Il Cagliaritano - N. 3 ANNO XXXVI

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LA NOSTRA FIERA

CAGLIARI CHE CAMBIA

PIÙ CREDITO

Anno 37 N.3 • € 2,00 • Spedizione in Abb. Post. - 45% - Art. 2 comma 20/b legge 662/96 • C/C post. n. I7233099

Estetica

PIÙ BELLE LE CAGLIARITANE Cappellacci, Lombardo, Medde COSÌ FUORI DALLA CRISI TRANS MANIA S.O.S. DEL DERMATOLOGO


Consiglio Regionale della Sardegna

Presidente

On. Claudia Lombardo Vice Presidenti

On. Michele Cossa On. Giuseppe Luigi Cucca Questori

On. Salvatore Amadu On. Andrea Biancareddu On. Gavino Manca Segretari

On. Antonio Cappai On. Paolo Luigi DessĂŹ On. Giovanni Mariani On. Massimo Mulas On. Claudia Zuncheddu

www.consregsardegna.it Via Roma 25, Cagliari


LA NOSTRA FIERA

CAGLIARI CHE CAMBIA

PIÙ CREDITO

Anno 37 N.3 • € 2,00 • Spedizione in Abb. Post. - 45% - Art. 2 comma 20/b legge 662/96 • C/C post. n. I7233099

Estetica

PIÙ BELLE LE CAGLIARITANE Cappellacci, Lombardo, Medde COSÌ FUORI DALLA CRISI TRANS MANIA S.O.S. DEL DERMATOLOGO

BIGGIO

FIERI DI PROGETTARE IL FUTURO

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Foto di copertina Alida Vanni Direttore responsabile GIORGIO ARIU giorgioariu@tin.it In redazione: Simone Ariu, Antonello Angioni, Laura Bonu, Claudia Cao, Antonella Solinas, Maurizio Artizzu, Michela Sorgia Scritti di: Giorgio Ariu, Antonello Angioni, Paolo Fadda, Giampaolo Lallai, Michela Sorgia, Laura Bonu, Claudia Cao, Mario Medde, Paolo Demuru, Alessandro Serra, Simone Ariu, Biagio Arixi Fotografie di: Andrea Nissardi, GIA foto, Enrico Spanu, Maurizio Artizzu, Mario Lastretti, Roberto Tronci, Elisabetta Messina Redazione e Centro di Produzione via Sardegna 132 - Cagliari Tel. 070.728356 - Fax 070.728214 giorgioariu@tin.it Grafica e impaginazione Gia Comunicazione Concessionaria per la pubblicità GIA Comunicazione via Sardegna , 132 Cagliari Tel. 070.728592 - Fax 070.728214 Anno 37 - N.3 Novembre 2009 Stampa e allestimento GRAFICHE GHIANI Registrazione Tribunale di Cagliari n. 21 del 23 Gennaio 1973 Ufficio del Garante Presidenza del Consiglio dei Ministri Registro Nazionale della Stampa n. 3165 Sped. in Abb. post. - 45% - art. 2 comma 20/b legge 662/96 Filiale di Cagliari Abbonamento a 12 numeri € 20,00 Ufficio abbonamenti Gia Editrice via Sardegna 132 09124 Cagliari Distribuzione: Cagliari-Olbia: Agenzia Fantini

CONTRO LA CRISI 9 LA NUOVA SFIDA DI FINSARDEGNA questo è il nuovo corso

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MITICO

Ie SAMI i SARDI

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ELMAS OLTRE L’AEROPORTO

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giorgio ariu editore Premio Europa per l’Editoria Premio Editore dell’Anno per l’impegno sociale e la valorizzazione della cultura sarda www.giacomunicazione.it

I GRANDI CAGLIARITANI

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VIINRACCONTO RICORDO

LADI CARLO MIA DEAFRICA MAGISTRIS


Dialogo

a cura di Giorgio Ariu

Giorgio Ariu Direttore de Il Cagliaritano giorgioariu@tin.it

Il mondo di Tara Gandhi Lei ride di gusto se la chiamo “sa sposa” o “sa pipia”. Dice che il suono è dolce come i paesaggi e i cieli larghi di questa Sardegna che accosta ad una sorta di paradiso. Dice che il richiamo di quelle parole sarde sa di melodia: un inno al rispetto della donna. Pochi giorni fa alla Bocconi di Milano per la “Prima Conferenza Mondiale. La scienza per la pace”, il mondo si è stretto intorno a Lei. Tara Gandhi, nipote prediletta del Mahatma, giramondo come ambasciatrice di pace e vice – chairperson Kasturba Gandhi National Memorial Trust. Circondata dal Principe Alberto di Monaco, dal Dalai Lama, Emma Bonino, Margherita Hack, Luc Montagnier, Rita Levi Montalcini, Giorgio Armani, Umberto Veronesi, Noa …, s’è portata appresso le “armonie dell’ambiente sardo” per parlare e ascoltare di “prospettive per un’efficace prevenzione dei conflitti, e delle basi culturali per lo sviluppo del concetto di pace”. L’eredità intensa del Mahatma Gandhi dall’India al tavolo del mondo, attraversando la Sardegna, per rilanciare ancora i valori della non violenza in un’epoca avvelenata da macro e mini conflitti quotidiani.

Lombardo, Cappellacci, Milia: la grande sfida

Floris e Fantola su Cagliari

“Occorre uno straordinario impegno per disegnare un grande progetto di rinascita economica e sociale delle zone interne. Occorre spezzare le barriere fisiche, culturali e sociali che impediscono una compiuta unità del popolo sardo”. La presidente del Consiglio Regionale Claudia Lombardo cerca di implementare la cultura della “totale operosità” di tutti coloro che hanno responsabilità di governo per arginare spopolamento, disoccupazione e povertà crescenti nell’isola. “Occorre svoltare verso le Riforme per modificare i rapporti tra Stato, regioni ed enti locali”. Rilancia Graziano Milia, presidente del Consiglio delle Autonomie Locali: “stiamo vivendo un periodo di crisi epocale. C’è una paura diffusa, dove sono le banche mentre la disoccupazione avanza? Intanto noi dobbiamo mettere mano allo Statuto, riscrivendolo.“Noi – sottolinea il presidente Cappellacci – stiamo lavorando bene nell’interesse di tutti i sardi. Abbiamo destinato 30milioni per il contrasto alla povertà, 30milioni per la Ricerca, 102milioni per le aziende agricole e stiamo risolvendo i casi Alcoa, Legler, Euroallumina, etc. Approvare due Finanziarie nel giro di pochi mesi non è poca cosa”. Frattanto il Sistema Sardegna necessita di volontà, di creatività e di compattezza perché la SFIDA porti davvero l’isola fuori dal tunnel, verso la Grande Rinascita.

“Il rapporto di Cagliari con il mare è essenziale per lo sviluppo della città. Cagliari è città d’acqua, è città di mare e la sua forma non può prescindere da una nuova unitarietà urbanistica. Ecco perché ho sempre puntato alla sua centralità mediterranea”. Il sindaco Emilio Floris pensa alla città dell’oggi e del futuro ancorata allo straordinario patrimonio dell’acqua, dal mare alle lagune. E rilancia Massimo Fantola che immagina una città che sappia competere con Marsiglia e Genova, che sappia trascinare però lo sviluppo dell’intera regione con la sua specificità di città metropolitana. Una città dal fascino irresistibile come la Florida per gli States: “Gli europei devono pensare alla nostra città per svernare. Sì, ha ragione Tara Gandhi, i silenzi, le armonie, la vastità dei nostri paesaggi sanno di paradiso”.

Massimo Fantola

Ugo Cappellacci


E Incontro con il dermatologo Patrizio Mulas

H

anno fatto gola a paparazzi (e non solo) le abitudini sessuali dei personaggi più in vista della scena nazionale. Sono diventate strumento di ricatto, pagine di intrattenimento per la stampa nazionale, oggetto di dibattito negli studi dei talk show e fulcro delle chiacchiere da salotto nelle case degli italiani. Invitare un transessuale al proprio programma tv, negli ultimi tempi, sembra essere divenuta la maggiore garanzia per assicurarsi uno share da primato. Da “vallettopoli” al caso Marrazzo, passando per le serate in compagnia di escort nelle più lussuose ville d’Italia, gli ultimi anni delle pagine di gossip hanno registrato una vera e propria parabola ascendente in termini di scandalo e trasgressività dei fatti portati alla luce. Ma se per un momento mettiamo da parte gli aspetti della questione fino a questo momento più gettonati e costantemente alimentati – quali la difficile conciliazione tra morale pubblica e privata, l’enorme desiderio di guardare dal buco della serratura nelle case dei vip, la profonda necessità di trasformare in piatti stereotipi persone e realtà lontani dalla quotidianità dei più – e cerchiamo di andare più a fondo, ci rendiamo conto di come esistano aspetti troppo spesso sacrificati in vista di quel gusto puramente scandalistico. Questi eventi sono infatti portatori di conseguenze ed effetti ben più allarmanti di quanto gli aspetti sopraelencati non mostrino, oltre essere indice di trasformazioni profonde all’interno della nostra società. Sì perché il desiderio di trasgressione, come già le generazioni passate hanno dimostrato, spesso si accompagna a una completa trascuratezza di quelle che sono le necessarie misure preventive da parte di chi opera la scelta dei rapporti multipli. «Negli anni ’80 ad arrestare una vita di facili costumi portati all’estremo era stato il diffondersi dell’AIDS – osserva Patrizio Mulas, primario di

COSTUME E SOCIETÀ DELLA TRASGRESSIONE OLTRE IL CASO MARRAZZO

INTANTO TRANSITANO

malattie veneree Jeronimus Bosch: dal“Trittico delle tentazioni” Particolare del Volo e Caduta di Sant’Antonio

dermatologia all’Ospedale Oncologico di Cagliari - Oggi sembra essere diventata una stupida sfida avere rapporti con più persone senza protezione. E la sfida è spinta un punto tale che molti arrivano addirittura a pagare di più una prostituta per non utilizzare protezione». Oggi le cose non sono molto diverse rispetto a vent’anni fa, semplicemente il focus si sta spostando sulla questione del transgender, sullo status sociale dei “clienti”, sui luoghi e le modalità con cui questi rapporti estremi si consumano, ma tutto questo non rappresenta altro se non la punta dell’iceberg di una società che riflette in scala ridotta le abitudini di quei vip che fanno tanto scalpore. «Non è possibile circoscrivere a una fascia d’età ben precisa le persone che oggi risultano positive agli esami di malattie sessualmente trasmissibili – prosegue Mulas – Dai diciotto anni in su le abitudini sessuali diffuse non mostrano grandi distinzioni. Sarà per il bisogno di sfuggire alla routine per mezzo di emozioni forti, sarà per un’incapacità di stare sereni con ciò che offre la propria quotidianità, sarà l’influsso esercitato dal giro che si

frequenta. Un altro fattore da considerare, che è stato indubbiamente determinante anche nel prolungamento dell’età di attività sessuale e ha quasi alimentato il desiderio di vivere una nuova sessualità, è stato poi il diffondersi del viagra. Amanti, prostitute, trans, non sono che sfumature diverse acquisite dall’insoddisfazione di molti mariti o uomini adulti in genere». Sintomo di quanto trascurato risulti l’aspetto igienico-sanitario di queste nuove abitudini è stato il ripresentarsi di malattie che sembravano dimenticate: «Un esempio di come talvolta le malattie che si pensavano debellate in Italia stiano ritornando, ci è stato offerto di recente dalla presenza di alcuni pazienti sardi e immigrati affetti da linfoglanuroma venereo. Casi come questi trovano giustificazione solo nella pratica del turismo sessuale che come le altre mode, sta conoscendo sempre maggiore diffusione con la più totale trascuratezza di qualsiasi misura preventiva» conclude Mulas. Insomma, sul fatto che amanti di ogni sorta siano emblema di una sessualità che vuole essere vissuta in ogni sua possibile espressione, non esiste più alcun dubbio. Ciò che ancora è necessario discutere, e troppo spesso ci dimentichiamo, è quella mancata consapevolezza della società contemporanea dei limiti dell’essere pur sempre umani. Un po’ più spesso, forse bisognerebbe soffermarsi su come quel senso di onnipotenza, che permette di comprare una compagnia, di modificare la nostra natura, di vivere il presente superando ogni limite, fino a dimenticare persino il rispetto per la propria persona, non possa niente e non possa nemmeno essere una giustificazione davanti alle minacce e ai rischi a cui si espone la propria vita e quella altrui.

il Cagliaritano

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F ieri di progettare il

QUI FIERA INTERNAZIONALE, OSSERVATORIO STO

Gianni Biggio, presidente dell’Ente Fiera

U

na struttura che si erge alta e maestosa, affacciata sull’incantevole golfo degli Angeli e circondata da Viale Armando Diaz e Viale Salvatore Ferrara. Maxi contenitore di cultura, vetrina economica, centro d’arte e spettacolo, 46.320 mq dove trovare tutto o quasi. Una città nella città, un’occasione per i sardi per passare una giornata diversa, ascoltare un concerto in esclusiva, conoscere la cultura estera o riscoprire la propria. È la Fiera Campionaria della Sardegna, che da sessant’anni ne accompagna la crescita economica, culturale e intellettuale e che ogni anno accoglie mezzo milione di visitatori portando Cagliari ai vertici assoluti delle Campionarie. Alla guida Giovanni Biggio, uomo dalla mente imprenditoriale, ex presidente della Confindustria di Cagliari. La Fiera è nata come contenitore e vetrina di manufatti e prodotti locali. Oggi cosa è diventata? È rimasta quella di sempre, ma oggi

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il Cagliaritano

si inserisce in quadri diversi e ricopre diverse funzioni. Il mondo è cambiato, tutto si muove più velocemente e sarebbe impensabile non modificarne la struttura e l’organizzazione. Rimane saldo il suo ruolo fieristico di esposizione e valorizzazione dei nostri prodotti, ma oggi ci impegniamo sul campo congressuale e siamo diventati un punto di appoggio efficiente per grandi manifestazioni, come concerti o grandi spettacoli. La Fiera è uno dei pochi posti a Cagliari attrezzato per lo svolgimento di grandi manifestazioni in piena sicurezza. Lentamente ci stiamo inserendo anche in un altro filone, vitale per la Cagliari moderna, che si avvicina al mare. La Fiera può giocare un ruolo strategico: perché Cagliari divenga una città di mare, il suo appoggio è essenziale. L’enogastronomia e l’artigianato sono i marchi che contraddistinguono la nostra cultura da sempre. La Fiera che ruolo ha nella loro affermazione?

Forte, ma vorrebbe diventare determinante proprio in questo settore. Noi possiamo e dobbiamo fare davvero tanto. Stiamo organizzando un incontro, una Fiera Agroalimentare Sarda, capace di presentare i nostri prodotti a livello internazionale. Lo scopo è quello di sponsorizzare prodotti tipici come vini, formaggi, tonno di Carloforte e bottarga. Il progetto è ancora al suo stato embrionale, ma lentamente prende forma. Faremo in modo di portare buyers internazionali direttamente qui, così che possano assaggiare le nostre produzioni. Crede che manifestazioni come queste, settoriali e non generaliste, siano l’arma vincente dal punto di vista economico? Per alcuni settori la specializzazione è addirittura necessaria. Far incontrare domanda e offerta in un determinato settore offre ad entrambe le parti vantaggi nella contrattazione. La semplice esposizione generalista, spesso non basta più, si sente l’esigenza di far


STORICO DELL’ECONOMIA IN SARDEGNA

il futuro

incontrare buyers ed operatori economici che condividano lo stesso scopo. Ormai questa è una tendenza nazionale. Il workshop del turismo ha sottolineato proprio quest’aspetto, i compratori stranieri hanno prima partecipato ad incontri tematici, e poi si sono spostati in zone limitrofe per conoscere e vedere dal vivo i nostri scenari. La contrattazione dietro la scrivania non avrebbe avuto lo stesso effetto. La libertà di cui gode la Fiera nello scegliere i partners organizzativi, è un incentivo par la valorizzazione del prodotto sardo? Il quartiere fieristico ha sempre collaborato con ogni tipo di organizzazione ed ente. Alcune manifestazioni nascono da nostre iniziative, ma altre dalla cooperazione con altre realtà pubbliche , come la Provincia o la Regione, o private, in occasione della Fiera del Tuning, per esempio. Per noi questa possibilità di scelta diventa vitale, non possiamo pensare di proporci come

unico organizzatore e neppure di focalizzare l’attenzione su una sola possibilità, dobbiamo cogliere ogni opportunità, perché questo è sinonimo di crescita. Il turismo può diventare il fiore all’occhiello dell’economia sarda. La Fiera può contribuire alla sua crescita? Questo deve diventare il nostro punto di forza. Gli inglesi chiamano la fiera “esibition center”, che tradotto letteralmente significa centro di esibizioni. Una fiera moderna e competitiva deve mirare a ricoprire questo ruolo, deve diventare il centro culturale e di spettacolo per eccellenza. Un anello necessario per rendere Cagliari sempre più una città turistica, e oggi che il nostro aeroporto riceve i voli a basso costo della Ryanair, questi argomenti devono acquisire una priorità assoluta. Il turista deve poter scegliere tra un’ampia gamma di servizi perché rimanga soddisfatto. Il centro congressi, in questo senso, è stato un ottimo investimento per incentivare il turismo culturale. Fisicamente, il quartiere fieristico si affaccia sul Mediterraneo. Come vive questa vicinanza? Cagliari sta modificando il suo rapporto con il mare. Lo abbiamo sempre temuto, e forse un po’ trascurato. Oggi invece si guarda alla Marina come ad un capitale prezioso, si auspica all’ampliamento di Giorgino, e si parla di riqualificazione dell’area marittima. È un grande passo in avanti. Noi sosteniamo quest’idea, può essere un’occasione di svolta per la Sardegna. L’Emporio del Mediterraneo è il primo segnale del nostro impegno in questo senso, gli artigiani sardi si sono confrontati con quelli provenienti da 18 Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, accrescendo la loro conoscenza e cultura. L’obbiettivo fina-

le, però, è quello di creare una Fiera del Mare. Genova può essere un modello da imitare? No. Il caso di Genova è unico, come pure l’esperienza di Napoli. Non possiamo competere con loro a livello nazionale, il settore della nautica non ci appartiene e non ci rappresenta. La Fiera del Mare sarda deve puntare su settori come la pesca sportiva, professionale o subacquea, il turismo marino, la produzione del sale, la fotografia subacquea e tutte le altre attività che ruotano intorno al mare. Qui possiamo davvero fare la differenza, ed imporci come leader a livello nazionale. Già in occasione della Fiera di Natale abbiamo ospitato dei produttori di sale che vendevano un particolarissimo sale speziato, questa è la via da seguire. Facciamo un bilancio. Crede di aver appagato le aspettative della popolazione sarda? È una domanda che mi faccio spesso. I numeri ci sono, il quartiere fieristico attrae ogni anno più di 450 mila persone, ma l’aspetto curioso è che solo 1 su 3 è sarda. La domanda che mi faccio costantemente non è se sono stati soddisfatti ma da cosa potranno esserlo, gli eventi che compongono il nostro calendario sono pensati e programmati in questa prospettiva. Tra poco ospiteremo il salone Fiori e Spose, a questa vorrei abbinare una fiera su prodotti casalinghi, perché chi si sposa ha bisogno di arredare casa! Questo significa anticipare le esigenze della popolazione, capire prima di loro quello di cui hanno bisogno. Lei è stato presidente della Confindustria di Cagliari, come riversa questa esperienza nella sua attuale carica? É soddisfatto del suo operato? Sono stato presidente della Confindustria per 7 anni, e questo mi ha insegnato ad affrontare situazioni ed intraprendere relazioni in un settore molto particolare come quello economico. Un’esperienza indubbiamente preziosa. È ancora presto per fare un bilancio definitivo, ma no, non sono soddisfatto. Abbiamo in cantiere un progetto ambizioso, e il mio obbiettivo è quello di portarlo a termine.

