette. In questo contesto ritorna con forza il concetto già espresso secondo il quale, spesso, nessuno al di fuori di colui che ha curato il rilievo di una struttura può essere in grado di conoscerla meglio, specie se il rilevamento è stato di tipo diretto. Il contatto con le superfici, l’avere percorso in lungo ed in largo tutti gli ambienti e l’aver battuto palmo a palmo pavimenti e pareti di un manufatto, conferiscono al disegnatore una conoscenza complessiva notevole e dovrebbero garantirgli un ruolo di tutto rispetto nell’eventuale equipe di lavoro di analisi. A prescindere da tali considerazioni, comunque, è del tutto ovvio che lo svolgimento del lavoro analitico non può essere operato a tavolino da una terza persona che si basi esclusivamente sugli elaborati grafici (o fotografici), senza alcun contatto diretto con l’edificio. L’analisi stratigrafica di una struttura architettonica, quindi, deve procedere mettendo insieme una notevole messe di dati la cui lettura dovrà cercare di interpretare ed ordinare tutto l’insieme di azioni riscontrate sui vari elementi costituenti l’unità edilizia presa in esame. Proseguendo con l’esempio precedente, dopo la costruzione del rustico del nostro fabbricato saranno stati realizzati i vari impianti (elettrico, idrico, termico, ecc.) con l’apertura di tracce sulle pareti, l’installazione delle relative tubazioni, la chiusura delle tracce con malta, la stuccatura dei muri, la tinteggiatura o la posa dei parati e via dicendo. Ognuno di questi elementi costituisce, quindi, un’unità stratigrafica diversa che ha dei precisi rapporti fisici e delle connessioni temporali con le altre adiacenti (fig. 113). Se poi, una volta completata la costruzione del nostro edificio, ci fosse qualche ripensamento sulla disposizione delle prese dell’impianto elettrico, la sequenza di operazioni relative a tale fase successiva taglierebbe le precedenti US (in ordine inverso, tinteggiatura, stuccatura, intonaco e muratura) e costituirebbe un’altra serie di unità (fig. 114). L’identificazione e la classificazione di tutti questi dati, come dicevamo sopra, non potranno che essere svolte seguendo una logica di tipo spaziale: gli impianti si sviluppano sia sulle pareti che sotto i pavimento e sui soffitti, gli intonaci si realizzano prima dei pavimenti a meno di una stretta fascia orizzontale in basso, la quale viene completata dopo aver posato i pavimenti, su questa ed i pavimenti viene posato il battiscopa, ecc. (fig. 115). A prescindere dalle considerazioni sulla reale possibilità di rappresentare esaurientemente questa nutrita serie di eventi, che verranno fatte in seguito, il dato su cui riflettere ora è la complessità oggettiva che richiede tale lavoro. Se si pensa che le azioni appena elencate sono solo alcune di quelle necessarie a portare a compimento un edificio moderno, le cui caratteristiche strutturali, tecnologiche e 189
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Fig. 113. Dettaglio unità stratigrafiche. La sequenza di UUSS riferita alla realizzazione degli impianti può essere schematizzata come segue. USM 6 finitura (tinteggiatura) USM 7 stuccatura USM 8 intonaco USM 9 malta di riempimento della traccia USM 10 tubazione USM 11 vano traccia USM 12 muratura perimetrale
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Fig. 114. Nuova sequenza stratigrafica. La successiva fase di modifica dell’impianto elettrico produce nuove unità stratigrafiche. USM 1 ripresa tinteggiatura USM 2 nuova stuccatura USM 3 riempimento della traccia USM 4 nuova tubazione USM 5 taglio nuova traccia
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Fig. 115. Procedura di realizzazione. Lo spaccato assonometrico illustra sommariamente le operazioni necessarie alla realizzazione degli impianti, dell’intonaco, del pavimento e del battiscopa secondo il seguente ordine: * realizzazione delle tracce sulle murature; * posa delle tubazioni nelle tracce e sulle strutture orizzontali; * riempimento delle tracce; * realizzazione dell’intonaco a meno della fascia inferiore; * posa del pavimento (anche sulle tubazioni orizzontali); * completamento dell’intonaco; * finitura dell’intonaco e tinteggiatura: * posa del battiscopa in legno.
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formali (potremmo dire anche culturali) ci sono ben note, provando ad affrontare una mole anche inferiore di elementi (in passato gli edifici erano molto meno dotati di infrastrutture) in un contesto più antico e, soprattutto, con un “vissuto” (in termini di periodo di frequentazione, di mutamenti socioculturali degli occupanti, ecc.) assolutamente maggiore, è del tutto evidente la difficoltà che potremo incontrare. Anche la perdita (scontata) di una certa quantità di dati, sia per eventi “fisiologici” (interventi distruttivi legati alle normali operazioni di manutenzione e ristrutturazione quali rimozioni di strutture verticali e orizzontali, tagli, asportazioni di superfici, ecc.) sia per situazioni di degrado ed erosione naturale, non potrà certo esserci di aiuto. Quello che potremo fare, pertanto, sarà solo un lavoro parziale e frammentario di interpretazione dell’evidenza, nel quale dovrà essere incluso, necessariamente, lo studio di aspetti tecnologici, strutturali, nonché sociali e culturali che hanno supportato la serie di eventi che hanno lasciato qualche traccia sul nostro edificio. Analisi stratigrafica delle strutture. Premesso tutto questo, una volta individuate tutte le unità stratigrafiche presenti ed evidenti sul nostro edificio dobbiamo essere in grado di assegnare loro un certo ordine cronologico e, soprattutto, di rappresentare in forma comprensibile tali dati. Per quanto riguarda il primo è abbastanza facile riuscire a stabilire una sequenza cronologica relativa, ovvero assegnare ad ogni unità una collocazione anteriore ad un certo evento e successiva ad un altro. Tornando al nostro esempio, possiamo facilmente affermare che una traccia per una tubazione è anteriore alla posa di quest’ultima e successiva alla costruzione della parete in muratura. Tale affermazione, ovviamente, non è sufficiente a stabilire l’età del nostro edificio né a ricostruirne la storia: non sappiamo, infatti, quando il muro è stato eretto, né il lasso di tempo intercorso tra un’azione e l’altra (il rustico potrebbe essere rimasto tale - magari già abitato - per anni prima di essere completato con gli impianti, oppure la traccia potrebbe essere rimasta “aperta” da alcuni giorni a qualche mese, ecc.). La datazione assoluta delle nostre unità potrà essere effettuata, generalmente, solo con dei termini ante o post quem, ovvero con dei riferimenti per analogia con altri dati conosciuti (associazioni per tipologia e tecnologia dei materiali, tecnica di esecuzione di manufatti simili, ecc.) o, se siamo proprio fortunati, con degli elementi recanti indicazioni temporali precise (date riportate sull’oggetto, ritrovamenti di oggetti, la cui datazione è certa, sigillati con la stessa unità). Il riempimento della nostra traccia potrà avere un riferimento post quem dal tubo alloggiato al suo interno se questo potrà essere riconosciuto come un tipo prodotto da una certa industria che avrà iniziato tale attività in un certo anno, oppure potremmo trovare scritti sul tubo stesso la marca e l’anno di fabbricazione, oppure potremmo trovare in mezzo alla malta una moneta o un pezzo di pagina di quotidiano su cui sia leggibile la data, ecc.. Questi ci direbbero che prima di tale data non poteva essere eseguita tale opera ma non ci dicono certo, ad esempio, quando è stata scavata la traccia o costruita la parete. Al pari della problematica della datazione delle evidenze archeologiche, anche per la lettura stratigrafica delle strutture architettoniche la datazione dei vari elementi avrà una serie di elementi di discontinuità nelle sequenze riscontrate. Per quanto riguarda la rappresentazione cronologica un metodo efficace e preciso è quello proposto da Harris con il noto diagramma stratigrafico (matrix) 193
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che porta il suo nome, nel quale vanno riportate tutte le US secondo la loro collocazione relativa (fig. 112). La descrizione e catalogazione delle US dovrà essere realizzata su una lista a parte, più o meno ricca di informazioni a seconda dell’accuratezza che si vuole dare al lavoro, oppure su delle schede di unità stratigrafica muraria (USM). Ovviamente il materiale prodotto dovrà essere accompagnato da una relazione scritta, contenente sia una parte descrittiva delle evidenze che una sintesi del lavoro svolto. La difficoltà maggiore, a mio avviso, è proprio quella relativa alla documentazione grafica e all’esplicitazione dei vari dati in forma chiara. Analogamente al problema della progettazione di un edificio (entità spaziale tridimensionale che deve essere rappresentata con una serie di elaborati necessariamente bidimensionali), anche quello della documentazione grafica delle evidenze stratigrafiche spesso trova dei limiti notevoli nei disegni tradizionali realizzati con il metodo delle proiezioni ortogonali. Mentre è facile rilevare le varie componenti restituendole in piante, sezioni e prospetti come si fa di consueto, è abbastanza difficile mostrare graficamente con chiarezza i legami esistenti tra elementi appartenenti, ad esempio, a prospetti diversi o presenti in contemporanea sia nelle piante che nelle sezioni, salvo “raccontarli” nella relazione. Tale difficoltà scaturisce da una serie di fattori, primo tra tutti l’elevato numero di indizi e dettagli, o le loro dimensioni spesso troppo minute, che generalmente si incontrano in tutti i fabbricati, la cui restituzione richiederebbe una grande quantità di disegni, sezioncine, dettagli a grande scala (si pensi alle evidenze che normalmente si trovano all’interno delle lacune delle murature, in cui risultano visibili tracce di murature sottostanti, oppure alle sovrapposizioni di intonaci, ai rappezzi di malte diverse, ecc.). La documentazione grafica delle USM, dunque, dovrà necessariamente tralasciare alcuni dati che potranno essere solo indicati per quanto riguarda la loro ubicazione di massima ed illustrati nella descrizione scritta. Vediamo ora alcuni esempi di tecniche di documentazione grafica. Restituzione e convenzioni grafiche. Un tipico metodo di lavoro è la redazione delle piante di fase fig. 116. Pur non potendo cogliere con precisione tutti gli aspetti e gli interventi che sarebbero visualizzabili in pianta (a meno di dover comporre una quantità notevole di tali elaborati), questo strumento è utile per procedere nell’illustrazione degli eventi a grandi passi, eventualmente accorpando alcune azioni riferibili allo stesso contesto temporale e logico (fase) in un unico elaborato. Queste piante, disegnate generalmente in scala ridotta rispetto a quella degli elaborati principali, possono essere composte (per esaltarne le differenze e la leggibilità complessiva) su disegni diversi che traccino la storia della struttura, partendo dall’impianto originario ed aggiungendo (o togliendo), di fase in fase, tutti gli elementi individuati come successivi. Un altro metodo, a mio avviso meno chiaro anche se più spicciativo per quanto riguarda la composizione dell’elaborato, è quello che prevede la caratterizzazione delle strutture appartenenti alle varie fasi (sullo stesso disegno) con colori, campiture o altri elementi grafici. In entrambi i casi è indispensabile indicare il numero delle varie US per distinguerle reciprocamente. Anche nelle rappresentazioni di alzato si può ricorrere alla stessa tecnica, partendo dagli elementi originari ed evidenziando le successive aggiunte e 194
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demolizioni. Le indicazioni più utili a tali riflessioni sono, spesso, le differenze di quota che si apprezzano solo su questo tipo di disegni piuttosto che sulle piante. Il ricorso a disegni a scala ridotta torna utile non solo per diminuire il lavoro di caratterizzazione delle varie aree da evidenziare, ma anche per meglio apprezzare le differenze di allineamento e/o di livello che, negli elaborati di minori dimensioni, possono essere colte in misura maggiore. Volendo riutilizzare tout court gli elaborati originali del rilievo, in alternativa è possibile copiare su carta lucida i prospetti e le sezioni e riportare semplicemente le indicazioni relative alla numerazione delle US o altre informazioni sotto forma di didascalie (fig. 118). Un altro metodo grafico, più laborioso ma sicuramente di maggiore impatto e chiarezza, potrebbe essere la realizzazione di spaccati ed esplosi assonometrici degli ambienti che costituiscono la nostra struttura, comprendenti di volta in volta (per i noti problemi legati a questa tecnica di rappresentazione tridimensionale) due pareti ed il piano di calpestio (a seconda della situazione, pavimento o terreno). In questo modo si possono visualizzare simultaneamente alcune situazioni in cui le varie US concorrono nel medesimo evento o coincidono da un elemento strutturale all’altro, oppure hanno elementi caratteristici comuni (quote altimetriche, spessori, giacitura, ecc.) la cui esplicitazione in tre dimensioni risulta più facile ed immediata (fig. 119). Per non doverci sovraccaricare di ulteriore lavoro, gli esplosi e/o gli spaccati potranno essere composti da elementi “piatti”, ovvero disegnati senza gli spessori relativi semplicemente su dei piani di proiezione (come se fossero tanti fogli di carta diversi) traslati dalla posizione originale e posti ad una certa distanza dagli altri per rendere palese la stratificazione dei diversi elementi (fig. 120). All’interno di questo “filone” espressivo un valido aiuto potrebbe venirci dall’uso di un programma CAD o di grafica con il quale, una volta digitalizzati i vari elaborati avendo cura di assegnare ad ogni US un layer diverso, sarebbe estremamente facile copiare, aggiungere o togliere elementi al disegno o, addirittura, realizzare un semplice modello tridimensionale da visualizzare a piacere secondo il punto di vista (e la rappresentazione assonometrica o prospettica) prescelto. Sarebbe inoltre possibile la realizzazione non solo delle classiche tavole disegnate ma anche la produzione di immagini ridotte o di dettaglio da accompagnare direttamente al testo della relazione o della pubblicazione, con la relativa possibilità di montare, impaginare, collazionare con grande facilità tutto il materiale prodotto, fino alla composizione di ipertesti multimediali in cui integrare fotografie, testi, disegni e quant’altro. Unico limite oggettivo a tale tecnica è, attualmente costituito dalla relativamente notevole quantità di lavoro necessaria per l’input e la gestione dei dati della parte grafica del lavoro (a meno che non si sia provveduto a digitalizzarlo “a monte”, a prescindere da tali esigenze). Come si è già detto nel capitolo sulle tecniche informatizzate, l’input dei dati può avvenire tramite digitalizzazione oppure acquisizione tramite scanner dei disegni già realizzati a mano su carta. Nel primo caso l’operazione è abbastanza onerosa sotto il profilo del tempo necessario a realizzarla ma la successiva gestione e manipolazione (sottrazione di parti e loro spostamenti nello spazio per mutarne il punto di vista) delle immagini diventa estremamente precisa e veloce. Nel secondo l’acquisizione richiede tempi ridottissimi a fronte di un po' di lavoro in più per ritagliare le varie parti di immagine da quelle principali e visualizzarle secondo dei punti di vista diversi. Vero è, comunque, che avendo già prodotto in 195
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Fig. 116. Piante di fase. La pianta su questa pagina (relativa alla Domus della Nicchia a Mosaico) illustra il metodo di indicare su un unico elaborato tutte le fasi della struttura, evidenziandole mediante campiture diverse. Confrontatela la fig. 128, in cui le stesse fasi sono state rese con disegni diversi. Fig. 117. Esecuzione del rilievo diretto. Nella stessa figura è anche evidenziata la procedura seguita per il rilievo diretto mediante triangolazione. Le lettere A...F indicano i vertici principali della poligonale che è stata impostata per la restituzione della struttura. I numeri sui lati dei triangoli dovrebbero rendere evidente la sequenza delle triangolazioni per la costruzione della poligonale. A meno del triangolo iniziale ABC, tutti gli altri vertici sono stati verificati da tre punti (anche se vedete disegnati solo due lati per triangolo).
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Fig. 118. Indicazioni sui disegni. Anche se non si procede allo studio stratigrafico delle murature, le considerazioni relative alle differenze di fasi, di malte o altri elementi riscontrati nel corso del rilievo possono essere efficacemente rese scrivendo delle didascalie di commento su delle copie degli elaborati, come l’esempio a lato.
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Fig. 119. Rappresentazione tridimensionale di una sequenza stratigrafica. L’esploso assonometrico a lato rappresenta la sequenza di eventi che hanno prodotto lo stato attuale della finestra rappresentata, in alto a destra, in proiezione ortogonale. L’originale finestra si apriva su un muro romano (USM 15) ed è stata interamente tamponata in epoca medievale (USM 14). Successivamente parte della tamponatura è stata demolita (USM 13) per l’apertura di una nuova finestra con un’imbotte in marmo (USM 12). Nella parete originale è stata anche aperta una traccia (USM 11) per la posa della nuova soglia in marmo (USM 10) e le relative decorazioni. Le unità negative (distruzioni) sono state rese disegnandole lateralmente (linea tratteggiata), con una caratterizzazione ipotetica ripresa dalle situazioni rimaste intatte. Le linee (puntinate) di proiezione della traslazione assegnata ad ogni US dovrebbero aiutare la lettura della successione degli eventi.
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precedenza degli elaborati di rilievo precisi e “convenzionali”, la definizione e cura della rappresentazione delle varie parti dell’edificio per evidenziarne le sequenze stratigrafiche può essere molto minore e, dunque, affidata a delle immagini molto più sommarie e meno impegnative dal punto di vista grafico, il che si potrebbe tradurre in un lavoro più spicciativo per quanto riguarda l’acquisizione dei dati e la loro restituzione. A titolo di breve commento di questo capitolo, vorrei dire che, tra tutta la mole di lavoro necessaria a portare a compimento il rilievo di un edificio o di una struttura, quella relativa all’analisi delle fasi costruttive è certamente la più interessante, gratificante e divertente, anche perché richiede uno sforzo interpretativo delle condizioni di vita, delle necessità statiche e di quanto è successo all’interno di quelle mura nel corso di molti anni. Il rilievo permette dunque di accedere ad una dinamica storica del manufatto architettonico. E’ anche l’attività che può qualificare maggiormente la professionalità di chi esegue tale lavoro e, per questo, anche quella più esposta al rischio di commettere errori di valutazione ed interpretazione.
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Fig. 120. Alternative “economiche” per la rappresentazione delle sequenze stratigrafiche. In a) è raffigurata la stessa sequenza della figura precedente, realizzata con un metodo molto più veloce anche se, forse, meno esplicito e leggibile. Pur avendo scomposto ed esploso la figura nello stesso numero di elementi, infatti, questi sono stati resi in proiezione piana, così come appaiono (a meno delle UUSS 13 e 14) nel prospetto dello stato di fatto. Tale metodo può essere facilmente realizzato mentre si lucida tale prospetto, iniziando dalle UUSS più recenti (10 e 12) e fotocopiando di volta in volta il disegno “pulito” rispetto agli altri elementi (vedi anche UUSS 11-14). A meno delle integrazioni per ciò che non appare nello stato di fatto, da realizzare a parte, l’esploso a lato è stato realizzato ritagliando le varie copie ed assemblandole come in figura, aggiungendo solo le linee puntinate di traslazione. In b), invece, è rappresentata un’assonometria “piatta” della finestra completa di soglia e mensole, disegnata senza aver dovuto rilevare anche gli aggetti dei vari elementi (confrontate con l’elemento omologo di fig. 119). In tal modo (qualora si abbiano diversi oggetti con notevoli caratteristiche tridimensionali) è possibile disegnare un esploso assonometrico, ugualmente significativo, con una minore quantità di lavoro.
