Laocoonte e i suoi figli

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LAOCOONTE E I SUOI FIGLI Un progetto di Germano Serafini in collaborazione con Giona Piacentini con un testo di Paolo Violini

media: fotografia in pellicola tecnica: stampa su pellicola trasparente + applicazione su legno Š 2015 Germano Serafini Immagini dalla mostra presso l’Associazione Culturale TRAleVOLTE a Roma











Giona Piacentini Nel controllo misurato dei mezzi espressivi di Germano Serafini, lo ‘stabilmente mobile’ proprio della scultura rappresentata gravita all’interno dello ‘spazio costruito’ che si fa tholos, tempio, fortino, museo, casa, rifugio. Trasposizione fotografica di tema squisitamente plastico, il progetto si dà in una visione sontuosa, distinta in contrastati inquadramenti lignei che permeano l'ambiente. La magniloquenza enfatica del gruppo scultoreo in una selezione di dettagli fotografici viene attrezzata per comporre un’installazione site specific di elementi visivi potenti e solidi: i personaggi che, in forzati primi piani, rimandano mnemonicamente all’immagine totale, assente, enfatizzando l’immersione nel vuoto delle arcate e recuperando il gradiente carnale che si sviluppa in tensioni multiple del cui dramma siamo testimoni. La feroce presa delle spire dei serpenti a breve avrà la meglio su Laocoonte e i suoi figli, inutilmente combattivi – già in balia di un tormento crescente. L'opera intende, in certo senso, restituire l'immediatezza del dramma, sottraendolo alla cornice impostagli, in cui le tensioni si compongono fino quasi ad annullarsi, proprio attraverso la riduzione in fotogrammi, in eventi scenici che fissano dettagli istantanei animati da luci e ombre, fino ai cupi bui delle velature. Le immagini in questione sono assimilabili a scomposti tasselli, a quinte teatrali di figure, quasi a carte da gioco di cui disporre. La brevità del tempo, l'apparenza di un flash fotografico, unita al pallore riemerso della carne, restituiscono presenza reale all'evento immortalato. Il progetto di Serafini concepito per TraLeVolte ha una lontana ascendenza nel desiderio di rappresentare un gigantesco arto inferiore in rapporto di forza con gli spazi espositivi. Di qui il passaggio narrativo e la scelta del gruppo scultoreo del Laocoonte che è corpo umano e insieme forma di architettura che separa, che protegge e che impedisce l'infierire degli elementi esterni. Serafini preleva questa ‘scultura architettonica’ e la rende un ready made scomponibile, un oggetto emblematico, compiendo una mise en abyme dello stesso spazio architettonico. Si direbbe infatti che Serafini intenda sottrarre il gruppo scultoreo al suo tradizionale destino di essere incorniciato e inquadrato, quasi appiattito su un'unica dimensione, e per questo ha bisogno di sezionarlo e di frammentarlo, sottraendolo alla consuetudine che lo vuole altorilievo e proiettandolo nella totalità universale dello spazio. Le quattro opere presentate da Serafini, i quattro personaggi del dramma per frammenti, sono le molle energiche di questa straordinaria collisione. Concorrono, alla lettera, ad un teatro fatto a pezzi; un teatro laico e politico che prevede lo straniamento degli astanti, il pubblico testimone di una scena fotografica costruita in legno e priva di ogni sacralità. A questi astanti non resta che lo sbigottimento di assistere alla sparizione dell'ultima, eroica, voce del dissenso. A noi resta una considerazione. Nelle recenti produzioni artistiche ricompaiono segni di rinnovato interesse classico a riprova di una funzionale e nuova koinè. Ci si può correttamente definire classici nella ponderatezza, nell'analisi, nella stabilità, nell'evitare istrionismi, nel senso di misura del progetto che è rapporto dinamico, confronto e sviluppo, senza cedimenti alle lusinghe dell'opulenza, della persuasione ebbra o al gigantismo propagandistico. Forse per questo la pelle umana riacquista in Serafini un tono realistico mentre i serpenti, intatti nella loro mostruosa grossezza animale, non vengono attivati al colore, partecipando del fondo della materia fredda. Mentre la statua del Laocoonte è azione pura, istinto più che riflessione, Serafini raffredda austeramente il campo attraverso la selezione, riesce a isolare e mettere a fuoco, non soggiogato dall'insieme ancorato nella memoria. I singoli caratteri riprendono la loro individualità, perfino nelle tracce ereditate dei reperti, corrispondenti alle lacerazioni epidermiche del marmo facendo sì che le superfici col loro movimento potenziale superino la posa e, non sottomesse a schemi geometrici, dischiudano nuovamente il ritmo come se si avviluppasse nell'ampia compressione dell'ambiente. Si è accennato che la scena troiana presuppone spazio aperto e cittadini cui lo stritolamento e i morsi ferali del mostro marino richiamano l'attenzione soggiogata dalla potenza incontrollabile di una simile minaccia. Il titanico avvolgimento serrato delle spire è forte di tutte le forze atte a dilaniare muscoli e ossa: una tortura disumana che stritola anche lo spazio e sprigiona un urlo umanamente condiviso. Ecco, questi titani oppressivi li ritroveremo virtuosamente espressi negli antagonismi dei personaggi del Bernini e sembrano ancora echeggiare, nell'assoluta e irenica leggerezza aerea della sua linea spontanea, il neon di Lucio Fontana per la Triennale. A questo segno luminoso e liberatorio, seguirà ancora il grande Tubo snodato di Eliseo Mattiacci; un tubo di centocinquanta metri che apre le sue flessuosità all'energia positiva del dispiegamento incondizionato, ribelle alle costrizioni: indice e metafora di un processo di emancipazione, di pienezza vitalistica, espressione di un uomo libero di agire incurante dei rischi. Ai drammi dell'esistenza umana, Mattiacci, negli anni '60, impone il coraggio aperto del fare, dando pieno valore al cambiamento del mondo, sentito nelle sue lotte di origini, con partecipazione espressiva. Così anche la tecnica di Serafini si conferma, in questi lavori, capace di trascendere la rappresentazione, pur rimanendo fotografia, per sfidare ogni sorta di immobilismo in nome del valore della trasformazione, che è per noi l'essenza stessa del reale.