Laura Bonu

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IMPRESE E POLITICHE AI TEMPI DELLA CRISI

E meno male che tira l’artigianato

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uando si parla di crisi dei settori produttivi in Sardegna, si parla in realtà di un fenomeno che ha preceduto di gran lunga la recessione mondiale che ha colpito anche il nostro Paese. Come attesta anche l’andamento dell’economia regionale degli ultimi anni, non poche sono le difficoltà derivanti in primo luogo da un vero e proprio blocco dell’economia sarda, che ha visto crescere sempre più anche il divario economico con le regioni del centro nord. Poiché la recessione mondiale e le enormi difficoltà dell’industria sarda, stanno producendo effetti moltiplicatori di difficilissimo controllo nella realtà produttiva e sociale dell’isola, si sta oggi riflettendo su una strategia di forte e positivo cambiamento in grado di fare fronte alla situazione attuale. Le recenti statistiche offrono conferma di come in Sardegna il lavoro sia al centro della questione sociale: l’impoverimento delle persone, delle famiglie, dei territori e delle stesse imprese sono solo alcuni degli aspetti che si potrebbero evidenziare e davanti ai quali risulta ormai improrogabile la definizione di una proposta di vasto respiro, che coinvolga tutti i territori e i diversi settori dell’economia sarda, e che si rivolga tanto alle emergenze produttive, quanto alle strategie di rilancio dello sviluppo. Una delle piste prioritarie che attualmente si sta scegliendo di battere è l’adozione di decisioni condivise tra rappresentanze economiche, sociali e con gli enti locali, che si pongano come fine il rilancio dello sviluppo e la promozione del lavoro. Tra gli obiettivi

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il Cagliaritano

di Mario Medde* primari si possono evidenziare provvedimenti di sostegno alle imprese e di sgravio degli oneri contributivi e a sostegno dell’occupazione e del lavoro soprattutto per i giovani, l’inclusione sociale contro le povertà e per l’affermazione dei diritti degli anziani, un piano per le attività produttive contro i processi di desertificazione industriale, il sostegno per le imprese locali, la valorizzazione della filiera dell’educazione, dell’istruzione, della formazione e dell’università, per la quale è indispensabile avviare una vera e propria vertenza per affermare un modello di scuola sarda competitiva e, infine, una serie di riforme, di settore e istituzionali, per costruire una nuova Regione sul piano economico, organizzata con una nuova legge statutaria. Nonostante la presenza della crisi attualmente in corso, alcuni dati riguardo le imprese artigiane della Sardegna risultano piuttosto incoraggianti: il settore artigiano, infatti, non solo si conferma rilevante nella nostra regione in relazione al numero di imprese totali (soprattutto nel comparto manifatturiero) ma, pur evidenziando la ridotta dimensione in termini di addetti, di fatturato e di tipologia, rivela una forte capacità di tenuta, anche in termini di organici, e soprattutto una visione di prospettiva positiva dal momento che un terzo di queste attività prevede di espandersi. Non vanno trascurati gli interventi a favore del comparto artigiano attuati negli ultimi anni, quali l’introduzione di norme specifiche e di meccanismi di selettività nelle norme esistenti che favoriscono le imprese che intraprendono percorsi di crescita dimensionale, il rafforzamento di misure in favore

dell’apprendistato, sia per la parte formativa, sia per la parte di incentivazione, il monitoraggio e la valutazione degli effetti della nuova procedura 51 per gli investimenti delle imprese artigiane (adeguatezza della norma e delle sue procedure rispetto alle esigenze delle imprese, adeguatezza delle risorse messe a bando negli ultimi anni) e, infine, la questione dei rapporti con le banche: alla luce delle nuove normative e della difficile fase di crisi che attraversa anche il sistema regionale, e al fine di un accompagnamento delle imprese artigiane ad un corretto livello di indebitamento con il sistema bancario, sempre maggior peso va acquisendo il ruolo dei consorzi fidi. Alla luce di questi dati, indispensabile risulta un adeguamento dell’ente regionale alle nuove esigenze dell’economia della società sarda: in attesa di definizione del processo riformatore è comunque fondamentale fronteggiare le numerose emergenze produttive e del lavoro attraverso un rafforzamento ed una riorganizzazione degli assessorati più coinvolti nella gestione della crisi economica. Per queste motivazioni risulta necessario far sì che il governo delle emergenze si realizzi con continuità ed efficacia e possa influire positivamente nelle strategie che i diversi assessorati debbono dispiegare per dare maggiore competitività al sistema Sardegna. *Mario Medde Segretario Generale della CISL Sarda


Elisabetta Messina

Claudia Lombardo e Ugo Cappellacci COSÌ POSSIAMO AGGREDIRE LA DISOCCUPAZIONE

Contro la crisi R

questo è il nuovo corso

itrovare l’unità nell’autonomia regionale, per difendere il lavoro e promuovere lo sviluppo della Sardegna: questo il fine dichiarato dal Presidente della Regione, Ugo Cappellacci, al termine del vertice sulla crisi che sta colpendo la nostra isola. Certo è che non si intende fare riferimento a una generica e indistinta unità che d’improvviso abbatta ogni differenza politica e metta alla pari tutte le responsabilità sociali e istituzionali, ma ad una necessaria convergenza intorno all’obbiettivo comune di fronteggiare l’emergenza e rilanciare lo sviluppo della Sardegna. Necessario a tal fine il confronto con lo Stato centrale, per affrontare insieme la Questione Sarda abolendo la logica che vede la Sardegna penalizzata da decisioni assunte all’esterno, che la costringono condizioni di costante svantaggio rispetto alle altre popolazioni della Repubblica. «È necessario ora dire basta, una volta

per tutte, – ha sottolineato lo stesso Cappellacci – alle logiche assistenzialistiche fatte di interventi sporadici, utili solo a gestire le emergenze, ma senza domarle. Noi vogliamo affermare il nostro diritto di autoregolamentazione per il governo del territorio e per l’elaborazione e l’attuazione delle politiche di sviluppo». Per questo non è possibile pensare a un futuro economico dell’Isola fondato esclusivamente sul turismo. Il sistema Sardegna al quale si deve mirare è fatto di turismo e agricoltura, industria e artigianato, di servizi e impresa che interagiscano proficuamente. Alla luce della fermata degli impianti programmata dall’ENI appare ancora più inaccettabile che sia un’impresa con forte partecipazione statale a dare il colpo di grazia alla chimica e all’intero apparato industriale della Sardegna, non solo perché l’ENI non è un’azienda in perdita, ma soprattutto perché si è lungamente giovata delle risorse umane e materiali dei sardi.

Sono osservazioni riprese e portate avanti anche dalla stessa presidente del Consiglio, Claudia Lombardo, che sottolinea il peso che un sistema produttivo ampio e variegato riveste in una realtà come la nostra: «Se vogliamo preservare la nostra cultura industriale e, magari, potenziarla per rilanciare il ruolo strategico dell’Isola al centro del bacino occidentale del Mediterraneo negli scambi commerciali con i continenti africano asiatico, deve essere chiaro a tutti che neppure un solo posto di quelli attualmente garantiti dall’Industria deve andare perduto». Per queste ragioni anche la stessa presidente ha insistito sulla necessità di realizzare un nuovo modello economico integrato fra industria, agricoltura, pesca, turismo e impresa per assicurare all’isola un’economia solida, duratura e per spezzare la catena dell’isolamento che rischia di essere non più solo geografico ma anche culturale ed economico.

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La nuova sfi Dino Barranu

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l consorzio Fidi Finsardegna è stato il primo confidi in Italia a richiedere l’iscrizione nell’elenco speciale dell’articolo 107 del testo unico bancario e, dopo l’istruttoria del Servizio Supervisione intermediari specializzati, il primo ad ottenerla. In occasione del raggiungimento di questo importante traguardo che gli permetterà di concedere una garanzia a prima richiesta a circa tremila aziende aderenti, intervistiamo Dino Bàrranu, il Direttore di Finsardegna. Quali sono state le prime tappe di questo percorso che ha condotto all’inserimento nell’elenco degli intermediari finanziari? Questo traguardo rappresenta per noi la chiusura di un lungo ed intenso processo avviato sin dal 2006, che ha interessato tutta la struttura del nostro confidi, coinvolgendo rilevanti aspetti operativi, tecnici ed organizzativi. Il cammino ha origine dalla storica interconnessione che abbiamo sempre operato tra le esigenze reali delle imprese associate, la valorizzazione del capitale umano interno e l’utilizzo delle tecnologie più innovative. Il percorso è stato lungo, complesso ma ricco di soddisfazioni perché la nostra strategia è sempre stata di sostegno all’impresa, nel suo radicamento al territorio e nelle sue peculiarità umane ed aziendali, attraverso gli strumenti

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consulenziali migliori e più aggiornati. Come si tradurrà sul piano operativo questo provvedimento della Banca d’Italia? In verità con l’iscrizione all’elenco speciale dell’art. 107 non si sta che rendendo esplicita una funzione consulenziale che Finsardegna ha cercato di realizzare da tanti anni. Abbiamo sempre concepito Finsardegna come un consulente serio, affidabile ed aggiornato, vicino fisicamente e concettualmente all’azienda, affinché fosse la peculiarità dell’imprenditore o dell’imprenditrice a dover guidare le possibili soluzioni tecniche da proporre al sistema bancario. Ora, la garanzia prestata da Finsardegna in quanto intermediario vigilato dalla Banca d’Italia, infatti, aumenterà significativamente la possibilità delle imprese socie di accedere al credito, influendo positivamente con strumenti concreti sulla difficile congiuntura che si profila per le imprese. Un’ulteriore ricaduta favorevole per le imprese socie sarà


fida di Finsardegna CRISI DEL CREDITO ALLE IMPRESE: ORA C’È L’ARTICOLO 107

PER IL FUTURO

Incontro con Dino Barranu, Direttore Generale del Consorzio Fidi Sardegna

l’utilizzo di tecnologie in grado di azzerare le distanze fisiche tra centro direzionale e sedi terriotoriali. A quali categorie rivolgerete maggiore attenzione? In particolare ci muoveremo in favore delle nuove imprese giovanili e femminili, soggetti più deboli nel rapporto col sistema bancario. Svilupperemo sistemi legati al microcredito, politica creditizia a cui il confidi dedicherà un’attenzione specifica. Siamo convinti, infatti, che soltanto con un sostegno solido e affidabile come quello del microcredito, le idee giuste possano diventare davvero impresa. Anche la vostra struttura organizzativa vivrà ora un rinnovamento? Sì, naturalmente affronteremo questa nuova fase anche con uno sforzo organizzativo teso a garantire un migliore qualità dei servizi offerti. Questo

sicuramente un sensibile abbattimento del costo del denaro, dovuto alla diversa natura della garanzia prestata e, di conseguenza, ad un’operatività che altrimenti la banca avrebbe difficoltà a mettere in atto. Quale sarà la strategia di Finsardegna 107? La strategia aziendale sarà quella di consolidare la presenza di Finsardegna nel territorio sia come partner istituzionale negli organismi di partenariato locale di programmazione territoriale sia come punto di riferimento professionale per aziende socie, attraverso la garanzia dell’alta professionalità dei suoi operatori e

significherà, nel rapporto con i soci, fornire un’informazione più puntuale sulle peculiarità dei prodotti bancari e sul loro costo, un’istruttoria delle pratiche di fido, gestite in modo sempre più accurato e trasparente, una chiarezza totale nella gestione delle posizioni problematiche, un rafforzamento generale del rapporto fiduciario con i soci. Ma al contempo sta avvenendo anche un’importante trasformazione che coinvolge la sede centrale, le filiali e le agenzie distribuite sul territorio, finalizzata anche a ridurre ulteriormente i tempi tecnici legati all’avvio dell’evolversi dell’attività istruttoria. Il tutto sarà supportato da modifiche significative al sistema informatico, da un incremento degli sportelli informativi sul territorio e da una migliorata e potenziata fruibilità del nostro sito internet.

Politica regionale ECCO IL PD SARDO “Non è più tempo di voltarci indietro, siamo il partito del futuro”. Silvio Lai, neo segretario del PD, indica la strada” per evitare ritardi sui nuovi squilibri nell’isola e lo spopolamento. Ora i quadri di vertice sono al completo: ci sono la presidente regionale Valentina Sanna e i nuovi componenti la direzione regionale: Angela Fois, Francesco Licheni, Piero Comandini, Efisio Arbau, Elisabetta Sorgia, Giambattista Orrù, Raffaela Sanna, Antonello Addis, Franca Fara, Antonio Pirisino, Annamaria Uras, Stefano Delunas, Luisa Puggioni, Enzo Pisano, Rossella Pinna, Franco Sanna, Simone Rivano, Michela Mura, Maria Delogu, Emanuele Sanna, Gerolamo Balata, Silvia Mamusa, Antonietta Cossu, Ornella Piras, Piersandro Scano, Piero Usai, Pasquale Lubinu, Luca Clemente, Aldo Deiana, Daniela Forma, Rita Murgioni, Antonio Biancu, Emanuele Cani, Giovanna Casagrande,Giovanna Sanna, Micaela Morelli, Dolores Lai, Antonio Mameli, Roberto Deriu, Pietro Ziriattu, Giovanni Tocco, Giuseppe Maciotta, Simone Cossu, Tiziana Mameli, Angela Corrias, Sara Solinas, Giuseppina Sanna, Giacomo Spissu, Bastiano Mazzone, Costantino Tidu, Annamaria Manca, Laura Paoni, Lallaù Pulga, Francesca Barracciu, Giampaolo Diana, Carlo Balloi, Gianmario Demuro, Salvatore Rubino, Angela Quaquero, Carla Varese, Giorgio Maciotta, Lucia Chessa, Giannarita Mele, Massimo Deiana, Cristiano Erriu, Cristina Lavinio, Marina Spinetti, Vittorio Masu.


A N

NCHE NOI SIAMO USCI

on vi è dubbio che la città costituisca un fenomeno associativo di notevole importanza nello sviluppo della civiltà occidentale. In particolare, nella storia d’Italia, la civitas (intesa sia come aggregato urbano che come insieme dei cittadini stabiliti in un determinato territorio) ha sempre occupato un posto di primo piano al punto che, in epoca risorgimentale, Carlo Cattaneo poté auspicare la nascita del nuovo stato unitario come federazione di autonomie cittadine. E’ in età medioevale, dopo l’abbandono dei secoli barbarici, che si verifica il lento rifiorire delle antiche città che - scomparsi i municipia di epoca romana - sopravvivevano (anche sul piano giuridico), come entità distinte dalla campagna circostante, per la presenza delle sedi vescovili. Nel contempo si formano nuovi insediamenti urbani sotto l’impulso di necessità prettamente economiche, come nel caso delle città commerciali (che sorgevano intorno ai principali nodi stradali di traffico), ovvero difensive. Quest’ultima situazione diede origine ad agglomerati di case cinti da fortificazioni, stretti intorno ad un castello o ad un’abbazia, dove la popolazione si concentrava per soddisfare un comune bisogno di difesa contro le incursioni dall’esterno. Tali nuovi insediamenti non tardarono a diventare anche centri di produzione artigianale e di scambi e ad organizzarsi in modo autonomo. Ed è tra quelle mura - e sotto la spinta dei nuovi rapporti economici e sociali che si andavano determinando - che maturarono i grandi fenomeni caratteristici della fine del Medioevo, come il graduale superamento della società feudale e l’avvento dei nuovi ceti borghesi, il passaggio dall’economia terriera a quella mercantile, l’istituzione di nuove forme di democrazia e più in generale di esercizio del potere politico mediante sistemi di autogoverno. Da allora, e fino ai nostri giorni, la città è rimasta il crogiuolo di tutte le evoluzioni nella vita della nazione, in ogni settore: politico, economico e culturale. Solo la città, infatti, è in grado di fornire le condizioni materiali per una rapida trasformazione dell’assetto sociale esistente. E ciò a causa di due condizioni di fondo che sono riscontrabili soltanto in essa: vale a dire l’esistenza delle sedi del potere e, al tempo stesso, di gruppi di popolazione con una forte carica di ostilità nei confronti di questo potere. E’ la città stessa a determinare l’apparente paradosso di creare, parallelamente, il potere concentrato e le condizioni del suo supe-

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ramento: una sorta di dialettica hegeliana con la tesi e l’antitesi dove poi la sintesi sarà data dal nuovo equilibrio istituzionale, dal nuovo assetto del potere. La storia ci insegna che le grandi trasformazioni, i movimenti di rinnovamento della società non si accendono nelle campagne ma nelle città. Ma perché il cambiamento parte dalle città? Esistono indubbiamente ragioni culturali: la città infatti attrae gli intellettuali che costituiscono, da sempre, uno degli elementi - forse il fondamentale - del processo di trasformazione sociale: sono occasione di confronto e fermento di rinnovamento continuo. La relazione dialettica che - all’interno della città - si instaura tra i centri del potere ed i gruppi antagonisti allo stesso fa la differenza tra ciò che avviene nelle grandi rivoluzioni rispetto ai processi di sollevazione rurale quali, ad esempio, la jacquerie, la rivolta contadina verificatasi nella Francia del XIV secolo. La ribellione contadina, dopo l’iniziale fase di espansione, non riesce a prevalere perché parte lontano dai centri del potere e si indebolisce in una serie di interventi marginali senza acquisire quella sufficiente forza d’urto che le consente di paralizzare il potere. La “rivoluzione” invece si accende in prossimità del potere, non deve percorrere grandi distanze per raggiungerlo (si veda il caso della rivoluzione francese come pure della rivoluzione bolscevica). Nella storia dell’umanità dunque la città sta sempre alla base di ogni svolgimento umano e culturale, di ogni ipotesi di progresso e di civiltà. Al suo interno esprime un dinamismo che si contrappone alle società agrarie le quali - con la loro immobilità e la repressione ammantata da patriarcalismo - costi-


LA CITTÀ, PASSATO E PRESENTE: DALLA CAGLIARI BORGHESE E OPEROSA DI BACAREDDA E DI CRESPELLANI È NATA UNA SARDEGNA MODERNA

CITI DALLE MURA tuiscono il punto d’incontro e, al tempo stesso, di ritorno delle forze regressive, delle vandee, le roccaforti della meccanica ripetitività, la negazione della dialettica. E’ per questa ragione che la salvaguardia della città, dei suoi monumenti, della sua identità, coincide sempre con la difesa di un’autenticità e di una storia e, al tempo stesso, rappresenta il presupposto di ogni continuità e progresso civile. Ed è per questa ragione che cessa di essere l’artefice del suo destino e si dequalifica il popolo che perde la propria identità e cultura “urbana”. Ma torniamo all’età medioevale, periodo nel quale - in ampi territori di quello che, in esito ad un processo lungo e controverso, diverrà lo Stato Italiano - si manifesta la tendenza di ogni città a costituirsi come organismo autonomo, anche sotto il profilo giuridico, capace di dotarsi di istituzioni e leggi proprie: tendenza che si sviluppa in parallelo all’accrescersi della sua importanza. E’ il periodo del diritto statutario che, peraltro, in Sardegna ebbe una diffusione assai limitata: si veda il caso della città di Sassari che nel 1294 si costituì in libero comune e si diede propri statuti. In tale contesto le città cercarono di condurre una politica indipendente, di imporre tributi, di avere una milizia armata, fino a diventare veri e propri piccoli stati che estendevano il loro dominio sul territorio circostante libero ormai dall’ossequio ad un potere centrale, imperiale o regio che fosse. Non a torto la fase del libero comune è considerata il momento più glorioso per le città italiane che valse a dar loro un particolare status rispetto alle altre città d’Europa fino a quando, con l’avvento delle monarchie rinascimentali, che tenevano distinti i loro interessi da quelli delle città subordinate, queste ultime si ridussero a semplici “municipi” conservando solo l’autonomia amministrativa e finanziaria ed il dominio sulle borgate rurali circostanti (è stato osservato come tale entità territoriale costituisca, in qualche misura, il nucleo storico dell’odierna provincia). Per quanto concerne la Sardegna va detto che, con la dominazione catalano-aragonese, iniziata nel 1323, si

di Antonello Angioni

ha l’introduzione del feudalesimo. Tuttavia, a partire da tale periodo, e poi in epoca spagnola, ad alcuni comuni viene riconosciuta l’esenzione dalla giurisdizione feudale. Tali entità - denominate “città regie” - godevano di un particolare status giuridico che ne favoriva lo sviluppo. Infatti non erano soggette ai vincoli e ai doveri feudali ma sottoposte esclusivamente alla giurisdizione reale e titolari di privilegi e concessioni derivanti dalla loro peculiare condizione. Cagliari e Iglesias (allora Villa di Chiesa) ottennero tale titolo nel 1327, Sassari nel 1331, Castelsardo (all’epoca Castel Aragonese) nel 1448, Oristano nel 1479, Bosa nel 1499 e infine Alghero nel 1503. Per completezza si fa presente che, a queste sette “città regie”, nel 1836 (in periodo sabaudo), se ne aggiunsero tre: Tempio Pausania (allora Tempio), Nuoro e Ozieri. Per capire l’importanza di tale riconoscimento occorre anche considerare che i rappresentanti delle città costituivano uno dei tre bracci (e precisamente lo “stamento reale”) del Parlamento sardo, istituito nel 1355 dai catalano-aragonesi e rimasto in vita sino al 1848 allorché - a seguito della “fusione organica” della Sardegna con gli Stati di terraferma - si sancì la fine del viceregno. Nell’ambito della città regie poterono trovare spazio la libera iniziativa economica e forme di autogoverno. In Italia, dopo il declino delle monarchie rinascimentali, l’intervento delle dominazioni straniere - in coincidenza con l’affermarsi in Europa dei regimi assolutistici - diminuì ulteriormente le libertà cittadine. Tuttavia in alcuni territori, come ad esempio nel Lombardo-Veneto, la “città” doveva ancora rappresentare un’entità rilevante, titolare di alcuni privilegi ed in posizione di preminenza rispetto ai piccoli comuni. Realizzata l’unità italiana venne introdotto il sistema, d’ispirazione napoleonica, che riconosceva enti territoriali dotati di alcuni poteri di natura amministrativa ma sottoposti ad un penetrante controllo