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La documentazione grafica del patrimonio storico artistico
L’Italia è uno dei paesi più ricchi di edifici e manufatti in generale, che sono compresi nella categoria di patrimonio storico ed artistico: praticamente non esiste città o paesino che non abbia il proprio centro storico, la propria chiesa antica o qualsiasi altra testimonianza “edilizia” delle epoche storiche passate, oltre a tutti gli altri oggetti d’arte (dipinti, statuaria, ceramiche, ecc.) di cui non ci occuperemo su queste pagine. La tutela di tali opere, attuata dallo stato italiano tramite le sue dipendenze territoriali (Soprintendenze suddivise secondo le varie competenze, perlopiù regionali, talvolta cittadine o su singole zone di particolare pregio), nonché i vari interventi di restauro e conservazione, possono essere realizzati solo a partire da un dato comune: la conoscenza e la documentazione. Per quanto banale possa sembrare tale affermazione, vale la pena ribadirla. La conoscenza di un dato edificio con valore storico o artistico permette la sua identificazione, la sua datazione e classificazione tipologica, la comprensione della sua originaria destinazione d’uso e le eventuali trasformazioni subite nel tempo, la sua collocazione in un contesto storico e territoriale, il suo eventuale collegamento con fonti storiche e documentali di archivio, il suo studio da parte di tecnici e ricercatori, l’apposizione di provvedimenti di tutela (vincoli) per preservarne la consistenza e l’aspetto. Una delle operazioni che permettono di attuare la serie di operazioni appena esposte è la documentazione del monumento, ovvero lo studio e la restituzione delle sue caratteristiche formali e sostanziali sotto forma di documenti (cartacei e non). Tra le varie tipologie di documentazione trova un posto di rilievo quella grafica che, di pari passo con quella fotografica, fissa in modo scientifico tali caratteristiche e costituisce una base di studio per tutti coloro che si occupano della materia. Tanto per fare un esempio, si pensi al valore di testimonianze grafiche quali i rilievi, gli schizzi e gli studi compiuti durante il Rinascimento da vari artisti sui monumenti di epoca romana così come apparivano allora e che sono stati successivamente distrutti, trasformati o obliterati. Oppure a tutte le informazioni che provengono dalla cartografia storica (vecchie mappe di città, catasti storici, ecc.) riguardo strutture, viabilità antiche, elementi naturalistici e toponimi definitivamente scomparsi con i processi di urbanizzazione e di trasformazione del territorio succedutisi dalla fine dell’ottocento ad oggi. Diciamo che una corretta documentazione di un bene storico o artistico (parafrasando uno spot pubblicitario di qualche anno fa) ne allunga la vita. Il rilievo è uno dei mezzi fondamentali della documentazione. Molti distinguono il rilievo architettonico da quello archeologico, a mio avviso in misura anche eccessiva ma, rispettando opinioni sicuramente più autorevoli di quella del sottoscritto, proverò qui a fare una breve panoramica dei diversi aspetti delle varie attività, lasciando a chi legge l’arduo compito di capirci qualcosa. Tanto per cominciare, dico la mia. Le tecniche di rilevamento (che sono comunque alla base del mestiere) sono fondamentalmente le stesse, al pari della strumentazione (tolti alcuni aspetti particolari), sia che si stia disegnando il Colosseo, la chiesa di S. Pietro o un edificio della fine dell’ottocento. Cambiano
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il contesto, la tecnica costruttiva, i materiali, lo stato di conservazione; sono sicuramente necessarie esperienze e conoscenze specifiche per capire (prima ancora di disegnare) l’oggetto che si ha davanti, ma l’esperienza di base è sempre la stessa, salvo una buona conoscenza della tecnica da scegliere, fatti salvi i problemi di budget e di tempo a disposizione. Secondo me, chi è in grado di disegnare una struttura archeologica di un certo impegno se la può cavare anche di fronte ad una chiesa, e viceversa. Delle differenze esistono comunque, specie per le varie tipologie di rilievo archeologico, anche se maggiormente legate alla natura del manufatto piuttosto che alla tecnica in sé. Il rilievo architettonico Senza andare tanto per il sottile, possiamo definire strutture architettoniche (di valore storico – artistico) tutti quegli edifici o parti di essi, di varia destinazione d’uso, perlopiù appartenenti ad un contesto urbano. In linea di massima esse hanno medesima consistenza sia in pianta che in alzato e, spesso, quest’ultimo presenta una notevole ricchezza di apparati decorativi (sia dipinti che motivi architettonici) o di elementi volumetrici che ne arricchiscono l’aspetto. Quasi sempre sono dotate di più livelli (praticabili o no) che, ovviamente, devono essere documentati separatamente e con dei riferimenti fissi in modo che le piante siano sovrapponibili. Anche nel caso delle chiese, che hanno perlopiù un sotterraneo, un “piano terra” e un livello coperture, spesso vengono disegnate anche delle piante all’altezza delle finestre e/o con la proiezione degli elementi della copertura o delle volte. Salvo i casi in cui siano già stati installati dei ponteggi per le opere di manutenzione o restauro, generalmente le strutture architettoniche presentano il comune problema dei punti inaccessibili per le altezze degli alzati, anche notevoli. D’altra parte, quando ci sono i ponteggi, questi costituiscono una complicazione per il fatto che nascondono la visuale agli strumenti ottici. Nel complesso, le strutture architettoniche richiedono un notevole impegno ed una strumentazione avanzata. Sebbene in passato, quando le tecnologia degli strumenti era indietro anni luce rispetto a quella attuale, questi lavori si facevano con quello che passava il convento, ovvero con un semplice teodolite e, per i punti inaccessibili, mediante l’intersezione in avanti (vedi paragrafo sul rilievo strumentale), oggi si ricorre quasi invariabilmente alla fotogrammetria o alle stazioni totali con distanziometro laser. Un breve cenno su entrambi. La tecnica fotogrammetrica viene effettuata mediante delle riprese fotografiche (delle parti in alzato) che, riprendendo l’oggetto per porzioni contigue (fotogrammi singoli o in coppia, per fotogrammetria monoscopica o stereoscopica) con opportune sovrapposizioni, permettono mediante delle apparecchiature (fotorestitutori) analogiche o digitali di ricostruirne le forme e, quindi, di misurarle e restituirle in scala. I punti di presa fotografica devono essere posizionati topograficamente con un teodolite, che viene impiegato anche per tutte le operazioni planimetriche necessarie alla restituzione della pianta. Ulteriori dettagli sulla restituzione fotogrammetrica possono essere trovati nel paragrafo dedicato alle tecniche informatizzate. Nel complesso questa tecnica è piuttosto laboriosa e richiede notevoli investimenti per la strumentazione, tali da sconsigliare chi si trova agli esordi della professione e non ha prospettive di ammortizzarli con lavori analoghi in breve tempo. 202
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Una valida alternativa alla fotogrammetria è rappresentata dal rilievo “tradizionale” con il teodolite impiegando le stazioni totali con distanziometro al laser che può essere usato sia per la pianta che per gli alzati. La caratteristica principale di tali distanziometri è rappresentata dalla possibilità (entro certi limiti) di leggere le distanze sfruttando la riflessione delle superfici al raggio laser, facendo a meno del prisma riflettore (e, quindi, anche della figura del canneggiatore). Questo significa che l’operatore è in grado di misurare direttamente, anche se posti ad altezze inaccessibili, tutti i punti notevoli di un alzato come se fossero accessibili con il prisma, costruendosi tutti gli elementi per la restituzione con punti di coordinate spaziali. Riassumendo schematicamente la sequenza delle operazioni, si inizia con il rilievo della pianta (o dei vari livelli dell’edificio) e si procede alla restituzione. Impostate le tracce dei piani di proiezione degli alzati (sezioni e prospetti) si imposta il progetto per il rilievo degli alzati, considerando il fatto che, nelle parti inaccessibili, non sarà possibile segnare fisicamente i punti per poterli numerare e riconoscere, quindi sarà necessario lavorare su delle foto che dovranno coprire tutta l’area da restituire. Le foto potranno essere scattate con una qualsiasi fotocamera, perché serviranno solo come riferimento per la restituzione e la battuta topografica. Sarà bene scattarle dagli stessi punti in cui si prevede di fare stazione con lo strumento, per poter avere una visuale dell’oggetto simile a quella che si avrà poi con il teodolite. Sulle foto dovranno essere evidenziati con un pennarello i punti scelti per la restituzione (ad esempio, spigoli di finestre o di lesene, aggetti, cornici) e, soprattutto, assegnati dei codici alfanumerici di identificazione del punto da battere. Ovviamente (al pari della fotogrammetria) le parti che si trovano nascoste agli aggetti non potranno essere rilevate. A questo punto si può iniziare il lavoro con il teodolite che, se i punti sono parecchio in alto e/o gli ambienti non molto grandi, dovrà essere dotato di un oculare per spezzare l’immagine a 90° e lavorare come se i particolari fossero alla nostra altezza. Ogni punto va collimato, battuto e memorizzato con il proprio codice, che è meglio differenziare a seconda della sua altezza (ad esempio, se ci sono diversi ordini di finestre, uno per ogni piano). Se siete abbastanza pratici nell’uso dei codici e dei layer con gli strumenti “moderni”, assegnate ad ogni codice un layer diverso. Da qui in poi si possono seguire diverse strade per la restituzione. Considerate che i punti (ognuno fornito di tre coordinate, X, Y e Z), se visti in pianta con un CAD (che vi sarà comunque necessario per la visualizzazione e la stampa, almeno dei punti battuti), si sovrappongono in corrispondenza degli elementi allineati verticalmente. Ad esempio, se avete battuto quattro punti per finestra, per avere posizione ed altezza del rettangolo dell’apertura, trovandosi sulla stessa verticale si vedranno sovrapposti due a due. Se le finestre sono più di una e su più piani, i punti saranno una specie di macchia in cui non si potranno distinguere né numero né quota. Le alternative sono due. Se siete pratici di modellazione e visualizzazione tridimensionale potete impostare dei piani di proiezione in corrispondenza di quelli previsti per la restituzione e rendere visibili solo i punti che insistono sul prospetto che vi interessa. A questo punto, visto che abbiamo detto che siete pratici, non vi resta che disegnare tutto al CAD, aiutandovi con le foto che avete già scattato, eventualmente ruotando tutto il prospetto alla fine sul piano XY per avere meno difficoltà a montare le tavole. Se, come me, siete amanti del disegno a mano, l’altra alternativa è quella di “alzare” i punti dalla pianta avendo cura di separarli per livelli se non 203
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distinguibili, facendo ricorso a delle stampe delle piante distinte per layer, avendo cura di spegnere quelli che non sono pertinenti. Le stampe dovranno avere degli elementi in comune per poterle sovrapporre e montare così il prospetto in modo corretto. Una volta alzati tutti i punti, integrate il disegno usando anche le foto di riferimento. Quest’ultima operazione può essere compiuta a mano, anche se avete seguito l’alternativa per i “virtuosi del CAD”, partendo dalla stampa dei punti proiettati su un piano. Esiste un altro metodo “semplificato” per battere i punti sui prospetti inaccessibili, non precisissimo, ma che se condotto con le dovute attenzioni, vi permette di lavorare anche con un teodolite “normale” con distanziometro all’infrarosso e prisma riflettore (incluse le stazioni totali con tale caratteristica). Oltre ad essere semplificato è anche un poco più lento nella realizzazione e funziona fino ad altezze di circa 10 metri o poco più. In pratica, si usa il prisma montato su un’asta telescopica (ce ne sono lunghe fino a 8-10 metri) oppure una canna metrica (ne ho viste anche di 10 metri) su cui montare (artigianalmente, perché non credo esistano attacchi standard per i prismi) il prisma o, per gli strumenti che sono compatibili, il target riflettente su cartoncino. Se considerate che un adulto con un braccio alzato arriva fino a circa 2 metri, più la lunghezza dell’asta, più un eventuale scala o trabattello di sicurezza di altri 2 metri circa, forse sarà possibile far arrivare il vostro prisma fino a punti inaccessibili alti circa 12 – 14 metri dal piano di calpestio. Non è un metodo rigoroso come la fotogrammetria o il distanziometro al laser, ma nel caso di edifici non particolarmente ricchi di decorazioni e particolari architettonici a mio avviso può rappresentare una valida alternativa per svolgere un lavoro senza dover investire grandi somme nell’attrezzatura. Si procede così: si accosta il prisma al punto da misurare (meglio identificarlo e segnarlo su una foto, come sopra) con la pazienza necessaria a lavorare in condizioni disagiate e senza urtarlo contro superfici “storico – artistiche”, si collima il punto, si sposta il cannocchiale in orizzontale (come meglio descritto in precedenza) per leggere la distanza, si ricollima il punto per leggere e memorizzare l’angolo, avendo cura di assegnare “0” come valore di altezza del prisma. Una volta battuti i punti si procede come descritto sopra, con le due alternative per la restituzione. Ultimo metodo, sempre per la misurazione dei punti inaccessibili, è quello tradizionale dell’intersezione in avanti, universalmente applicato in topografia, nel nostro caso adattato al rilievo architettonico. Concludendo la nostra rassegna sul rilievo architettonico (le singole tecniche, visto che sono comuni anche ad altre categorie, sono esposte nei vari paragrafi) e sulle differenze che lo caratterizzano rispetto a quello archeologico, possiamo affermare che, in linea di massima, si tratta di un ambito di lavoro notevolmente specializzato, specie nell’attrezzatura, e che richiede una certa esperienza sia delle tecniche da impiegare che della storia dell’architettura e delle tecniche costruttive. Il rilievo archeologico Riprendendo la nostra classificazione dei vari ambiti di lavoro relativo alla documentazione grafica del patrimonio storico e artistico, potremmo affermare in modo grossolano che il rilievo archeologico comprende tutto quanto non è compreso in quello architettonico, tanto più che, per quanto attiene alla tutela, le Soprintendenze sono sempre distinte (anche nello stesso territorio) tra “per i 204
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Beni Architettonici” e “per i Beni Archeologici”, pur facendo riferimento allo stesso quadro normativo. In realtà, più che nell’epoca della costruzione delle strutture, la differenza spesso consiste nello stato di conservazione delle stesse, oltre ad altri aspetti peculiari dell’ambito archeologico (documentazione di scavo e dei materiali, che saranno esposti più avanti). Anche se esistono tutta una serie di esempi di strutture archeologiche che (grazie alle trasformazioni che le hanno coinvolte nel tempo, spesso anche devastandole, mutandone la destinazione d’uso) mantengono la loro “efficienza” costruttiva e funzionale, la realtà della stragrande maggioranza delle nostre è quella del rudere, più o meno conservato e sottoposto a manutenzione, ovvero del resto di muratura spesso privo di copertura originale e/o di connessioni strutturali con quelle che, in origine, costituivano un edificio compiuto. Almeno in Italia, la maggior parte delle strutture archeologiche appartiene all’epoca romana, a perenne testimonianza del genio costruttivo che è maturato in seno a questa civiltà, della immane quantità di opere in muratura che sono state prodotte durante quel periodo storico e della sublime qualità dei materiali (malte, laterizi, elementi lapidei) che oggi non siamo più in grado di replicare. Tra gli esempi dei manufatti che hanno mantenuto la loro efficienza in quanto edifici possiamo citare, tanto per dare un’idea, tutti quei monumenti che sono sopravvissuti come chiese, conventi, sedi di centri di potere, oggi per la gran parte musealizzati o usati come sedi di uffici, spesso delle stesse Soprintendenze, oppure quelli che erano talmente imponenti e “massicci” che tutte le distruzioni apportate dal tempo e dagli uomini non sono riuscite ad averne ragione. Tanto per fare alcuni nomi, tra i primi pensiamo ai complessi termali di Diocleziano o di Caracalla, il mausoleo di Adriano o le chiese realizzate nel Pantheon di Adriano o nel tempio di Augusto a Pozzuoli. Tra i secondi il Colosseo, il palazzo imperiale di Augusto, i mercati traianei. Tanto per rinfocolare la piccola polemica iniziale, in casi come quelli citati la documentazione grafica relativa sarebbe annoverabile più come rilievo architettonico che archeologico, stante la complessità e lo sviluppo spaziale di tali complessi, piuttosto che sulla tipologia e l’epoca di costruzione dei manufatti, ma proseguiamo nella nostra rassegna. Tolti gli esempi illustri appena fatti (ed altri, la cui elencazione sarebbe troppo lunga), la maggior parte del nostro patrimonio archeologico è, come abbiamo già detto, costituita da ruderi che, negli esempi meglio conservati, consentono di comprendere la disposizione planimetrica dell’edificio cui appartenevano e danno informazioni sulla sua destinazione d’uso originaria (e su eventuali aggiunte e modifiche successive), ma che offrono ben poco sulla volumetria complessiva e, tantomeno, sul loro aspetto estetico originale. Quest’ultimo è uno dei dati mancanti che meno ci colpisce, abituati come siamo all’aspetto “normale” delle murature di epoca romana rimaste, generalmente caratterizzate dalla cortina esterna in laterizi o in blocchetti di tufo. In realtà, a meno di particolari periodi o opere specifiche, nate in origine con la cortina a vista, praticamente tutte le strutture murarie erano rivestite di intonaco (dipinto o, spesso, decorato negli interni a rilievi) o pietra, di cui rimangono modeste tracce in alcuni casi. Quello che ci manca, infatti, è proprio il senso e la presenza del colore nell’architettura classica (a partire dall’immagine dei tempi greci che, immancabilmente, erano rivestiti di stucco e vivacemente decorati a tinte anche forti), di cui oggi vediamo solo dei toni dominanti (mattoni o pietra, raramente il tufo perché più soggetto a degrado). 205
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Strutture e complessi archeologici La documentazione grafica delle strutture archeologiche, dunque, normalmente si occupa di resti di murature, talvolta anche imponenti ed aggregate sino a comprendere interi edifici, isolati urbani o parti di città (si pensi ad esempi quali Pompei, Ostia Antica, Aquileia, Velia, ecc.). Vista la cronica mancanza di mezzi e finanziamenti di cui gode l’intero settore dei Beni Culturali in Italia (a causa di decenni di politica dissennata da parte dei governi di qualsiasi bandiera), il settore del rilievo archeologico è decisamente poco sviluppato sotto il profilo economico e tecnico, e chi vi lavora di rado riesce ad arricchirsi. Essendo l’archeologia interamente gestita dallo stato, la committenza è sempre di carattere pubblico e, se non direttamente dalle soprintendenze, può essere costituita dalle università o istituti di ricerca che hanno delle concessioni per indagini localizzate a determinate siti. Le tecniche impiegate nel rilievo archeologico, vista la molteplicità delle situazioni e delle figure coinvolte (dagli studenti universitari ai professionisti) sono praticamente tutte quelle conosciute, di cui alcune qui indegnamente esposte. Diciamo subito che, a differenza di quello architettonico, questo è un ambito in cui è ancora forte e radicata la tradizione del disegno a mano, almeno per quanto riguarda la restituzione, sia per effettive esigenze di documentazione, sia per un gusto estetico che fortunatamente resiste alle tentazioni “tecnicistiche” in cui tanti settori professionali legati alla grafica stanno cadendo. Considerazioni sul gusto non ne facciamo, però sulle effettive esigenze sì. A differenza del rilievo architettonico, in cui le superfici delle strutture (sia in pianta che in alzato) raramente sono caratterizzate da materiali esteriormente diversi (salvo il caso delle pavimentazioni e dei paramenti in pietra degli alzati, non capita quasi mai di dover inserire in un rilievo le decorazioni pittoriche), la documentazione grafica archeologica è fondamentalmente basata sulla restituzione, oltre che della forma spaziale della struttura, dei materiali (che rimandano alle tecniche ed alle fasi costruttive) con cui questa è realizzata. Anche se è vero che le potenzialità grafiche dei programmi CAD stanno crescendo in modo esponenziale, a quanto pare non sono ancora giunti i tempi in cui si possa rendere efficacemente con una campitura predefinita il tratto a mano di una parete di laterizi o blocchi di tufo, oppure il degrado di una cortina muraria o l’aspetto di un nucleo di conglomerato cementizio. Tuttavia, come vedremo in seguito, la restituzione grafica al CAD (oltre alla parte effettivamente necessaria a chi usa strumenti ottici e programmi di calcolo topografico) trova la sua collocazione nell’ambito planimetrico, specie se a grande scala. Per quanto riguarda il rilievo vero e proprio le tecniche maggiormente in uso sono quelle tradizionali: quello diretto e quello strumentale (quest’ultimo in percentuale crescente, visto il progressivo calo dei costi dei teodoliti) integrato con la restituzione a mano. Il primo è praticamente prerogativa degli studenti universitari che, oltre ad essere notoriamente squattrinati (al pari dei vari dipartimenti), iniziano in tal modo anche a farsi le ossa con delle esperienze concrete. Il rilievo strumentale, con tutte le varianti che questo comprende, è perlopiù usato da chi opera nel settore e, per una sua migliore definizione, si rimanda al paragrafo omonimo. Rilievo di scavo E’ un po’ difficile parlare di rilievo di scavo archeologico senza aver parlato almeno un poco dello scavo in quanto tale. Ovviamente non occorre 206
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necessariamente essere un archeologo per poter disegnare quello che si trova all’interno di un cantiere di scavo (il sottoscritto non lo è, e comunque vale sempre l’osservazione fatta all’inizio, secondo cui se si hanno delle conoscenze di base ognuno è in grado di disegnare qualsiasi cosa), però almeno qualche elemento di conoscenza non guasta. Lo scavo archeologico viene normalmente condotto con il metodo stratigrafico che prevede l’asportazione successiva di tutti gli strati che, con il tempo, si sono sovrapposti ai livelli di frequentazione più antichi. La definizione di strato è abbastanza semplice: un insieme omogeneo di tracce di frequentazione composto di materiali, terra, rifiuti e quant’altro riferibile ad un dato evento cronologico. Esempi di strati di frequentazione antichi possono essere: piani in battuto di terra, tracce di distruzione (incendi, demolizioni di edifici, ecc.), interventi di ripristino e regolarizzazione dell’area (spandimento di materiali per nuovi piani, depositi alluvionali, ecc.). Nella successione delle fasi cronologiche capita di assistere anche ad interventi che tagliano gli strati più bassi (più antichi) quali scavi di fondazione, trincee, cavi per canalizzazioni, ecc., fino ad arrivare ai livelli di frequentazione moderni. Ogni strato viene catalogato, fotografato e descritto sul diario di scavo come singola unità stratigrafica (US...), identificata in genere con un numero. La documentazione grafica di uno scavo archeologico è abbastanza semplice: delimitata e posizionata l’area effettiva di scavo rispetto al contesto topografico (operazione da effettuare con l’ausilio di uno strumento ottico), occorre disegnare una serie di piante sovrapponibili per identificare ciascuno strato, indicandone il perimetro ed alcune quote altimetriche, secondo le indicazioni dell’archeologo che vi lavora. Se nello spessore dello strato vengono rinvenuti oggetti o materiali giudicati importanti (materiali edilizi, frammenti di ceramica, metallo o vetro, resti di ossa, ecc.) vengono disegnati nella loro giacitura e quotati. Se lo scavo incontra delle strutture (non necessariamente in muratura) queste vengono disegnate, nel procedere dell’asportazione della terra, prima solo nella proiezione della loro cresta e successivamente si lascia la sagoma del loro spessore che, in fase di lucidatura, viene caratterizzata con una simbologia secondo la rispettiva tecnica costruttiva. Ovviamente tutte le quote altimetriche (piante e sezioni) devono essere correlate e riferite a caposaldi quotati, che possono essere assoluti o relativi. Altro elaborato importante nella documentazione di scavo sono le sezioni stratigrafiche che evidenziano la successione e l’andamento altimetrico dei vari strati. Queste vengono disegnate (e continuamente aggiornate con il procedere dei lavori) sia sulle pareti della trincea (che generalmente vengono rifinite con la cazzuola –“spiombate”- per renderle ben evidenti) sia secondo piani di sezione che vengono impostati secondo le esigenze dell’archeologo. Per le prime non c’è problema: tenendo fisso un riferimento altimetrico, la successione degli strati evidenziati viene misurata e disegnata in scala direttamente così come si vede, salvo poi caratterizzare con dei simboli i vari strati. Le sezioni che tagliano l’area di scavo, invece, vanno costruite ed aggiornate esclusivamente con delle misurazioni secondo il metodo della coltellazione in base a dei riferimenti fissi che vengono lasciati fuori dall’area di scavo. Talvolta capita (proprio perché, prima di scavare, nessuno sa con certezza cosa si può trovare), in corso d’opera, di dover spostare la traccia di tali sezioni 207