Paolo Violini La scelta di Germano Serafini non è casuale. Il gruppo del Laocoonte rappresenta un mito che sin dai primordi si è fissato nell’immaginario collettivo come simbolo di lotta contro le forze avverse, contro il potere del male, come atto di sommo eroismo e di sacrificio personale di un padre nell’estremo tentativo di salvare i propri figli. Un messaggio sempre attuale che i tre scultori greci, Agesandro, Atanodoro e Polidoro da Rodi, hanno fissato nel marmo bianco e che Germano recupera attraverso i suoi interventi, che si inseriscono negli ambienti come pitture in costante rapporto con l’architettura. Proprio in ossequio a questa attualità, ecco che nelle inquadrature dell’artista la materia statica si trasforma in conformazione animata, in un passaggio da forma scultorea a corpo umano, da pietra a carne, dove le venature del marmo sembrano riempirsi di sangue pulsante. Nella metamorfosi graduale che avviene, la fotografia appare il mezzo espressivo migliore per cogliere e fissare questo momento di passaggio. Il colore della carne “viva” anima il freddo tono del marmo, che tuttavia mostra ancora elementi fisici caratteristici della scultura, come graffi, scalfitture e piccole mancanze. L’attuale disposizione del Laocoonte, all’interno di una nicchia nel Cortile Ottagono dei Musei Vaticani, non consente più al visitatore una visione a tutto tondo del gruppo scultoreo. Questa forzata bidimensionalità viene registrata dagli scatti fotografici di Serafini ed esaltata nella stampa a scala ingrandita. L’intervento cromatico, di contro, tenta un recupero di una volumetria che conferisce ai particolari una nuova vitalità. La decisione di non rappresentare l’intero gruppo scultoreo bensì di rivelarne unicamente alcune parti è una scelta che dimostra chiaramente, come ricorda Cesare Brandi, quanto l’opera d’arte, anche se fisicamente frantumata, continui a sussistere potenzialmente come un tutto in ciascuno dei suoi frammenti. La forza evocativa di un dettaglio vale al pari della sua unità, quando l’intelletto è in grado di riconoscere un’immagine come opera d’arte. Non a caso alcuni concetti delle moderne teorie del restauro trovano parallelismi con le opere di Germano Serafini, così come d’altronde, i suoi lavori di questa serie riecheggiano principi e tecniche impiegate nella sperimentazione di ricostruzioni figurative legate al restauro delle opere d’arte. Partendo da una acquisizione dell’immagine in analogico, egli sfrutta la profondità e la pastosità che solo la pellicola risulta in grado di offrirgli. Attraverso una scansione ad alta definizione arriva alla successiva elaborazione, dove il particolare viene isolato dal contesto ed esaltato nella sua forza espressiva, impreziosito da sfumature cromatiche che rendono la fattura simile a quella pittorica. La stampa che viene poi eseguita direttamente su supporti diversi, tavole in questo caso, ma possono essere tele, carte, intonaci o muri, esalta le caratteristiche materiche dell’opera. In questo modo, attraverso una elaborazione tecnica complessa, ma sempre estremamente funzionale al tema espressivo, l’artista riesce a conferire un senso di forte concretezza fisica e plastica alle opere, coniugando insieme scultura, fotografia e pittura in un’opera originale che conserva il sapore dell’antico e una vitalità del tutto contemporanea. Tre sono gli artisti artefici del celeberrimo capolavoro, tre sono i personaggi rappresentati, tre le diverse soluzioni espressive adottate, di cui la scultura è il soggetto, la fotografia il mezzo e la pittura l’obiettivo finale. Una triade anche simbolica, non casuale, che conferma il carattere di unicità della produzione dell’artista.


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