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governativo ed organizzati secondo un modello uniforme (il “comune” schematizzato in una legge generale e astratta). In tale ambito la “città”, pur continuando ad essere una realtà importante nella struttura della società nazionale, non ebbe più alcuna specifica rilevanza nell’ordinamento dello Stato restando in tutto livellata, dal punto di vista giuridico-amministrativo, a qualsiasi borgo eretto in comune. Una traccia della tradizione cittadina è tuttora testimoniata dall’uso che alcuni comuni fanno del titolo di “città” nei loro atti ufficiali. Sul piano giuridico, peraltro, si tratta di una semplice distinzione onorifica priva di riscontro nel vigente ordinamento delle autonomie locali (D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267). La norma di riferimento (l’art. 45 del R.D. 5 luglio 1896, n. 314, riprodotto dall’art. 40 del R.D. 21 gennaio 1929, n. 61) stabiliva che il titolo di città potesse “essere concesso a comuni insigni per ricordi o monumenti storici, che abbiano convenientemente provveduto ad ogni pubblico servizio e in particolar modo all’assistenza, istruzione e beneficienza e che abbiano una popolazione agglomerata nel capoluogo non minore di 10.000 abitanti”. Con questa disposizione veniva attribuito un riconoscimento a quei comuni che vantavano “tradizioni cittadine” e che, nel contempo, mostravano di rendersene degni attraverso un’efficiente organizzazione soprattutto nel campo delle attività sociali. Si ritiene peraltro che la norma sia stata abrogata, con decorrenza dal 1 gennaio 1948 (data di entrata in vigore della Costituzione della Repubblica), per effetto della XIV disposizione transitoria. In realtà, sulla base di una lettura sistematica e soprattutto della ratio della disposizione, può ritenersi che l’abolizione abbia riguardato i soli titoli nobiliari veri e propri (quale residuo di antichi privilegi contrastanti col principio di uguaglianza) e non anche il titolo di “città” che si ricollega ad una tradizione civile e democratica che la Costituzione ha inteso riconoscere e valorizzare. Questa breve disamina dei profili storici, rende evidente come la città rappresenti una delle forze primarie nella storia dell’umanità: da sempre è il luogo della civiltà e del progresso, il punto nodale da cui gli uomini partono alla conquista di nuovi orizzonti. E’ attraverso le strade, le piazze, i palazzi, i negozi, le industrie, le scuole della città che si costruisce e si rinnova la società e passa ogni forma di civiltà. Perché la città non è fatta solo di pietre, che unite con la malta formano gli edifici, ma anche di uomini e quindi di idee. Anzi, come diceva Marsilio Ficino, la città non è fatta di pietre ma di uomini i quali attribuiscono un valore alle pietre. La città non esprime dunque solo la dimensione di una funzione ma anche e soprattutto la dimensione dell’esistenza, che é poi ciò che de-

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finisce il livello della civiltà di un popolo. Non a caso “città” e “civiltà” sono due parole che hanno la stessa radice. Molto acutamente Le Corbusier ha scritto che “la vita delle città è un avvenimento continuo che si svolge nei secoli con opere materiali, tracciati e costruzioni, che le conferiscono una propria personalità e da cui emana un po’ alla volta la sua anima”. E’ per questo che occorre salvaguardare tutta la città - intesa anche come paesaggio e contesto ambientale - e non solo le sue componenti più elevate (i singoli monumenti) che, fuori dal contesto, possono rappresentare solo i frammenti di una vicenda storica di cui si è persa la conoscenza globale. Non a caso - quanto meno dalla metà del Novecento - la moderna cultura urbanistica ha esteso il concetto di tutela dal singolo monumento a tutto l’ambiente antico della città ed esige quindi di “considerare in esso come essenziale e determinante proprio il carattere d’insieme, la stratificazione delle fasi, l’unità complessiva, la continua e composita configurazione edilizia e naturale”, come hanno scritto con grande efficacia espressiva Antonio Cederna e Mario Manieri Elia. Pertanto, se proprio si deve continuare ad utilizzare la parola “monumento”, deve essere riferita a tutta la città storica, all’insieme della struttura urbanistica quale si è venuta formando nel corso dei secoli. In questo ambito l’autenticità figurativa di un centro storico è rappresentata dal contesto delle opere antiche, che in ogni secolo sono state costruite e che le vicende storiche e politiche hanno tramandato sino a noi, con tutte le trasformazioni subite per esigenze pratiche di gusto, e che la civiltà ha reso testimonianze, per noi ancora valide, del tempo in cui furono costruite. In tale prospettiva tutta l’edilizia della città antica costituisce il connettivo indispensabile alla continuità delle opere d’arte fondamentali al contesto della città e la cornice essenziale alla visione plastica e unitaria di questa realtà che, nella sua interezza, esprime un lungo, complesso e talvolta non lineare processo storico. La pregnanza creativa che possiede la città storica risiede nel fatto che l’evento urbanistico in quanto tale tende a coincidere quasi sempre con quello architettonico.

Il recupero del centro storico costituisce quindi un fatto altamente culturale che deve fondarsi sulla ricerca intesa come giudizio di valore, finale e unitario, vincolato ad una proposta per il futuro del centro storico. Essendo questa cultura formata, figurativamente, dalle espressioni artistiche individuabili nei monumenti e nei valori delle testimonianze di una tradizione civile e politica espressa attraverso il connettivo edilizio antico, l’idea della conservazione dovrà essere distaccata da ogni altro valore economico e sociale (secondo i parametri usuali del benessere). In conclusione la ricerca dovrà innervarsi in soluzioni creative in grado di fornire una posizione di equilibrio fra le opere monumentali e artisticamente più notevoli e le testimonianze edilizie della storia del costume: un equilibrio che deve sottolineare il prestigio e la peculiarità della tradizione cittadina. Ma la valorizzazione della città non passa solo attraverso il recupero della sua tradizione. Si è infatti in presenza di un organismo vivente, di un qualcosa in continuo divenire che richiede interventi di salvaguardia in grado di far fronte alle nuove emergenze. Infatti la città - un tempo luogo chiuso e sicuro per antonomasia (quasi un grembo materno) - perse le antiche mura, è diventata il luogo dell’insicurezza, dell’inevitabile lotta per la sopravvivenza, della paura, dell’angoscia e della disperazione. Ma se la città non fosse divenuta la megalopoli industriale e commerciale, se non avesse conosciuto lo sviluppo frenetico che ha avuto - come ha osservato Giulio Carlo Argan - “le filosofie dell’angoscia esistenziale e dell’alienazione avrebbero ben poco senso e non sarebbero, come invece sono, l’interpretazione di una condizione oggettiva dell’esistenza umana. Non si spiegherebbe l’esistenzialismo di Kierkegaard, di Heidegger e di Sartre, non si spiegherebbe nemmeno il materialismo marxista, non si spiegherebbero le analisi radicalmente negative di Horkheimer, Adorno, Marcuse di un sistema che in definitiva si traduce o quanto meno si fenomenizza nell’ambiente fisico concreto, incontestabilmente oppressivo e repressivo della città”. Tutto ciò si verifica per una pluralità di ragioni ma soprattutto perché nella

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città moderna, figlia della grande industria e del commercio, la vita privata si separa da quella comune (o comunitaria), diventa qualcosa di “personale” e trionfa la solitudine. Spesso la città attuale, sotto la maschera della pianificazione urbanistica e del formalismo architettonico, ignora le reali necessità, materiali e spirituali, della popolazione. Certo la città ha sempre rappresentato la libertà, l’avvenire, la ricchezza, il comfort, il benessere. Il contadino guarda alla città che lo illude, si fa sedurre e, ad un certo punto, abbandona la campagna per andare in città anche se ciò costituisce il suo fallimento, l’infrangersi dei suoi sogni. Ma tale tendenza non si ferma: l’urbanesimo assume ritmi inarrestabili e l’esodo dalla campagna si accentua di giorno in giorno. In siffatto contesto crisi della città e crisi della campagna diventano i due poli della stessa condizione negativa. La città risente della crisi della nostra

civiltà e ne costituisce l’espressione più caratteristica. La crisi infatti investe prima di tutto la vita spirituale della città e i suoi modi di vivere. Nella città tradizionale si viveva sulla strada e nella piazza e tutti si conoscevano e conoscevano i problemi degli altri: tutti - pur nella distinzione dei ruoli - facevano vita comune. E, anche quando alla povertà degli umili si contrapponeva la ricchezza dell’aristocrazia feudale o del padrone (su meri), anche quando ai palazzi dei nobili e dei borghesi si contrapponevano is baxius dei popolani, bisogna riconoscere che tuttavia una qualche comunanza si stabiliva

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tra gli uni e gli altri e che tutti finivano col vivere in modo unitario la città: luogo di ricovero, protezione e rifugio ben distinto dalla campagna. La nota caratteristica che distingue la città attuale da quella tradizionale, di origine medioevale, è che quest’ultima cresceva e si sviluppava di giorno in giorno come un essere vivente, senza un progetto che l’anticipasse, senza un piano prestabilito, a meno che non si voglia chiamare piano il formarsi di un agglomerato di casolari attorno al castello, che lo proteggeva dall’alto, o il riunirsi in comunità degli abitanti d’un borgo entro un recinto di mura. Questo significa che la città tradizionale si sviluppava sulla base di un piano di temporalità naturale, vissuta; si andava espandendo a misura del tempo e attraverso il tempo, senza anticiparlo. Ma l’uomo moderno è capace non solo di vivere il tempo nel suo trascorrere, ma pure di anticiparlo e delimitarlo. In tale prospettiva il tempo non è più apprezzato come “durata”, ma come pro-

tratta alle sue coordinate temporali in vista d’una programmazione non solo, com’è ovvio, nello spazio bensì, come stiamo vedendo, anche nel tempo. Tra l’altro, nella città moderna vi è stato anche il superamento della contrapposizione tra centro abitato e ambiente naturale. Oggi la natura non si trova più al di là delle mura della città. La città non ha più mura, si estende in disperati labirinti di cemento e si sfilaccia nelle frange delle periferie e, al di là della città, vi è ancora la città: questa volta fatta di autostrade e di distributori di carburanti, di centri commerciali e di campagne coltivate industrialmente. In tale contesto - come ha posto in evidenza Lewis Mumford - “l’antica distinzione tra uomo e natura, tra abitante di città e abitante di campagna, tra greco e barbaro, tra cittadino e forestiero, non vale più: l’intero pianeta è diventato un villaggio”, un villaggio globale. Da ciò consegue secondo Mumford - che “la città non

iezione nel futuro (progetti, aspettative e persino speranze) e come scadenza. Orbene, la caratteristica della città moderna (e della società moderna) risiede nel fatto che il suo sviluppo si realizza in conformità di queste altre dimensioni del tempo: cresce secondo un piano che, togliendola dal tempo storico naturale, plasma il tempo stesso in cui si inserisce secondo dei ritmi inventati (piani triennali, quinquenni, programmi pluriennali in genere) che costituiscono, al tempo stesso, termini di programmazione delle attività e di realizzazione spazio-temporale. In questo modo la realtà viene più o meno sot-

deve esprimere il volere di un unico sovrano deificato, ma la volontà individuale e collettiva dei suoi cittadini, che ha per meta l’autocoscienza, l’autogoverno e la realizzazione della propria personalità”. Tutto ciò consente di rimettere l’uomo in sintonia col ritmo del suo spirito. Di questa evoluzione l’architettura e l’urbanistica costituiscano lo specchio fedele e gli edifici ne sono i documenti rilevatori. A tale regola non sfugge la città di Cagliari che - quanto meno dalla fine dell’Ottocento - si presenta come un ricco giacimento di fertili attività sostenute da una dinamica borghe-


sia dell’impresa. Come non si stanca di evidenziare lo storico dell’economia Paolo Fadda, “occorre non dimenticare che è stata la Cagliari borghese ed operosa - quella dei tempi di Bacaredda e di Crespellani - ad avere posto le basi di una Sardegna moderna”. Quanti, attraverso suggestioni pseudomoderniste e dirigiste, cercano di modificarne l’identità, e in fondo i destini, non fanno altro che esercitare violenza alla storia e rivelano un pauroso deficit di leadership democratica oltre che di idee. La città del futuro sarà sintesi di memoria storica e di apertura verso la modernità e dovrà avere un sempre maggiore protagonismo in ambito internazionale, attraverso il promuovimento di iniziative e di atti che, pur non essendo sempre dotati di un preciso valore giuridico, dovranno comunque assumere significato sul piano politico. Penso alla recente “Conferenza della rete delle città murate del Mediterraneo”, svolta per iniziativa del Comune di Cagliari, che

evolutivo, contrassegnato dal progressivo riconoscimento del ruolo che le autonomie territoriali, ed in particolare le regioni e le città, possono svolgere anche sulla scena internazionale partecipando, in vario modo e previe le necessarie intese, all’esercizio del potere estero dello Stato. In questo delicato terreno la Corte Costituzionale ha svolto un importante ruolo di prefigurazione di soluzioni (poi in parte accolte sul piano legislativo) intervenendo in modo creativo e determinante, anche se con qualche oscillazione, sulle lacune normative esistenti. Può quindi affermarsi che - sia pure mediante atti il cui valore giuridico è, in sé, discutibile - le autonomie territoriali, ed in particolare le città, operando de facto sul piano dei rapporti internazionali, contribuiscono in modo sostanziale ad un arricchimento del quadro costituzionale. Si è in presenza di un processo, lungo e difficoltoso, caratterizzato dal consolidamento del protagonismo istituzionale degli enti

in seno all’ordinamento internazionale e comunitario di norme che tendono a promuovere le autonomie territoriali e, dall’altro, con le dinamiche costituzionali interne. Si tratta di una tendenza determinata da fattori di ordine strutturale e, nel contempo, dall’evoluzione in senso regionalista e federalista che si registra in vari ordinamenti interni e che viene sorretta anche dal delinearsi, sia pure a livello ancora embrionale, di garanzie giuridiche internazionali nei confronti dell’esistenza stessa, in detto ambito, delle autonomie territoriali e della loro capacità di operare. In ogni caso non vi è dubbio che si sta andando verso una graduale configurazione di uno status delle autonomie territoriali nell’ordinamento internazionale pur non potendo le stesse costituire, per definizione, soggetti a pieno titolo dell’ordinamento internazionale (non essendo dotate del requisito dell’indipendenza). La questione dello status internazionale delle autonomie territoriali (delle

si è conclusa con una dichiarazione di intenti sottoscritta dai rappresentanti di circa venti città del Mediterraneo; e ancora penso ai lavori dell’assemblea della “Conferenza permanente delle città storiche del Mediterraneo” che, da diversi anni, si svolge per iniziativa dell’Isprom. Attività analoghe a quelle in questione, per il loro carattere lato sensu “internazionale”, hanno suscitato in certi casi reazioni di rigetto da parte dei poteri centrali e hanno dato luogo ad una serie di pronunce giurisprudenziali dalla cui attenta lettura si evince comunque l’esistenza di un percorso

territoriali attraverso il quale gli stessi si sono progressivamente radicati nello scenario internazionale determinando una evoluzione, forse irreversibile, della stessa forma di stato e di governo. Dal punto di vista costituzionale l’esperienza può rappresentare un importante aspetto del contemperamento del principio di unità nazionale col principio autonomistico. E’ evidente infatti che il punto di equilibrio non può avvenire in astratto - sulla base della mera lettura delle disposizioni costituzionali le quali, tra l’altro, al riguardo si presentano in parte lacunose - ma deve fare i conti, da un lato, con l’emergere

città per quanto qui rileva) rappresenta anche un aspetto del problema - più vasto e complesso - della democratizzazione della politica estera. La partecipazione delle autonomie territoriali al potere estero dello Stato, infatti, presuppone un ulteriore passaggio nella democratizzazione di tale potere riservato al governo centrale. Ovviamente, nell’ambito di tale processo, va distinto il profilo giuridico-formale da quello politico dovendo le istituzioni essere considerate non solo come centri di produzione giuridica ma anche e soprattutto come luoghi di decisioni politiche e scelte di governo.

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C

nitiva integrazione di queste aree che troppo a lungo hanno risentito della loro condizione di marginalità. I tentativi d’intervento nell’area di Sant’Elia negli anni sono stati numerosi e proprio dalla presa di coscienza dell’impossibilità di arrivare fino in fondo nelle finalità preposte, ha avuto origine il mutamento di prospettiva da cui sorge questo progetto: abbattere la convinzione che il mutamento puramente strutturale possa veramente modificare una condizione così profondamente radicata in quest’area, e cominciare dai singoli abitanti per elaborare piani d’azione più adeguati. «È necessario ora partire dall’aspetto umano che è quello preminente per un recupero sociale, economico e struttu-

rale di ogni quartiere – ha affermato Emilio Floris – È una battaglia difficile in cui si punterà a duecento per arrivare a cento». Il che non significa che l’aspetto strutturale di questa zona debba essere trascurato. Semplicemente sarà necessario adeguarlo sulla base delle esigenze e del punto di vista dei cittadini direttamente coinvolti. A questo fine il Comune ha scelto di affidare all’Associazione studio Learning and Progress l’indagine volta a conoscere più da vicino questa realtà. A realizzare la raccolta dati da cui si è avviata l’indagine è stato Istituto di Formazione dell’Api sarda che, nonostante i numerosi ostacoli, è riuscita ad avvicinarsi a una porzione della

Maurizio Artizzu

ittà senza periferie è un programma elaborato dall’assessorato ai Servizi Sociali, dopo un lungo periodo di riflessione sul disagio generatosi nelle zone liminari del Comune di Cagliari. Si è scelto di partire proprio dal borgo di Sant’Elia, in quanto uno dei quartieri più affascinanti per la sua caratteristica ubicazione sul mare, ma anche maggiormente afflitti da fenomeni di degrado di varia natura. Prossime tappe saranno Is Mirrionis, il CEP, Mulinu Becciu, Sant’Avendrace e l’obiettivo comune sarà conoscere queste realtà dal loro interno, per comprenderle e realizzare un piano di ristrutturazione infrastrutturale e sociale, che possa condurre a una defi-

Obiettivo: citt COME CAMBIA LA CITTÀ: QUI SANT’ELIA

di Claudia Cao

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popolazione del borgo pari al 49%. Osserviamo più da vicino i primi passi mossi da questo progetto e le sue prospettive, a cominciare dalle testimonianze delle forze direttamente coinvolte.

avuto tempo perché impegnati in altre attività, ma solo un 1% ha realmente mostrato un senso di diffidenza o di timore nei confronti degli operatori del Comune, le cui ricerche si pensavano finalizzate a indagini sul reddito o alla loro condizione economica in generale. Certo non si può sottovalutare la presenza di quel 26% di disinteressati, che hanno comunque mostrato

Gabriella Longu, direttrice del progetto

indifferenza alla collaborazione, ma altrettanto significativo è che una percentuale così elevata di cittadini abbia invece scelto di contribuire al progetto, sintomo di un’esigenza manifesta da parte dello stesso quartiere di conoscersi e di cooperare per un miglioramento. Naturalmente bisogna riconoscere l’apporto di Don Lai e degli stessi assistenti sociali, senza la cui opera di diffusione di informazioni sulle modalità di rilevazione, l’operazione sarebbe risultata ancora più ardua: garantire l’anonimato, permettere di identificare i rilevatori tra i ragazzi del quartiere (procurando loro un’occasione d’impiego e di apprendimento di nuove conoscenze), diffondere la data d’avvio dell’indagine, sono solo una parte degli apporti da attribuirgli. Il questionario cui è stato sottoposto il capo famiglia di ogni nucleo esamina-

Non si prospettava affatto semplice la lusinghiera impresa affidataci dal Comune: riuscire a penetrare quell’area che ormai da troppo tempo ha generato una vera e propria città a sé. Ne sono consapevoli i nove rilevatori scelti per il piano, il cui compito è stato basilare per conoscere dal loro interno la realtà dei 1700 nuclei familiari appartenenti al campione. Ma anche in questo senso i numeri sono stati utili per sfatare alcuni luoghi comuni: di quel 51% di persone che non sono state intervistate, la maggior parte non erano in casa nelle differenti fasce orarie in cui sono stati contattati o comunque non hanno

ttà senza confini

to, prevedeva una maggioranza di domande a risposta multipla ma anche item a risposta aperta, concernenti le sei aree tematiche di: abitazione, intervistato, coniuge/convivente, figli e altri conviventi, strutture presenti nel quartiere e servizi erogati, esigenze e livelli di criticità in riferimento a famiglia, contesto sociale e struttura urbanistica. Il raggio d’ampiezza dei dati forniti è piuttosto vasto: va da aspetti demosociali e stili di vita dei singoli individui, per arrivare sino alle caratteristiche delle singole dimore e degli spazi circostanti in genere. La comparazione tra i risultati è stata possibile attraverso l’incrocio dei tre livelli d’analisi (sesso, età e oggetto d’analisi) e particolarmente interessanti risultano le differenze emerse sotto questa prospettiva: le donne del quartiere, infatti, risultano più concrete, meno desiderose di prendere altre qualifiche rispetto alla media nazionale, e più rivolte alla ricerca di una realizzazione sul piano professionale, anche a scapito della coesione familiare, mentre gli uomini hanno un minore livello di istruzione scolastica, risultano in possesso di occupazione per un 6% in più e attribuiscono maggior importanza alla sfera familiare. Altrettanto notevole il forte senso d’orgoglio e di amore per il quartiere: solo un quinto della popolazione è infatti nata in questa zona, eppure l’attaccamento a questo luogo e il forte senso di identità è manifesto, così come anche la compattezza interna, come rivela il dato relativo ai principali punti di riferimento per ciascun cittadino: oltre il 50% di loro, infatti, afferma di rivolgersi prima di tutto ai conoscenti in caso di necessità, e meno del 20% prende richiederebbe supporto alle istituzioni pubbliche. Un attaccamento al quartiere, quello evidenziato, in cui probabilmente va ricercata anche l’origine di quel solido desiderio di prevenzione dagli atti illeciti e di sicurezza personale e dei propri beni: anche per chi abita queste aree la volontà non è certo quella di lasciare campo libero all’illiceità, ma al contrario di combatterla per potervi vivere più serenamente”.