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perché si trovano elementi significativi in aree non tagliate da quelle impostate in partenza. In tal caso la sezione corretta viene ricostruita a tavolino, in base alle piante degli strati superiori ed alle rispettive quote. Se nello scavo vengono alla luce strutture murarie abbastanza complesse, queste generalmente vengono rilevate nel dettaglio solo una volta conclusa l’asportazione della terra, inizialmente limitandosi al loro posizionamento ed ad un rilievo essenziale (pianta e sezioni schematiche) per poterle collocare nel contesto stratigrafico. Il termine sterro (considerato quasi spregiativo dagli archeologi) è l’opposto dello scavo stratigrafico e definisce la semplice asportazione di terreno in una data area, senza prestare attenzione alle sequenze cronologiche. E’ anche la tecnica con cui, spesso, si sono condotte le grandi campagne di scavo fino agli anni ‘30, in cui sono venute alla luce migliaia di metri quadrati di strutture archeologiche (Ostia Antica, Fori imperiali, sventramenti fascisti al centro di Roma alla ricerca delle – sole – vestigia romane). Talvolta, però, anche lo scavo moderno si limita allo sterro ed alla pulizia di strutture antiche già messe in luce e, talvolta, lasciate in stato di abbandono, cui nel tempo di sono accumulate vegetazione e rifiuti urbani. Negli ultimi anni si è finalmente affermato nelle pubbliche amministrazioni il concetto dello scavo preventivo attuato mediante trincee esplorative su vaste aree territoriali coinvolte da opere di urbanizzazione e, parimenti, spesso la realizzazione di tutte le opere a rete in cui è previsto lo scavo in trincea (passaggio di cavi, fogne, tubazioni) viene attuata mediante controllo archeologico. Anche in questi casi, piuttosto che uno scavo archeologico stratigrafico (salvo quando si incontrano tratti di interesse scientifico) si lavora per sterro, spesso direttamente eseguito con la pala meccanica sotto il controllo del tecnico. In situazioni del genere la documentazione grafica è meno impegnativa di quella già descritta e consiste generalmente nel solo posizionamento topografico delle trincee (sempre integrato dai dati altimetrici) e di alcuni stralci di dettaglio delle aree notevoli. Nei casi descritti finora il ruolo del disegnatore può anche non richiedere una presenza fissa continuativa durante l’orario di lavoro, in quanto, spesso, le piante di strato vengono aggiornate direttamente dall’archeologo, specie nei cantieri di piccole dimensioni o con budget limitati. A seconda del tipo di contratto stipulato con la committenza, il tecnico non archeologo può essere richiesto solo per le fasi iniziali (impostazione della topografia di base) e finali (chiusura del cantiere, verifiche generali, posizionamento e documentazione delle strutture), oppure secondo presenze parziali giornaliere o settimanali. Negli scavi più estesi, con diverse squadre al lavoro in contemporanea, oppure nello scavo delle necropoli, invece, spesso è prevista la presenza fissa di una persona con il compito esclusivo della documentazione grafica. Un’esperienza interessante è quella dello scavo delle necropoli con tombe a fossa o a pozzetto. Vista l’importanza e la “deperibilità” dei reperti, quasi sempre le tombe vengono aperte e completate di tutto (scavo, documentazione, asportazione dei resti e del corredo) entro la stessa giornata lavorativa, per timore dei predatori sia animali che umani. Spesso queste si trovano abbastanza in superficie o, comunque, poco coinvolte da notevoli sequenze stratigrafiche, per cui lo scavo procede molto speditamente e, se ci sono diverse squadre al lavoro, si completano anche tre o quattro tombe al giorno. La scala di riduzione richiesta, quasi sempre, è di 1:10, 208
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al massimo 1:20 e, se gli scheletri sono ben conservati, il lavoro di dettaglio è parecchio impegnativo. Il rilievo, quindi, deve procedere con estrema velocità ed efficienza. In casi disperati si può ricorrere all’uso di una battuta fotografica, dopo aver preso alcuni punti di riferimento rispetto alla fossa (che, anche una volta scavata, rimane), inserendo dei riferimenti metrici (aste graduate, metri a stecca, ecc.), per poter fare la restituzione a tavolino. Normalmente si può fare il rilievo della tomba per coltellazione riferendosi all’asse centrale longitudinale, piantando due picchetti esterni (che serviranno, poi, sia da riferimento per il posizionamento generale che per la quota della sezione). Trattandosi di elementi dalla forma molto irregolare (ossa o frammenti di esse), il disegno è necessariamente molto “dal vero” piuttosto che una rigorosa proiezione geometrica, quindi non sono necessarie moltissime misure ma solo quelle sufficienti a rendere il “contenuto” della tomba con le giuste proporzioni. Le sezioni, in genere in numero di due, si misurano con riferimento a dei cordini elastici tesi sopra il piano di campagna. L’area di scavo, specie se estesa, viene generalmente suddivisa in quadrati (di due o tre metri) ed eventuali sottomultipli, cui vengono assegnati codici alfanumerici di riferimento. Tale accorgimento serve soprattutto a gestire la provenienza dei vari tipi di materiali rinvenuti (che vengono conservati in buste o cassette con tutti i riferimenti stratigrafici e topografici). La quadrettatura si delimita con dei picchetti al momento di impiantare il cantiere e può essere impostata in due modi: uno rigoroso, con l’ausilio dello strumento (se avete una stazione totale si può operare mediante il programma di tracciamento, dando le coordinate dei vari vertici); l’altro un po’ meno preciso, con la sola fettuccia e squadri tracciati graficamente con i metodi delle costruzioni geometriche, che deve essere successivamente rilevato con esattezza per riportare sulla carta le effettive forme e dimensioni dei quadrati irregolari che si sono tracciati. Il problema è di sostanza: si può anche lavorare con dei quadrati poco regolari, purché vengano restituiti sulla pianta nella loro vera forma, perché a questi poi si farà riferimento per il rilievo delle stratigrafie. Impostata la quadrettatura preparatevi a rifarla diverse volte: sia perché lo scavo procede in profondità, sia perché è praticamente impossibile piantare dei picchetti perfettamente verticali, sia perché non è raro che qualche picchetto “salti” a causa di piccoli incidenti (da chi ci inciampa a chi ci scava troppo vicino, ecc.), la quadrettatura dei primi giorni, alla quota del piano di campagna, non sarà più la stessa dopo quaranta centimetri di scavo. Queste variazioni della giacitura dei picchetti vanno costantemente aggiornate sulle planimetrie successive, non tanto per i soli riferimenti dei dati stratigrafici, quanto perché, spesso, il rilievo di dettaglio per comodità si fa a mano, con la triangolazione o la coltellazione, quadrato per quadrato. Per poter avere dei riferimenti stabili (in mancanza della disponibilità di uno strumento ottico per il ripristino immediato) è meglio fissare dei picchetti in posizione sicura, al di fuori dell’area di scavo e dei percorsi di accesso, scarriolatura o movimento degli addetti. Per quanto riguarda la quotatura altimetrica, in mancanza di uno strumento ottico sempre disponibile (è sufficiente un livello da cantiere), occorre disporre dei riferimenti fissati sui picchetti esterni mediante la livella ad acqua oppure con un uso molto attento di quella a bolla unita al cordino elastico. Da questi riferimenti, di volta in volta, per brevi distanze, si può usare il cordino e la livella. Esistono in commercio anche delle livelle a bolla dotate di traccia laser 209
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(per edilizia), discretamente efficienti nel breve raggio, da usare in sostituzione del cordino. Diciamo che, nel complesso, il rilievo di scavo può consistere di una mistura di tecniche avanzate ed artigianali, moderne e tradizionali, che di volta in volta si rendono necessarie per documentare al meglio i dati scientifici che vengono prodotti. Le ormai consolidate esigenze di posizionamento topografico georeferenziato dei saggi di scavo richiedono di fatto l’impiego del teodolite o, per aree particolarmente remote, del GPS. Avendone la disponibilità (oppure a noleggio, o in prestito) tanto vale impiegarli per impostare anche la base topografica (quadrettatura, picchetti quotati, ecc.). Per quanto attiene alla documentazione di dettaglio (piante e sezioni stratigrafiche), secondo me, è preferibile ancora il rilievo diretto. Sia perché l’immediatezza di tale tecnica consente di avere disponibili subito dei dati, anche se non proprio precisissimi, sia perché, viceversa, l’impiego dello strumento anche in questa fase presuppone la necessità di dover tornare, dopo aver battuto i punti, con la stampa da effettuare su plotter di grande formato. Il problema fondamentale del rilievo di scavo, che lo distingue da quello delle strutture già scavate, è quello della necessità di continuo aggiornamento degli elaborati e della loro possibilità di confronto reciproco per verificare la strategia e le scelte da compiere nell’ambito della campagna. Specie nel caso di scavi molto estesi, con diverse squadre al lavoro, riuscire a verificare eventuali allineamenti, coincidenze di quote, andamento di stratigrafie, dalla mole di dati che vengono quotidianamente prodotti è un onere che ricade in gran parte sulle spalle di chi si occupa della documentazione grafica. In questi casi, oltre al rilievo compiuto a mano (di dettaglio) delle varie aree, può essere estremamente utile la possibilità di gestire in parallelo la restituzione dei dati di scavo direttamente in CAD, se si dispone di una stazione totale (o uno strumento comunque dotato di memoria per la restituzione dei punti) e di un computer portatile. Quest’ultimo può essere impiegato sia per scaricare e gestire i punti memorizzati dallo strumento (mediante applicativi specifici per la topografia che trasformano direttamente i punti battuti in disegni in formato vettoriale .DXF, compatibile con i programmi CAD), sia per realizzare degli elaborati schematici, con aree di scavo, unità stratigrafiche, eventuali strutture, ecc., caratterizzate solo con disegno al tratto dei perimetri e le relative quote altimetriche. Se in cantiere si dispone anche di elettricità, una stampante potrebbe completare il quadro, per fornire bozze continuamente aggiornate dell’avanzamento dei lavori. Disegno dei materiali archeologici La documentazione grafica dei materiali costituisce un’altra branca del rilievo archeologico e, spesso, è considerata una specializzazione a sé stante, nel senso che chi se occupa compie delle attività del tutto diverse da quelle descritte finora. Per questo motivo, per oggettive difficoltà a dare spiegazioni senza avere davanti gli oggetti di cui si parla, ed anche per non uscire troppo dal seminato, saranno dati solo alcuni cenni sull’argomento. Per materiali archeologici si intendono tutti i reperti che vengono raccolti nel corso delle attività di scavo (o di ricognizione del territorio) e che, con una 210
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sommaria descrizione, possiamo distinguere in: materiali ceramici o, più in generale, fittili (vasellame ed oggetti domestici, contenitori, decorazioni architettoniche, miniature, ecc.); materiali metallici (monete, spille ed ornamenti, oggetti per la pulizia ed attrezzi, utensili da lavoro, armi e loro parti); materiali litici (utensili preistorici, oggetti in pietra in generali); materiali tessili (indumenti, tessuti, ornamenti); materiali in vetro di qualsiasi forma e natura, materiali organici (frammenti o parti di ossa, legno, altro). Tali oggetti (interi o in frammenti), dopo essere stati puliti, inventariati, catalogati, schedati e restaurati formano oggetto di studio da parte di numerosi specialisti, al fine di ricostruire il contesto storico dell’area oggetto dell’intervento, a partire dalla datazione delle varie fasi di frequentazione. Sia per la pubblicazione dei vari saggi, che per consentire lo studio ed il confronto in diverse sedi, i materiali più significativi vengono fotografati e disegnati. Quella che segue è una breve descrizione delle convenzioni grafiche e delle tecniche impiegate per la documentazione dei materiali più comuni. La maggior parte dei reperti è costituita da materiale fittile, per la relativa facilità di conservazione dell’argilla cotta che, anche se in frammenti, ha permesso di arrivare fino ai nostri giorni oggetti realizzati migliaia di anni fa. Le forme cave dei contenitori di tutte le dimensioni (vasi, anfore, vasellame, coppe, bicchieri ecc.) vengono generalmente disegnate in sezione e prospetto (e in pianta, se particolarmente interessanti) in scala 1:1 ed eventualmente ridotti in sede di pubblicazione. I frammenti, a meno di esemplari notevoli, vengono disegnati solo se appartenenti all’orlo superiore o al fondo, in quanto solo da tali tipi si possono dedurre le rispettive circonferenze e grado di inclinazione, per poterli associare ad una classe ceramica già nota. Per convenzione, la sezione viene sempre disegnata a sinistra della linea di mezzeria centrale, mentre a destra si disegna il prospetto esterno: è come se si tagliasse via un quarto del vaso e poi proiettare tutto sullo stesso piano parallelo alla linea di mezzeria trasversale. Se il vaso è irregolare (oggetti realizzati prima dell’invenzione del tornio oppure deformati durante l’essiccazione o la cottura) le linee di mezzeria vengono scelte con criteri euristici. Se c’è un solo manico (si dice “ansa”), come nelle brocche o le tazze, questo va sempre disegnato sul prospetto di destra, con a fianco una piccola sezione trasversale. Spille, fibule, ornamenti in generale (anelli, perline, ecc.) e tutti gli oggetti con forma e funzione diverse dai contenitori vengono generalmente disegnati (in scala 1:1) in pianta e prospetto, intendendo con tali termini due viste significative, secondo piani ortogonali tra loro (le cui tracce sono da riportare sul disegno, al pari delle sezioni), concordando tali dettagli con i funzionari responsabili della direzione scientifica del lavoro. Nel complesso tutto questo aspetto del lavoro è abbastanza artigianale ed esistono moltissime varianti alle tecniche di base, fondamentalmente basate sull’osservazione e la misurazione diretta degli oggetti e sulla restituzione a mano libera. Ho sentito parlare (per quanto riguarda i frammenti) di chi li fotocopia e poi ripassa ed integra a matita, di chi si costruisce basamenti con aste graduate perpendicolari, di chi scatta (ai vasi interi) foto digitali con dei riferimenti metrici, stampa e poi ricalca a matita, verificando le misure per correggere le deformazioni prospettiche. Un vero campionario di strumenti ed idee, alcune brillanti, altre un po’ meno, che sarebbe impossibile riportare tutte. Nelle figure 121, 122 troverete alcuni esempi di disegni di materiali. 211
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Fig. 121. Disegni di materiali. Alcuni esempi di materiali, resi (per esigenze di impaginazione) a scale diverse. Notare la rappresentazione dei vasi ceramici, associando sezione e prospetto e dettagli significativi.
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la documentazione grafica del patrimonio storico artistico
Fig. 122. Disegni di materiali
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Finalità Abbiamo già esposto, all’inizio del capitolo, l’importanza della documentazione grafica dei beni storici ed artistici. Daremo ora qualche cenno sulle principali finalità di questo tipo di lavoro. Data la cronica penuria di mezzi delle varie soprintendenze, la gestione delle risorse spesso deve fare i conti con le priorità del territorio tutelato. La documentazione, che in tempi di vacche grasse e di gestione con criteri razionali potrebbe essere un ambito di lavoro autonomo e finalizzato all’allargamento della conoscenza, in tempi grami come questo viene messa in bilancio solo quando strettamente necessaria e finalizzata. Ovvero, quando bisogna scegliere tra riparare il tetto di una chiesa o studiare una delle sue cappelle, la scelta è a dir poco obbligata. Uno degli ambiti di applicazione più frequenti del rilievo delle strutture è tutto ciò che attiene al restauro ed alla manutenzione. Anche se capita talvolta di sentire che tali progetti vengono redatti senza neanche un disegno (non per imperizia dei funzionari, ma solo per mancanza di pecunia), una delle regole auree del restauro è proprio quella che pone l’obbligo della documentazione dello stato ante operam del manufatto, oltre alla necessità oggettiva dei dati (anche numerici e qualitativi) per poter improntare computi e capitolati delle opere da appaltare. Il rilievo delle strutture da sottoporre a restauro (siano esse architettoniche o archeologiche) sarebbe necessario anche per graficizzare le scelte progettuali e fungere da base per la documentazione (spesso solo fotografica) in corso d’opera delle stesse. Una corretta applicazione dei principi del restauro renderebbe necessaria anche la documentazione grafica post operam di quanto realizzato, da realizzare ovviamente sulle basi grafiche dello stato di fatto del monumento. Specie per i manufatti dotati di un alzato notevole ed inaccessibile, il momento del restauro (con l’installazione dei ponteggi) costituisce anche un’occasione unica per un confronto vis a vis con delle superfici che normalmente guardiamo con il naso all’insù da parecchi metri di distanza. Oltre alle consuete procedure di restituzione, in tali casi talvolta si procede anche a realizzare delle mappature delle aree di maggiore interesse per rappresentare con espedienti grafici gli elementi più interessanti (presenza di vari tipi di malte o di materiali, fasi di lavorazione, stratigrafie di intonaci o apparati decorativi, ecc.) per studi e approfondimenti tematici. La ricerca scientifica, la catalogazione e la schedatura del patrimonio storico artistico sono altri ambiti, strettamente comunicanti, in cui il ricorso alla documentazione grafica è praticamente doveroso. Operare confronti tipologici e cronologici tra strutture diverse, ricercare temi figurativi, compilare elenchi e quant’altro richieda la visione comparata di diversi manufatti, sono tutte operazioni che, in mancanza di elaborati grafici (specie se in formato digitale), devono essere condotti con quelli fotografici, con tutti i limiti che questo comporta. Un esempio eclatante è costituito dalla documentazione grafica dei materiali di scavo: specie per quanto riguarda i materiali ceramici, se l’archeologo non avesse a disposizione i vari cataloghi, atlanti e pubblicazioni delle ceramiche che, nel tempo, sono stati prodotti con migliaia di disegni pazientemente raccolti, sarebbe impossibile operare confronti e stabilire datazioni con materiali nuovi o non ancora studiati.
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Un’esperienza di rilievo: la domus della Nicchia a Mosaico di Ostia Antica.
Per cercare di rendere maggiormente i concetti e le tecniche di cui si è parlato finora, ho voluto aggiungere in questo paragrafo un’esperienza diretta realizzata apposta per questo libro, il rilievo della domus della Nicchia a Mosaico, di cui è stato abbozzato anche un primo tentativo di analisi. A differenza di altri lavori, in cui i diritti sulle immagini sono di proprietà della Soprintendenza che li ha commissionati (infatti quelle che compaiono nelle precedenti pagine non sono “vere”, ma rielaborate o inventate di sana pianta), per questo è stato chiesta un’autorizzazione specifica per l’esecuzione del rilievo e la pubblicazione a scopo di studio. Al momento della prima stesura (per un altro editore) era prevista anche la riproduzione in scala ridotta della tavola originale che è stata depositata nell’archivio disegni della Soprintendenza, da allegare al volume come tavola fuori testo. Diverse scelte editoriali hanno poi determinato la scelta grafica presente, in cui i vari elaborati sono riprodotti separatamente come immagini nelle pagine che seguono, con un po’ di disagio a seguire il testo e sfogliare alla ricerca dell’immagine corrispondente, di cui mi scuso. La scelta della struttura da rilevare è stata fatta (unitamente alla Soprintendenza per i Beni Archeologici di Ostia) in base ad una serie di criteri: lo stato del monumento, che conserva ancora parte degli alzati per un’altezza tale da imporre il ricorso ad una poligonale, la discreta articolazione degli ambienti, la presenza di una serie di tecniche costruttive delle murature e di particolari architettonici (parete della nicchia, pozzo, parete di sostegno della scala) che hanno richiesto una rappresentazione più dettagliata. La nostra Domus sorge nei pressi del Foro di Ostia e si affaccia sul Cardo Massimo a pochi metri dalla piazza, nel tratto che è stato edificato alle origini del complesso portuale di Roma. L’impianto originario della casa, infatti, è di epoca repubblicana ed è caratterizzato dalla forma allungata del lotto, stretto tra la Domus di Giove Fulminatore (di pochi anni precedente) ed il Ninfeo degli Eroti (IV sec. d.C.). Le strutture corrispondenti alle fasi più antiche della domus si trovano sulla parete destra, in opera incerta (a tratti con il paramento rifatto in opera laterizia), e su quella di fondo, in opera reticolata. La sequenza degli ambienti è tipica del periodo: un atrio, preceduto da un corridoio affiancato da due tabernae, un tablinum e un orto posteriore delimitato dalla parete di fondo. La domus ha subito una serie di interventi nel tempo fino ad epoca tarda sia di carattere manutentivo (rifacimento di tratti di cortine murarie e di pavimenti) che di ristrutturazione vera e propria. Questi ultimi hanno consistito essenzialmente nella riorganizzazione dell’ambiente di fondo, con la costruzione della nicchia, dell’ambiente a destra e della scala che conduceva al piano superiore. Forse la domus si estendeva anche dietro l’attuale Ninfeo, ma il carattere didattico di questa esperienza e, soprattutto, lo stato di conservazione degli ambienti adiacenti (coperti da fitta vegetazione) hanno determinato la parziale riduzione dell’area da rilevare. Si rimanda pertanto ad altra sede una lettura più esaustiva del complesso architettonico e delle fasi costruttive.
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Il rilievo diretto. Il rilievo della domus è stato effettuato sia con il metodo diretto che con l’ausilio dello strumento, al fine di esporre nel dettaglio tutte (o quasi!) le operazioni che ne hanno determinato lo svolgimento. Nel primo caso il problema che si poneva al rilievo della pianta era la lunghezza complessiva (circa 27 metri) della struttura e la presenza di pareti alte (del tablinum e degli ambienti posteriori), che necessariamente dovevano essere “aggirate” per determinarne lo spessore (altrimenti deducibile da semplici misurazioni sulle creste dei muri) e lo sviluppo degli ambienti adiacenti. Il problema poteva essere affrontato in due modi fondamentali e diversi: il tracciamento di una base longitudinale che avesse attraversato tutti gli ambienti, dal cardo alla parete di fondo (vedi fig. 123), oppure la costruzione di una poligonale. La prima soluzione è stata scartata a causa delle difficoltà tecniche a realizzare un allineamento preciso e durevole per le successive misurazioni (un elastico, pur teso all’estremo, avrebbe con il tempo ceduto e la natura del terreno non avrebbe permesso l’apposizione di riferimenti esatti per le basi locali), pertanto verrà esposta solo in termini teorici. Nel caso in questione, infatti, una soluzione teoricamente giusta e precisa sarebbe stata quella di determinare un allineamento principale da usare come base per le triangolazioni locali dei vari vertici della struttura. Il segmento AB poteva essere la base principale su cui staccare dei punti (con misurazioni progressive a partire da uno degli estremi) situati in posizione tale da poter essere usati come basi per triangolare, di volta in volta, tutti gli elementi notevoli della domus. Per aumentare la precisione avremmo dovuto prendere meno punti possibile sulla base AB (diminuendo il rischio di errore di rappresentazione di questi ultimi), avendo solo cura di sceglierli in modo tale da avere delle buone inclinazioni per i vari triangoli delle misurazioni. Sarebbe stato sufficiente, quindi, fissare una fettuccia elastica orizzontale dalla parete di fondo (con un chiodo ben piantato) all’ingresso e segnare su questa i punti in corrispondenza dei quali condurre le misurazioni dei vertici delle varie pareti. Sulla carta avremmo avuto una semplice linea su cui misurare i vari segmenti delle basi locali e, da questi ultimi, tracciare gli archi di compasso relativi alle varie operazioni. Se in corrispondenza dell’ingresso avessimo avuto un solido ancoraggio per il nostro filo elastico o se avessimo trovato anche solo una pavimentazione regolare su cui apporre i segni delle basi locali, questo sarebbe stato il modo più spedito e, soprattutto, preciso per legare tra loro i vari ambienti e per determinare l’andamento e l’inclinazione delle pareti laterali. La scelta è caduta, quindi, necessariamente sul tracciamento della poligonale ABCDEF impostata sui vertici delle pareti stesse. Nel caso in questione i punti appartengono tutti alla struttura da rilevare ma, più in generale, i vertici della poligonale potrebbero appartenere anche ad altri edifici o manufatti, esterni all’area da rilevare. I punti “fisici” da cui prendere le misure dovrebbero essere, lo ricordiamo, tutti alla stessa quota o quantomeno riuniti per gruppi congruenti (ambiente per ambiente o secondo degli schemi logici di appartenenza). Nel nostro caso dovremmo quindi procedere segnandoli sulle pareti con l’ausilio di un livello ottico o almeno con la fettuccia elastica e la livella a bolla. In questa fase conviene segnare tutti i punti da rilevare, assegnando a ciascuno un numero, che riporteremo sullo schizzo generale che dovremo disegnare prima di iniziare le operazioni di misura. Per lavorare con una maggiore precisione sarebbe bene disegnare prima la poligonale e verificarla e poi procedere con le altre misurazioni. Lo schema di lavoro (parzialmente riportato in figura) prevede dapprima la restituzione dei 216
la domus della nicchia a mosaico di ostia antica
Fig. 123. Planimetria schematica. Nella planimetria a lato si può notare il segmento AB che, se fisicamente realizzabile, avrebbe notevolmente semplificato il rilievo diretto della nostra struttura. Notare anche l’indicazione ipotetica di due punti da impiegare per la triangolazione sulla base prescelta.