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Ada Lai, dirigente Area Servizi al Cittadino “L’utilizzo di scale di valutazione degli item proposti, volti ad esprimere il proprio grado di soddisfazione da parte dell’intervistato, è stato utile per mettere in luce anche un altro elemento degno d’attenzione: tra le esigenze considerate prioritarie, in relazione al contesto urbano e ambientale, risultano la manutenzione degli edifici e una maggior disponibilità di piazze e attrezzature per il tempo libero e per i momenti di aggregazione, da cui bisognerebbe partire per avviare una revisione nella gestione del tempo libero in questi luoghi. La maggioranza degli intervistati ha infatti dichiarato di intrattenersi a casa a guardare la tv o nei centri commerciali della città, sintomo dell’assenza di strutture adeguate all’incontro nelle vicinanze. Ma ciò che più preme risulta essere l’attenzione per le cose materiali, il bisogno di maggior manutenzione, il rispetto per ciò che si cerca di costruire per migliorare il loro territorio. Città decorosa significa maggiori servizi pubblici, e maggiori servizi significano maggiore lavoro: questo i cittadini del quartiere l’hanno capito, soprattutto le donne che più che mai hanno rivelato la loro concretezza. Non deve sorprendere che tra le opere pubbliche più attese emerga proprio la realizzazione del lungomare, che costituirà per i cittadini del borgo un primo passo concreto verso l’obiettivo della continuità e dell’integrazione con il resto della città. Quella di Sant’Elia è, perciò, una storia completamente diversa da quella che abbiamo sempre immaginato. Una storia di cultura, turismo, ambiente, di valori positivi. Una storia di sicurezza e di formazione lavoro, che attende solo che tutti vedano dietro la maschera della criminalità l’esigenza di crescita e di definitivo decollo di questo quartiere”.

Don Marco Lai, parroco della chiesa di Sant’Elia “Queste ricerche hanno messo in luce due esigenze basilari perché il progetto di ristrutturazione sociale possa

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andare a buon fine: in primo luogo, la volontà del quartiere di conoscersi meglio per capire e per consentire a tutti di superare i luoghi comuni, e in secondo luogo il desiderio di non agire solo per sentito dire, ma con maggiore consapevolezza. Non si possono fare politiche importanti senza conoscere la gente, è necessario partire dalla base per tutti i quartieri di Cagliari. Anche per i più grandi progetti c’è bisogno di partire dal basso. Già due esperienze similari abbiano profondamente deluso gli abitanti di Sant’Elia: il contratto di quartiere 1 e il contratto di quartiere 2. Il primo ha conosciuto solo un momento d’avvio ma poi si sono lasciati i cittadini al far da sé. Si voleva rimuovere il degrado delle strade, ma soprattutto il degrado sociale. È fallito, così, un primo progetto che doveva coinvolgere tutti. Il secondo solo in minima misura è riuscito. Contratto a Sant’Elia significa concordare le cose, farle insieme. Il problema più grosso è il lavoro, trovare il modo affinché l’impresa faccia lavorare queste persone, agendo, e non soltanto dicendo. Collaborare, lavorare insieme. Questa è la volontà condivisa da amministrazione e quartiere. Scegliamo il Lazzaretto come simbolo del contratto di quartiere e proseguiamo in questa direzione”. Non dissimile il punto di vista di DANIELA PIRAS, che dal 1986 ad oggi è stata testimone dei vari fenomeni che in questo quartiere sono intervenuti apportando costanti mutamenti. “Negli ultimi dieci anni in particolar modo amministrazione, scuola e Chiesa hanno aiutato queste persone con interventi culturali, sostegno scolastico ma il problema principale resta che questi giovani non hanno nessuno cui ispirarsi, sono figli del nostro tempo e della tv. Dicono che non intendono studiare perché tanto non serve a niente. Per questo risultano necessari interventi normativi come il contratto di quartiere, affinché non sia illecito

chiedere di assumere un padre disoccupato, quando i lavori vengono intrapresi in aree così disagiate. Solo così i ragazzi, vedendo la fatica degli adulti capiranno il peso dell’istruzione. È solo a partire dalle leggi che possiamo cambiare la mentalità del posto”.

Giovanni Maria Campus, assessore all’Urbanistica “Sant’Elia è sempre un’opportunità. Rappresenta il paradigma di come la città debba sempre confrontarsi con elementi umani e con la consapevolezza. Il passaggio è da operare: è durata troppo a lungo la concezione tardo-positivistica secondo cui le cose concrete, come le opere, i nuovi palazzi, possano cambiare le società. A Sant’Elia quel sogno non era andato a buon fine perché quelle questioni non erano solo materiali. Quella visione demiurgica del fare ingegneristico è mutata. Oggi bisogna partire da altro perché non ci si può aspettare che le costruzioni modifichino l’assetto sociale. Qualunque tentativo di agire a tavolino è inutile, bisogna concertare passo dopo passo. Fino ad oggi gli equivoci hanno impedito che il meglio potesse esprimersi. Servono anche gli apparati materiali ma prima è necessario partire dalla conoscenza, da un laboratorio di conoscenza reciproca. Questa conoscenza va rappresentata attraverso l’interpretazione e l’elaborazione dei dati, senza dare nulla per scontato perché sulle cose già rifiutate si basa la patologia. È necessario avviare una stagione di continuo confronto”.


LA SARDEGNA paese per paese

QUI ELMAS

S

O

i racconta attraverso una storia modesta Elmas: da paese di pescatori, mestiere che forgia l’anima e lo spirito, diventa un villaggio organizzato ed efficiente in risposta alle esigenze delle famiglie patrizie che fissarono lì la loro residenza. Sullo sfondo un nome incerto, proveniente da Mahas, «rifugio» in lingua fenicia, secondo alcuni, o da Los Mas, denominazione spagnola, per altri. Teatro di una cruenta battaglia tra la corona aragonese e quella pisana, divenne poco tempo dopo oggetto di saccheggi e continue contese

LTRE L’AEROPORTO

per la posizione strategica che ricopriva. La storia di questa piccola cittadina non può dirsi completa se non vengono nominate anche le due chiese, quella di Santa Caterina e quella di San Sebastiano, le cui festività hanno da sempre movimentato la vita dei masesi, e a cui questi sono particolarmente affezionati. E poi l’autonomia, di cui tutti conservano un ricordo, forse vago, perché c’erano o perché ne hanno sentito parlare. Sardegna Fieristica nell’uscita del Maggio 1989, intitolava un articolo così :«Soli è più bello!» e Videolina in quel periodo, dedicava ampi servizi a quella piccola cittadina, che in segno di ribellione cancellò la parola «Cagliari» dal cartellone stradale. Era questa la volontà degli 8 mila abitanti masesi che il 23 maggio vennero chiamati a esprimere la loro preferenza, così Elmas dismesse le vesti di frazione, diventando a tutti gli effetti un

di Laura Bonu

paese, e ritrovando quell’indipendenza amministrativa, che nel 1937 sotto il regime fascista, forzatamente gli era stata tolta. Oggi, a vent’anni da quella storica data, ripercorriamo gli anni di autonomia, per capire se oltre l’indipendenza amministrativa, Elmas ha trovato la propria identità culturale, il senso di appartenenza, la crescita economica e sociale di cui andava in cerca. Parlo con i commercianti, con la gente, con i cittadini vecchi e nuovi, interrogo l’amministrazione comunale, chiacchiero con artigiani e artisti e scopro che tutti hanno qualcosa da dire della loro città, scopro che dietro le iniziali resistenze c’è l’ orgoglio di essere masesi, celato dalle lamentele quotidiane per i piccoli malesseri che affliggono ogni cittadina, che i richiami ed avvenimenti del passato, a personaggi di ieri è presente in ogni angolo.

Via Asquer ricorda una delle più importanti e famose famiglie masesi, via del Pino Solitario riporta alla mente la prima urbanizzazione, il primo albero, per l’appunto un pino, che era stato piantato per delimitare la strada principale, via 26 ottobre, è intitolata alle persone che nella tragica alluvione del 1946 hanno perso la vita. La «Schola Cantorum Villa del Mas» porta l’antico nome ispanico del paese, la società sportiva di pallavolo «Semelia» ricorda il nome del primo piccolo insediamento abitativo masese sorto nei pressi della laguna, la società di atletica «Edoardo Sanna», dedica il nome al corridore masese nato qui nel 1944, e i gruppi folk, «Su Masu» antico nome sardo della cittadina, e «Sa Nassa», antico strumento di pesca che veniva utilizzato dai pescatori della laguna, richiamano alla mente la cultura masese. Dappertutto Elmas richiama la sua storia.

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AMMINISTRAZIONE COMUNALE «Elmas è un territorio piccolo ma prezioso, per la sua posizione strategica e per le numerose risorse che possiede». Parla Tonio Ena, vicesindaco e assessore ai Lavori Pubblici ed Urbanistici. «Questo ha incentivato la crescita demografica, molte persone si sono trasferite qui, trovando case a prezzi competitivi e una cittadina dotata di buoni servizi. L’amministrazione cerca di incentivare questa crescita unita a una valorizzazione e riscoperta delle tradizioni masesi, ma soprattutto cerca di preservare il senso di comunità e solidarietà, integrando i cittadini di recente adozione con il nucleo originario. La coesione tra queste due diverse

«Anche lo sport diventa un modo per fondere realtà diverse, la via per valorizzare atleti capaci che rappresentano Elmas a livello mondiale». Questo è lo scopo di Fabrizio Fadda, assessore alla Programmazione, Finanza e Sport, «L’idea è quella di riuscire a coinvolgere il maggior numero di cittadini, e proprio per questo abbiamo organizzato la prima edizione delle Olimpiadi di quartiere e dei Giochi di Strada, che hanno interessato 300 persone, e toccato quasi ogni disciplina. Lo sport ad Elmas è rappresentato in modo ottimo sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo. L’offerta è alta: un ragazzo masese può praticare quasi ogni sport: il basket e il calcetto militano

Abbiamo rivalorizzato la Festa di San Pietro, patrono dei pescatori. in località Giliacquas, e quella della Laguna, entrambe significative per questo paese che proprio sulle rive della laguna ha iniziato la sua storia. Presenteremo un cd, Su Contu de Su Masu, che racchiude tutta la storia di Elmas, affinché il sapere masese non vada perduto».

in serie B, e il pattinaggio vanta una campionessa mondiale, Laura Orrù». Parlo con Solange Pes, assessore alla Cultura, Ambiente e alla Pubblica Istruzione, che mi descrive la volontà di far diventare Elmas un luogo piacevole in cui passare la giornata e non solo, un silenzioso quartiere dove tornare per la notte. «Cerchiamo di promuovere attività che valorizzino, recuperino e tramandino le tradizioni del paese, e devo dire che la partecipazione, soprattutto negli ultimi anni, da parte di associazioni e cittadini cresce.

commercianti masesi e promuovere l’economia locale sconfiggendo l’isolamento: «Elmas non ha una grossa storia alle spalle e già dagli anni ‘70, ha cominciato a radicarsi l’abitudine di evadere dal paese, si andava a Cagliari anche per fare la spesa. Poi la situazione è degenerata, oggi la nuova generazione non conosce per nulla il paese e alle feste vedi sempre le stesse facce. Gli stessi genitori, portano i figli a Cagliari o in zone limitrofe per fare sport o per frequentare le scuole. L’unico avvenimento che

COMMERCIANTI E CITTADINI «Lavoro qui da 32 anni e ho visto Elmas cambiare, ma portarsi dietro le abitudini di sempre». Parlo con Armando Ruggeri, fotografo e presidente della Gilda, neonata associazione commerciale che ha lo scopo di unire tutti i

Il Gruppo Folk Sa Nassa

realtà deve essere il nostro punto do forza». Il senso di solidarietà è lo stesso che guida le iniziative di Mariano Strazzeri, assessore alle Attività Produttive e occupazione. «Abbiamo in mente di creare dei centri commerciali di quartiere, in modo che le persone si abituino a fare acquisti sottocasa. Oggi frequentiamo queste grandi città-mercato anonime e impersonali, invece nelle botteghe sotto casa, oltre che la merce trovi il sorriso della cassiera, o il vicino che ti dà una mano con la busta».

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ha unito tutta la cittadinanza, l’unico momento in cui ci siamo sentiti masesi, in cui ci siamo fusi per uno scopo comune è stato vent’anni fa per ottenere l’autonomia. Abbiamo intrapreso una battaglia, prima perché fossero eliminati i doppi turni dalle scuole, poi perché fossero costruiti degli impianti sportivi, e infine ci siamo spinti fino all’autonomia: il 95% ha votato sì, un risultato impensabile per un paese come questo». Anna, proprietaria del Bar Vecchio, all’angolo della strada in via Asquer,

famiglia masese, insieme a Giovanni, Benvenuto ed Italo, tre nomi importanti, mi fanno notare. Giovanni, 73 anni, dice «Non mi piace molto vivere qui, Elmas è ormai diventato un paese dormitorio, e la laguna, uno stagno, non ci possiamo neppure avvicinare». Ma quando gli chiedo se si sente orgoglioso di essere masese, mi sorprende rispondendomi «Certo che sono orgoglioso, vivo qui da sempre, e tutto sommato è un paesino tranquillo senza criminalità e pulito». Diverso il pensiero di Italo, «Qui ci sono nato e

Mariano Strazzeri con Solange Pes

dice «Mia mamma è di Elmas, questo negozio apparteneva a lei, e prima di lei a mia nonna, ora sono io a gestirlo. Sono affezionatissima al mio paese e sono stata molto contenta di vedere come si sia cercato di abbellire il centro storico e migliorarne l’estetica. Oggi però devo ammettere che Elmas è cambiata molto: i nuovi quartieri sono solo un punto di rientro, le persone che ci abitano, lavorano e vivono fuori, e tornano qui solo per dormire. Ma le poche persone masesi che sono rimaste sono felici di stare qui!» Cammino per le strade ordinate e pulite, e trovo persone disposte a parlare, superata la diffidenza iniziale, mi ascoltano e rispondono con garbo, raccontano le loro giornate, tradendo un senso di appartenenza nascosto sotto uno strato di indifferenza calcificato dallo scorrere lento del tempo. Mi siedo sulle panchine di Piazza Suella, piazza intitolata ad una ricca

sono affezionato alla mia terra. Io e la mia famiglia, ci siamo rifiutati di sfollare e non abbiamo mai abbandonato questo posto. Persino dopo l’alluvione, ci siamo salvati salendo su una pianta e piano piano abbiamo ricostruito tutto». E mentre saluta un suo amico Italo precisa: «Vede signorina, custu esti foresu!». Entro nella Biblioteca Comunale, dalla parte opposta della Piazza, e seduti ad un tavolo trovo due signori, il più giovane, occhiali da vista sul naso e cappellino sulla testa comincia a parlare «Sono un cittadino di nuova adozione, abito qui da poco tempo, e passo la maggior parte della giornata fuori, capita spesso di tornare solo per dormire, quindi conosco poco il paese, ma per quanto posso cerco di partecipare alla vita sociale. Anche i miei acquisti sono limitati, ad Elmas acquisto alimentari e prevalentemente in quel grosso supermarket tedesco

Lidl, il vestiario lo acquisto a Cagliari, sono abituato così». ARTIGIANI ED ARTISTI I saperi e le tradizioni sono gelosamente custoditi in ogni loro forma: i balli e i costumi tipici sono conservati e tramandati dai due gruppi folk «Su Masu» e «Sa Nassa»; le musiche e i canti riecheggiano nelle voci di Emanuele Garau, Clara Murtas e Sandra Ligas, la scultura tenuta viva da Franco d’Aspro prima e da Giampiero Frau oggi. Persino l’arte teatrale trova il suo spazio grazie ad Alessandro Valentini, mentre numerosi artigiani locali mantengono vivi i mestieri di un tempo. «Siamo andati in giro porta a porta, per riuscire a carpire le vecchie abitudini del nostro paese» mi spiega Paolo Tambaro, 23 anni, faccia pulita, jeans e giubbotto sportivo, masese da generazioni, vicepresidente del gruppo folk Su Masu, «Grazie alla cultura orale abbiamo ricostruito alcuni dettagli del vestito masese; il corpetto in broccato viola, era quello più utilizzato nell’800 ad Elmas, ed anche l’acconciatura con cui sfilano le donne, dovrebbe esser quella più usata dalle spose masesi. Il repertorio dei balli include ovviamente quelli maggiormente praticati nel nostro paese: Su ballu de sa Cruxi e Sa Sciampitta, il primo si era soliti ballarlo all’uscita della chiesa, con i passi si formava una croce, mentre il secondo, molto suggestivo, era un ballo di corteggiamento: l’uomo, attraverso acrobazie, metteva in mostra le sue particolari doti da ballerino. Il nostro impegno si concretizza anche nel futuro, abbiamo organizzato numerosi corsi regionali in collaborazione con la scuola e il comune, dal nome “Tradizionis de Su Masu”, con lo scopo di avvicinare i bambini dai 5 ai 14 anni a questo tipo di cultura». Paolo poi mi parla della sua esperienza personale «Io sono un caso raro, a 3 anni salivo sulla tracca di Elmas e reggevo il nostro nome nella Festa di Sant’Efisio, sono cresciuto qui. Ancora oggi faccio parte della Pro Loco e delle Acli oltre che del gruppo folk. Affezionati come me credo ce ne siamo pochi». «Oggi è difficile coinvolgere le persone, l’offerta è ampia e i giovani si avvicinano ad altre attività», mi racconta il presidente del gruppo folk Sa Nassa, Luca Fadda; «Noi cerchiamo però di

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tenere alta l’attenzione, e di ampliare il gruppo perché crediamo che le tradizioni siano un bene da tutelare. Abbiamo cercato di impegnarci anche nell’ambito sociale e la collaborazione con l’associazione tedesca Euro Kinder Hilfe, ha permesso ad Elmas di contribuire alla raccolta fondi a favore dei bimbi microcitemici. Ne andiamo molto fieri». «L’autonomia è stato il motore per un forte sviluppo, Elmas è migliorata sotto il profilo urbanistico ma anche estetico». Parla Emanuele Garau cresciuto ad Elmas umanamente ed artisticamente, «Non sono per niente d’accordo con chi sostiene che questo sia un paese dormitorio, la gente si sente parte integrante della vita cittadina, lo dimostrano il numero altissimo di associazioni che gravitano sul territorio, e la quantità di progetti portati avanti dall’amministrazione comunale, tutti volti ad incentivare la vitalità e a proteggere l’identità culturale. Basta girare per le strade la mattina, il mercato e le strade brulicano di persone; anche queste piccole cose fanno un paese ». Mi affaccio in un locale, piccolo e scuro, e incontro Paolo Putzolu, professione ciabattino da 30 anni. «Ho iniziato da piccolissimo, raddrizzavo i chiodini delle suole, poi non ho più smesso. Lavoro qui da sempre, ci sono persino nato, ho tanti ricordi che mi legano a questa terra. Oggi però devo ammettere che molte persone sono solo di passaggio». ASSOCIAZIONI CULTURALI Le associazioni culturali, sportive e di volontariato sono numerosissime, segno della volontà di favorire l’aggregazione e la connessione emotiva, e dalla voglia di stare insieme di tutti i cittadini. Se c’è una cosa a cui i masesi sono rimasti legati è la Festa di Santa Caterina, attesa da tutti con impazienza, «I festeggiamenti sono molto diversi da quelli del passato» mi raccontano Maria Greca Cuncu, presidente del Comitato Associativo S.Caterina, Onnis Carlo, vicepresidente e Boi Vincenzo, membro del direttivo: «Si organizzavano pranzi e si trascorrevano intere giornate nei caseggiati della Chiesa di Santa Caterina, oggi inve-

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ce la festa non dura più di due giorni. L’intenzione del Comitato è quella di riportarla al suo antico splendore. Abbiamo già inserito alcune novità, come la cena o la collaborazione con la società di atletica Edoardo Sanna, ma quello che ci preme maggiormente è riappropriarci dell’intero caseggiato, cosicché una volta risistemato possa diventare un luogo di incontro di cui i cittadini possano usufruire tutto l’anno. Ogni anno passiamo porta a porta per chiedere un contributo economico per l’organizzazione della festa e ogni anno, devo dire, tutti danno il loro contributo, crisi o meno. Le persone non si espongono mai troppo, è quasi nella loro natura, ma sono orgogliosi di vivere qui e Santa Caterina è diventata importante per loro; una vecchia leggenda lega il paese alla santa: un gruppo di pescatori, durante una giornata di lavoro presso la laguna, notarono sull’acqua una cassa di legno semisommersa, la portarono a riva e la aprirono. Dentro vi trovarono una statua in corallo della Santa e così decisero di intitolarle la Chiesa». Gli domando quale sia la loro personale relazione con il paese «Noi cerchiamo di partecipare più che possiamo alla vita sociale del paese, sia come singoli che come associazione. Compriamo quasi tutto ad Elmas, la mattina andiamo al mercato ogni volta che gli impegni lo permettono. Magari sono i forestieri a vivere un po’ meno la mondanità di Elmas, ma non certo noi!» . Un ruolo importante nella riscoperta non solo delle tradizioni ma anche del piacere di stare insieme è affidato all’

‘Associazione Turistica Pro Loco: «Da anni ormai ci occupiamo dell’organizzazione delle principali manifestazioni masesi: natale, carnevale ed estate. Il nostro calendario è ricco, ma molto spesso è difficile far rivivere tradizioni che sono sparite dalle abitudini quotidiane. La partecipazione non è sempre alta, forse anche perché la popolazione originaria si è ridotta a qualche migliaio, gli altri tornano qui solo per dormire», rivela Ilaria Melis, presidente della Pro Loco. Un territorio, Elmas, e una popolazione, i masesi, giovani ed accomunati dalla voglia di ritrovare le loro radici, custodendo gelosamente il passato, per trovare un approdo più sicuro nel futuro. Qui più che in altri luoghi è difficile conservare le tradizioni, l’unità e la partecipazione alla vita sociale, complici la vicinanza ad una città come Cagliari che offre ogni tipo di servizio, e una mentalità forse non ancora completamente formata di attaccamento al territorio. La Marmora nei suoi racconti descrive Elmas come un paese “dedito all’ozio e al gioco delle carte”, c’è chi lo definisce un paese dormitorio, chi un paese di passaggio o chi vede la volontà forte dei masesi di riappropriarsi del loro territorio, ma per capirlo potete anche voi andare a visitarlo.

CIN CIN “ROMBO DI TUONO”

A Villa San Pietro raduno dei Cagliari Clubs per festeggiare il locale Club al Tropical Garden con il cannonau etichettato Gigi Riva


cagliari città di artigiani

PAOLO FADDA

CAGLIARI CITTà DI ARTIGIANI

Fotografia

Conoscere la città significa riscoprirne le tante piccole e grandi storie che sono accadute nei suoi luoghi e sotto i suoi tetti e, insieme, saperne di più di quegli uomini e di quelle donne che, di quelle storie, ne furono i protagonisti. E questo in ogni campo degli umani saperi e mestieri, fossero quelli delle elaborazioni intellettuali od anche quelli delle abilità manuali. Cagliari quindi non sfugge a questa regola, e va scoperta e meglio conosciuta soprattutto in chi, con le proprie abilità d’homo faber, ha concorso a farne – come ha acutamente scritto Paolo Fadda nel suo saggio – una sempre più importante e meglio vivibile città, tanto da essere riconosciuta così, a pieno titolo, come prima città dell’isola. Ed è per questo che mi è molto gradito presentare questo volume, voluto dall’Amministrazione comunale, per ricordare e celebrare il mondo del lavoro, e in particolare quello dei nostri artigiani. Stando così sulla scia – mi piace qui ricordarlo – dei miei illustri predecessori, che furono fra i più attenti sostenitori di quella “Società degli operai” che, dal 1855 in avanti, ha rappresentato e rappresenta i mestieri ed i saperi del lavoro cittadino. Cagliari, infatti, è stata nel corso dei secoli una “città d’artigiani”, perché, con i lavoratori delle arti e dei mestieri, ha inteso costruire la sua identità economica, ed anche quella urbanistica, ospitandoli fin dai tempi lontani al suo interno, come testimonia la stessa toponomastica ottocentesca, con is arrugas dedicate, ad esempio, a is pratteris od a is ferreris. Questo volume aiuta quindi a mettere in risalto uno degli aspetti più qualificanti della struttura economica cagliaritana, che è poi quella delle centinaia e centinaia di botteghe dove delle mani industriose producono beni e servizi, quasi sempre d’alta qualità. Contribuendo così a creare – come viene ricordato dall’autore del lungo ed articolato saggio che accompagna una straordinaria galleria d’immagini – la vita stessa della città (perché – andrebbe sempre ricordato – essa si ossigena e si esalta con quanti beni e servizi mettono a disposizione del mercato i suoi artigiani). Come Sindaco di Cagliari sono quindi lieto di ringraziare sentitamente non solo gli autori e l’editore di questo bel volume per il servizio reso alla miglior conoscenza della città, ma soprattutto, ed innanzitutto, i tanti nostri artigiani che, con grande impegno ed altrettanta modestia, concorrono a sostenere l’eccellenza delle produzioni e dei servizi cittadini, facendo della nostra città una straordinaria capitale del lavoro.

COME CAMBIA LA CITTÀ

IS MAISTRUS CHE HANNO FATTO CAGLIARI di Giampaolo Lallai

Emilio Floris Sindaco di Cagliari

ENRICO SPANU PRIAMO TOLU

È

stato presentato a Cagliari, nella sede della Società degli Operai, il volume “Cagliari città di artigiani”, l’ultima opera di Paolo Fadda, edita dalla GIA Editrice. Un excursus tra una delle attività portanti dell’economia cittadina: l’artigianato, da sempre un settore vitale per Cagliari che è cresciuta anche in virtù del lavoro delle centinaia di botteghe del suo centro storico. Un viaggio nella storia dei mestieri più diffusi, ricordando i personaggi che maggiormente si sono distinti nelle singole attività artigianali. Un libro rivolto anche ai giovani che hanno l’occasione di conoscere, attraverso le pagine scritte in stile accattivante e semplice, la Cagliari che fu, quella che a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, dismette per sempre la sua antica fisionomia di piazzaforte militare, e, con l’abbattimento delle mura, si apre progressivamente al mare e all’arrivo di illuminati imprenditori continentali che vi impiantano le loro industrie e le attività commerciali. Col tempo, Cagliari diventa una città mercantile, sorgono un’infinità di negozi ben forniti e botteghe di bravi artigiani che attirano non solo i cagliaritani ma anche gli abitanti dei paesi dell’interno. Questo importante ruolo della città è bene evidenziato da Paolo Fadda che precisa: «Storicamente è stata la città a costituire e ad alimentare il mercato (non vi è mercato senza che vi sia una città) e l’artigiano, per aver campo di sviluppare il suo lavoro specializzato, ha necessità d’avere a sua disposizio-

ne un mercato popoloso e quindi una città». È stata, insomma, Cagliari a richiamare da fuori capacità e competenze nuove, «perché i suoi abitanti avevano necessità d’acquistare pingiaras e buttinus, criccas e cordoneras, marigas, pannus d’ogni calidadi». Gli artigiani più rinomati, is maistus, come venivano chiamati una volta, appresa l’arte, l’hanno non solo esercitata con bravura e creatività specifiche, ma l’hanno anche saputa trasmettere ai loro apprendisti, diventando personaggi di particolare rilevanza, vivi ricordi dei cagliaritani. Sui più famosi esiste addirittura un’aneddotica molto ricca e per certi versi abbastanza divertente, tenuto conto della tendenza cittadina a ironizzare su pregi e difetti di chiunque. Alla presentazione del libro hanno partecipato diversi noti esponenti dell’artigianato di oggi, molti dei quali sono intervenuti per esporre i problemi che penalizzano ogni singolo settore. Ha fatto da moderatore Paolo Matta, il noto giornalista di Videolina, anch’egli cagliaritano, che, tra l’al-

tro, ha contribuito a ricordare la città dell’immediato dopoguerra e, in particolare, l’impegno profuso dagli artigiani di allora nella rapida ricostruzione di Cagliari. A chi come me ha vissuto quel periodo fecondo manca la presenza di molte di quelle botteghe. I rumori delle officine de is ferreris con i caratteristici colpi di martello sull’incudine e quelli dei laboratori de is maistus de linna sempre impegnati a ponni puncias e a usare sa serra o su serracu non fanno più parte del contesto attuale dei quartieri storici, dove domina un silenzio quasi irreale. Erano soprattutto le botteghe di quegli artigiani, ai quali vanno naturalmente associati is sabateris, is maistus ’e pannu, is paneteris e is barberis a costituire dei veri e propri luoghi di aggregazione e di socializzazione. La maggior parte delle notizie più fresche, anche quelle riservate, si apprendevano aspettando il proprio turno dal barbiere o in attesa che il calzolaio ti mettesse i ferretti alle suole delle scarpe perché durassero di più. Altro che tip-tap! Paolo Matta e Paolo Fadda


«F

rammenti di Storia sui muri», un libro che racconta una città combattiva, e una cittadinanza unita da uno scopo comune: ottenere diritti, oggi scontati, ma allora negati. La città è Cagliari, e l’allora si riferisce al 1970, epoca di rivoluzioni e agitazioni. Sfoglio il libro con Marisa Depau, classe 1950, che di quel periodo è stata non solo una testimone oculare ma soprattutto una partecipante attiva. Sedie e tavolo in radica scura, fanno da sfondo alla nostra chiacchierata. Si riconosce in una foto, vestito bianco che lascia intravedere le morbide forme di una gravidanza, «Ero in cinta dei gemelli» , mi dice. Il ‘68 è stato un anno rivoluzionario, Cagliari come ha vissuto questo momento? «In tutta Cagliari si era diffusa un’aria di malessere. La gente si sentiva esclusa, l’amministrazione imponeva decisioni dall’alto, come se non conoscesse la situazione della città. Gli abusi erano numerosi, e noi non avevamo più intenzione di sottostare ai loro soprusi». Come si mobilitavano, studenti, cittadini, interi quartieri? Bè…la mattina si andava a scuola o all’università, e la sera ci si riuniva in assemblee, comitati, si facevano numerose riunioni. Era importante per noi essere sempre informati, la cultura ci faceva sentire preparati e all’altezza della situazione, diventava quasi una necessità essere informati. Ho visto persone analfabete, prendere un libro in mano, imparare a leggere pur di non sentirsi esclusi. Questi erano gli svaghi dei giovani del ‘68. E poi le occupazioni, le manifestazioni e la nascita dei Comitati di Quartiere. Quali sono state la cause, le richieste, le lotte sociali che maggiormente ha sentito sue? Le rivendicazioni femminili e il diritto alla casa sono i temi in cui mi sono sempre riconosciuta, perché mi toccavano da vicino. Mi ricordo che quando frequentavo le scuole superiori, le donne non potevano indossare i pantaloni, così prima di entrare li rimboccavo in modo che il preside non se ne accorgesse. Le donne non potevano studiare o pensare in grande, dovevano sposarsi presto, fare figli e accudire i mariti, questa era la loro unica possibilità.

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UANTA pa

Un futuro che non si può certo definire libero. E, per la casa, bè…, c’ero anche io tra quelle sfrattate che non sapevano dove andare, in un periodo non felice della mia vita sono rimasta senza casa e con una figlia a carico, sono andata a vivere in un edificio pubblico in disuso, il coinvolgimento emotivo e la necessità hanno reso questa lotta praticamente personale. Si ricorda qualche manifestazione in particolare? Qualche episodio che non ha mai cancellato dalla sua memoria? Potrei scrivere un libro! Quando nacque il Comitato per la Casa, occupammo un Palazzo in Via Lugudoro. Occupavamo solo edifici in disuso, non le case altrui, volevamo far progredire Cagliari e non incentivare una lotta tra poveri: non si occupa una casa togliendola ad un altro, questa era una regola fissa e indiscutibile per noi. Lì abbiamo dato vita ad una scuola serale, molti uomini di cultura ci hanno aiutato, anche nel programmarne la ricostruzione; l’architetto Badas e l’avvocato Bellu, per esempio, sono alcuni nomi. Ho visto donne acquistare fiducia in se stesse, grazie all’istruzione e guardare al futuro in modo positivo, ho visto donne uscire dalla schiavitù mentale in cui erano state educate. Occupammo anche un

edificio in via Baccaredda, lo ricorda anche il libro; un palazzo minato, senza soffitto e senza cucina come dice la canzone che per l’occasione riadattammo, la cui situazione era davvero precaria. Ognuno di noi fece del suo meglio per rimetterlo in piedi, io imparai a fare la pianellista! Raccoglievamo i soldi per strada, facendo le collette: 10 lire erano sufficienti per comprare un mattone o del cemento. Il sacrificio e l’unione ci hanno fatto recuperare tre edifici storici, oggi le persone danno troppe cose per scontato. Ma l’episodio che cambiò la mentalità dei cagliaritani fu l’assalto di cui fummo vittima nell’ex carcere di Giorgino. Trenta donne, in cerca di casa, occuparono quell’edificio, e per sgomberare la zona fu inviato addirittura un battaglione d’assalto che era addestrato per scovare banditi nei monti. Il risultato fu di sei feriti, numerosi arresti e un grande caos. Lì, la Cagliari per bene, si mosse: i candelotti lacrimogeni per allontanare un gruppo di donne erano davvero un’esagerazione! Cosa accomunava le persone che scendevano in piazza? Il bisogno di vedersi riconosciuti diritti fondamentali, ovviamente! Ma c’era qualcosa di più! Quelle manifestazioni erano per noi un’esperienza di vita:


LA VICINANZA CON I PIÙ DEBOLI COME SCELTA DI VITA

assione politica Incontro di Laura Bonu con Marisa Depau

crescevamo insieme e trovavamo uno scopo comune da raggiungere! A lungo andare divenne quasi un legame di sangue, un’amicizia sincera. Ma c’erano dei codici da rispettare: nessuno doveva delinquere per raggiungere lo scopo, o approfittare delle difficoltà altrui, ma solo agire in nome del bene collettivo. Mi ricordo di una donna, che addirittura di questo clima aveva fatto la sua ragione di vita: cucinava e puliva per tutti, accudiva tutti come fossero figli suoi. Il distacco fu per lei insopportabile. Siamo rimaste in contatto a lungo, veniva spesso a pranzo a casa, ma oltre me rimase sola e senza lavoro. Un giorno che rientravo da un viaggio di lavoro, la trovai morta dal freddo sulle scale di casa mia, il ‘70 non risolse i problemi di tutti, i suoi non li aveva risolti. Quanto sono servite quelle lotte a migliorare le cose? Molto! Ci hanno aiutato molto. Le grandi battaglie sull’aborto, per esempio, hanno modificato radicalmente la situazione: per abortire si doveva ricorrere ad una rete clandestina o escogitare qualche sotterfugio, oggi per fortuna non è più necessario. Anche la posizione della donna è cambiata: siamo più emancipate e libere rispetto ad allora. Purtroppo ho notato che

i quartieri popolari, sono rimasti un passo indietro; l’analfabetismo è alto, il matrimonio è ancora un mezzo valido per uscire di casa presto e il tasso di natalità tra le adolescenti piuttosto elevato. Dovremmo essere più presenti in queste zone, dobbiamo fornirgli l’input giusto per potersi migliorare, le persone che ricevono stimoli positivi sviluppano capacità e mentalità positive. Io l’ho vissuto in prima persona: ho allevato un ragazzo che ha passato l’infanzia in casa famiglia e che venne arrestato per resistenza, durante una delle nostre occupazioni. L’ho visto migliorarsi ed esigere molto da se stesso per sentirsi all’altezza. Ha qualche rimorso o rimpianto? Rimorso no, non direi. Ho fatto molti sacrifici per difendere ciò in cui credevo: i miei figli dormivano sui pavimenti degli edifici occupati, ho rischiato un parto prematuro per uno scontro con la polizia, ho vissuto all’agghiaccio per sei mesi in Via Roma e i soldi non erano mai tanti. Ho accolto a casa mia molte persone che non avevano un posto dove andare, la chiamavano “La Casa del Popolo”. Ho cresciuto un ragazzo la cui madre si ubriacava per dimenticare, per non vedere una quotidianità tragica, e questo comportava pericoli e rischi per me e anche

per i miei figli. Ma ho vissuto per ideali e rifarei tutto quanto. Rimpianti qualcuno, quello di non poter fare di più, oggi più che allora. Molte persone mi chiedono aiuto, ma è difficile fare qualcosa. Ammetto di essermi un po’ spenta. L’impossibilità di migliorare le cose mi ha un po’ sfiduciata. Sono delusa, da vedere come tutti siano indifferenti a queste richieste e a queste tematiche, ma soprattutto sono amareggiata dal constatare il disinteresse e l’immobilismo da parte nostra. Oggi la casa e il precariato sono temi di grande attualità, in quale situazione si trova Cagliari? Sono argomenti sempre molto delicati, perché vanno a minare le basi di una società civile. Il diritto alla casa e al lavoro dovrebbero poter essere sempre garantiti, ma purtroppo non abbiamo fatto le scelte giuste. Non abbiamo saputo cogliere alcune opportunità come il piano PUC, che permetteva di agevolare l’edilizia sociale e supportare i giovani. Questo settore è bloccato! Ed è difficile promuovere l’edilizia sociale, soprattutto in alcune zone; i cittadini non apprezzano vicini di casa che non si possono scegliere. Il lavoro poi è un vero e proprio dramma. Il precariato non dà nessuna sicurezza, ed impossibile pensare di programmarsi un futuro. Prima il precariato era solo una fase iniziale dell’avvicinarsi al lavoro, poi si passava al contratto a tempo indeterminato. Mi sembra che oggi le capacità, attitudini personali, non siano per nulla tutelate. Siamo parecchio lontani dalla giusta strada, il clientelismo e il nepotismo poi completano un quadro già abbastanza disastroso. Come definirebbe la sua carriera politica? Politico non è l’aggettivo giusto. Non mi sento una politica, rappresento una parte della società, le classi più povere e disagiate, e cerco di farlo come meglio posso. Abbiamo iniziato sfogliando il libro «Frammenti di Storia sui muri», quale potrebbe essere oggi la frase che riassume le necessità della cittadina cagliaritana da scrivere sui muri? “Diritto al lavoro”, questo dovrebbe essere lo slogan del ventesimo secolo! Avvolte mi sembra di essere tornata indietro di 50 anni.