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vertici principali e successivamente quella degli altri secondari, facendo base sui precedenti già disegnati. Se si osserva la figura si possono notare il triangolo di base ABC (la cui restituzione dovrà essere effettuata con la massima attenzione) ed i successivi vertici cui sono state assegnati dei codici alfanumerici in sequenza (D1,D2, E1,E2,..., ecc.), si può notare che ogni triangolo successivo al primo può essere verificato anche da altri punti già disegnati, oltre dai due assunti come base (i segmenti riportati in figura sono solo quelli essenziali ad afferrare la sequenza logica di svolgimento). Una volta completata la restituzione della poligonale avremo a disposizione una serie di punti, verificati ed affidabili, da cui poter compiere tutte le misurazioni necessarie al nostro rilievo in modo veloce e preciso, avendo anche la possibilità di correggere errori o compiere verifiche. Seguendo questa procedura (anche se a prima vista può sembrare un po' complicata e macchinosa in realtà il tempo complessivo richiesto dal lavoro è all’incirca lo stesso), si assegna un ordine “gerarchico” ad ogni elemento, distinguendo quelli strettamente necessari a definire il complesso architettonico da quelli in cui è anche accettabile un certo margine di errore, nella misura in cui l’oggetto sia stato già definito. Ad esempio nel caso del pilastro del vertice E2, una volta disegnati gli spigoli triangolati da A-D1 ed E3-F2 (ed eventualmente verificati da altri vertici), il quarto spigolo (verso F1) può essere anche preso solo dai due precedenti in quanto la sua geometria sarà ormai chiara. Lo stesso vale per gli allineamenti delle pareti laterali della domus nei quali, una volta definiti i vertici dei vari tratti, la determinazione dei punti in cui cambia la cortina o di quelli in cui si trovano gli innesti di altre pareti può essere fatta semplicemente misurandone la distanza da uno dei vertici. Un altro ordine da seguire nella sequenza dei punti da rilevare dovrebbe essere quello che vede la restituzione prima di quelli posti alla stessa quota o, comunque, fissi e quindi di quelli in cui sarà necessario l’uso del filo a piombo. Mi riferisco qui, ad esempio, alle lastre che formano l’impluvium dell’atrio, alle due tracce di basi nei pressi di quest’ultimo, alle soglie, alla vera del pozzo, ecc.. In tutti questi casi, oltre a trovarci di fronte ad elementi tutto sommato secondari rispetto al contesto generale, sarà comunque bene non affidare la precisione del nostro impianto generale a delle situazioni precarie quali sono quelle determinate dal ricorso al filo a piombo. Nel caso della vera del pozzo, avendo a priori deciso di disegnarla anche in scala 1:5 per mettere in evidenza la decorazione e determinarne la tipologia (e la datazione) è meglio posizionare nella pianta generale solo tre punti e, una volta fatto il rilievo al dettaglio, inserire la riduzione di quest’ultimo (eseguita al tavolo da disegno o con la fotocopiatrice) facendo coincidere i punti del rilievo originale con quelli della riduzione. Lo stesso vale anche per la sezione o il prospetto. Fin qui, in generale, le linee principali del nostro rilievo diretto per quanto riguarda la pianta. Non sono sceso oltre con i dettagli del lavoro svolto (ad esempio per quanto riguarda la distinzione tra il metodo dello schizzo quotato o del disegno diretto in cantiere) sia perché abbiamo già affrontato tali argomenti, sia perché rappresentano degli aspetti particolari del lavoro di ognuno, quasi delle deformazioni caratteriali, al metodo generale qui esposto. Prima di concludere, vorrei fare solo alcune raccomandazioni, valide anche per l’argomento seguente. 218
la domus della nicchia a mosaico di ostia antica
La prima è quella di verificare sempre la linearità delle pareti di una certa lunghezza e, comunque, in tutti i casi in cui si verificano delle discontinuità nelle cortine murarie. Nel nostro caso sarà sufficiente, mentre si segnano i punti con il pennarello, tendere una fettuccia elastica posta in prossimità degli angoli estremi a pochi centimetri dal muro per vedere se questo è effettivamente dritto come appare o se ci sono dei tratti con una diversa inclinazione. Ovviamente, in questo caso, sarà necessario prendere un punto per ogni situazione di discontinuità dell’allineamento. Per quanto riguarda il rilievo di elementi dall’andamento incerto, quali le aree di pavimento a mosaico coperte di terra o le soglie caratterizzate da una serie di elementi o di fratture, poi, non è strettamente necessario (vista la scala a cui si lavora) prendere un’infinità di punti con la triangolazione da basi magari lontane o poste molto più in alto. Una volta definiti alcuni punti principali di appoggio con precisione sarà sufficiente procedere con la coltellazione o con delle triangolazioni locali (“in quota”) per avere lo stesso un buon lavoro. Quando ci si trova in presenza di tratti di parete sottoposti a restauro (come i setti delle fauces o quelli vicino al pozzo) in cui il paramento originale si trova su un filo più esterno rispetto a quello moderno la regola sarebbe quella di rilevare la geometria delle strutture originali. In casi come questi (in cui queste ultime consistono solo in alcuni filari raso terra) è meglio misurare le parti restaurate, più accessibili, avendo poi cura di riportare gli aggetti sottostanti. Il rilievo con lo strumento. Nel caso in cui disponessimo di un teodolite con distanziometro la procedura sarebbe completamente diversa ad eccezione dell’esecuzione dello schizzo iniziale che, per quanto non strettamente necessario, costituisce sempre un valido aiuto nella fase di restituzione digitale dei punti battuti. Anche se le stazioni totali al laser sono molto diffuse abbiamo preferito descrivere le operazioni da svolgere con uno strumento “tradizionale” perché è più facile che un principiante ne possa disporre o farselo prestare. Dovendo impostare comunque una poligonale, la scelta dei luoghi in cui fare stazione dovrà essere mirata non solo all’individuazione delle aree che offrono la visibilità del maggior numero di punti ma anche, ovviamente, alla reciproca possibilità di collimare i punti di stazione. Se i luoghi sono angusti o dotati di passaggi obbligati, il lavoro di impostazione della poligonale risulterà più agevole e preciso se si potrà disporre di due cavalletti e di un supporto per il prisma e la mira da cui verificare “fisicamente” la potenzialità visiva di ogni stazione. Tale possibilità soddisfa anche dei criteri di precisione più generali perché permette di piantare i cavalletti e mettere bene in bolla la basetta dello strumento già nella fase preliminare, spostando di volta in volta solo quest’ultimo da un treppiede all’altro. Nel nostro caso, dovendo compiere solo un rilievo locale, sono sufficienti tre stazioni (ne sarebbero bastate, in realtà, anche solo due, integrando poi con il rilievo diretto le porzioni di pianta in cui non fosse stato possibile battere altri punti nascosti dalle pareti alte) per coprire tutta la domus ed il tratto di strada immediatamente prospiciente. Qualora avessimo dovuto legare la nostra struttura al contesto topografico ed urbanistico (ad esempio dovendo battere dei punti esterni quotati in modo assoluto o volendo conoscere gli spessori dei muri laterali) avremmo avuto bisogno anche di una stazione sul cardo e delle altre a seguire. Nella scelta dei punti di stazione conviene partire da uno dei vertici estremi, lasciando dei punti a terra in corrispondenza di ognuno, percorrendola a 219
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ritroso rispetto al verso affettivo di lavoro. Partiremo così da S3 per definire S2 ed infine S1, piazzando lo strumento sul cavalletto in quest’ultima posizione e lasciando l’altro in S2 per collimare il secondo vertice (vedi fig. 124). Se non disponiamo di un altro cavalletto il punto di stazione successivo sarà battuto semplicemente con il prisma posto sul picchetto fissato a terra, avendo particolare cura nel collimarlo. Se si osserva la figura che rappresenta la poligonale potremo notare che ogni vertice può essere collimato non solo da quello immediatamente precedente ma anche dall’altro. Questo accorgimento (che, tuttavia, non sempre è possibile) ci permetterà di ribattere come semplici punti anche gli altri vertici per avere una sorta di chiusura di verifica della nostra poligonale (anche se in questo caso non strettamente necessaria vista la semplicità del rilievo) che tuttavia, lo ricordiamo, rimane “aperta” per le caratteristiche che la distinguono da una chiusa. Nel corso del nostro lavoro allo strumento occorre prestare attenzione a battere da ogni stazione tutti i punti visibili dalla stessa, il che significa spingere il canneggiatore a percorrere tutta la struttura, fino agli estremi più lontani dal punto in cui ci troviamo. Non c’è niente di peggio, infatti, che arrivare alla fine del lavoro ed accorgersi di aver dimenticato di battere dalla prima stazione dei punti che credevamo essere visibili anche dalla seconda o dalla terza, con la relativa necessità di rimontare lo strumento nella posizione desiderata. Questa considerazione è dettata, oltre che da semplici regole di ottimizzazione del lavoro da svolgere, anche dalla logica: visto che gli errori commessi nel tracciamento di una poligonale sono più “gravi” di quelli che riguardano i singoli punti (perché trascinano con sé anche tutti quelli battuti da vertici successivi) è meglio concentrare questi il più possibile in una stazione precedente piuttosto che in quella successiva per legarli ad un contesto che per sua natura è più preciso. Tornando alla nostra domus, quindi, da S1 batteremo non solo i punti immediatamente vicini (parete della nicchia, strutture dei pilastri e del tablinum che “guardano” verso la stazione, ecc.) ma anche quelli dell’interno di quest’ultimo, della parete laterale sinistra, delle tabernae e quanto altro riusciremo a collimare dalla prima stazione, anche se questi ultimi saranno visibili dalle successive. Da queste, tutt’al più, potremo ribattere qualche punto principale di verifica. Dopo aver visto, per sommi capi, la strategia generale da seguire, vediamo nel dettaglio il funzionamento del distanziometro. Questo apparecchio consente la lettura delle distanze che intercorrono tra lo strumento e il prisma, ovvero il punto collimato. Per quanto riguarda il funzionamento e l’uso del teodolite rimandiamo al capitolo relativo al rilievo strumentale. I distanziometri possono essere all’infrarosso o al laser. Nel primo caso la macchina emette un fascio di raggi infrarossi all’incirca parallelo all’asse del cannocchiale del teodolite. Il prisma è in realtà una piramide di cristallo riflettente che, appunto, riflette i raggi verso lo strumento, permettendo la lettura della distanza mediante la misura del tempo intercorso tra l’emissione del fascio di raggi ed il loro ritorno. Il distanziometro provvede con delle routines a fare una serie di letture, stimandone poi la media secondo una serie di parametri che possono essere modificati dall’operatore (curvatura terrestre, pressione, ecc.). La portata di queste macchine può variare, a seconda delle case e dei modelli, da 400-700 metri a diversi chilometri. La tecnologia laser impiega invece un fascio, appunto, laser che, per essere riflesso, non ha più bisogno del prisma ma sfrutta le stesse superfici dei 220
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Fig. 124. Poligonale con il teodolite. Nella figura sono stati indicate solo alcune delle linee che uniscono i vertici della struttura con le stazioni della poligonale, per indicare quali aree erano coperte da ciascuna. S3 si trova nella posizione indicata per poter battere i punti posti sulla parete sinistra; se le fauces avessero avuto un alzato maggiore sarebbe stata necessaria un’altra stazione nella taberna di destra.
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punti fisici collimati. La precisione, la portata e la velocità di lavoro di questa generazione di apparecchi sono notevolmente superiori a quelle dei distanziometri all’infrarosso. In realtà le stazioni totali al laser, quando lavorano con il prisma, modificano l’emissione trasformandosi in distanziometri all’infrarosso. I distanziometri possono essere degli apparecchi a sé (negli strumenti di vecchia generazione) oppure integrati con il teodolite (stazioni totali) in un corpo unico. Le indicazioni dello strumento possono quindi, rispettivamente essere lette su un display a cristalli liquidi autonomo o su quello del teodolite. Esse consistono, di norma, nel valore della distanza inclinata o proiettata (ridotta) all’orizzontale o al verticale (queste ultime sono legate all’angolo zenitale) e in una serie di informazioni sull’impostazione, il funzionamento, la carica della batteria, ecc.. L’uso è estremamente facile: in entrambi i tipi di apparecchio è sufficiente collimare il punto con il cannocchiale ed avviare l’emissione del segnale. Dopo alcuni secondi (variabili a seconda del tipo e della distanza da misurare) la misura apparirà sul display e dovrà essere solo registrata sul libretto di campagna o direttamente sulla memoria elettronica collegata allo strumento insieme alle altre informazioni relative al punto (nome, angoli azimutale e zenitale). Alcuni accorgimenti dovranno essere adottati per quanto riguarda la lettura dei punti in corrispondenza di angoli e spigoli. Abbiamo già detto che il prisma è costituito da una piramide di cristallo, ma questa è solo l’elemento principale dell’oggetto. In realtà il cristallo è generalmente contenuto dentro una montatura cilindrica in plastica o metallo, a sua volta (nella versione standard) incastrata in una intelaiatura contenente la mira (una placca nera con dei riferimenti triangolari per il corretto puntamento specie da grandi distanze) e fornita di un innesto per il supporto. Esistono anche telai a tre o più prismi che, aumentando la superficie riflettente, consentono delle letture a distanze maggiori (a parità di potenza del distanziometro), ma anche questi in genere si rivelano inutili o sovradimensionati rispetto al nostro uso corrente. Il prisma “canonico” si usa in topografia con un’asta di sostegno, telescopica da circa m. 1,50 a m. 5,00, provvista di punta all’altra estremità e di livella sferica per verificarne la verticalità. Nel caso di punti da battere sul terreno o sulla sommità di manufatti è sufficiente poggiare l’asta in corrispondenza del punto e collimare la mira, avendo cura di centrare il mirino del cannocchiale dapprima sulla punta dell’asta (se visibile) per avere maggiore precisione nella lettura dell’angolo azimutale. Una volta bloccato il cerchio orizzontale sarà sufficiente alzare il cannocchiale per arrivare a traguardare la mira ed eventualmente far correggere dal canneggiatore l’inclinazione (immancabile) dell’asta. Specie nel caso di punti battuti da una distanza ravvicinata potrete notare (guardando nel mirino) quanto sia notevole lo spostamento che subisce l’asta per le oscillazioni indotte dal vento o dalla posizione del canneggiatore. In realtà tali spostamenti influiscono di poco sulla stima della distanza, grazie alla molteplicità delle letture che vengono fatte dal distanziometro. Ovviamente l’angolo zenitale misurato sarà quello relativo alla quota cui si trova il prisma montato sull’asta quindi, per conoscere la vera quota altimetrica (la posizione planimetrica è la stessa, visto che si suppone il prisma posto esattamente sulla verticale) del punto fisico, bisogna annotare tra i vari dati anche quello dell’altezza del prisma. Nel caso in cui questo sia montato, mediante l’apposito supporto, sul secondo cavalletto per l’esecuzione di una poligonale, l’altezza da prendere sarà quella dal picchetto di stazione al segno posto sulla montatura. Dovrebbe essere inutile ricordare, 222
la domus della nicchia a mosaico di ostia antica
infine, la assoluta necessità di misurare, ogni volta che si imposta la stazione, anche l’altezza dello strumento. Le operazioni di lettura si complicano un po' nel caso, tipico, di punti posti sugli spigoli delle strutture murarie, nella nostra domus situati in corrispondenza delle mazzette e dei pilastri. Questa volta, infatti, non sarà possibile porre la punta dell’asta sopra l’elemento da misurare per ovvie ragioni (a parte l’altezza delle pareti vi è la difficoltà concreta di farla coincidere con l’estremità dello spigolo stesso). Dovremo quindi procedere in due fasi distinte: collimare il punto nel mirino e fare le letture degli angoli e, successivamente, far appoggiare dal canneggiatore il telaio del prisma (meglio se privo di asta) con il segno dell’altezza coincidente con il punto collimato, disponendo il telaio secondo una direzione ortogonale a quella di mira (in teoria secondo la tangente del cerchio che ha centro nell’asse del cannocchiale e raggio la distanza effettiva tra questo ed il punto). Se il telaio sarà stato collocato in posizione corretta dovremmo poter vedere nel mirino, ruotando il cannocchiale in direzione del prisma, la mira esattamente centrata. Adesso sarà possibile avviare il distanziometro per la misurazione della distanza (senza trascrivere il nuovo valore dell’angolo orizzonatale) che, pur essendo approssimata (nell’ordine di alcuni millimetri al reale), non dovrebbe essere troppo diversa da quella teorica. Anche se tale variante è poco “ortodossa” rispetto ai principi di funzionamento dello strumento, il metodo qui esposto rappresenta l’unica possibilità concreta di battere questo tipo di punti. In tal modo si procede anche per tutte le situazioni in cui si può solo appoggiare lateralmente il prisma all’oggetto da misurare (punti lungo pareti anche senza soluzione di continuità, rette o curve, su colonne, capitelli, modanature, ecc.). Una complessità maggiore ci è data dagli angoli interni. In questi casi non è possibile in alcun modo misurare direttamente la vera distanza (pur approssimata) del punto, quindi si deve ricorrere a degli espedienti o ad un accessorio che è previsto da tutti i fabbricanti, consistente in un diverso telaio per la montatura del prisma provvisto di una punta disposta ortogonalmente alla faccia di quest’ultimo (parallelamente alla direzione della distanza). Questo attrezzo permette di poggiare la punta direttamente sull’angolo e, quindi di prendere contemporaneamente gli angoli ed il valore della distanza diminuito di una costante (alcuni centimetri) da riportare nella trascrizione di questo dato per tenerne conto in fase di restituzione. Tale costante è data dalla lunghezza dell’attrezzo che allontana il prisma dal punto per permettere di collocarlo in posizione. Chi non volesse affrontare questa spesa dovrà battere due punti per ogni angolo, sulle pareti in prossimità di questo, ed unire le due linee passanti per le estremità delle pareti e per questi ultimi due punti. In realtà, soprattutto in presenza di intonaco (che in corrispondenza degli angoli è spesso irregolare) questa è la procedura più precisa. Un discorso a parte va fatto per quanto riguarda l’uso dei punti per la restituzione dei prospetti. Almeno per le pareti alte sarebbe meglio prenderli tutti alla spessa quota ponendo il cannocchiale in posizione orizzontale. In tal modo si farebbe un’operazione corretta sia per l’impostazione del piano di sezione della pianta (rigorosamente orizzontale), che nella nostra domus taglia alcuni elementi dotati di forti strapiombi, sia per l’utilità che ne trarrebbe la restituzione dei prospetti, mettendoci a disposizione dei riferimenti precisi per collocare le fettucce elastiche orizzontali. Queste buone intenzioni, nella realtà, si scontrano con lo stato di conservazione delle nostre murature le cui cortine, 223
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non di rado, si presentano particolarmente lesionate in corrispondenza degli spigoli. In tal caso si deve scegliere se procedere ad un doppio lavoro con lo strumento (una fase in cui si segnano i riferimenti orizzontali ed un’altra in cui si battono i punti veri e propri, presi dove la struttura è meglio conservata) o se, in fase di rilievo manuale dei prospetti, provvedere ad alzare le verticali di ogni punto alla quota altimetrica effettivamente calcolata. Il nostro rilievo è stato fatto secondo il primo metodo, ritenendolo più consono ai fini del lavoro. La restituzione. Una volta calcolati i punti secondo il metodo informatizzato già descritto, si è quindi proceduto alla digitalizzazione del rilievo mediante il programma di disegno. Avendo battuto praticamente tutti i vertici notevoli della struttura, in questa sede si è anche provveduto ad unire i punti con delle linee che sono state stampate con il plotter assegnando loro uno spessore particolarmente sottile (0.05 mm.) al fine di avere uno schema di base da portare in cantiere che contenesse già una serie di elementi ben riconoscibili. Il nostro lavoro di restituzione sul posto è proseguito quindi con grande facilità. Abbiamo infatti solo dovuto prendere qualche misura di verifica (specie nel caso degli angoli interni del tablinum o delle intersezioni delle pareti) e triangolare i pochi vertici non visibili con lo strumento a causa dalle altre strutture. Le integrazioni con il metodo diretto sono proseguite con l’individuazione dei vari tratti di cortina frutto di vari rifacimenti o restauri antichi (risolti con la semplice misura, lungo gli allineamenti delle pareti, dei punti notevoli da uno degli estremi in modo progressivo) e, infine, con la caratterizzazione delle murature secondo le varie tecniche edilizie adottate. Terminato il disegno della pianta si è iniziato ad impostare quello delle sezioni prospetto. Si è scelto di disegnare quattro sezioni longitudinali e due trasversali, tralasciando le mazzette laterali che formano il tablinum e le due fronti del complesso tabernae-ingresso perché di scarsa rilevanza e prive di elementi architettonici particolari. Abbiamo quindi provveduto a disegnare sulla pianta le tracce dei piani di sezione corrispondenti, avendo cura di disporli in modo da cogliere il più possibile i caratteri peculiari della struttura (spiccati di muri, elementi a terra, vera del pozzo, ecc.). Alcune sezioni, pertanto, sono state impostate “a baionetta” e, più in generale, è stato scelto il criterio di seguire l’andamento delle pareti per disegnarne una specie di sviluppo lineare senza badare troppo al parallelismo tra i vari piani di sezione, visto che le inclinazioni delle varie strutture non erano così accentuate da giustificare una proiezione ortogonale in cui far vedere di scorcio alcuni tratti di parete. Successivamente abbiamo proiettato tutti gli spigoli ed i punti notevoli per la costruzione delle sezioni prospetto, sovrapponendo delle strisce di carta (poliestere) sulla pianta e tracciando innanzitutto l’orizzontale di riferimento in corrispondenza della linea di sezione. Abbiamo poi assegnato a questa una quota altimetrica di base con un valore scelto a priori (perché nel nostro caso non esisteva alcun riferimento altimetrico notevole tipo uno spiccato, un piano di calpestio certo, ecc.) corrispondente all’altezza strumentale di S1, in modo da far coincidere l’orizzontale dei disegni con quella “fisica” battuta sul posto con lo strumento (i punti segnati sui vari vertici della struttura in fase di rilievo di campagna). L’operazione successiva è stata quella di alzare per ogni punto la verticale, segnandone la rappresentazione altimetrica rispetto all’orizzontale e scrivendone, in basso, il codice ed il valore. 224
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Avendo scelto la soluzione grafica di rappresentare, per ogni sezione prospetto, solo le strutture poste in primo piano con la caratterizzazione completa e di evidenziare (nei casi in cui si trovavano sovrapposte) con il solo skyline quelle in secondo piano (in quanto “già viste”), durante l’operazione di proiezione avremo avuto cura di riportare solo le tracce dei punti effettivamente visibili dal piano di proiezione in oggetto. Al fine di evitare di avere dei pezzi di carta troppo lunghi ed ingombranti, abbiamo anche diviso le sezioni prospetto longitudinali in due o più parti da disegnare separatamente in cantiere e da assemblare poi in studio con l’ausilio della pianta prima della lucidatura. Una volta preparato tutto il materiale di base per i prospetti siamo tornati in cantiere per completare la restituzione. Sul posto abbiamo piantato dei chiodi in corrispondenza dei riferimenti orizzontali, tirando poi delle fettucce elastiche che, a questo punto, rappresentavano esattamente (salvo qualche misurazione di verifica) la linea dell’orizzontale tracciata sulla carta. Tratto per tratto, poi, abbiamo teso la fettuccia metrica tra un chiodo e l’altro per iniziare l’opera di caratterizzazione e restituzione di tutti i dettagli non rappresentati dai punti battuti (lacune delle cortine, tracce di intonaco, ecc.). Abbiamo quindi iniziato a disegnare, riportando dapprima tutte le varie altezze (della sommità e degli attacchi a terra) di ogni parete, tanto per cominciare a delimitare il nostro disegno. L’opera è stata poi completata con l’aggiunta dei vari elementi presi con il metodo della coltellazione già descritto nella parte teorica. Per quanto riguarda la caratterizzazione vera e propria delle cortine murarie nei prospetti resi in scala 1:50, ovviamente, non abbiamo disegnato tutto (come faremo invece in fase di lucidatura), limitandoci ad indicare la natura dei materiali e a riportare delle aree campione in scala delle situazioni più particolari (opera incerta, tratti con lacune, ecc.). Abbiamo anche avuto cura, però, di definire con esattezza i perimetri delle zone in cui avvenivano dei cambiamenti di situazione o di materiali, rattoppi di muratura, resti di intonaci o malte di sottofondo con le relative indicazioni scritte sulla natura di tali differenze. Gli elementi rilevati in scala 1:20, invece, sono stati disegnati già completamente caratterizzati secondo il rapporto di riduzione, ad eccezione dei tratti in opera reticolata di cui, vista la sua regolarità e continuità, sono state prese solo le inclinazioni dei filari di cubilia, le dimensioni medie di questi ultimi e le eventuali aree interessate da fenomeni di erosione, lacune, ecc.. In tutte le situazioni situate praticamente a livello del terreno (soglie, pozzo, impluvium, resti di pareti delle tabernae in reticolato, ecc.) il rilievo dei vari elementi è stato realizzato con delle misurazioni locali direttamente dai punti segnati con l’eventuale ausilio della livella, senza tendere la fettuccia elastica dell’orizzontale. Per quanto riguarda il profilo dell’andamento del terreno, trattandosi in questo caso di semplice riporto o di situazioni comunque mutate dall’epoca dello scavo archeologico (1939-1940), non si è badato troppo per sottile prendendo semplicemente le quote estreme di ogni tratto (per esempio tra una soglia e l’altra del tablinum o tra queste e l’impluvium, su cui avevamo battuto dei punti) ed unendole con una linea dall’andamento sinuoso. Se viceversa fossimo stati in presenza di strati archeologici o di manufatti ben individuati (pavimenti, passaggi d’acqua, situazioni di crollo) la sezione corrispondente avrebbe dovuto essere stata molto più dettagliata. Vedi fig. 125. Il lavoro di rilievo si è concluso con la vera del pozzo, che è stata restituita in scala 1:5. La prima operazione è stata il disegno della pianta, realizzata prendendo con l’aiuto della livella posta in verticale le distanze tra il bordo 225
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Fig. 125. Tavola definitiva. Qui a fianco, estremamente ridotta per rientrare nel formato pagina, la riproduzione della tavola definitiva del rilievo della nostra domus. Nelle pagine successive alcuni dettagli dei singoli elaborati.
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Fig. 126. Dettagli della vera del pozzo. La restituzione originale è in scala 1:5, qui notevolmente ridotta per esigenze di stampa. Notare l’associazione della sezione e del prospetto su unico elaborato, come se il nostro pezzo fosse stato un vaso in ceramica
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superiore (dove avevamo battuto i punti) ed i vari spigoli degli elementi costituenti la modanatura. Successivamente sono stati misurati con la triangolazione i tre punti battuti sul bordo e disegnati sulla carta (ricordiamo che gli stessi compaiono sulla base plottata della pianta 1:50 e ci serviranno per collocare ed orientare la riduzione del rilievo al 5) e, trovato e verificato il centro, sono stati tracciati con il compasso le circonferenze corrispondenti alla proiezione degli spigoli visibili. La caratterizzazione dell’anello di base in opera reticolata ha concluso la nostra opera per la pianta. Per quanto riguarda il prospetto e la sezione si è adottato lo stesso criterio grafico convenzionale dei vasi in ceramica (vedi fig. 126), in cui si disegna il prospetto a sinistra e la sezione a destra della linea di mezzeria per cogliere in un’unica rappresentazione la sagoma complessiva, l’aspetto esteriore e il profilo della sezione dello stesso oggetto. Visto che la vera è danneggiata e che la decorazione si sviluppa senza soluzione di continuità, si è scelto di far passare il piano di sezione e quello di proiezione (necessariamente paralleli) secondo una direzione obliqua rispetto all’andamento degli omologhi del resto della domus, avendo deciso di lucidare la pianta sulla tavola secondo l’orientamento originale. L’inclinazione prescelta, infatti, permette di rappresentare la vera senza far vedere le lacune esistenti, irrilevanti per la natura del nostro lavoro. La sezione ed il prospetto non hanno presentato particolari difficoltà: seguendo il metodo già descritto abbiamo costruito uno schema di base con le varie linee orizzontali poste in corrispondenza degli spigoli della modanatura, quindi abbiamo disegnato la sezione tirando dalla pianta le verticali corrispondenti e prendendo sull’oggetto alcune misure per determinare con la coltellazione l’andamento delle parti curvilinee. Una volta tracciato il profilo della sezione (per l’interno abbiamo seguito la stessa procedura) e la linea di mezzeria (passante, ovviamente, per il centro delle circonferenze) abbiamo ribaltato il profilo sull’altro lato ottenendo così la sagoma intera. Avendo effettuato preventivamente delle misurazioni sulla decorazione a palmette per verificarne la regolarità e la simmetria, siamo quindi passati alla caratterizzazione di quest’ultima, disegnandone un modulo sul prospetto a partire dalla linea mediana mediante delle misurazioni locali (altezza e larghezza dei vari elementi). Riportando queste sulla pianta, sulla circonferenza che rappresenta il margine della gola, abbiamo potuto ripetere il modulo per la lunghezza necessaria a coprire l’estensione del prospetto. Questo ci ha permesso, infine, di proiettare correttamente i vari stacchi sul prospetto ottenendo la reale scansione delle decorazioni sulla superficie curva. Un po' di caratterizzazione dei materiali a vista ha fatto il resto. Il montaggio dei vari pezzi in cui sono state divise le sezioni prospetto è avvenuto a tavolino, facendoli coincidere sulla pianta. Per rappresentare fedelmente le parti ridotte al solo skyline sono state fatte delle fotocopie di tali strutture, lucidate per prime, che sono state sovrapposte (secondo la proiezione ricavata sempre dalla pianta) alle parti da caratterizzare per intero. Specie per quanto riguarda la vegetazione ed il profilo del terreno (sommariamente indicati nei cartoni), il pennino ha potuto così seguire un tratto netto, già definito con la china, anziché doversi reinventare una sagoma somigliante a quella delle parti già lucidate.
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L’analisi della struttura. Quella che segue è una breve descrizione dell’analisi tecnica condotta sulla nostra domus, sulla base dei rilievi e dei riscontri effettuati sul posto, al fine di comporre la relativa tavola. La lettura del complesso architettonico è inevitabilmente lacunosa e parziale, sia perché non è stato possibile procedere con il rilievo delle strutture adiacenti (probabilmente pertinenti) a causa del loro stato, sia perché la documentazione di scavo si è dimostrata insufficiente, sia, soprattutto, per i limiti imposti a questo testo, che non permettono di disporre di tutto lo spazio che sarebbe stato necessario. Alcuni degli elementi di riscontro descritti non saranno forse perfettamente comprensibili dal lettore, nella misura in cui i riferimenti allo stato di alcune murature, così come le differenze tra queste o le affinità tra i materiali non sono facilmente documentabili negli elaborati prodotti. Il testo, quindi, va letto esclusivamente solo come una traccia di metodo da seguire. Il nostro lavoro è iniziato dalle piante di fase, nelle quali sono state evidenziate la probabile organizzazione originaria della domus repubblicana con i vari ambienti. Nel formulare le varie ipotesi si è tenuto conto di una serie di fattori: la disposizione dei muri ed i loro allineamenti, le tecniche murarie e la loro datazione, i riscontri oggettivi forniti dai diversi tipi di ammorsature o dalla loro assenza nelle intersezioni tra le pareti. Il muro più antico rimasto è quello che divide la nostra domus da quella adiacente di Giove Fulminatore, di pochi anni precedente, realizzato in opera incerta. I tratti iniziale e finale di questo, che attualmente presentano il paramento in laterizi, dovrebbero appartenere alla stessa fase ed il loro aspetto attuale dovrebbe essere opera di rifacimenti posteriori della sola cortina, visto che mantengono all’incirca lo stesso allineamento. Le intersezioni di questa parete con quelle trasversali (fondo della taberna destra in opera reticolata, setto in tufo dell’atrio, setti formanti il tablinum, parete nei pressi del pozzo) sono tutte caratterizzate dall’essere state realizzate in tempi successivi, in quanto si nota sempre con chiarezza la sovrapposizione delle nuove murature alla parete laterale, che appare intatta (o quasi) in corrispondenza delle lacune. Nel caso dei setti del tablinum si vede addirittura l’intonaco originario della parete. Il muro che chiude la domus sul fondo, originariamente realizzato tutto in opera reticolata, dovrebbe appartenere anch’esso alla fase originaria. Tale affermazione è supportata dal tipo di tecnica usata e dal fatto che sul retro le strutture (anch’esse in reticolato) pertinenti ad un’altra domus sono tutte ammorsate con la nostra. Questo significa che la parete di fondo delimitava l’originario perimetro del lotto su cui è stata edificata la nostra. La sistemazione architettonica della parete con la nicchia e le lesene in laterizio è invece opera più recente come si può facilmente notare, anche in questo caso, nei punti di attacco tra i cubilia ed i mattoni. Per la precisione questi ultimi sono semplicemente appoggiati ai primi salvo che nella nicchia vera e propria, la cui cavità è stata scavata nel paramento in tufo. La nicchia e le lesene sono state collocate al centro della parete anche se questo non corrispondeva con l’asse longitudinale fauces-impluvium-pozzo. Qualche incertezza, invece, si trova nella parete laterale sinistra. Mentre il tratto finale, realizzato in blocchetti di tufo di piccole dimensioni, è ben ammorsato con la parete di fondo (è anche posto in continuità con la risega che forma quest’ultima nel proseguire nell’ambiente adiacente), quindi sicuramente 229
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Fig. 127. Pianta.
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Fig. 128. Piante di fase. In questa figura si può seguire, per quanto ci è dato sapere, la sequenza di fasi costruttive che hanno portato allo stato di fatto attuale, proposta secondo il metodo sequenziale, con una pianta per ogni fase. Confrontate con la figura 117, in cui le fasi sono state evidenziate secondo la consueta tecnica delle campiture diverse.
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coevo, la restante parte presenta non pochi problemi di interpretazione. In parte le difficoltà nascono anche dall’impossibilità incontrata a rilevare gli ambienti adiacenti (a causa della fitta vegetazione che ne ricopriva le murature e del degrado in cui queste versavano), che avrebbero sicuramente dato degli indizi maggiori. Questa parete è composta da diversi elementi. Partendo dal fondo, dopo quello in tufo, si trovano due tratti in laterizio realizzati in fasi diverse: il primo si appoggia al tufo e termina, almeno nella parte inferiore, con uno spigolo netto, che si ritrova anche sulla faccia opposta; il secondo, appoggiato a quest’ultimo, finisce in modo più irregolare su entrambe le facce. Di seguito si trova un tratto in opera vittata, realizzato con un piano di spiccato posto ad una quota superiore rispetto ai precedenti (nei quali non è visibile) e con l’estremità demolita. Dopo un varco di circa m. 1,50 si trova un breve tratto in laterizio che presenta diverse particolarità: mentre la parte inferiore ha gli spigoli realizzati in modo normale, quella superiore aggetta sulla precedente ed è stata successivamente demolita, anche se non compare traccia di strutture orizzontali (piattabande o elementi lignei) di sostegno. Il fatto che l’altezza degli spigoli di questa parete corrisponda all’incirca a quella del primo tratto in laterizio potrebbe far pensare ad una contemporaneità tra i due elementi, mentre la stranezza della realizzazione potrebbe essere frutto di un ripensamento in corso d’opera. Resta il fatto che tra questi due spigoli non poteva certo esserci un vano unico, vista la loro distanza (m. 4,20 circa) e l’altezza che avrebbe richiesto un arco (seppur ribassato) di tale luce, spropositata per una struttura di questo tipo. Segue un altro tratto in laterizio, contenuto entro due pilastri in blocchi di tufo simili a quelli posti nell’atrio alla fine delle fauces. La presenza di questi elementi (se ne trova un altro all’estremità del tratto seguente, posto ad una distanza tipica per una porta) farebbe pensare ad una loro appartenenza alla fase iniziale della domus (il tufo è simile a quello che si ritrova nelle altre strutture) ed al rifacimento della cortina in laterizio in sostituzione di altra precedente. Tale interrogativo (al pari di molti altri) non è stato risolto dalla consultazione della documentazione di scavo, che non contiene alcun dato utile per le nostre indagini. La parete termina, nel suo stato attuale, contro il ninfeo degli Eroti con un tratto molto degradato, al punto da dover essere stato puntellato con una struttura in legno abbastanza recente. Sul fronte strada della domus si trovavano le fauces e due tabernae delimitate dalle pareti laterali e da due setti in opera reticolata, contenuta dai soliti pilastri in tufo. Quello posto a destra, all’esterno, era dotato di una scanalatura verticale corrispondente al battente della soglia e, quindi, forse associata al sistema di chiusura. La taberna di sinistra conserva ancora la soglia sulla strada, del tipo a battente, ed ha anche un’insolita apertura dall’ingresso della domus. Entrambi gli ambienti erano delimitati da pareti sottili (circa 30 centimetri) in reticolato, cui seguono a breve distanza due elementi realizzati con la stessa tecnica, sormontati da soglie in travertino attualmente fuori sede e poste ad un’altezza che ne fa supporre una funzione di tipo esclusivamente decorativo (circa 15 - 20 centimetri dal calpestio del mosaico posto davanti alla soglia dell’ingresso). All’incirca al centro dell’atrio, in asse con le fauces, si trova la vasca dell’impluvium, realizzata con lastre di marmo e pavimentata a mosaico. Le dimensioni di questo ambiente farebbero escludere un piano superiore praticabile, a meno di notevoli strutture di sostegno (lignee o murarie), quindi la sua tipologia dovrebbe essere tuscanica. La presenza dei resti di due basi (la 232
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Fig. 129. Sezione A-A’. Viste le ridotte dimensioni consentite dal formato pagina, si è riprodotto anche un dettaglio a scala maggiore. Nella didascalia la dicitura “rapp. 1:50” è riferita alla tavola originale. Tali impostazioni valgono anche per le altre sezioni nelle pagine seguenti.
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prima in marmo, l’altra in muratura) nei pressi della vasca (di cui non è stato trovato riscontro sul lato opposto) potrebbe spiegarsi come elementi terminali di sottili tramezzature in legno che suddividevano l’ambiente in una serie di cellette. Il tablinum era delimitato da pareti in laterizio dalla geometria incerta (i setti trasversali non sono ben allineati), che dovrebbero risalire al II secolo d.C.. La decorazione dell’intonaco dipinto che si è conservato sulla parete di destra, infatti, avrebbe uno stile ricollegabile a tale periodo, al pari del mosaico che ne decora il pavimento. I setti che partono dalla parete in opera incerta sono palesemente appoggiati a quest’ultima e le soglie che li uniscono agli omologhi sono di tipo liscio quella verso l’atrio e a battente quella opposta. Con tutta probabilità quest’ultima apriva l’ambiente verso l’originario orto che si trovava in fondo alla domus. Le tracce di fori di cardine visibili su questo lato denunciano chiaramente la presenza di infissi apribili verso l’esterno, almeno nella parte sinistra (l’altra dovrebbe essere stata chiusa da elementi lignei fissi). La documentazione di scavo non ci ha fornito elementi utili a comprendere se le pareti del tablinum siano state edificate su precedenti elementi o se realizzate ex novo. Il pozzo si trova in asse con il tablinum e le fauces ma la sua realizzazione dovrebbe essere più tarda, vista la tecnica (laterizi) con cui è stato rivestito l’interno. Il suo diametro è talmente ridotto (meno di 45 centimetri) da far escludere eventuali rifacimenti posteriori in un ambiente così angusto. Fin qui, all’incirca, l’impianto della domus fino al II secolo (vedi piante di fase I e II, figura 128). La struttura presentava ancora una certa regolarità geometrica e funzionale e rispettava la tipologia, seppur poco consueta, delle domus repubblicane a pianta allungata. Le successive trasformazioni, invece, hanno stravolto tutta la parte posteriore. Nella zona dell’orto, infatti, sono stati realizzati due ambienti all’incirca simmetrici, con delle pareti addossate a quella di fondo ed a quelle laterali. Mentre quello di sinistra riprende all’incirca l’allineamento delle mazzette che delimitavano il tablinum, quello di destra ne ha mutato profondamente la prospettiva dell’apertura posteriore, occludendone gran parte rispetto alla visione assiale ed alla stesso varco realizzato con gli infissi apribili. Si è cioè privilegiata la simmetria della parete di fondo con la nicchia (pur avendone mutato profondamente la sistemazione architettonica nascondendo le lesene con i due setti ortogonali) rispetto all’asse longitudinale. Gli elementi che ci fanno supporre una operazione contestuale sono i seguenti. I due setti perpendicolari alla parete di fondo, simmetrici rispetto al complesso nicchia-lesene, sono stati realizzati insieme con tecnica simile, lasciando sulla parete in reticolato occupata dal loro spessore perfino delle tracce del vecchio intonaco. Oltre alla simmetria assiale con la nicchia, i setti scandiscono anche lo spazio immediatamente prospiciente in tre parti uguali di circa m. 2,55 misurati al netto degli spessori. Tale suddivisione regolare, tuttavia, si perde all’altra estremità degli ambienti, dove si trovano delle misure assolutamente diverse ed apparentemente casuali. Il setto di sinistra presenta, nella parte inferiore, dei filari di laterizi diversi (forse di recupero) da quelli superiori e dall’altro setto, ma uguali a quelli con cui è stato costruito il pilastro. La realizzazione abbastanza sommaria dei vari elementi (gli allineamenti sono parecchio irregolari e, anche se nel complesso tutte le strutture sono state interessate da fenomeni di cedimento delle fondazioni, quelle relative a questa zona si presentano particolarmente vistose) farebbe ulteriormente pensare ad un intervento unitario. 234
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Fig. 130. Sezione B-B’.
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manuale di rilievo e documentazione grafica
L’ambiente di destra risulta più regolare e di lettura più chiara, essendo stato organizzato come semplice suddivisione dello spazio aperto dell’orto, con due aperture praticamente simmetriche rispetto all’affaccio esterno (le mazzette ed il setto centrale sono di circa 90 centimetri e le aperture di circa 170), di cui la prima in asse con il pozzo. Da sottolineare la presenza, sulla parete posta davanti al tablinum, di un archetto di scarico che denuncerebbe un passaggio d’acqua, forse connesso al pozzo o alla presenza di una latrina privata in questo ambiente. Quest’ultima parete è stata oggetto anche di rifacimenti: il tratto sinistro che termina contro quella laterale (oggi conservato solo per alcuni filari, peraltro di restauro) infatti, è chiaramente appoggiato anche a quello destro, visibile per un’altezza maggiore e che, a sua volta, è stato chiaramente demolito. Questa successione di rifacimenti sulla stessa traccia (le due parti sono perfettamente allineate) potrebbe essere stata resa necessaria da problemi di carattere statico, visto che l’ambiente era già sufficientemente dotato di aperture. L’ambiente di sinistra, invece, è completamente diverso sia nell’impianto che nella funzione. Il setto centrale è più grande di quello omologo e disposto diversamente, il pilastro terminale si trova in una posizione anomala rispetto allo stato attuale della parete perimetrale, praticamente davanti al varco esistente tra il tratto demolito (più tardo) in opera vittata e quello in laterizio. Forse all’epoca della costruzione del pilastro la parete era completamente chiusa da una muratura simile al tratto finale (si diceva prima, rispetto agli spigoli visibili nella parte inferiore, che si poteva trattare di ripensamenti in corso d’opera), poi sostituita da quella in opera vittata e, in una ulteriore fase, demolita. La posizione del pilastro potrebbe avere un nesso con la presenza della scala di cui si scorgono le tracce sui due setti adiacenti che si notano all’interno dell’ambiente, ma anche questa opera appartiene a fasi posteriori ed altrettanto confuse. La scala era sicuramente in legno, vista l’assenza della volta di sostegno, e la sua realizzazione dovrebbe essere posteriore a quella dell’ambiente stesso nella misura in cui gli incassi per i gradini sono stati scavati nei setti che la contenevano. Anche il muretto trasversale (il cui paramento è diverso sulle due facce, laterizi e tufelli) è più tardo rispetto alla sistemazione di quest’area. Questo elemento di collegamento verticale denuncia con chiarezza la presenza di un piano superiore, con tutta probabilità edificato in un secondo momento, la cui estensione dovrebbe essere stata limitata (almeno nella parte della domus oggetto del nostro lavoro) alla zona dell’ex orto. Il tablinum, infatti, era un ambiente troppo esteso (circa m. 6,50 in senso trasversale e 5,50 nell’altro) per essere coperto con un solaio praticabile, la cui orditura sarebbe stata difficoltosa in entrambi i sensi: troppa luce trasversale su dei buoni appoggi (due pareti continue) e due archi per una luce longitudinale accettabile. Lo stesso spessore della parete longitudinale non avrebbe sostenuto il peso di una volta, di cui peraltro non si vede traccia né sulle pareti (nonostante la considerevole altezza conservata) né a terra in situazione di crollo. Con tutta probabilità quindi la scala dovrebbe aver servito una porzione di edificio che si estendeva anche nella zona adiacente, dietro il ninfeo degli Eroti, visto che la sua realizzazione ha determinato la riduzione dell’ambiente di sinistra (quale sia stata la funzione originaria) a sottoscala poco illuminato e poco sfruttabile per altri fini, con un angusto passaggio tra la scala e la parete perimetrale. Lo stesso piano superiore, se fosse stato limitato alla sola area dell’ex orto, sarebbe risultato troppo poco fruibile, nella misura in cui la posizione della rampa, tutt’altro che periferica, ne avrebbe ridotto la superficie utile di una buona percentuale. 236
la domus della nicchia a mosaico di ostia antica
Fig. 131. Sezione C-C’.