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I GRANDI CAGLIARITANI: VITTORINO FIORI

Straordinario raccontatore del ventre della città

Agenzia Solinas

di Paolo Fadda

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i Vittorino Fiori – scomparso a 85 anni lo scorso 14 luglio – sono stato amico, ammiratore e, se così si può dire, affettuosamente debitore di quel che so (certo non molto) di buona scrittura e di buon giornalismo. Ci si era conosciuti, sarà stato il 1949 (o, forse, il ’50) nelle stanze de L’Unione Sarda diretto allora da Giulio Spetta (il conte, come risultava dal suo certificato araldico), quando lui era un giovane redattore sotto l’usbergo di Antonio Ballero (al tempo il responsabile primo della cronaca cittadina) ed io niente altro che un timido apprendista, volontario cronista sportivo alla corte di Antonio Cardia, che era un po’ l’affettuosa e generosa chioccia per chi cominciava a scrivere sulle imprese di Gianni Sulis e di Franco Torricelli, osannati alfieri dei rossoblu del foot-ball, o di Tonino Siddi, la littorina dell’atletica leggera o, ancora, di Cristoforo Onano, il micidiale cecchino della pallacanestro cittadina, non ancora promossa come basket. Nella redazione del giornale d’allora, quando ancora pensavo di trovare nel giornalismo una possibile strada di vita, Vittorino m’aveva preso in simpatia e mi riversava tutti i suoi preziosi consigli, seppure allora m’occupassi soltanto dei derby cestistici tra Aquila ed Esperia o, che so, degli exploit velocistici dell’iglesiente Angelo Defraia o dei raid ciclistici del campidanese Remigio Dentoni. Tutti argomenti che

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erano fuori dai suoi interessi diretti. D’altra parte già godeva di una giusta fama perché lo si riteneva la penna più brillante ed elegante del giornale, ammirato da tutti noi pivellini per le sue cronache giudiziarie così puntuali ed efficaci. Scritte in quello stile asciutto ed immediato (moderno, direi, se lo si intenda raffrontare con i coevi scritti di Renzo Trionfera su “L’Europeo”), capace soprattutto di conquistare i lettori. Erano gli anni, ricordo, dei grandi processi contro Liandru e Liandreddu, autori in negativo dei gravi fatti banditeschi e dei proditori agguati malavitosi del primo dopoguerra isolano; quelli, aggiungo, in cui nelle aule di giustizia era divenuto protagonista-eroe (o tale lo aveva reso le cronache di Vittorino) un pubblico accusatore della stazza etica e professionale di Francesco Coco (che poi, poveretto, sarebbe rimasto vittima delle BR in quel di Genova). Per dire del suo talento giornalistico, c’è ancora a sua firma un articolo che ancora ricordo, apparso nella prima pagina del suo giornale, il giorno dell’arrivo a Cagliari di Paolo VI, il primo Pontefice, dopo secoli, che mettesse piede, da pellegrino, in terra sarda: uno scritto asciutto, essenziale, eppure ricco di una profonda spiritualità, di quella sua straordinaria capacità di saper inserire e trasferire, nelle parole e nelle frasi, quel pathos di fede che in quell’aprile del 1970 aveva pervaso tutta la popolazione ca-

gliaritana di fronte alla venuta in città del Vicario di Cristo. Era anche questa una tessera del “grande” giornalismo di Vittorino, capace come pochi di passare da un argomento all’altro con profonda attenzione a quel che quei fatti e quegli eventi esprimevano. Perché – diceva e ribadiva – sono rimasto sempre e soltanto un cronista, che descrive e racconta ai lettori, con scrupolo e partecipazione, i fatti e gli eventi come avvengono. Ma Vittorino non era solo un bravo cronista, era l’amico colto ed arguto, conversatore fascinoso ed intrigante, se sol lo si stanasse dalla sua corazza di un’ostentata timidezza. Stare con lui, al tavolino del “Torino” dove amava trascorrere quasi quotidianamente i fine mattinata, era come immergersi in un pozzo di conoscenze e di informazioni, poiché era capace di spaziare, nel suo conversare, dal fascino coloristico delle tele di Peppino Biasi, di Filippo Figari o di Cesare Cabras ai virtuosismi vivaldiani e mozartiani dei musici di Renato Fasano che si esibivano a Sant’Agostino, e, perché no?, agli spericolati e temerari giochi politici in atto a Palazzo civico. Questo suo amore per il “bello”, per tutto quel che facesse armonia, nella tavolozza come nei suoni, lo aveva trasferito anche nella façon grafica del giornale, di cui ne studiava gli equilibri, le titolazioni e gli accostamenti con la passione, e la vocazione, d’un antesignano del design (perché anche


È venuto a mancare recentemente un’altra colonna storica dell’Unione Sarda, Fabio Maria Crivelli. Il mitico direttore in questa immagine è con Angelo Roich e Mario Floris.

nella pagina d’un giornale – ci diceva – occorre armonia, ed un titolo “in bodoni” non può far da spalla ad uno con caratteri “bastoni”). D’altra parte, che dell’arte, e della cultura in genere, fosse un esperto cultore, lo dimostrano i suoi scritti sui pittori sardi, e su come avesse interpretato, con straordinario occhio clinico, le evoluzioni che, in quel dopoguerra, l’arte sarda avrebbe vissuto attraverso le “lezioni” modernizzanti d’un Mauro Manca o di un Pinuccio Sciola. Contaminazioni che, nella sua sensibilità, trovavano esaltazione e successo. Se un ricordo personale posso aggiungere su queste sue predilezioni, dirò che Stanis Dessy, uno dei “grandi” della pittura classica sarda del ’900 con cui io ebbi allora molta familiarità, m’aveva confidato come “il solo” Vittorino, fra i critici sardi, fosse in grado di cogliere, con grande acutezza e sensibilità artistica, i messaggi, spesso criptici, contenuti nelle opere di pittura. Perché degli artisti sapeva cogliere ed illustrare tutti i segreti, le maturazioni e le evoluzioni, sapendo ben distinguere, a prima vista come sosteneva l’incisore Dessy, la morbidezza e la levità dei segni d’una “vernice molle” da quelli di un’acquaforte. Vittorino, quindi, come uomo di cultura, come un intellettuale raffinato e aperto come pochi se ne trovano al giorno d’oggi, purtroppo, fra le fila di cronisti e giornalisti.

È giusto ricordarlo così, perché non è stato “soltanto” un grande ed apprezzato giornalista, ma, soprattutto, un grande intellettuale della Cagliari di questa nostra contemporaneità. Ed è così – con questo titolo e con questa qualifica – che appare giusto ridarne memoria e conoscenza ai cagliaritani, perché ne abbiano ricordo e riconoscenza. Per quel che ne ho letto in questi giorni in suo ricordo, credo infatti che la personalità di Vittorino vada ben al di là del suo giornale, dell’affetto di quanti con lui si sono “fatti” bravi giornalisti, tanto da scriverne, grati, le lodi come “maestro”. La figura di Vittorino Fiori va ben al di là dei confini d’un giornale, di una redazione che pure l’ha visto – come s’è letto – severo e temuto dominus: di lui va ricordato, e conservato, quanto ha saputo dare alla città, a quella Cagliari che ha amato senza retorica e senza romanticismi, di cui era riuscito – più di ogni altro – a scoprirne ed a capirne l’anima. Ed anche di questa sua capacità di voler riconoscere alla città un’anima, una sua valenza estetica che andasse al di là delle quotidiani querelle municipali, ne ho cara memoria. Ricordo, a proposito, che un giorno volle che l’accompagnassi in “Lambretta” fin sulla terrazza che, dal convento dei padri mercedari a Bonaria, s’affaccia sulla città: da qui – mi disse mentre gli occhi gli brillavano d’entusiasmo – puoi riuscire a capire, ed a far tua,

la straordinaria bellezza di questa nostra città; che è tanto bella vista da lontano, perché riesci ad abbracciare ed a far tua l’inimitabile suggestione delle sue linee verticali e dei suoi delicati colori africaneggianti, mentre al suo interno, quando ti aggiri per vicoli e piazzette, tutto scompare, perché si è lasciato, purtroppo, troppo spazio alle volgarità di troppi impuniti peddizzoni… Ecco, il mio amore per la città, per i suoi luoghi e la sua gente, per il suo sky-line ed i suoi spazi e le sue pietre, lo devo proprio a Vittorino, a quel che mi fece vedere, e capire, un pomeriggio di primavera di tanti anni fa, in quella straordinaria passeggiata in Lambretta. Quel ricordo riconoscente – aggiungo – avrebbe trovato una sua riconferma, diversi anni dopo, allorquando sulla sua “Unione Sarda” volle dedicare – come “lettura della domenica” – una pagina intera al mio primo saggio-racconto su Cagliari e la sua gente (frutto di quell’amore lontano che lui m’aveva ispirato), sottolineando benevolmente quello che, per lui, era il mio merito: quello “di aver saputo coltivare e trasmettere, con una scrittura elegante nutrita di tante curiosità intellettuali” quelle nostalgie e quei valori che addolciscono il cuore dei vecchi e nuovi cagliaritani, innanzitutto di quelli DOC, ma anche di quanti sono diventati cagliaritani nel tempo, e ne vorrebbero conoscere la storia. Anche per questo, ho voluto molto bene a Vittorino Fiori, di cui ho avuto il vanto d’ottenere e conservare per sempre la sua amicizia, attraverso un legame affettuoso che ha sfidato il tempo, e che oggi che lui non è più fra noi, la rende ancor più preziosa. Ed è anche per questo, per tutto quel che ha saputo e voluto dare alla città dei cagliaritani con la sua appassionata milizia civile di attento ed obiettivo cronista, oltre che di intellettuale curioso ammiratore e ricercatore d’ogni forma di “bello” offerto dalla città, che lo piango con profonda commozione, perché “nostra madre” Cagliari ha ora perduto uno dei suoi figli migliori.

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CAGLIARITANI GIRAMONDO PER FATTI UMANI: LORENZO COZZOLINO

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I RACCONTO la mia di Paolo Demuru

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lcune alghe microscopiche che crescono nei fondali danno un colore particolare alle acque che separano l’Asia sud-occidentale dall’Africa nord-orientale, tra il canale di Suez e lo stretto di Bab al Mandab. Il fenomeno fu osservato già dall’antichità, infatti, i Greci chiamavano quelle acque Erythros Pontos: mare Rosso. Gli Italiani, chiamarono Eritrea le coste africane di quel mare, ove vantavano dei diritti, già dalla seconda metà dell’ottocento. Infatti, nel 1865 l’Eritrea passò agli Egiziani che la occuparono militarmente nel 1872; ma la cosiddetta rivolta dei Mahdi del 1884 favorì le ambizioni coloniali dell’Italia. Il 5 febbraio del 1885, col favore degli Inglesi, le truppe del colonnello T. Solletta occuparono pacificamente Massaua che divenne la capitale della Colonia Eritrea fino al 1897, quando la stessa capitale fu trasferita all’Asma-

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ra. Nel 1936-37 l’Italia occupò anche l’Etiopia facendone un’unica colonia. L’avventura coloniale dell’Italia finì nella prima parte del 1941 per opera degli inglesi. Ma non indugeremo oltre in citazioni storiche poiché il nostro obiettivo non è quello; tuttavia vogliamo ricordare, a proposito della nostra presenza in Africa Orientale, che fra i tanti dominatori dell’Eritrea forse gli italiani sono ancora i più ben visti. Segni ben chiari del passato coloniale sono le ferrovie, le città a pianta geometrica, le strade, l’introduzione di alcune piante, la lingua ancora da molti praticata e compresa, gli insediamenti religiosi e le attività umanitarie… La geografia di questa regione è piuttosto diversa da quella a noi più familiare. Stiamo parlando di una striscia di terra prevalentemente desertica, dove piove poco e per due mesi l’anno. Dai torrenti, la poca acqua piovana subito scompare per la pendenza

del territorio, per l’assenza di dighe di contenimento, per l’insabbiamento e la forte evaporazione; poca è quella che giunge al mare. Parlando di estremi si passa dalle depressioni della Dancalia alle massime alture del monte Soira; una vera terrazza a poche centinaia di chilometri dal mare. Prevale il deserto sabbioso nelle pianure alluvionali mentre sui tavolati e nelle alture prive di vegetazione di rilievo compare il pietrame di erosione. Le temperature nella fascia costiera sono alte, si avvicinano ai 40° C. per buona parte dell’anno; le notti sono fredde e il cielo appare sempre terso. Per questo motivo la capitale da Massaua fu trasferita all’Asmara situata, verso l’Acrocoro Etiopico, ad una certa altezza, unico elemento mitigante. L’attuale Repubblica di Eritrea, in un censimento del 2006, contava una po-


a Africa

polazione I.889.700 abitanti su una superficie di 117.600 kmq. Una città molto importante e strategica per il porto è Massaua, contesa dall’Etiopia per questo, essa raggiunge i 39.758 abitanti. Una ferrovia collega la città portuale con la capitale Asmara. Le strade che collegano i piccoli centri abitati non sono asfaltate, mal tenute e piene di buche, polverose per dieci mesi e piene di pozzanghere per i pochi giorni del resto dell’anno. Si percorrono a fatica e prevalentemente con i fuoristrada. Chi ha un mezzo ha diritto all’acquisto di 30 litri di benzina al mese. I trasporti locali, specie nei villaggi, avvengono per lo più a mezzo animale. Gli asini sono utilizzati nei brevi tratti e per piccoli trasporti, i muli più forti e più veloci, assolvono compiti più importanti. I cammelli, per la loro resistenza e autonomia, assolvono nei lunghi tratti questo faticoso compito. L’energia elettrica e i telefoni non raggiungono i villaggi

ma servono solo i centri di una certa importanza. Le abitazioni degradano verso le periferie per diventare capanne nei villaggi: sorta di trulli circolari costruiti in pietra con i tetti di paglia. All’interno di un diametro di poco più di quattro metri vive un nucleo famigliare, usando per pavimento dell’argilla o semplicemente sabbia nuda. Vi si cucina servendosi del fuoco ottenuto dalla combustione di fascine trasportate a dorso di cammello, là si trascorre la giornata, là si dorme. L’acqua è un bene raro, attinta da pozzi, esili donne la trasportano sul capo anche per lunghe distanze con ogni sorta di contenitore. Quando le distanze sono veramente notevoli il prezioso liquido è trasportato a dorso di mulo con taniche metalliche o con brocche di terracotta. L’aratura dei campi avviene per mezzo animale e con aratri in legno privi di vomere, ma non è molto raro vedere uomini spingere manualmente un semplice arnese che fende il suolo. Il raccolto dipende dalle piogge; spesso si assiste ad una profonda carestia. Poco è il bestiame e solitamente si tratta di capre, adatte ad arrampicarsi nei pendii rocciosi. Nei villaggi più degradati i fichi d’india, introdotti dai monaci italiani e disseminati dalle scimmie, danno un forte apporto all’alimentazione così come la papaia. Per quanto riguarda l’istruzione, anche nelle scuole periferiche sono presenti i primi tre cicli scolastici; i cicli superiori, laddove esistono, seguono, prevalentemente, l’indirizzo professionale. Sovente è praticato il tempo pieno e le classi contengono dai 30 ai 40 alunni. Le lingue ufficiali sono l’Arabo e il Tigrino, sono altresì insegnate le lingue italiana, inglese e francese. La situazione sanitaria è quella che ha destato maggiore attenzione, nel nostro caso, poiché chi riferisce è proprio un medico. “Un medico senza frontiere” si direbbe, ma per quanto mi ha semplicemente ed approfonditamente illustrato direi, senza esitazione “un medico alla frontiera”. La frontiera è la condizione in cui si trova lo stato di Eritrea, dove protagonisti sono stati di solito gli altri: è stato vittima di conquiste politiche ed economiche, per il fatto e non solo, di trovarsi in uno dei punti strategici della terra. Invasioni, tratta di schiavi, conflitti ideologici, interessi economi-

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ci, scarsità di materie prime, arretratezza di mezzi sono le voci che gravano su questo popolo. Gente ricca di pazienza e sopportazione, ricca di profonde tradizioni e di amor di patria, arcaica e indifesa per quanto riguarda la salute. In Eritrea si nasce facilmente ma con poche certezze di sopravvivenza, si vive attraverso grandi disagi, si muore spesso per banalità. La mortalità infantile, per via delle condizioni nutrizionali e dello stato igienico-sanitario è piuttosto alta. Per le stesse ragioni alta è la morte puerperale. L’orfano, generalmente, è affidato per tre anni a strutture di religione cattolica e poi riconsegnato ai parenti, con l’intento di ricomporre le famiglie. Non esiste nessun tipo di

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affido internazionale, né adozioni a distanza. Gli organismi della sanità pubblica diffondono dei libretti-prontuari dove a un certo disturbo corrisponde un farmaco, ovviamente, non di ultima generazione. Non è consentito usare nessun altro tipo di farmaco, pena la chiusura della struttura e conseguenze penali per i responsabili. Sul Travel Permit for Foreigners rilasciato dall’ambasciata dello stato di Eritrea a Roma leggiamo che il nostro medico è partito con un Tourist Visa da Roma per Massaua con destinazione Asmara, presso una comunità di fratelli Lasalliani. Il nostro amico di professione è Doctor ma avrebbe dovuto fare il tourist per 30 giorni. Poteva visitare sette centri compresa la base di partenza, cioè Asmara. Precisamente, si poteva recare a Keren e Hagas e spostarsi nei villaggi di Segeneiti, Hebo, Agsa, Senape e Mendefera, sempre rigorosamente accompagnato da personale della comunità e su un fuoristrada Land Cruiser Toyota Milux di cui è riportata anche la targa sul documento di via. Sorpreso dalle autorità locali su altro mezzo o fuori da questi presidii le conseguenze sarebbero potute essere molto serie: espulsione e rischio di condanna penale per il suo accompagnatore. In ogni modo il nostro amico, appena giunto, ha visitato le modeste strutture sanitarie che ha incontrato, spesso piccoli ambulatori di 4-5 stanze dove poteva essere prestata assistenza di prima necessità. In queste strutture spartane e in pietra ha cercato di far superare la diffidenza alle visite mediche da parte della moltitudine dei pazienti, in prevalenza donne. Ha uti-

lizzato anche i pochissimi medicinali che aveva portato per se nello zaino tra gli indumenti personali. Superata la diffidenza, col passare dei giorni la fila delle pazienti si infoltiva sempre di più. Qui, spesso, si muore banalmente per il taglio di un cordone ombelicale a una partoriente da parte di una praticona con un arnese poco sterilizzato o semplicemente arrugginito; una semplice dissenteria può portare a morte un neonato. Ricordiamo che all’Asmara esiste un ospedale pubblico più uno in ognuna delle sette province in cui è diviso lo stato, ma forti sono le carenze strutturali, tecnologiche e di personale sanitario. Le strutture sanitarie gestite da ordini cattolici sono spesso frutto di devoluzioni di fondi internazionali. I convogli di generi alimentari che giungono all’Asmara o attraverso container al porto di Massaua, presso i centri Lasalliani o altre comunità cattoliche, subiscono spesso una triste sorte: parte del carico viene ritirato direttamente dalle milizie locali, il resto sosta a lungo esposto a temperature piuttosto alte, in condizioni di precoce deterioramento per la tremenda mancanza di mezzi e di carburante, quindi, per le difficoltà di trasporto verso i villaggi attraverso strade difficili e lunghe. Ecco, in sintesi, l’oggetto del lungo e disteso colloquio che con me ha intrattenuto l’amico medico in una mattina tiepida di luglio. Ringraziandolo per la disponibilità gli porgo un’ultima domanda. «Ritornerà in Eritrea?» «Certamente si», è la decisa risposta , «quest’anno non ci sono stati rilasciati permessi d’ingresso ma se l’anno venturo ci saranno, partirò molto volentieri». Sono sicuro anch’io che il nostro medico partirà nuovamente verso quei luoghi portandosi a spalle uno zaino di indumenti personali e qualche confezione di medicinale di pronto intervento, non certo per aggirare indiscutibili leggi di uno stato sovrano ma per affrontare meglio qualche frontiera in uno stato che ne ha ancora tante.


Opinioni

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COME CAMBIA IL CENTRO STORICO

UN CASTELLO SENZA ISTERISMI

u Castello bisogna avere il coraggio di ragionare, di andare oltre posizioni preconcette, isterismi e interessi di parte. Non prendo nemmeno in considerazione la posizione di certi integralisti del nulla, che si arrogano il diritto di parlare in nome e per conto dei residenti del quartiere (o dei quartieri, dato che le stesse persone interpretano tale ruolo a Villanova, a Stampace, etc.) anche e soprattutto nei casi in cui la loro opinione è isolata. Mi auguro che anche il presidente della Circoscrizione comprenda che la sua legittimazione deriva dal voto popolare e non dalla benevolenza di quattro persone, intellettuali o sedicenti tali. Non abdichi al suo ruolo in favore di costoro: farebbe un torto anzitutto a chi gli ha dato fiducia. A costo di prendere qualche fischio, è meglio essere coerenti: non si può dire, ad esempio, che bisogna rifare piazza Garibaldi e andare a braccetto con chi ha fatto di tutto perché rimanesse così com’è. Chi fa politica ha il compito di ascoltare tutti, ma ha anche il compito di arrivare ad una sintesi, di decidere. Bisogna avere la capacità di dialogare e noi vogliamo farlo con chi ha posizioni costruttive, sulle quali sarà utile confrontarci. Non siamo fana-

di Alessandro Serra

tici dei tapis-roulant e, come abbiamo già detto mesi fa in commissione Urbanistica, crediamo che possano essere valutate delle soluzioni alternative: ad esempio, quella dell’ascensore interno alle mura, che collegherebbe Castello col resto della città sul versante che si affaccia su Stampace. E’ invece irrinunciabile il parcheggio sotterraneo sotto via Cammino Nuovo: 330 posti auto darebbero ricovero alle auto dei residenti e limiterebbero il traffico generato dal giro vizioso di chi passa due o tre volte alla ricerca di uno stallo in cui lasciare la macchina. Dire che vogliamo fare un “luna-park” è un’assurdità affermata da chi vorrebbe che fosse un cimitero: noi vogliamo riaccendere la speranza di chi vuole fare impresa in maniera compatibile con il fatto di trovarsi in centro storico e chiudere la porta invece a chi crea disturbo, a chi chiude la strada per fare arrostite e baccano con l’omertà complice di qualcuno, probabilmente dovuta all’affinità politica. Vogliamo bed & breakfast, caffè, ristorantini, ma non discoteche.