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manuale di rilievo e documentazione grafica
Fig. 132. Sezione D-D’.
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la domus della nicchia a mosaico di ostia antica
Fig. 133. Sezioni E-E’, F-F’. La prima è stata restituita in scala 1:50, la seconda in scala 1:20. Notare la differenza di dettaglio (pur ridotte alle stesse dimensioni).
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manuale di rilievo e documentazione grafica
Fig. 134. Dettaglio sezione F-F’.
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La cartografia tematica
Si intende qui per cartografia tematica una rappresentazione del territorio finalizzata all’evidenziazione di un dato tema, nel nostro caso, architettonico o archeologico. Detto in poche parole, si tratta di integrare dei dati cartografici su una certa estensione territoriale, rappresentati in un determinato rapporto di riduzione, con dei dati specifici di un aspetto particolare, che si vuole mettere in evidenza rispetto al contesto. Detta così sembra un ambito di lavoro strettamente attinente più alla grafica che al rilievo, ma non è così. Innanzitutto una panoramica sulle possibilità di realizzazione. Fino all’avvento della cosiddetta computer grafica, questo tipo di lavoro veniva condotto tutto a mano, disegnando le evidenze su delle copie radex (su carta lucida o poliestere) di basi cartografiche preparate in precedenza. A seconda che queste fossero di tipo catastale o geografico (aerofotogrammetrico, IGM, ecc.) si provvedeva a montare insieme i vari fogli riportati su carta lucida: o fisicamente (nel senso di unirli mediante ritagli e scotch) oppure rilucidandoli a mano su un nuovo foglio. Su questa base venivano poi disegnate le varie evidenze, apposti la legenda ed il cartiglio, la scala grafica, ecc., fino alla realizzazione della tavola completa. In questo capitolo, invece, affronteremo le problematiche della produzione di carte tematiche mediante l’impiego del calcolatore, dando una breve panoramica delle varie possibilità offerte dall’impiego di tale mezzo. Viste le enormi potenzialità e la velocità di aggiornamento dei vari programmi applicativi, che rischierebbero di far diventare obsolete queste righe ancor prima di andare in stampa, più che l’esposizione diretta di uno o più metodi di realizzazione, credo sia meglio fornire delle indicazioni di massima sui criteri da seguire, lasciando a chi legge l’onere di scegliere le modalità operative, il programma da impiegare e la sequenza di operazioni da impostare per affrontare un progetto che, inevitabilmente, avrà delle caratteristiche specifiche. La carta archeologica. Avendo comunque la necessità di scendere più nel concreto, vorrei portare un esempio che, a mio avviso (rimanendo nell’ambito del carattere di questa pubblicazione), comprende una notevole serie di problematiche relative alla cartografia tematica: la realizzazione di una carta archeologica. Questo tipo di lavoro nasce dall’esigenza di riassumere in un unico elaborato (o una serie) tutte le conoscenze acquisite in una data area geografica per le più svariate applicazioni: emettere provvedimenti di tutela (vincoli), esprimere pareri ed effettuare confronti su strumenti urbanistici o territoriali, elaborare studi topografici (in senso archeologico, intesi come studio del territorio antico), comprendere e ricercare collegamenti viari e logistici, confrontare fonti storiche e toponomastiche, ecc. Spesso il territorio considerato è caratterizzato da notevoli presenze di complessi di strutture con spiccate funzionalità oltre ad una serie di aree in cui, da ricognizioni di superficie, è stata desunta la presenza di strutture o zone di frequentazione.
manuale di rilievo e documentazione grafica
Oltre a tali evidenze, talvolta messe in luce da scavi anche di notevole impegno, altre testimonianze possono essere fornite dalle indagini condotte in occasione della realizzazione di opere di urbanizzazione a rete (trincee Enel, Italgas, fognature, ecc.). Solo una parte delle strutture riportate sulla carta, quindi, è effettivamente visibile o accessibile, sia per essere state reinterrate o distrutte che per l’obliterazione dovuta alla mancanza di restauri o di manutenzione delle relative aree. I dati scientifici, pertanto, quasi sempre consistono in disegni di archivio con riferimenti cartografici (spesso) catastali e, talvolta, con dettagli a scale maggiori. Il primo problema che si pone (e la prima risposta al quesito di cosa condivide la cartografia tematica con il rilievo) è in quale modo aggregare i dati, e tale scelta è legata anche alla quantità di fondi assegnati al progetto. Il modo più semplice, sbrigativo ed economico è quello di fare fede sui singoli posizionamenti topografici effettuati all’epoca del rinvenimento delle singole strutture e di montare queste sulla base topografica prescelta sulla base del loro contesto, operando degli aggiustamenti se le due basi non coincidono (ad esempio: differenze di scala o di aggiornamento, catastale su fotogrammetrico, ecc.). Questo metodo, che teoricamente sembra accettabile, nella fase di realizzazione spesso si scontra con la realtà dell’approssimazione con cui si è lavorato per anni negli studi o negli uffici tecnici delle soprintendenze, quando si lavorava solo con la carta lucida. Le basi cartografiche, infatti, spesso venivano ricalcate a mano e/o copiate su lucido con procedimenti fotostatici o eliografici, che producevano inevitabilmente notevoli deformazioni sui disegni. Finché la struttura oggetto dell’elaborato rimaneva circoscritta al proprio contesto topografico non se ne accorgeva nessuno, ma se qualcuno provasse ad approssimare il dettaglio al contesto più allargato si troverebbe di fronte a notevoli incongruenze. Il problema, ovviamente, riguarda in modo particolare le strutture (di cui si vorrebbe ricostruire l’esatto contesto geografico) perché, nel caso di semplici aree, chiunque si accontenterebbe di approssimazioni molto più spinte. Un altro metodo per aggregare coerentemente i dati di archivio (se questi esistono ancora fisicamente, sono visibili ed accessibili) è quello di procedere al loro posizionamento topografico ex novo, con l’ausilio di uno strumento ottico, secondo una serie di opzioni. Senza pensare a ripetere il rilievo di dettaglio di tutte le strutture (il che travalicherebbe dall’ambito di una semplice collazione di dati), è sufficiente riposizionare alcuni vertici significativi per ogni gruppo di queste, collegandoli o al contesto topografico (spigoli di fabbricati o altri manufatti che compaiono sulla cartografia), o con coordinate geografiche (vertici catastali o IGM, mediante GPS o poligonali), o tra di loro (ovvero tra complessi di strutture, mediante GPS o poligonali) ed il contesto urbanizzato che è possibile ritrovare sulla base cartografica. Una volta posizionati dei vertici “certi” per ogni gruppo di strutture è possibile, oltre alla loro georeferenziazione, anche provvedere a scalare le dimensioni del rilievo di dettaglio sulla carta (che eventualmente fosse stato oggetto di deformazioni a causa della copiatura) a quelle effettivamente misurate con lo strumento. La scelta del tipo di operazione di collegamento topografico sarà motivata (e vincolata) da una serie di fattori, primo dei quali quello economico. Dovendo, infatti, impegnarsi in un lavoro che va ben oltre la redazione di una serie di elaborati esclusivamente grafici, la complessità di questo e della strumentazione necessaria ha il suo peso. Altro fattore di valutazione è la quantità e la 242
la cartografia tematica
collocazione topografica dei vari gruppi di strutture da “assemblare”. Se questi fossero sufficientemente vicini (sempre pensando ad un ambito territoriale) e di facile collegamento varrebbe la pena di allacciarli tutti alla stessa poligonale, viceversa sarà sufficiente collegare i singoli pezzi alla maglia geodetica e stabilire le rispettive collocazioni in base alla cartografia. La base cartografica. Per quanto riguarda la base cartografica occorre innanzitutto ricordare che questo tipo di incarichi vengono affidati da una struttura (anche se di vario genere) pubblica: soprintendenze, dipartimenti universitari, amministrazioni locali. Si possono verificare due situazioni: la committenza è già in possesso (o ne ha la disponibilità, tramite altri enti) di elaborati grafici digitalizzati oppure no, ovvero occorre partire proprio dall’acquisizione delle basi cartografiche. Altro elemento di discrimine, nella definizione della mole di lavoro da affrontare (e degli obiettivi del progetto), è il tipo di base che si intende (o si può) realizzare: vettoriale o raster. La prima rappresenta la base ideale: gli elementi cartografici in formato vettoriale possono essere facilmente modificati e gestiti insieme con i dati scientifici e, per qualunque tipo di elaborato definitivo (stampato su carta o solo digitale), si ha la massima libertà di scelta per quanto riguarda colori, aspetto, dimensione dei caratteri, rapporto di riduzione, ecc.. Vista la quantità veramente notevole di lavoro per vettorializzare la cartografia, occorre reperire quello che esiste sul territorio o che rientra nella disponibilità della committenza (eventuali suoi rapporti con gli enti locali) perché non è pensabile dover fare anche la digitalizzazione della base. L’uso di una base cartografica raster, invece, è relativamente più semplice per quanto riguarda l’acquisizione ma comporta delle complicazioni nella realizzazione degli elaborati. Per quanto riguarda l’acquisizione (a meno che non vengano forniti già i relativi file in formato .TIF o .JPG) delle carte è sufficiente procedere a fare delle scansioni degli originali (meglio evitare le copie, per i noti problemi di dilatazione e deformazione) e all’eventuale montaggio e/o sovrapposizione. Il problema dell’impiego di una base raster nasce con la realizzazione degli elaborati definitivi in quanto, come è noto, in ambiente CAD non è possibile modificare i raster (solo il colore, gestibile attraverso quello del layer cui appartiene l’immagine) salvo qualche operazione di ritaglio, scalatura e spostamento, ovvero non è possibile (a meno di passare prima la scansione su un programma di fotoritocco) modificare gli spessori delle linee, i caratteri delle scritte, suddividere gli elementi mediante layer. Questo fatto, ad esempio, condiziona pesantemente la scelta della scala di stampa del lavoro (non solo su carta ma anche in digitale) in quanto le linee raster, se ingrandite, crescono proporzionalmente diventando troppo evidenti oppure le scritte, se la carta viene ridotta, diventano illeggibili. Diciamo che l’impiego della cartografia in formato raster non crea problemi se non ci si discosta troppo dalla scala in cui sono disegnati gli originali. Un altro elemento distintivo della base cartografica è la sua georeferenziazione, ovvero se, come file CAD (comprendente tutta la carta in formato vettoriale oppure le sole immagini raster, eventualmente montate) le coordinate del disegno sono effettivamente quelle reali, geografiche (indicate ai margini della carta), oppure no. Negli ultimi anni molte amministrazioni locali hanno provveduto ad aggiornare la cartografia su base digitale, nella misura in cui ha proceduto l’informatizzazione delle pratiche edilizie e catastali, per cui non dovrebbe essere difficile reperire (per il vostro committente) fogli catastali 243
manuale di rilievo e documentazione grafica
Fig. 135. Base cartografica A lato alcuni esempi di basi cartografiche della stessa area, stampate a scale diverse (1:2000, 1:500). In alto la base è un file vettoriale che non risente delle riduzioni in scala (salvo i caratteri, che possono essere editati) e consente di gestire gli spessori delle linee in fase di stampa (in questo caso si è scelto di ignorare tale opzone e stampare tutto con la medesima penna). In basso la stessa base acquisita come raster da un originale cartaceo. Notate le differenze.
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la cartografia tematica
in formato vettoriale, AFG scansionati e georeferenziati o addirittura nuovi voli restituiti direttamente su CAD. Le tipologie della base cartografica sono essenzialmente quella catastale oppure quella fotogrammetrica (o IGM) e non di rado le elaborazioni di carte tematiche prendono in considerazione entrambe. Tale scelta è motivata da una serie di fattori: mentre il dato geografico “puro”, su cartografia aerofotogrammetrica, ha maggiore valore e potenzialità di elaborazione dal punto di vista scientifico, quello su catastale trova una serie di applicazioni dal punto di vista amministrativo (in caso di interventi di tutela, occupazioni temporanee, richieste di pareri, accertamenti di pertinenze, ecc.) cui un ente pubblico è tenuto a rispondere sull’unico strumento che la normativa riconosce valido. Cominciamo a vedere nel dettaglio l’impostazione della base cartografica. Soprattutto se si lavora su carte georeferenziate, ma anche negli altri casi, la prima cosa di cui preoccuparsi è la realizzazione di tutti i montaggi, se necessari, e dell’eventuale sovrapposizione tra base catastale e base AFG. Se si hanno a disposizione dei file già georeferenziati l’operazione è (teoricamente) semplicissima: è sufficiente montare i vari disegni, ad esempio usando il comando di riferimento esterno (“xref” in Autocad), dando come punto di inserimento le coordinate 0,0,0 e tutto andrà direttamente al suo posto. Se i file sono dei semplici raster da originale cartaceo il montaggio è più laborioso, sia perché occorre ritagliare tutto ciò che è fuori dalla cornice del disegno, sia perché bisogna riportare le dimensioni vettoriali delle varie immagini ai loro valori reali (per poter poi lavorare con i dati scientifici in dimensioni reali, generalmente usando il metro come unità di misura), sia perché, inevitabilmente, bisognerà fare degli aggiustamenti. Il problema principale, tuttavia, è un altro. Per quanto possa sembrare strano, andando a sovrapporre diversi tipi di basi cartografiche (AFG raster su AFG vettoriale o su catastale, anche se vettorializzato e georeferenziato, ecc.) quasi mai i disegni “torneranno” uno sull’altro, e quindi si dovranno fare delle scelte di priorità per quale elaborato tenere fisso e quale altro occorrerà adattare. A volte mi è capitato di dover sovrapporre diversi fogli aerofotogrammetrici a scale diverse, prodotte dalla stessa società, e di trovare discordanze anche notevoli. A mio avviso, per evitare sorprese spiacevoli in seguito, è meglio far presente subito tali problemi con i nostri referenti e scegliere insieme dei criteri operativi. In linea di massima è meglio affidarsi all’elaborato più recente (in termini di aggiornamento), specie se è stato georeferenziato da qualche società specializzata in geodesia, ed adattare gli altri in funzione di questo. L’acquisizione dei dati. Messa a registro la base cartografica, occorre cominciare ad acquisire i dati scientifici a partire da quelli reperibili in archivio, in originale o in copia. Altri dati possono venire da eventuali pubblicazioni o materiali iconografici (foto di dipinti, immagini storiche, ecc.), oppure da documentazione grafica specifica prodotta di recente per la committenza in altri contesti (studi scientifici puntuali, interventi di scavo o restauro, schedature, ecc.). Ovviamente i dati vanno acquisiti tenendoli ben distinti a seconda del tipo di fonte, e mantenendo tale classificazione anche sugli elaborati finali. In linea di massima, dunque, i dati saranno su supporto cartaceo e dovranno essere acquisiti mediante scansione. 245
manuale di rilievo e documentazione grafica
Le ricerche di archivio, generalmente, producono una gran mole di disegni, restituiti a scale diverse, aventi (quando presente) come unica caratteristica comune il riferimento cartografico su base catastale. L’elaborato “tipo”, pertanto, è generalmente composto da una pianta di dettaglio in scala 1:100 o 1:50 comprendente le sole strutture, ed una cartina con uno stralcio di foglio catastale in scala 1:2000, spesso ottenuto rilucidando un ingrandimento dei fogli catastali 1:4000 dell’area e la riduzione delle strutture oggetto del rilievo. Talvolta, in luogo della piantina su base catastale, si trovano semplici riferimenti didascalici ad allineamenti stradali o di edifici notevoli, distanze da punti noti, ecc., frutto della diversa mentalità presente nel settore diversi anni fa, quando la documentazione grafica era quasi un optional o, comunque, affrontata in modo (e con mezzi) molto meno rigoroso. Da tutta questa miscellanea di dati occorre ricavare dei disegni puliti, composti con regole omogenee (ad esempio assegnando stessi layer ad elementi affini, stesse unità di misura, stessi font ed altezza caratteri per le didascalie, ecc.), digitalizzati su base vettoriale. Nel caso in cui si hanno diverse scale di restituzione della stessa struttura (ad esempio 1:100 ed 1:500 per il posizionamento) è sempre meglio partire dal disegno più dettagliato, da inserire successivamente nel contesto più ampio. Per quanto riguarda le dimensioni reali della struttura da digitalizzare (le scansioni hanno delle dimensioni “fisiche” riferite solo a quelle dell’originale cartaceo) è molto più affidabile scalare il disegno facendo fede sulla scala grafica (se è presente) piuttosto che sul rapporto di riduzione indicato in didascalia. Specie nel caso di strutture archeologiche, spesso il posizionamento è stato fatto sul foglio catastale (e qui torna utile usare questa base, anche se non dovesse apparire sugli elaborati finali). Se mancasse la scala grafica, per avere un riscontro delle dimensioni reali si possono anche usare quelle delle particelle circostanti. Come dicevamo prima, oltre a strutture vere e proprie (o complessi di queste) in una carta tematica (non necessariamente archeologica) possono essere ricompresi altri elementi territoriali, espressi in forma di aree o di elementi puntuali. Mentre per le prime non occorre fare altro che delimitarne il perimetro (riempiendolo poi con una campitura definita in base ad una legenda da stabilire con la direzione scientifica), spesso gli elementi più minuti non risultano poi visibili nel contesto della carta, per cui dovranno essere localizzati precisamente con un semplice punto e, quindi, evidenziati sugli elaborati finali con un simbolo di dimensioni adeguate. Un principio secondo me vitale in questo genere di lavori è quello di avere, almeno nelle prime fasi, i dati di il più possibile disaggregati (anche se, come abbiamo detto, con caratteristiche omogenee da impostare fin dall’inizio), sia per motivi “logistici” che per lasciarsi la massima libertà di elaborazione nelle fasi definitive. Anche se i computer sono diventati sempre più veloci e capaci di memorizzare (e gestire) una mole impressionante di byte, credo sia più semplice se possiamo limitare la dimensione dei file su cui lavoriamo, specie tenendone parecchi aperti in contemporanea. Nello scegliere i criteri di acquisizione dei dati, quindi, secondo me è preferibile assegnare ad ogni gruppo omogeneo di strutture un singolo file (generandone anche un gran numero), piuttosto che scrivere file grandi decine di megabyte mettendoci dentro tutto. Per quanto riguarda la possibilità di gestire, integrare e montare i file contenenti i dati, la strada più semplice è quella di disegnarli già georefenziati sulla base 246
la cartografia tematica
cartografica che abbiamo già preparato, acquisendo però questa all’interno dei file come riferimento esterno. Mi spiego meglio: se noi apriamo un nuovo file ed inseriamo subito il riferimento della cartografia, possiamo posizionare (sovrapponendola) l’immagine raster da digitalizzare nel contesto topografico (cioè “georeferenziamo” la nostra immagine, attribuendole dimensioni, posizione ed orientamento secondo le coordinate geografiche della cartografia adottata). A questo punto possiamo cominciare il lavoro di vettorializzazione dei nostri dati, “spegnendo” la base cartografica (staccando il riferimento dal disegno, spegnendone i layer o semplicemente disattivandola, lasciandoci la possibilità di rivederla successivamente) e visualizzando solo il raster con i nostri dati. In tal modo il nostro disegno conterrà solo i pochi byte delle linee che avremo tracciato (nell’ordine, in media, di poche decine di Kb) e dei riferimenti dell’immagine raster (che, a sua volta, può essere disattivata o ricaricata, oppure spento il layer che la contiene) e della cartografia, ma sarà fornito delle giuste coordinate per le sue dimensioni e posizione rispetto al contesto. Nel caso si debbano semplicemente georeferenziare dei file (solo) vettoriali già acquisiti, di cui si posseggono i riferimenti cartografici, è sufficiente eseguire la procedura già descritta sopra ed inserire il file come blocco (in modo che tutte le operazioni di scalatura e sovrapposizione alla base cartografica siano più semplici ed immediate). Prima di iniziare il lavoro di vettorializzazione è meglio impostare (sempre per il principio della disaggregazione delle informazioni) la lista della tipologia dei dati, cui assegnare layer distinti (salvo, poi, farli confluire in categorie più estese). Tanto per fare alcuni esempi: aree sottoposte a vincolo o provvedimenti di tutela, aree notevoli non tutelate, strutture fisicamente visibili, strutture non visibili (reinterrate, obliterate, individuate dalla bibliografia, ecc.), viabilità antica, presenze erratiche di materiali. Un altro aspetto interessante di questo ambito di lavoro è rappresentato dalla ricerca di cartografia storica e dal tentativo di trasposizione di questa su quella moderna. Le fonti storiche sono essenzialmente reperibili in biblioteche e archivi pubblici o privati (l’accesso a questi ultimi è in genere subordinato alla motivazione della ricerca da parte di una struttura pubblica, come nel nostro caso), e consistono o in vere e proprie mappe o fogli isolati, oppure in immagini tratte da antiche raccolte o pubblicazioni. Trattandosi di materiali antichi quasi mai è consentita la riproduzione “normale” (fotostatica o scansione) ma occorre richiedere le riproduzioni fotografiche effettuate dalla struttura stessa o i file delle scansioni già digitalizzate. Alcuni archivi mettono a disposizione i loro archivi informatizzati anche su sito web, facilitando in tal modo la ricerca. Esempi tipici di cartografia storica sono le antiche carte topografiche in cui sono visibili intere parti di territorio oppure aree urbane prima delle grandi trasformazioni che si sono verificate tra la fine dell’ottocento ed il dopoguerra. Altre fonti importanti, sia per l’aspetto topografico che per quello toponomastico, sono i catasti storici che si sono succeduti nel tempo a seconda dell’amministrazione che ha subito il territorio, specie prima dell’unità d’Italia. Per quanto riguarda la trasposizione dei dati cartografici (che, normalmente, può essere realizzata sovrapponendo le due basi –attuale e storicae disegnando gli elementi notevoli in formato vettoriale) spesso si incontrano notevoli problemi di corrispondenza geometrica con le fonti a causa dell’approssimazione della scienza topografica in passato, oltre all’uso di 247
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rapporti di riduzione ed unità di misura completamente diversi dagli attuali. Anche i riferimenti territoriali generalmente più evidenti (corsi d’acqua, agglomerati urbani o rurali, viabilità, ecc.), che normalmente si usano per dare una dimensione ed una posizione alle carte non georeferenziate, spesso risultano o disegnati male o talmente diversi da non poter essere usati. Anzi, talvolta sono proprio questi gli elementi “storici” da inserire nella nostra cartografia. In questi casi non esistono metodi rigorosi ma, al contrario, bisogna armarsi di pazienza ed inventiva e cercare delle corrispondenze, anche per parti, tra il contesto storico e quello moderno.
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Cartografia ed informatizzazione, il progetto ArcheoViewer. Questo paragrafo illustra brevemente un progetto in corso di realizzazione, nato in seguito ad esigenze emerse nel corso della recente realizzazione di una carta archeologica (vedi paragrafo “cartografia tematica”), anche se poi il discorso si è allargato a molteplici realtà. I concetti esposti nelle pagine seguenti propongono, tuttavia, un metodo di lavoro che travalica dal “semplice” ambito della realizzazione di una carta archeologica e che può essere applicato a diversi contesti quali, ad esempio, l’informatizzazione della cartografia vincolistica (non necessariamente archeologica) e/o di un centro storico, la documentazione di un intervento di restauro, macro e micro ambiti caratterizzati da un contesto territoriale, da testi scientifici ed amministrativi, da documentazione grafica e fotografica. Sarebbe troppo lungo procedere ad una disamina delle potenzialità offerte dalle procedure che stiamo per discutere, quindi si rimandano ad altra sede i dettagli. Definizioni. Di seguito verranno utilizzati alcuni termini di cui vorremmo chiarire il significato attribuito nell’ambito del presente lavoro, anche se meglio specificati in alcune parti del testo. Documentazione grafica: qualsiasi elaborato destinato a definire la morfologia e le caratteristiche strutturali di un’evidenza archeologica (o storicoartistica). Testo: qualsiasi elaborato prodotto con riferimento ad una struttura archeologica (idem) per le sue esigenze di documentazione, catalogazione, tutela, amministrazione e gestione rispetto al suo contesto. Formato digitale originale: file prodotti da singoli programmi proprietari del copyright che, normalmente, possono essere aperti per l’editing solo da tali programmi. Talvolta i file possono essere visualizzati e/o stampati da programmi “paralleli” (viewer) che non svolgono funzioni di modifica. Collegamento ipertestuale (link): “testo o elemento di grafica a colori e sottolineato su cui è possibile fare clic per passare a un file, a una posizione all'interno di un file, a una pagina HTML sul Web o a una pagina HTML su una Intranet. I collegamenti ipertestuali possono inoltre essere associati a newsgroup e a siti Gopher, Telnet e FTP” (dalla guida di Windows). In pratica consiste nella possibilità di aprire, a partire da un dato file, un altro qualsiasi file mediante il programma che gestisce quest’ultimo. I presupposti da cui si è partiti sono i seguenti. L’esperienza maturata finora (nella realizzazione di carte archeologiche e cartografia tematica, di seguito Carta) ha delineato nettamente i limiti di simili operazioni che, essenzialmente, sono prodotte mediante l’uso di programmi applicativi CAD o GIS e, pertanto, di uso esclusivo del personale “tecnico”, sia esterno che compreso nella struttura della soprintendenza che ha commissionato il lavoro. Gli elaborati finali, anche se consegnati in allegato nel formato digitale originale, sono consultabili e modificabili solo da coloro che hanno una discreta pratica di tali applicativi e, soprattutto, possono lavorare su macchine fornite delle licenze dei relativi programmi. Tutti gli altri potenziali utilizzatori
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(funzionari, personale amministrativo e utenti a vario titolo) devono accontentarsi degli elaborati grafici in forma cartacea o sotto forma di immagini in formato .JPG, .TIF, ecc. oppure, al massimo, dei programmi “paralleli” di cui sopra. Tale assunto non inficia l’efficacia della redazione di una Carta su base informatizzata (nel senso che il prodotto esiste ed è fruibile dalla committenza, anche se in modo limitato) ma, di fatto, rimane privo di due requisiti a mio avviso fondamentali: * la possibilità di interagire con altre informazioni digitali correlate, anche in forma non grafica (testi, fotografie) e, soprattutto, * la possibilità di conservazione ed aggiornamento nel prosieguo dell’attività scientifica nella stessa area, da parte degli stessi utilizzatori, senza dover ricorrere ai professionisti che l’hanno realizzata. Chiariamo alcuni concetti. Per quanto riguarda la “possibilità di interagire con altre informazioni” si intende la possibilità che la Carta, oltre ai consueti dati planimetrici sulle evidenze presenti nell’area, contenga anche ulteriori dati, sia di carattere esclusivamente grafico (altri elaborati riguardanti gli alzati, dettagli a scala maggiore, ecc.), sia fotografico (foto di archivio o recenti, immagini satellitari, ecc.), sia di carattere amministrativo e di tutela (decreti di vincolo, atti demaniali sulle competenze, perizie per interventi, relazioni di scavo, ecc.), sia, infine, di carattere scientifico (articoli e pubblicazioni, pagine web, ecc.). Si badi bene: “contenga anche ulteriori dati” non significa necessariamente che questi ultimi siano effettivamente presenti nei file che effettivamente compongono la Carta, ma solo che gli stessi possano essere riferiti al contesto della stessa. Detto in parole povere, si tratta della possibilità di associare (secondo criteri molteplici e definibili in fase di progettazione) e rendere interattivi tra loro tutti i tipi di documentazione che, pur gestiti da programmi diversi e provenienti da fonti eterogenee (memorie su disco, server di rete, web), siano normalmente visualizzabili e consultabili sul monitor di un computer o, mediante semplici operazioni di archiviazione digitale, attualmente disponibili solo in forma cartacea. In poche parole, si tratta della possibilità di avere tutta una serie di collegamenti ipertestuali tra i dati grafici presenti sulla Carta ed “altri” dati. Per quanto riguarda “la possibilità di conservazione ed aggiornamento” della Carta si intende quello che forse è il nodo cruciale del presente lavoro: dare la possibilità, a coloro che il progetto individuerà come gestori delle informazioni raccolte in forma digitale, di integrare le stesse in futuro (una volta realizzata la Carta) con l’ulteriore materiale che, inevitabilmente, si produce lavorando in un dato ambito territoriale. Tale affermazione non significa che tutti coloro che avranno accesso ai file della Carta saranno in grado (e, probabilmente, non ne avrebbero neanche la disponibilità, in termini di tempo e “fantasia”) di effettuare operazioni di editing dei dati ma, definendo una serie di parametri e gerarchie di accesso e, soprattutto, scegliendo gli strumenti più flessibili e facili da usare, la maggior parte degli utenti potranno aggiornare i contenuti della Carta, inserendo altri dati tra quelli esistenti. Quanto detto finora potrà sembrare ai più estremamente banale: tali funzionalità, infatti, sono una delle prerogative della tipologia di applicativi noti 250
cartografia ed informatizzazione: il progetto ArcheoViewer
come GIS (Geographical Information System) ed operanti da anni. Vediamole nel dettaglio, a partire dalle definizioni. Secondo la definizione di Burrough (1986) "il GIS è composto da una serie di strumenti software per acquisire, memorizzare, estrarre, trasformare e visualizzare dati spaziali dal mondo reale". Si tratta di un sistema informatico in grado di produrre, gestire e analizzare dati spaziali associando a ciascun elemento geografico una o più descrizioni alfanumeriche. Il GIS è differente dal DBMS (o Database Management System), in quanto si occupa essenzialmente dell'elaborazione e manipolazione dei dati georeferenziati, che a loro volta possono essere memorizzati in un DBMS o in singoli file. SIT è l'acronimo italiano di Sistema Informativo Territoriale, e coincide con la traduzione inglese Geographical Information System. Mogorovich (1988) ha definito il sistema informativo territoriale "Il complesso di uomini, strumenti e procedure (spesso informali) che permettono l'acquisizione e la distribuzione dei dati nell'ambito dell'organizzazione e che li rendono disponibili nel momento in cui sono richiesti a chi ne ha la necessità per svolgere una qualsivoglia attività". Modello dei dati Per la rappresentazione dei dati in un sistema informatico occorre formalizzare un modello rappresentativo flessibile che si adatti ai fenomeni reali. Nel GIS abbiamo tre tipologie di informazioni: Geometriche: relative alla rappresentazione cartografica degli oggetti rappresentati; quali la forma (punto, linea, poligono), la dimensione e la posizione geografica; Topologiche: riferite alle relazioni reciproche tra gli oggetti (connessione, adiacenza, inclusione ecc…); Informative: riguardanti i dati (numerici, testuali ecc…) associati ad ogni oggetto. Il GIS prevede la gestione di queste informazioni in un database relazionale. L'aspetto che caratterizza il GIS è quello geometrico: esso memorizza la posizione del dato impiegando un sistema di proiezione reale che definisce la posizione geografica dell'oggetto. Il GIS gestisce contemporaneamente i dati provenienti da diversi sistemi di proiezione e riferimento (es. UTM o Gauss Boaga) A differenza della cartografia su carta, la scala in un GIS è un parametro di qualità del dato e non di visualizzazione. Il valore della scala esprime le cifre significative che devono essere considerate valide delle coordinate di georiferimento. (da wikipedia, voce Sistema Informativo Geografico, versione italiana, consultabile all’indirizzo: http://it.wikipedia.org/wiki/Sistema_informativo_geografico Riprendendo le piccole note polemiche di poco sopra, se c’è già il GIS che fa tutte queste cose, dove sta il problema? Ebbene, il problema è proprio che queste cose le fa solo il GIS, ovvero un tipo di programma specifico, spesso complicato ad usarsi, quasi sempre molto costoso (anche se esistono diverse versioni freeware ed open source, vedi http://www.gfoss.it/drupal/), escludendo, di fatto, una grossa fetta di potenziali utenti. L’esigenza che sta alla base del progetto descritto su queste pagine, invece, è proprio quella ai allargare il più possibile la base degli utenti, semplificando al massimo gli strumenti di accesso e la leggibilità delle informazioni associate ai dati cartografici.
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Strategia del progetto. Seguendo la logica esposta finora, un aspetto fondamentale è costituito dalla scelta dell’ambiente in cui operare. Ferma restando la necessità di elaborare ed assemblare le informazioni di carattere grafico (cartografico e di documentazione grafica) in ambienti di tipo CAD o GIS in un ambito operativo piuttosto ristretto, la fruibilità del prodotto finale sarà resa possibile impostando una serie di specifiche volte alla massima flessibilità d’uso per gli utenti finali, impiegando mezzi semplici ed alla portata di tutti. Dando per scontato che, ormai, una gran parte dei programmi rende possibile l’inserimento di collegamenti ipertestuali (ovvero, offre la possibilità di collegare ad un file un qualsiasi altro documento, anche di tipo diverso, e di lanciare l’applicativo che lo gestisce) rimane da scegliere il tipo di ambiente più idoneo. Da una parte abbiamo la sofisticata famiglia di prodotti GIS e gli applicativi in ambiente CAD specifici per la cartografia (di cui alcuni, specialmente i primi, disponibili con licenza freeware), particolarmente efficienti per le applicazioni del cui ambito stiamo discutendo, ma irrimediabilmente legati al programma proprietario del formato. Tali prodotti, pur essendo praticamente nati per tali usi, richiedono una preparazione specifica per il loro uso e, di fatto, scoraggerebbero molti potenziali utenti oltre a richiedere (quelli “commerciali”) costose licenze d’uso. Dall’altra abbiamo la possibilità di produrre (a partire dai suddetti applicativi in formato vettoriale in ambiente CAD) elaborati digitali che possono essere aperti e gestiti da programmi comunemente diffusi, eventualmente scaricabili gratuitamente da Internet. Tali applicativi, oltre alla semplicità d’uso ed al costo irrisorio (perché spesso compresi nei pacchetti forniti con i sistemi operativi) hanno anche il pregio di gestire file di dimensioni estremamente ridotte, con un notevole risparmio di risorse hardware. Ovviamente, visto che parliamo della necessità di far vedere su monitor dei dati cartografici (vettoriali o raster), dobbiamo partire dalla possibilità di trasformare questi in immagini. Per dare alcuni riferimenti, i due formati più diffusi per la visualizzazione delle immagini (nel nostro caso, cartografiche) sono quelli .PDF (gestito dalla famiglia di prodotti Adobe) e quelli .JPG che, per quanto attiene alla gestione dei riferimenti ipertestuali, possono essere aperti dalla nutrita schiera dei browser di Internet. I primi, inoltre, hanno la possibilità di consentire la stampa parziale degli elaborati (ovvero, consentono la scelta di “finestre” di stampa minori della “pagina” nel cui formato sono stati elaborati) e, per entrambi, esiste la possibilità di estrarne delle porzioni con le funzioni di “copia e incolla” dei normali editor (anche questi gratuiti sulla rete) per stamparli per parti con una accettabile perdita di risoluzione. I primi (.PDF) consentono, in compenso, una visualizzazione a video estremamente dettagliata a fronte di una estrema compressione della dimensione dei file in confronto a quelli originali e, soprattutto, alle immagini in .JPG. In entrambi i casi la procedura per la produzione degli elaborati finali dovrebbe prevedere: * un elaborato intermedio “grezzo” dal programma GIS o CAD usato per l’elaborazione della cartografia (praticamente il master di tutto il lavoro), reso come stampa virtuale in formato .PDF o . JPG;
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* un’elaborazione da parte di un programma proprietario del file in formato .PDF o .JPG (nel primo caso Adobe Acrobat, nel secondo uno tra i tanti gestori di pagine html) per l’inserimento dei collegamenti ipertestuali.
Il progetto di informatizzazione di un’area archeologica. Il primo problema di un’area in cui, nel tempo, sono stati spesso condotti diversi interventi di scavo, studio, restauro, tutela e documentazione, sta spesso nella frammentarietà dei dati e, particolarmente, nella loro quasi esclusiva esistenza in forma cartacea. Rimanendo per ora nel solo ambito della documentazione grafica dei siti archeologici “storici”, ci troviamo spesso in presenza di tutta una serie di disegni, redatti in epoche e con modalità diverse, relativi a porzioni (più o meno estese) del territorio, talvolta sprovvisti di riferimenti cartografici certi, quasi sempre privi di collegamenti reciproci. Anche volendo ignorare le difficoltà di natura logistica che i funzionari incontrano nel gestire una tale massa eterogenea di documenti, uno dei noccioli del problema sta nella effettiva potenzialità di tutelare il patrimonio e nella possibilità di interagire con le varie entità amministrative che ad esso afferiscono. Si tratta, in sostanza, della possibilità di gestire in modo snello e funzionale una notevole quantità di informazioni, rendendole omogenee e riferite (o meglio, georiferite) al contesto territoriale cui fanno riferimento. Il progetto della Carta Archeologica Informatizzata può essere schematizzato nei seguenti obiettivi. 1.
Acquisizione di una base cartografica digitale (possibilmente georeferenziata), presso le amministrazioni locali, anche al fine di possedere una base comune “di dialogo” con le stesse per quanto attiene agli atti amministrativi di tutela del territorio.
2.
Ricognizione presso l’archivio della Soprintendenza (e di tutte le istituzioni che hanno condotto interventi di scavo o di studio nell’area) per reperire tutti gli elaborati che sono stati prodotti nel corso del tempo e procedere ad una selezione secondo criteri di priorità ed affidabilità.
3.
Realizzazione di una base topografica georeferenziata per la collocazione esatta delle evidenze archeologiche e, soprattutto, per collegare in modo funzionale sia i vari frammenti di documentazione esistente sia quella prodotta in epoca recente con criteri moderni, al fine di stabilire un protocollo univoco per la documentazione futura ed il suo inserimento nel contesto.
4.
Digitalizzazione degli elaborati di archivio ed inserimento negli stessi nella base cartografica generale, prevedendo la possibilità di collegamenti ipertestuali e, soprattutto, di aggiornamento dinamico della Carta secondo criteri univoci di riferimento, .
5.
Produzione degli elaborati per la consultazione della Carta a diversi livelli e secondo aree tematiche stabilite, con la possibilità di gestire le aggregazioni dei dati in modi diversi.
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manuale di rilievo e documentazione grafica
Una volta costruita questa struttura (in ambiente CAD o GIS) sarà possibile pensare all’inserimento di qualsiasi altro tipo di dato correlato alla singola evidenza archeologica, da gestire come riferimento ipertestuale. Si potrà quindi associare al singolo monumento (e consultare in modo dinamico) foto, schede o testi, documentazione grafica di dettaglio (anche raster di disegni cartacei di archivio), bibliografia, documenti amministrativi e quant’altro si dovrà produrre sullo stesso in futuro, collegando tali dati provenienti da qualsiasi fonte: supporti magnetici ed ottici locali, server della Soprintendenza o del Ministero, rete Internet. Nell’elenco che abbiamo appena esposto i punti da 1 a 4 devono essere necessariamente eseguiti in ambiente CAD e, quindi, per quanto detto sopra rimangono di fatto una prerogativa di un’elite “tecnica” (interna o esterna alla soprintendenza che ha commissionato il lavoro) in possesso sia delle conoscenze per usare tali programmi sia delle relative licenze d’uso. Fin qui niente di nuovo, nel senso che tale procedura è quella normalmente usata per la produzione degli elaborati “classici”, ovvero stampe su carta, file vettoriali consegnati per l’archiviazione e, tuttalpiù, immagini in vario formato raster per poter essere consultate senza usare i programmi proprietari . Questo tipo di materiale, ferma restando la validità e la qualità del lavoro svolto, ha un solo difetto: non consente la possibilità di essere collegato ad altri dati di qualsiasi tipo (che, pure, esistono o possono essere prodotti in futuro), compresi quelli grafici; in una parola, si tratta di materiale statico. Tanto per rimanere nell’ambito della documentazione grafica, probabilmente le strutture inserite nella planimetria georeferenziata in formato vettoriale (quindi con il solo perimetro delle murature sezionate e dei principali elementi proiettati resi con una grafica compatibile con una scala di 1:500-1:200) avranno sicuramente dei dettagli con una caratterizzazione a scala maggiore (ad esempio 1:50) e, probabilmente, delle sezioni e dei prospetti. Sia che tali elaborati siano stati prodotti in formato vettoriale, sia in versione “tradizionale” (disegni su lucido o poliestere, eventualmente digitalizzati mediante scanner), la loro consultazione deve necessariamente avvenire separatamente da quella della Carta, senza possibilità di collegamenti dinamici. Al pari dei dati grafici, se per i siti compresi nella nostra Carta esistono altri tipi di documentazione (a puro titolo di esempio: foto, relazioni di scavo, schede US, disegni di materiali, decreti di vincolo, materiale di archivio, ecc.), magari già in formato digitale, finora non è stato possibile renderlo evidente (e disponibile) nel contesto che abbiamo sopra descritto. Il progetto ArcheoViewer. Dopo questa (purtroppo) lunga premessa, arriviamo al nocciolo della questione. Quella che si sta per proporre è fondamentalmente un’idea, tanto semplice quanto rivoluzionaria, tuttora in corso di sviluppo, per semplificare la realizzazione di cartografia (e non solo, come vedremo in seguito) di tipo GIS e, soprattutto, per allargare al massimo la base di coloro in grado di consultare tali elaborati. Non si tratta di un nuovo programma ma, piuttosto, di una procedura (tendenzialmente, di un protocollo per la codifica di una serie di azioni) per la produzione, l’editing e la gestione di immagini e dati. Parallelamente, questo progetto costituisce un sistema per la realizzazione di archivi informatizzati e di supporto tecnico per la gestione del territorio, totalmente digitale ed integrato con tutti gli aspetti scientifici, tecnici ed amministrativi. Per rendere l’idea in poche parole, un sistema con (quasi) le 254
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stesse funzionalità di un GIS, molto più semplice, versatile, economico (sia dal punto di vista venale che delle risorse hardware) ed aperto all’utenza finale, che chiunque sappia avviare un computer può essere in grado di usare. Partiamo dalla sequenza esposta prima e, più precisamente, dal completamento del punto 4. (Digitalizzazione degli elaborati di archivio …). Dobbiamo dunque produrre degli elaborati finali per il nostro lavoro, cioè quello che i nostri committenti dovranno vedere e fruire. Se avessimo concordato di consegnare il nostro prodotto su carta (ferma restando la consegna del CD contenente i file master, su CAD o GIS) a questo punto avremmo stampato su plotter una serie di tavole, eventualmente a scale diverse, con la nostra area e tutte le evidenze che si è deciso di inserire. Il progetto prevede la realizzazione degli elaborati finali, sempre in forma di tavole, su base digitale in formato .PDF. La scelta di questo standard è motivata da una serie di fattori positivi, in parte già esposti, qui brevemente ripresi. I pregi di questo formato sono i seguenti: • questo tipo di file è essenzialmente un’immagine che, in presenza di dati vettoriali, ha un’altissima resa grafica (sia a monitor che, eventualmente, nella stampa su carta), permette la visualizzazione di dettagli e zoomate “estreme” quasi al pari di un CAD, riduce drasticamente la dimensione dei file grafici a livelli irrisori, specie in confronto ai più diffusi formati grafici .JPG e .TIF, con un notevole risparmio di risorse sia di spazio in memoria, sia di potenza di calcolo. • i file .PDF sono gestiti, per quanto riguarda la visualizzazione in sola lettura, da Adobe Acrobat Reader, un programma gratuito, diffusissimo, di modeste dimensioni e facilissimo da usare. A parte quello che diremo in seguito, per quanto riguarda la sola visualizzazione (comprese delle comodissime anteprime), un altro programma efficiente e gratuito è Irfanview (http://www.irfanview.com) che permette anche di scorrere le immagini di una cartella in sequenza, come diapositive. • i file .PDF aperti con Acrobat Reader, pur essendo delle immagini, sono ricchi di funzionalità e offrono tutta una serie di contenuti che altri programmi (rimanendo nell’ambito dei gestori di formati grafici) non hanno. Pur essendo un formato pensato essenzialmente per il trasferimento di informazioni all’interno di una struttura produttiva (e dunque pieno di etichette, tag, informazioni sulla revisione e l’evidenziazione dei vari passaggi da un soggetto all’altro, utility sull’invio mediante mail, ecc.), in presenza di elementi vettoriali consente ad esempio misurazioni di lunghezze, aree, posizioni geografiche (in latitudine e longitudine, per grafici georeferenziati), conserva informazioni sui vettori e sulle loro dimensioni reali, ecc.. I file PDF si possono ottenere in due modi: realizzando delle stampe virtuali con uno dei tanti programmini gratuiti che si possono scaricare sulla rete (tra tutti cito Bullzip reperibile su http://www.bullzip.com) che installano una stampante virtuale con la quale si possono impostare tutti i parametri come se si stesse stampando su carta (nel caso di un CAD: formato, scala, spessore delle penne, colori, ecc.), oppure utilizzando il programma proprietario del formato: Adobe Acrobat (costo circa 700 euro per la versione Pro). Nel primo caso si avranno “solo” delle immagini praticamente perfette ma prive degli altri contenuti che esporremo in seguito, con il solo beneficio di aver reso un disegno vettoriale visibile anche a chi non possiede l’applicativo proprietario del formato CAD in cui è stato realizzato, con tutte le impostazioni che avremo scelto in fase di stampa. 255
manuale di rilievo e documentazione grafica
Nel caso di esportazione di un file CAD in formato .PDF mediante il programma Acrobat si aprono invece tutta una serie di possibilità: conservare le proprietà dei layer, scegliere di renderli visibili o no, acquisire altri elementi (immagini o altro tipo di file) e assegnare loro ulteriori livelli, conservare gli eventuali riferimenti ipertestuali già assegnati in ambiente CAD, ecc.. Fin qui avremo compiuto il primo passo del progetto: rendere fruibile a chiunque il contenuto del nostro master realizzato in ambiente vettoriale. Ma possiamo fare molto di più: assegnando dei link ad alcune aree del nostro elaborato (ad esempio, per una carta archeologica in corrispondenza di una struttura) possiamo aprire qualsiasi altro tipo di file contenente altri dati (testi, immagini, ulteriori disegni di dettaglio, pagine web attinenti alla struttura) ovvero, come detto all’inizio del paragrafo, si tratta della possibilità di associare (secondo criteri molteplici e definibili in fase di progettazione) e rendere interattivi tra loro tutti i tipi di documentazione che, pur gestiti da programmi diversi e provenienti da fonti eterogenee (memorie su disco, server di rete, web), siano normalmente visualizzabili e consultabili sul monitor di un computer o, mediante semplici operazioni di archiviazione digitale, attualmente disponibili solo in forma cartacea. La logica di tali link è geniale: l’istruzione contenuta nella macro attiva l’apertura di un dato file che, a seconda del computer su cui si sta operando, verrà gestito dal programma che il sistema operativo normalmente associa al tipo di file, quindi tale procedura è applicabile a qualsiasi tipo di ambiente in cui si sta lavorando: singolo PC, rete LAN o WAN, web, purché si abbia cura di assegnare la giusta (ed univoca) path ad ogni collegamento. Tanto per fare un esempio, se il link è per un file grafico in formato .JPG, questo sarà aperto, a seconda del computer su cui ci troviamo da Internet Explorer, da Irfanview, dal visualizzatore di immagini di Windows, da altri visualizzatori tipo ACDsee, ecc.. (Alcuni materiali dimostrativi possono essere visionati nel mio sito all’indirizzo http://www.arnaldocherubini.it/). Ovviamente la struttura del master va pianificata in sede di progetto preliminare, anche se è possibile apportare modifiche ed ampliamenti anche in corso d’opera. Innanzitutto vanno stabiliti il numero e la qualità dei collegamenti, il loro ordine gerarchico (se su unico livello o in modo sequenziale, secondo una struttura ad albero) e se assegnare riferimenti incrociati o salti di livello. In base alle scelte iniziali si dovrà poi suddividere il materiale per tipologia (ad esempio, tutti i file di testo, le immagini fotografiche, i raster dei disegni, ecc., da collocare in sottocartelle separate) oppure per pertinenza (ad esempio tutti i file di testo, le immagini fotografiche, i raster dei disegni, ecc., di uno specifico sito all’interno di un’unica sottocartella). Un esempio concreto: abbiamo un’area urbana di cui disponiamo della base cartografica (foglio catastale vettoriale). All’interno di questa si trovano due siti per la nostra Carta, una struttura archeologica (di cui abbiamo sia la pianta in formato vettoriale sia i raster dei disegni di dettaglio) ed una chiesa rinascimentale (di cui abbiamo, oltre alla pianta, anche prospetti e sezioni realizzati in CAD). Di entrambe abbiamo anche diverse foto, file di testo e riferimenti a siti web che contengono ulteriori notizie. Poniamo di aver scelto di organizzare il lavoro secondo una logica sequenziale che ci mostri, per successive approssimazioni, tutti gli elementi in nostro possesso: avremo così una prima tavola di master in cui compaiono l’intera area e le nostre due strutture. Poniamo i nostri link in corrispondenza di queste ultime ed avremo accesso a due master di secondo livello (uno per ciascuna) contenenti le piante dettagliate (pdf da raster per la struttura archeologica) ed i link per i rispettivi 256
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prospetti e sezioni, da visualizzare o separatamente o su unica altra tavola. Su ciascuna di queste sarà possibile associare le foto (anche, volendo, con un perimetro dell’area coperta dal fotogramma) e gli altri collegamenti. Avevamo anche definito come (forse) il nodo cruciale del progetto la possibilità di conservazione ed aggiornamento, ovvero dare la possibilità di integrare le informazioni (una volta realizzata il master) in futuro con l’ulteriore materiale che, inevitabilmente, si produce lavorando in un dato ambito territoriale. La realizzazione di questa funzionalità può essere effettuata mediante l’indirizzamento a tutta una serie di collegamenti (in senso DOS) fittizi, opportunamente collocati in sottocartelle secondo la gerarchia principale del nostro master, a dei file che saranno inseriti in un secondo momento, cui sarà possibile assegnare un nome codificato in precedenza. Oppure, in presenza di utenti più evoluti della media, predisporre dei link a dei file di testo che, con normali programmi di editing, sarà possibile utilizzare come ulteriori “contenitori” di altri link da aggiornare all’infinito. Abbiamo parlato, finora, facendo riferimento ad una Carta (e, dunque, ad una tipologia di elaborati di partenza essenzialmente planimetrici) perché più intuitivi e, vista la complessità dell’argomento espresso in forma verbale, facili da spiegare. In realtà questo tipo di procedura può essere applicato a qualsiasi ambito di qualsiasi dimensione. Pensiamo, ad esempio, ad una struttura architettonica semplice (una chiesa) o articolata (un complesso monumentale comprendente un palazzo ed altre strutture) sottoposti a restauro. Anche in questo caso avremo una mole notevole di documenti di varia natura, tutti necessari per la realizzazione del progetto ed il controllo delle varie fasi dell’intervento: rilievi e disegni di dettaglio, documentazione storica iconografica e bibliografica, perizie e documenti amministrativi di precedenti interventi di restauro, elaborati e studi statici e sui materiali, documentazione fotografica storica ed ante e post operam, articoli e pubblicazioni, ecc.. Ebbene, una volta ordinato, classificato e digitalizzato tutto questo materiale è possibile ricavarne un master unico che comprenda e renda accessibile con pochi click del mouse tutte queste informazioni, anche separatamente ed anche se memorizzate in luoghi fisici diversi, purché connesse in rete, conservando le originali posizioni dei singoli file e, volendo, conservando una modalità di accesso ai singoli dati secondo schemi gerarchici definiti. A sua volta questo master potrà essere contenuto in un altro contesto più ampio (ad esempio una Carta a livello urbano o regionale) o potrà contenere, anche in un secondo momento, informazioni più dettagliate su uno dei suoi componenti (ad esempio lo studio ed il restauro di una cappella della chiesa o di un ambiente del palazzo), con delle semplici concatenazioni anche su livelli diversi.