Gli interventi del centro-destra e del sindaco Floris non solo sono stati compiuti nel rispetto del quartiere, ma al fine di recuperarne l’anima: pensiamo alla Passeggiata Coperta, alla terrazza del Bastione, al Teatro Civico e al recupero delle mura. Vogliamo anche che nel centro storico possa svilupparsi l’idea di campus diffuso. La nostra credibilità è certificata dalle cose fatte, ed è in virtù di queste che ci “iscriviamo al partito del fare” ed invitiamo anche gli altri a farlo. “Sparacchiare” quattro slogan in mezzo alle assemblee e mettere insieme le persone che la pensano diversamente tra loro su una lamentela generalizzata è facile e non richiede chissà quale coraggio, e alla fine dell’incontro tutti tornano a casa senza che sia cambiato nulla. Il coraggio di cambiare le cose appartiene a chi, invece, tenta di unire le persone su progetti concreti, su una visione positiva del quartiere, e alla fine il saldo applausi-fischi è sempre a favore di questi, mentre i nichilisti e i filosofi del benaltrismo non li segue nessuno.

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CAPOTERRA: Incontro con Marco Espa

così può uscire dalla paura

Roberto Tronci

Era il 22 ottobre 2008, quando il cielo di Capoterra divenne più scuro del solito, i tuoni più rumorosi di quelli a cui siamo abituati e i fulmini così luminosi da squarciare il cielo. Pochi potevano accorgersi di quello che accadeva accanto a loro, alle 5:30, la popolazione capoterrese dormiva, ma nessuno poteva sapere che un’inondazione inizia in questo modo. Alle 8:30 del mattino gli abitanti di Capoterra e di tutta la costa meridionale della Sardegna si sono svegliati così: con case e strade sommerse da 380 millimetri d’acqua, macchine trasformate forzatamente in barche e un tappeto di fango e detriti pronto ad accoglierli. La furia dell’acqua ha portato via cinque vite, e poi migliaglia di sfollati, e 120 milioni i danni stimati tra beni mobili ed immobili. Una calamità naturale, da cui bisogna sapersi risollevare. Ma la tragedia spesso fa i conti con la moneta, che compra ciò di cui si ha bisogno, che procura i materiali per la ricostruzione, che accelera la riedificazione di una città. Per questo Marco Espa, consigliere regionale uomo concreto che bene conosce le reali esigenze del posto, il 2 aprile 2009 presenta una nuova proposta di legge, depositata al Consiglio Regionale cosicché possa iniziare il suo iter. Il disegno di legge “Interventi strutturali per la messa in sicurezza dell’area interessata agli eventi alluvionali nel comune di Capoterra”, prevede risorse in favore dei territori colpiti per 40 milioni di euro. Interventi indispensabili per risanare l’area e rasserenare i cittadini. Gli aiuti pubblici già erogati a 450

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famiglie capoterresi, hanno fatto tirare un sospiro di sollievo a tutta la popolazione, la quale ha ricevuto un contributo per le spese sostenute nella riparazione degli immobili. Ma il vero problema resta la messa in sicurezza del quartiere, soprattutto del bacino Rio San Girolamo. Abbiamo incontrato Marco Espa, attento conoscitore delle esigenze dei cittadini, interprete dell’angoscia delle diecimila persone che sono a rischio nel bacino di San Girolamo e primo firmatario della proposta di legge n°6. Cosa ha reso Capoterra un territorio così a rischio? L’antropizzazione, condotta qualche volta anche in modo violento: Capoterra è un territorio che, in particolare negli ultimi 50 anni, ha visto fenomeni di vasta crescita demografica. Ricordiamo un solo dato significativo, la superficie occupata dall’edificato interno del bacino del Rio San Girolamo è passata da 10,29 ettari del 1960 a 278,22 del 2006 con un aumento di più del 2.500 % in così pochi anni. Qual è la priorità oggi nella ripresa capoterrese, dopo l’alluvione del 22 Ottobre? La messa in sicurezza del nostro territorio. È questo l’argomento che urge sottoporre all’attenzione dei consiglieri regionali. La sistemazione idraulica e idrogeologica è una priorità, per quest’area ancora vulnerabile e a rischio. E’ piovuto relativamente poco ultimamente e il nostro territorio è andato nei giorni scorsi nuovamente in crisi! Capoterra ha bisogno anche di discutere una legge salva case, per salvare la casa e la vita dei 10mila

residenti da possibili nuove alluvioni. La proposta di legge, presentata da lei, Sanna e Porcu, al Consiglio Regionale il 2 aprile, quale scopo si prefigge? Sicuramente quello di colmare il vuoto normativo esistente sulla materia di messa in sicurezza di queste aree. In particolare l’attenzione ricade sul bacino di San Girolamo, che raccoglie quasi 20.000 persone, a cui dobbiamo assicurare una vita serena. Quali sono i progetti e le prospettive contenute nella vostra proposta? La redazione di un Piano straordinario di interventi interstrutturali in grado di risolvere i reali rischi di questi territori. Oculate opere idrauliche, architettoniche ed urbanistiche, metteranno al sicuro lo spazio che ci circonda, dando serenità alla popolazione che vi risiede. Stiamo pensando anche a interventi di informazione costante sull’evoluzione degli eventi climatici, attraverso l’uso di nuove tecnologie: i cittadini potranno per esempio ricevere un sms sul loro cellulare ed essere quindi a conoscenza dei cambiamenti meteorologici. In questo campo prezioso è il contributo della Protezione Civile, che diventerà più che mai protagonista negli interventi di evacuazione in caso di emergenza. Abbiamo pensato anche ad una finanziaria straordinaria per il Comune di Capoterra, che così potrà operare un ripristino ambientale e costituire un “Parco fluviale San Girolamo” al fine di ridare vivibilità ad una porzione di territorio così duramente colpita. Adesso quale sarà il prossimo passo? Purtroppo il disegno di legge giace ancora sulla scrivania del Consiglio Regionale, in attesa di essere discusso, quindi tutto è bloccato, senza fondi è impossibile far partire le ricerche e gli studi sul campo necessari. Vorrei comunque sottolineare l’urgenza di questo argomento. La gente ha paura, perché vede una leggera pioggerella mettere in crisi il nostro territorio. I lavori devono prendere l’avvio con la massima urgenza. Questo l’augurio di Marco Espa, e di tutti i capoterresi che ogni mattina con il naso verso il cielo cercano di capire se quelle nubi laggiù sono troppo scure.


EDUCAZIONE SPORTIVA E SALUTE

Doping

ora sei informato Il magistrato Paolo De Angelis

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i è di recente concluso il progetto “Doping, sei… in…forma…to?”, organizzato e fortemente voluto dal CONI regionale con il sostegno della Provincia del Medio Campidano, sotto il coordinamento generale del Magistrato Paolo De Angelis. Indubbiamente rivelatrice la scelta del titolo, un simpatico gioco di parole comprendente un duplice messaggio: il primo sulla necessità di avere più conoscenza sull’uso di sostanze divenuto ormai una costante in certi ambienti, il secondo contenente un monito fondamentale su come, per essere in forma, sia necessario conoscere e adoperare i meccanismi adatti a una crescita sportiva nel rispetto della propria salute. Si tratta del primo progetto interamente dedicato alla formazione culturale e sportiva che ha voluto coinvolgere proprio la generazione dei più giovani sportivi, i ragazzi del biennio delle scuole superiori di ben sette comuni, con i loro rispettivi docenti. Il progetto rientra, inoltre, nella sezione preventiva della legge 522 sorta dalla convenzione che a Strasburgo, nel 1989, ha impegnato i vari Stati a contrastare anche sul piano penale il fenomeno doping. Si sono perciò organizzate attività interattive, capaci di coinvolgere i ragazzi, attraverso uno staff composito e articolato che ha affrontato, nel corso di undici visite nei vari plessi scolastici, temi relativi all’esercizio della pratica sportiva (medicina dello sport, psicologia dello sport, psicologia delle dipendenze, scienze motorie e tecniche di allenamento, storia dello sport e diritto sportivo). Incoraggianti i risultati emersi dai test pre- e postformazione, sia perché un’ottima percentuale di studenti si è dichiarata sin dal principio informata sul doping, sia perché molti di loro si sono mostrati particolarmente sensibili all’argomento.

Al contempo, come spesso purtroppo accade, un aspetto allarmante è risultato quello relativo alle fonti dell’informazione, sull’uso di integratori e sostanze dopanti, comunemente proveniente da canali impropri, che in futuro si vorrebbe sostituire con la scuola o il mondo sportivo stesso, che si auspica divengano fonte attiva di prevenzione su questo problema. Non solo i dati ricavati, ma anche l’entusiastica partecipazione delle classi coinvolte lasciano sperare che il progetto abbia in buona misura raggiunto i propri obiettivi: quelli di trasmettere una visione dello sport più puro, inteso come dedizione alla competizione e al sacrificio per il raggiungimento di un traguardo, sempre nel rispetto delle regole ma soprattutto di se stessi e dell’avversario. Perché solo attraverso una competizione ad armi pari, in cui si conta unicamente sul rafforzamento del proprio carattere e sulla propria capacità di adattamento si affronta davvero una sfida leale e si può vivere un’esperienza formativa, valida nello sport come nel nostro vivere quotidiano.

“Credo che ogni gioco debba essere il più pulito

possibile e vi si debba partecipare secondo le regole dettate, con passione e nel rispetto dei valori. NO AL DOPING NELLO SPORT, GIOCO SPORCO CHE MINA LA SALUTE DI OGNI ATLETA!” Gianfranco Zola il Cagliaritano 39


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ono 75 le candeline che l’AVIS cagliaritana ha spento in occasione della Giornata Mondiale del Donatore di Sangue. Un evento speciale che la nostra Associazione ha voluto celebrare attraverso la “Festa del Donatore”, onorando i veri protagonisti di quest’iniziativa davanti alla presenza del Presidente dell’AVIS Nazionale, Dott. Andrea Tieghi, l’assessore alle Politiche sociali della Provincia di Cagliari, Anna Maria Quaquero, e quello della Sanità, La Dott.ssa Anna Reina. L’AVIS cittadina è stata la prima a costituirsi in Sardegna e una delle prime a livello nazionale, e oggi comprende circa 3000 soci donatori che nel corso del 2008 hanno effettuato quasi 4700 donazioni. Per questo si è scelto, attraverso questi festeggiamenti, di premiare proprio i donatori più assidui, assegnando ben 700 riconoscimenti: 11 a coloro che hanno effettuato 120 donazioni, 17 a coloro che hanno effettuato almeno 100 donazioni, 36 a chi ne ha effettuato almeno 75, 80 ai soci che ne hanno effettuato almeno 50 e, infine, sono stati omaggiati circa 590 soci che hanno raggiunto dalle 8 alle 36 donazioni di sangue. Queste le persone insignite di benemerenza.

Oro con diamante (120 donazioni): Nello Ariu, Giuseppe Boi, Mario Caddeo, Giancarlo Cimino, Benito Corda, Enrico Floris, Briuno Madeddu, Gianfranco Murtas, Raffaele Muscas, Marco Serci, Efisio Sollai. Oro con smeraldo (100 donazioni): Riccardo Cabiddu, Raffaele Casula, Giuseppe Cossu, Massimo Del Piano, Carlo Fadda, Tonio Manca, Giampaolo Martini, Angelo Meloni, Pier Paolo Macelli, Giuseppe Picciau, Giacomo Piredda, Luigi Porcu, Giovanni Porru, Oscar Riccio, Raimondo Salis, Giampaolo Tronu, Antonino Zedda. Oro con rubino (75 donazioni): Vinicio Bianchiero, Gildo Belloni, Maria Assunta Bistrossu, Sergio Bonifacio, Luciano Bollita, Fernando Caredda, Antonio Carta, Ferdinando Caschili, Roberto Concu, Gianni Cubeddu,

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il Cagliaritano

CAGLIARI:

LA CITTÀ DELLA GENEROSITÀ

che dona il sangue

Frabcesco De Lorenzo, Enzo Espa, Sandro Etzi, Giampiero Giglio, Giorgio Ibba, Gianfranco Ladu, Piero Lavore, Francesco Letizia, Antonio Loi, Osvaldo Mallus, Bruno Mattana, Walter Mostallino, Ignazio Nieddu, Giampaolo Ortu, Carmelo Pettinau, Marcello picciotto, Stefano Pillai, Angelo Robespierre, Silvio Sanna, Luigi Savona, Antonio Soriga, Salvatore Sotgiu, Giorgio Todde, Ignazio Trogu, Giovanni Vacca, Claudio Zucca. Oro (50 donazioni): Ivo Aramu, Ignazio Argiolas, Giuseppe Becciu, Enrico Boi, Massimo Boi, Giorgio forzieri, Gesuino Cacciutto, Alberto Camba, Paolo Cara, Alessandro Casti, Augusto Cerchi, Giorgio Cirina, Cesare Cocco, Enrico Cocco, Mario Cocco, Mario Antonio De Candia, Emilio De Ferrari, Carlo De Giorni, Luigi De Rosa, Bruno De Silvestri, Antonio Luigi Demontis, Maurizio Farina, Marcello Ferino, Corrado Finocchiaro, Luciano Floris, Umberto Formicola, Calogero Fusaro,

Alessandro Gatti, Edoardo gentilizi, Salvatore Gervasi, Francesco Gessa, Pietro Imperiali, Francesco Lai, Carmelo Lecca, Marco Lecis, Andrea Leoni, Luigi liscia, Alberto Lixia, Giacomo Lo Schiavo, Giuseppe Loi, Massimo Lubrano Lavadero, Antonio Mangano, Franco MArtyini, Giampaolo Martini, Paolo Massa, Stefano Mereu, Alberto Mundula, Franco Murgia, Francesco Olianas, Paolo Orgiana, Luigi Ortu, Oscar Palmas, Paolo Giovanni Pau, Attilio Pes, Salvatore Picci, Cesare Picciau, Ugo Ubaldo Pili, Umberto Pillosu, Giovanni Pinna, Paolo Pinna, Stefano Pischedda, Gianfranco Podda, Roberto Poma, Mariano Umberto Preta, Claudico Pusceddu, Palmiro Pusceddu, Franco Quesada, Gianni Sanna, Maurizio Sanna, Ario Dante Savi, Efisio Scotto, Franco Serrali, Maurizio Testa, Stefano Tronu, Massimo Trudu, Sebastiano Uselli, Vezio Viti, Salvatore Zedda, Andrea Zuddas, Sergio Zuddas.


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COSÌ ROMA ABBRACCI IDENTITÀ E PROMOZIONE DEL SISTEMA SARDEGNA

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na nuova ed emozionante edizione dell’“Isola che c’è – Sardegna incontra Roma” ha avuto luogo quest’anno nello splendido e verdeggiante scenario del quartiere Flaminio, ai piedi del monte Parioli, ricco di splendide ville signorili e palazzi borghesi. Un evento unico, sorto dalla collaborazione della Gia Comunicazione con il Gremio, l’Associazione dei Sardi di Roma, con la missione di offrire degustazioni, spettacoli, vendite dirette e, ancora, gemellaggi, solidarietà, cultura e contatti per ambiziosi progetti. “L’Isola che c’è” si è mostrata nelle sue facce multiformi dell’arte, della letteratura, del dibattito, della poesia, del giornalismo, della musica, del canto, del folklore: forte delle sue radici ma viva ed attuale attraverso alcuni dei suoi migliori esponenti culturali. Ne offre un esempio la presenza di Tonino Rubattu con il suo dizionario della “limba” e la sua riscrittura in ottave sarde dell’Iliade e dell’Odissea, ma anche quella di

Neria De Giovanni, scrittrice e Presidente dell’Associazione Internazionale dei Critici Letterari, che ha parlato con competenza ed eleganza della figura di Giuseppe Dessì al centenario dalla sua nascita, non solo come romanziere, di cui è stata presentata un’opera inedita, ma anche come uomo e poeta. Un’occasione fondamentale anche per affrontare le tematiche più attuali per la comunità di sardi nella capitale e nella nostra Isola, quali i viaggi e la continuità territoriale, trattati alla presenza del responsabile commerciale della Moby, Massimo Mura, o il tema della solidarietà e della donazione del sangue, portato avanti dal gemellaggio tra l’AVIS di Cagliari e quella di Roma, o il trapianto degli organi promosso dall’Associazione Sarda Trapianti d’organi intestata all’indimenticabile e generoso Prof. Ricchi. Fonte di maggior fascino ed emozione sono state al contempo le testimonianze portate sul palco dai rappresentati

di costumi e tradizioni dei vari comuni presenti: il documentario della regista Pj Gambioli, sulla lavorazione della lana e dei tappeti di Nule, la vestizione della sposa di Dorgali avvenuta in diretta sul palco, la presentazione del costume di Ittiri, presentato dal Sindaco Tonino Orani, con i suoi ori, gli argenti, i colori, esibito da sei coppie di ballerini, interpreti delle migliori danze di ballo sardo. A intrattenere il pubblico erano, inoltre, presenti il coro Gavino Gabriel di Tempio, i quarantacinque sbandieratori e balestrieri di Iglesias, in costume medioevale, che hanno rallegrato la piazza con le loro marce, i solenni proclami di pace in stile “antichi cavalieri” e gli acrobatici lanci di bandiere al vento. Coinvolgente come sempre anche il concerto di Piero Marras, uno dei maggiori cantautori sardi alla cui esibizione ha conferito ulteriore fascino il corpo di danza Tersicore, composto da quattro splendide ballerine coordinate da Anna

Nella foto a sinistra, Giovanni Battista Sotgiu presidente del Gremio, Giorgio Ariu, l’assessore alla Cultura e alla Comunicazione del Comune di Roma, Umberto Croppi e Antonio Masia vice presidente del Gremio. Nella foto sotto, il Coro Gavino Gabriel di Tempio

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il Cagliaritano


Nella foto in alto i rappresentanti della Società degli Operai con i volontari dell’Avis e Giorgio Ariu. Nella foto a lato in alto a destra, i rappresentanti dell’Associazione Trapianti Alessandro Ricchi

CIA L’ISOLA

di Claudia Cao

Paola della Chiesa, avvolte in abbigliamento da “amazzoni nuragiche”. Ma l’identità sarda, naturalmente, non sarebbe stata rappresentata in tutta la sua completezza senza la presenza degli espositori delle nostre eccellenze agro-alimentari: dall’olio ai vini, dai formaggi ai salumi, dalla pasta ai dolci, ogni paese partecipante ha portato nella capitale la propria tradizione a partire proprio dalle delizie della propria tavola. Per restare in tema di eccellenze, non sono mancati i grandi marchi che hanno lanciato la nostra Isola sulla scena nazionale: la Plastwood con i suoi giochi famosi in tutto il mondo, Mascalzone Latino con il suo stand di gadget più di moda e raffinati, i fratelli Ghisu, che con le loro auto d’epoca e di lusso si sono imposti nella Roma del cinema e dei matrimoni sfarzosi. Fondamentale al fine di far conoscere la nostra storia e la nostra cultura la presenza della FASI (Federazione del-

le Associazioni dei Sardi in Italia) con la propria rassegna, la partecipazione della poetessa Fiorella Ferruzzi, che per l’occasione ha presentato anche il suo primo profumo, Orgìa, sorto dal desiderio di diffondere le fragranze caratteristiche della nostra terra e, infine, L’Unione Sarda, con le sue apprezzate edizioni di libri e testi d’arte, e la generosa offerta giornaliera del suo quotidiano. Ancora una volta la rassegna, oltre registrare la continua e costante presenza di pubblico, ha ripagato l’impegno dei suoi partecipanti e dei suoi organizzatori con tanta soddisfazione ed entusiasmo, due motori indispensabili per portare avanti i progetti avviati e rinnovare l’impegno di anno in anno con sempre nuovi propositi.