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Appendice Programmi per il calcolo dei dati strumentali
In queste pagine daremo alcune informazioni per poter attivare un semplice programma per il calcolo e la conversione delle coordinate polari in coordinate cartesiane, ovvero uno strumento elementare per lavorare con un teodolite ed un calcolatore. Si consiglia di procedere con questo capitolo solo dopo aver letto quello relativo al rilievo strumentale. Il programma è stato scritto nel lontano 1995 da Maurizio De Santis per una specifica esigenza di lavoro e, pur nella sua essenzialità, funziona perfettamente. Lasciamo al lettore più esperto di programmazione e/o di topografia il compito di arricchirlo di tutte le opzioni e le possibilità che saranno ritenute utili, quali la trascrizione dei dati direttamente su file anziché su stampante, la creazione di una maschera meno “spartana”, la possibilità di generare file compatibili con un applicativo CAD per poter disporre anche di un disegno dei punti calcolati. All’inizio del progetto editoriale era previsto di fornire questo programma direttamente in forma di file eseguibili su un floppy da allegare al libro ma i problemi di carattere editoriale descritti nell’introduzione (ed il tempo trascorso) mi hanno fatto optare per la pubblicazione del solo listato (alla fine di queste pagine) di istruzioni per l’applicativo QBasic di Windows. Tale scelta lascia aperte anche le possibilità di arricchimento di cui sopra. Per chi volesse modificarlo e compilarlo, Qbasic si può trovare in rete gratuitamente. Per chi si vuole cimentare, il listato consente di generare due file eseguibili che svolgono diverse procedure: il primo consente di calcolare i vertici di una poligonale aperta ed i relativi punti battuti da ognuno di questi (polig.exe), il secondo, per chi avesse a disposizione uno strumento da usare con la stadia, è per il calcolo delle coordinate con tale tipo di dati. Sul sito www.arnaldocherubini.it potrete trovare due file già compilati in forma di eseguibili (sigst.exe e polig.exe) che girano sotto DOS. I dati di input sono: l’altezza dello strumento (una sola volta per ogni stazione) e del prisma, la distanza inclinata, gli angoli orizzontale e verticale di ogni punto battuto, le coordinate del punto di stazione (solo per il primo vertice o per la singola stazione). I file che si trovano sul sito hanno la seguente procedura. Una volta avviato SINGST.EXE, il programma chiede l’immissione di una serie di informazioni che definiscono innanzitutto il contesto operativo: nome della stazione, altezza strumentale, numero dei punti da calcolare, coordinate del punto, azimut. Questi ultimi dati possono essere riferiti ad un topografico noto (vertice catastale o topografico) o del tutto arbitrario. Mentre nel primo caso, quindi, immetteremo i valori che avremo desunto dalla cartografia del sito in cui stiamo operando, nell’altro possiamo fare alcune considerazioni. Premesso che quello che stiamo per dire non ha alcuna influenza dal punto di vista numerico e di gestione del calcolo, possiamo scegliere di assegnare alla nostra stazione i valori di coordinate Est e Nord (X e Y) uguali a 0,0 oppure, ad esempio, 1000,1000 per condizionare i valori di tutti gli altri punti, a seconda anche della posizione del punto di stazione rispetto al contesto in cui abbiamo operato.
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Se, infatti, avremo dato valori 0,0 e la stazione si trova (all’incirca) al centro rilevata, questa scelta condizionerà i valori delle altre coppie di coordinate i quali, indifferentemente dall’orientamento della direzione scelta, saranno in parte dello stesso segno (primo e terzo quadrante del piano cartesiano XY) e in parte di segno diverso (X positiva e Y negativa o viceversa, rispettivamente, secondo e qunrto quadrante). Al contrario, scegliendo i valori 1000,1000 (o qualsiasi altra coppia i cui termini siano maggiori delle distanze dei punti battuti più estremi della nostra area) avremo tutte coordinate di segno positivo. Entrambe le soluzioni (specie se associate alla scelta di indicare i punti secondo dei codicidi identificazione) possono avere dei risvolti utili per distinguere maggiormente i vari componenti il nostro rilievo. Lo stesso discorso vale per quanto riguarda le quote altimetriche. Nel caso di un punto di stazione con coordinate note è del tutto ovvio che, dando anche il valore di Z, tutti gli altri punti verranno quotati in modo assoluto. Se, invece, non conosciamo la quota assoluta del punto di stazione ma tra i punti battuti ne abbiamo uno noto (oppure vogliamo assumere la quota di questo come base relativa), possiamo calcolare innanzitutto quest’ultimo, assegnando alla stazione quota 0.00. Una volta conosciuto il dislivello si fa ripartire il programma indicando per il punto di stazione la quota “vera”, ottenendo così la quotatura automatica di tutti gli altri punti rispetto alla stazione. Per ogni punto di cui vengono immessi i dati, il programma calcola le coordinate cartesiane relative alla stazione (ovvero assolute, se di quest’ultima si conoscono le “vere” coordinate), la distanza ridotta all’orizzontale e l’azimut rispetto alla direzione scelta. I risultati possono essere visualizzati sullo schermo oppure stampati su carta, insieme con i dati immessi (per consentire eventuali riscontri con il libretto di campagna). POLIG.EXE consente invece di calcolare i vertici di una poligonale aperta e di tutti i punti battuti da questi. La sintassi del programma è la seguente: 1. si assegnano i dati della stazione (nome, altezza strumentale, azimut, ecc.) 2. si calcolano tutti i punti battuti dalla prima stazione, compreso il punto di stazione successivo 3. quando si passa alla stazione successiva occorre dargli l’azimut, prendendo il valore da quello del calcolo precedente, quindi si continuano ad inserire gli altri punti, fino alle stazioni successive.. La richiesta del programma se continuare o meno e se dallo stesso vertice o da un altro permettono al programma di riprendere l’azimut della stazione da cui è stato battuto l’ultimo punto. Ovviamente, in questo programma le poligonali sono calcolate tutte come aperte e, anche se in effetti sono chiuse, non è possibile fare calcoli di compensazione. Per interrompere i programmi (a parte chiudere la finestra DOS) si può premere insieme Ctrl+C.
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100 200 300 400 450 500 550 600 700 750 800 900 1000 1100 1200 1200 1300 1400 1500 1600 1700 1800 1900 2000 2050 2100 2150 2200 2205 2210 2215 2216 2220 2225 2230 2240 2250 2290 2295 2300 2400 2410 2450 2500 2600 2650 2700 2705 2710 2715 2716 2720 2725 2730 2740 2750
PRINT “ ***************************************************************** “ PRINT “ * Calcolo delle coordinate planimetriche e altimetriche *“ PRINT “ * di una poligonale aperta *“ PRINT “ ***************************************************************** “ INPUT “ Nome del punto di stazione: “ ; NP$ INPUT “ Nome del punto collimato:” ; NM$ INPUT “ Note:” ; NT$ INPUT “ Altezza strumentale, Altezza del prisma:” ; HS, HP INPUT “ X0, Y0, Q0” ; X0, Y0, Z0 INPUT “ Angolo azimutale (centesimale)” ; A INPUT “ Angolo zenitale (centesimale)” ; ZB : Z = 400 - ZB INPUT “ Distanza inclinata “ ; DI AZ = A / 63.662 ZE = Z / 63.662 D = DI * SIN ( ZE ) XI = X0 + D * SIN (AZ ) YI = Y0 + D * COS ( AZ ) QI = Q0 + DI * COS ( ZE ) + HS - HP PRINT “ Vuoi la stampa su video (1) o su stampante (2) ?” INPUT ; VS : CLS IF VS = 1 THEN 2100 IF VS = 2 THEN 2600 PRINT “ ***************************************************************** “ PRINT “ Nome del punto di stazione: “ ; NP$ PRINT “ Nome del punto collimato: “ ; NM$ PRINT “ Note: “ ; NT$ PRINT “ Dati input: “ PRINT “ Altezza strumentale “ ; HS PRINT “ Altezza del prisma “ ; HP PRINT “ X0 Y0 Q0 “ PRINT X0 ; Y0 ; Q0 PRINT “ Angolo azimutale “ ; A PRINT “ Angolo zenitale “ ; ZB PRINT “ Distanza inclinata “ ; DI PRINT “ ################################################################ “ PRINT “ RISULTATI: “ PRINT “ Xi Yi Qi “ PRINT USING “ ####.#### “ ; XI ; YI ; QI PRINT “ Distanza orizzontale “ ; D GOTO 2950 LPRINT “ *************************************************************** “ LPRINT “ Nome del punto di stazione: “ ; NP$ LPRINT “ Nome del punto collimato: “ ; NM$ LPRINT “ Note: “ ; NT$ LPRINT “ Dati input: “ LPRINT “ Altezza strumentale “ ; HS LPRINT “ Altezza del prisma “ ; HP LPRINT “ X0 Y0 Q0 “ LPRINT X0 ; Y0 ; Q0 LPRINT “ Angolo azimutale “ ; A LPRINT “ Angolo zenitale “ ; ZB LPRINT “ Distanza inclinata “ ; DI 261
manuale di rilievo e documentazione grafica
2790 2795 2800 2900 2920 2930 2940 2950 2953 2955 2960 3000 3050 3100 3200 3400 3450 3500 3600 3700 3800 3900 4000 4100 4200 4300 4400 4500 4600 4650 4700 4750 4800 4805 4810 4815 4816 4818 4820 4825 4830 4840 4850 4890 4895 4900 5000 5020 5050 5100 5200 5250 5300 5305 5310 5315
PRINT “ ################################################################ “ LPRINT “ RISULTATI: “ LPRINT “ Xi Yi Qi “ LPRINT USING “ ####.#### “ ; XI ; YI ; QI LPRINT “ Distanza orizzontale “ ; D LPRINT LPRINT INPUT “ Nome del punto di stazione:” ; NP$ INPUT “ Altezza strumentale:” ; HS PRINT “ Coordinate e quota del punto di stazione: “ INPUT “ X0, Y0, Q0” ; X0, Y0, Q0 INPUT “ Nome del punto collimato:” ; NM$ INPUT “ Note:” ; NT$ INPUT “ Altezza del prisma:” ; HP INPUT “ Angolo poligonale (centesimale)” ; B INPUT “ Angolo zenitale (centesimale)” ; ZB : Z = 400 - ZB : ZE = / 63.662 INPUT “ Distanza inclinata “ ; DI : D = DI * SIN (ZE ) AB = A + B IF AB > = 200 THEN GOTO 3800 IF AB < 200 THEN GOTO 3900 C = AB - 200 : GOTO 4000 C = AB + 200 CC = C / 63.662 XI = X0 + D * SIN (CC ) YI = Y0 + D * COS ( CC ) QI = Q0 + DI * COS ( ZE ) + HS - HP PRINT “ Vuoi la stampa su video (1) o su stampante (2) ?” INPUT ; VS : CLS IF VS = 1 THEN 4700 IF VS = 2 THEN 5200 PRINT “ ***************************************************************** “ PRINT “ Nome del punto di stazione: “ ; NP$ PRINT “ Nome del punto collimato: “ ; NM$ PRINT “ Note: “ ; NT$ PRINT “ Dati input: “ PRINT “ Altezza strumentale “ ; HS PRINT “ Altezza del prisma “ ; HP PRINT “ Angolo della poligonale “ ; B PRINT “ X0 Y0 Q0 “ PRINT X0 ; Y0 ; Q0 PRINT “ Angolo azimutale “ ; A PRINT “ Angolo zenitale “ ; ZB PRINT “ Distanza inclinata “ ; DI PRINT “ ################################################################ “ PRINT “ RISULTATI: “ PRINT “ Xi Yi Qi “ PRINT USING “ ####.#### “ ; XI ; YI ; QI PRINT “ Distanza orizzontale “ ; D PRINT “ Angolo azimutale (centesimale) : “ ; C GOTO 5600 LPRINT “ *************************************************************** “ LPRINT “ Nome del punto di stazione: “ ; NP$ LPRINT “ Nome del punto collimato: “ ; NM$ LPRINT “ Note: “ ; NT$ LPRINT “ Dati input: “ LPRINT “ Altezza strumentale “ ; HS 262
appendice
5316 LPRINT “ Altezza del prisma “ ; HP 5318 LPRINT “ Angolo della poligonale “ ; B 5320 LPRINT “ X0 Y0 Q0 “ 5325 LPRINT X0 ; Y0 ; Q0 ??????????????????????????????????????30 LPRINT “ Angolo azimutale “ ; A 2740 LPRINT “ Angolo zenitale “ ; ZB 2750 LPRINT “ Distanza inclinata “ ; DI 2790 PRINT “ ################################################################ “ 2795 LPRINT “ RISULTATI: “ 2800 LPRINT “ Xi Yi Qi “ 2900 LPRINT USING “ ####.#### “ ; XI ; YI ; QI 2920 LPRINT “ Distanza orizzontale “ ; D 2930 LPRINT 2940 LPRINT 2950 INPUT “ Nome del punto di stazione
Altro listato 100 200 300 400 500 600 700 800 1000 1100 1200 1300 1400 1500 1600 1800 1900 2000 2100 2400 2450 2500 2600 2700 2900 3000 3100 3200 3300 3400 3500 3600 3700 3800
PRINT “ ****************************************************** “ PRINT “ * CALCOLO COORDINATE PLANIMETRICHE E ALTIMETRICHE * “ PRINT “ * DALLA LETTURA ALLA STADIA *“ PRINT “ * ING. MAURIZIO DE SANTIS *“ PRINT “ *********************************************************** “ INPUT “ Numero dei vertici della poligonale “ ; V: N = V - 2 INPUT “ Costante dello strumento k” ; K PRINT “ Gli angoli sono centesimali “ INPUT “ X0, Y0, Q0, A “ ; X0, Y0, Q0, A INPUT “ Angolo zenitale F1 “ ; FI A1 = A / 63.662: FI = FI / 63.662 INPUT “ Letture ai fili e altezza strumento ls, l, li, h “ ; LS, L, LI, H D = K * ( LS - LI ) * ( SIN ( F1 ) ) ^ 2: QI = Q0 + K * ( LS - LI ) * SIN ( F1 ) * COS ( F1 ) + H - L XI = X0 + D * SIN ( A1 ) : YI = Y0 + D * COS ( A1 ) GOTO 3300 INPUT “ Xi, Yi, Qi, A “ ; X0, Y0, Q0, A INPUT “ Angolo zenitale FI “ ; FI A1 = A / 63.662 : F= FI / 63.662 INPUT “ Letture ai fili e altezza strumento ls, l, li, h “ ; LS, L, LI, H INPUT “ Angolo poligonale alfa “ ; B : B1 = B / 63.662 C = A + B + 200 AB = A + B : IF AB > 200 THEN 2700 IF AB < 200 THEN 2900 C = A + B - 200 C1 = C / 63.662 D = K * (LS - LI ) * ( SIN ( F1 ) ) ^ 2 XI = X0 + D * SIN ( C1 ) : YI = Y0 + D * COS ( C1 ) QI = Q0 + K * ( LS - LI ) * SIN ( F1 ) * COS ( F1 ) PRINT “ Xi - Yi Qi C D“ PRINT XI , YI , QI , C , D : IF V - 2 < 1 THEN 3650 PRINT “ Vuoi continuare (SI = 1 NO = 2) ? “ : INPUT R IF R = 1 THEN 1800 : IF R = 2 THEN 3800 IF R1 = 1 THEN 1000 : IF R1 = 2 THEN 3800 END
200 300
PRINT “ * PRINT “ *
Calcolo delle coordinate planimetriche e altimetriche dalla singola stazione
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manuale di rilievo e documentazione grafica
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Bibliografia rilievo e geometria descrittiva Mario Docci, Diego Maestri, Il rilevamento architettonico, storia, metodi e disegno. Laterza, Roma Bari 1984 Cairoli Fulvio Giuiani, Archeologia documentazione grafica. De Luca editore, Roma 1986 topografia Salvatore Cannarozzo, Corso di topografia ed esercitazioni. A. Signorelli editore, Roma 1974 storia ed analisi delle tecniche costruttive Jean Pierre Adam, L’arte di costruire presso i romani, materiali e tecniche. Longanesi, Milano 1984 Cairoli Fulvio Giuiani, L’edilizia nell’antichità. La Nuova Italia Scientifica, Roma 1990 Achille Petrignani, Tecnologie dell’architettura. Istituto Geografico De Agostini, Novara 1990 stratigrafia Edward C. Harris, Principi di stratigrafia archeologica. La Nuova Italia Scientifica, Urbino 1987 Philip Barker, Tecniche dello scavo archeologico. Longanesi, Milano 1981
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manuale di rilievo e documentazione grafica
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