Nella foto a sinistra, Gemma Azuni, consigliere comunale a Roma. Nella foto sotto, Antonio Masia e Giovanni Floris

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LE CAGLIARITANE SONO PIÙ ATTRAENTI DELLE MILANESI

BELLE CON L’ANIMA Incontro con Enrico Massidda

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utti sappiamo quale peso abbia ricoperto negli ultimi decenni la chirurgia estetica, ma non tutti sono a conoscenza dell’importanza crescente di un settore come quello della medicina estetica. Il Cagliaritano ha incontrato Enrico Massidda, uno dei più rinomati medici estetici sardi, che da quasi vent’anni opera nel settore dividendosi tra la Sardegna e Milano, chiedendogli di avviarci alla conoscenza di un campo

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in ascesa come il suo, all’interno della società cagliaritana odierna. La medicina estetica, a differenza della chirurgia, si occupa prevalentemente di prevenzione, di cura della pelle, di ringiovanimento facciale, reidratazione e manutenzione del viso. I trattamenti sono i più svariati. Per l’ampio pubblico sicuramente i più noti risultano essere il botulino, il filler, il peeling ma ovviamente esiste una gamma molto più vasta di trattamenti che va-

ria da paziente a paziente. L’obiettivo che questa branca della medicina si pone è quello di frenare i cambiamenti, arricchire la pelle di qualcosa che non c’è o non c’è più (come ad esempio l’acido ialuronico), servendosi sempre di materiali biocompatibili e mai sintetici o non riassorbibili, affinché si possano ristabilire equilibri perduti senza far male alla pelle. Qual è il target di persone che si rivolge alla medicina estetica ?


Quanto al target, si è registrato indubbiamente un netto mutamento negli ultimi dieci anni. Prima, chi si rivolgeva al chirurgo estetico erano le donne dai 50 anni in su. Oggi l’informazione si è accresciuta, si sta diffondendo maggiormente la cultura della prevenzione e l’età media è diminuita: si va dai 30 anni in su. È sicuramente aumentata la consapevolezza che la vita quotidiana, il lavoro, le relazioni stressanti producono effetti che si manifestano prima di tutto sulla nostra pelle e l’obiettivo è divenuto quello di rallentare il fenomeno dell’invecchiamento o comunque quello di invecchiare “meglio”. Certo, capita che si rivolga al medico estetico anche il paziente di età adolescenziale, ma quel caso si verifica per problematiche specifiche e legate in parte all’età, quali ad esempio l’acne. Un altro mutamento è avvenuto a partire dagli anni ’90, quando l’attenzione si è spostata dalla sola cura del corpo a quella del viso. E gli uomini? Anche in questo campo, come in quello della chirurgia estetica, si sta verificando il medesimo incremento di sensibilità e di interesse legati alla cura del proprio viso? Sì, si sta verificando indubbiamente una crescita, ma il numero di uomini costituisce ancora un 10% dei pazienti e questo settore è ancor in buona parte appannaggio delle donne, soprattutto perché gli uomini invecchiano meno. Anche nel loro caso comunque l’età dei pazienti va dai trent’anni in su. Esiste un’età in cui sarebbe adeguato iniziare la prevenzione per assicurarsi la sua efficacia? E, soprattutto, qual è il segreto per avere dei risultati garantiti? Non si può dire che ci sia un’età in cui sia meglio avvicinarsi alla cura estetica, dipende sempre dai risultati che si vuole ottenere. Ciò che è necessario comprendere è che anche la bellezza costituisce un enorme patrimonio da gestire, in cui la sola medicina estetica può agire in misura parziale se non si verifica anche una collaborazione attiva del paziente. Come chi si rivolge a un dentista e poi trascura la manutenzione quotidiana non otterrà gli effetti sperati dalle cure ricevute, così anche per la nostra pelle accade lo stesso. La medicina estetica inse-

gna come gestire la cura di sé e del proprio viso, e il vero successo per un medico estetico è poter invecchiare con i propri pazienti. Certo, perché i risultati sperati arrivino il paziente stesso deve nutrire aspettative realistiche. Ricordiamo che, a differenza della chirurgia, la medicina estetica non deve stravolgere, ma valorizzare o migliorare un patrimonio di base già esistente. Le è mai capitato di dover rifiutare richieste in qualche modo utopistiche? Sì certo, mi è capitato. Quando si vuole portare avanti con una certa serietà il proprio lavoro si deve anche saper dire di no e avere consapevolezza dei limiti dei propri risultati davanti a quella che è la condizione di partenza di chi abbiamo davanti. Per questo uno dei compiti del mio lavoro è anche quello di insegnare al paziente ad avere percezione del proprio patrimonio e a gestire ciò che possiede, oltre a trasmettere come bellezza significhi prima di tutto armonia, non snaturamento o eccesso. D’altronde sappiamo tutti quanto sottile sia il limite tra buon gusto e cattivo gusto, e chi si pone come obiettivo lo stravolgimento del proprio aspetto troppo spesso se ne dimentica. Talvolta non ci si rende conto di quanto si possa risultare volgari o artefatti gonfiando troppo le forme o tirando troppo la propria pelle. I risultati migliori, a mio

avviso, sono sempre quelli che si ottengono gradualmente, risultando impercettibili e i più naturali possibile. Il suo lavoro la porta a viaggiare tra la Sardegna e Milano. Esistono differenze evidenti riguardo alla diffusione di questo settore tra le due realtà in cui lavora? No, si può dire che sotto questo punto di vista siamo perfettamente allineati. Ma il confronto con Milano mi offre l’occasione per addurre una prova a quanto detto poco fa. Sicuramente in Sardegna il numero di belle ragazze è superiore, ma è anche vero che nella nostra isola è estate sei mesi all’anno. Si è perciò più esposti al rischio dell’invecchiamento della pelle, perché oltre alla componente genetica a giocare un ruolo fondamentale è la componente ambientale, cui solo in ultimo si aggiunge quella voluttuaria, legata cioè alle abitudini e allo stile di vita. Maggiore è dunque il patrimonio e maggiore è anche il bisogno di prevenzione davanti a un fattore di rischio di questo peso. D’altronde la prevenzione risulta inversamente proporzionale all’età e per le ragazze più giovani sarebbe sufficiente si diffondesse – come in parte già sta accadendo – l’uso di schemi terapeutici di manutenzione quotidiana, quali l’uso di detergenti e creme idratanti adeguati al loro patrimonio di partenza.

C.C.

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cuola, musica e fantasia, in tre parole si presenta Piero Collu , professore della scuola media statale Giovanni Pascoli ad Assemini, presidente dell’Associazione musicale Peter’s Day, e ideatore di numerosi progetti musicali che coniugano arte, talento e innovazione. La musica filo conduttore della sua biografia, lo accompagna da sempre: si diploma al conservatorio di Cagliari, in contrabasso, intraprende la strada dell’insegnamento musicale nelle scuole medie, fonda e dirige con passione una scuola musicale , e crea proposte discografiche sempre all’avanguardia. Rea fu la Guerra di Piero, canzone di Fabrizio De Andrè. «Mi piacerebbe suonarla, ho pensato» racconta Piero, «da quel giorno ho preso in mano una chitarra e non mi sono più fermato. Ormai è indispensabile». La passione per la musica e quella per l’insegnamento sono sempre andate di pari passo? No. Dopo essermi diplomato al Conservatorio l’idea, ovviamente, era di continuare su quella strada, ma

l’offerta in quel settore non era ampia. L’insegnamento è stata un’ottima soluzione per coniugare musica e lavoro, non l’ho mai vissuto come un ripiego, ho sempre collaborato nel sociale e con i giovani, per me era solo una nuova sfida. Come reagiscono, oggi, i giovani alla musica? Crede che possa essere d’aiuto al loro percorso di crescita? È un ottimo incentivo per loro. Mi accorgo che li aiuta ad affrontare con maggior tranquillità materie magari più aride, come la matematica o la chimica. La musica, e le arti in genere, rendono più piacevole frequentare la scuola, e offrono l’occasione di esprimersi e svagarsi, sono momenti indispensabili. Per diversi anni è stato il responsabile artistico sardo per le selezioni regionali dello Zecchino d’Oro. Come ha vissuto questa singolare esperienza? È stata una bellissima parentesi, durata quasi sette anni. Ho selezionato più di duemila bambini all’anno, e ascoltandoli più volte ho potuto scegliere solo i migliori, Virgilia Siddi ne è un esempio. Oggi invece il coro

dell’Antoniano ha rinunciato ai riferimenti zonali, penalizzando le aree più periferiche, e quindi anche la Sardegna. Come è nata l’idea di creare la Peter’s Day? In quel periodo non esistevano scuole civiche dove insegnare musica, era una materia sottovalutata. Quindi abbiamo pensato di fondarne una noi, la Peter’s Day, che prende nome dal titolo di una famosa canzone dei New Trolls. È stata la prima scuola in Sardegna a nascere con lo scopo di coniugare l’arte del canto e la voglia di stare insieme. Dopo di noi qualcun altro ha provato l’esperimento ma hanno fallito quasi subito. Elmas, Assemini, Cagliari e di nuovo Assemini, la sua scuola ha peregrinato continuamente come mai si è fermata ad Assemini? E qual è il rapporto con la popolazione asseminese? Elmas è il paese in cui sono nato, Assemini quello in cui lavoro, e Cagliari una filiale che operava in contemporaneità con Assemini; una parentesi piacevole ma troppo impegnativa. Alla fine ho scelto Assemini,

UN MARE DI MUSICA AD ASSEMINI: SCUOLA PETER’S DAY

L’ ARTE DEL CANTO PER STARE INSIEME 46

il Cagliaritano


ormai la Peter’s Day è quasi un’istituzione per il paese, un tassello culturale di completamento, un punto di riferimento per chi vuole avvicinarsi alla musica, sono contento di constatare come la gente si sia affezionata alla scuola. Nel corso del tempo ha realizzato numerose incisione discografiche, creato numerose giovani band ed organizzato molti concerti, c’è qualcuno che le è rimasto impresso nella memoria? Sicuramente la tournee «Omaggio a Fabrizio De Andrè» iniziata nel 1999, abbiamo fatto più di 85 concerti. Era la prima volta che un gruppo decideva di suonare nelle piazze un repertorio così particolare. Le canzoni di Fabrizio De Andrè hanno poi un valore affettivo particolare per me. Devo dire che anche quest’ultima esperienza con gli “Etno Boys”si è rivelata molto stimolante: un band di giovanissimi che si esibiscono dal vivo, cantando rigorosamente in sardo, è un modo per riscoprire le loro radici e interessarsi alla tradizioni sarde, che qualche volta tendiamo a dimenticare. La sua scuola è già stata prota-

gonista nelle nostre edizioni del Cagliaritano: ricordiamo lo speciale sulla festa della musica ad Elmas, ma tornando indietro nel tempo, anche un servizio su Cagliari Calcio,per una musicassetta «Cuori Rosso Blu». Che ricordi ha di questa iniziativa? Era un’ iniziativa benefica, il ricavato è stato devoluto ai bambini che abitavano le favelas nel Maranhao, luogo di origine di Oliveira. I ragazzi, con la partecipazione straordinaria dello stesso Oliveira e di Bruno Corda, incisero delle canzoni dedicate ai giocatori del Cagliari, ai suoi protagonisti e alla sua storia. Partendo da musiche famose, modificammo i testi per adattarli ai nostri personaggi, così da Parlami di Te Bella Signora, venne Fuori Parlami di Te Louis Oliveira, oppure da Viva La Pappa, inventammo Viva il Trappa. Fu molto divertente. Ma la proposta musicale vincente è stata «La Festa della Musica». Da cosa è nata questa manifestazione? Durante le lezioni di teoria generale di musica mi sono accorto che era complicato spiegare agli alunni le differenze tra i diversi generi musicali, senza

poterli ascoltare e vivere, quindi ho creato una serata in cui dare spazio a tutte le voci: lo scopo era prettamente didattico. In questo modo l’enciclopedia musicale prende vita! Le altre idee sono venute in secondo momento, come quella di dare un tema ad ogni edizione. Sono soddisfatto di aver contribuito alla crescita della consapevolezza musicale dei giovani, ed è stato un piacere vedere Elmas così viva in quella sera. Io sono cresciuto in via Sulcitana e vederla chiusa al traffico e stracolma di persone, mi ha emozionato. Dalla Peter’s Day sono venuti fuori numerosi talenti: Ilaria Porceddu, protagonista di X-Factor, Sara Porceddu e Alessio Pizzoni, a Ti Lascio una Canzone sono un esempio. Qual è la formula del successo? Credo che il successo sia un mix di originalità e innovazione prima di tutto, rafforzato dal talento e dalla preparazione tecnica e condito da un pizzico di fortuna. Sono molto felice per i loro successi, ma spero che mantengano sempre i piedi per terra e che non abbandonino gli studi, i programmi televisivi spesso regalano vane illusioni. Progetti futuri? Uno stage con Luca Pitteri inizierà fra poco, organizzeremo numerosi concerti-tributo a grandi artisti come Mina, Vasco Rossi ed altri, e ovviamente la nuova edizione di Un Mare di Musica, il cui tema sarà la musica italiana. Quale messaggio, insegnamento o idea vuole trasmettere ai suoi allievi? Orazio lo riassunse con l’espressione “Carpe Diem!” Io prendo in prestito l’espressione per far capire ai miei alunni quanto sia importante cercare di dare sempre il massimo di se stessi, perché questo atteggiamento alla lunga premia. Se dovesse descrivere la musica con una parola quale userebbe? Un verbo probabilmente: vivere. E aggiungerei in armonia, vivere in armonia con se stessi e con gli altri. Ecco cosa è per me le musica!

Laura Bonu

il Cagliaritano

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L’argomento più gettonato al bar, nei giardinetti L’argomento più gettonatodella passata estate cagliaritana nelle discussioni al bar, nei giardinetti, sui mezzi di

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tempo i climatologi con aggiornamenti allarmanti altrettanto puntuali. Ma non sempre trovano ascoltatori attenti, specie tra coloro ai quali spetterebbe trovare soluzioni urgenti e realistiche. Proprio per questa ragione di recente a Londra un folto gruppo di ecologisti si è arrampicato sul tetto del Palazzo del Parlamento per manifestare e sollecitare i politici ad occuparsi seriamente del problema che in gran parte è legato al degrado dell’ambiente per evidenti colpe dell’uomo. Si ha l’impressione, però, che, come spesso accade, i guai previsti dai climatologi siano da considerare sempre molto remoti, o, meglio, tali si preferisce immaginarli.

Elmas vola sempre più alto Per fortuna l’elevata temperatura non ha scoraggiato l’arrivo dei turisti

(+10,87 %) e luglio (+20, 90 %). L’aeroporto di Cagliari è al primo posto per crescita tra gli scali italiani con riferimento alle tratte internazionali (+49,05) su cui ha inciso il netto aumento dei collegamenti low cost. Ma anche i voli nazionali hanno fatto registrare un buon aumento: con 1.729.382 passeggeri tra arrivi e partenze, la crescita è stata di + 3, 32 %. Secondo la stima degli esperti e della Sogaer, la Società che gestisce l’aeroporto, entro l’anno sarà raggiunto il traguardo dei 3,2 milioni passeggeri La prospettiva è quella di consolidare nei prossimi anni i collegamenti esistenti e di lavorare per l’apertura di nuove rotte. Anche questo è stato tra gli argomenti di cui si è parlato di più a Cagliari durante l’estate, con non celato orgoglio. Qualcuno, in proposito, ha fatto il paragone con i tempi della prima aerostazione costruita nel 1937, a ridosso del molo dell’idroscalo. In quell’anno la tratta Roma-Cagliari contava 9.748 passeg-

piazza ENNE meditazioni cagliaritane trasporto, al mercato ed in spiaggia è stato naturalmente il gran caldo che ci ha fatto boccheggiare per diversi mesi. È stato uno dei più torridi degli ultimi tempi. Del resto ormai da diversi anni ci stiamo abituando ad estati molto afose, ad inverni sempre più gelidi, a precipitazioni intense concentrate in brevi periodi. Per non parlare del processo di desertificazione già in atto in molte zone del pianeta ed anche in Italia e, precisamente, nelle regioni meridionali e nelle isole. La Terra, lo sappiamo bene, si sta progressivamente scaldando. Dal 1950 la temperatura media globale si è innalzata di circa 0,6 gradi e, purtroppo, si paventa un ulteriore aumento nel futuro: le più ottimistiche previsioni parlano di poco più di un grado, quelle pessimistiche di oltre sei gradi. Dobbiamo attendere, quindi, l’ulteriore fusione dei ghiacci ed il conseguente innalzamento del livello degli oceani. Se, per ipotesi, la temperatura media dovesse alzarsi di quattro gradi, il livello delle acque salirebbe di circa sessanta centimetri. Abbastanza per provocare la scomparsa di molte terre emerse. Questi dati ce li stanno fornendo da

nell’Isola ed a Cagliari in particolare. In città quest’estate sarà ricordata, infatti, anche per la loro presenza record. Insomma parrebbe che finalmente si sia imboccata la strada giusta. Nell’agosto scorso i passeggeri in entrata ed in uscita all’aeroporto di Cagliari-Elmas hanno superato la cifra da primato di 400 mila, per l’esattezza 417.287, un dato in controtendenza con il calo di passeggeri a livello nazionale. Nei primi otto mesi l’incremento del traffico è stato pari a 11,13 % per un totale di 2.243.236 passeggeri. Ad agosto si è registrato un aumento del 20,33 % che segue i picchi di aprile (+26,48 %), maggio (+14,42 %), giugno

a cura di Giampaolo Lallai

geri ed era al primo posto tra i voli nazionali; seguiva la Roma-Milano con 8.958 passeggeri. Ebbene l’attuale terminal, inaugurato nel 2003 dall’allora Presidente della Repubblica Carlo Azelio Ciampi, è in grado di gestire un traffico di oltre 4 milioni di passeggeri all’anno.

Costa troppo volare Sempre in tema di voli da e per la Sardegna c’è da segnalare, tuttavia, il malumore dei sardi che, pur nati in Sardegna, non vi risiedono. Le loro proteste, a volte molto eclatanti, continuano tuttora in quanto non usufruiscono della riduzione del costo dei biglietti. A ben vedere non hanno tutti torti. Va però chiarito che la Regione, d’accordo con il Governo, era d’accordo per mantenere anche per essi le tariffe agevolate. Poi, però, e precisamente un anno fa, la Commissione Europa ha deciso che gli sconti devono aiutare chi vive in Sardegna a superare l’handicap dell’insularità. Chi, invece, è nato in Sardegna ma risiede altrove, deve essere trattato alla


pari di tutti gli altri cittadini d’Europa e paga biglietto intero. A meno che abbia tra i 2 ed i 21 anni, o sia uno studente universitario sotto i 27 anni, o, ancora, un anziano oltre i settanta anni, o un disabile.

Urge Ufficio del Sottosuolo Che sotto Cagliari ci fosse una miriade di cunicoli, di passaggi e di gallerie lo sappiamo da sempre. I dati ufficiali parlano di 40 cavità per chilometro quadrato. Qualcuno in passato ci ha anche fantasticato. Quest’estate, però, in alcune zone della città si sono vissuti momenti di forte tensione, soprattutto laddove il sottosuolo ha evidenziato una friabilità a rischio per la stabilità di diverse palazzine. È stata emergenza, in particolare, nelle vie Peschiera e Castelfidardo, con lo sgombero coatto degli appartamenti. Secondo i tecnici e gli speleologi la situazione è dovuta alle numerose perdite delle rete idrica, un autentico colabrodo, che ha messo prevalentemente in crisi le aree in cui, nei tempi andati, vi sono state attività di cava successivamente riempite con terra di riporto. Le infiltrazioni di acqua o fognarie hanno prodotto dei veri cedimenti e potranno dare origine anche a voragini. Una realtà che accomuna non solo le zone delle vie Peschiera, Castelfidardo e Montenotte, ma anche quelle di San Guglielmo, quella sottostante Buoncammino e quelle sotto l’ospedale civile a Stampace, di Bonaria, di via della Pineta e Pessina, di Villanova e del Poetto. Il Comune assicura di avere in pugno la situazione. E non ne dubitiamo. Ma non sarebbe male istituire quanto prima un ufficio del sottosuolo, composto da ge-

ologi e speleologi, che predisponga la mappatura delle cavità sotterranee e studi, soprattutto, gli eventuali rischi presenti sul territorio.

Nave Tirrenia: is priogus Non ha fatto troppo notizia, invece, il ritrovamento di pidocchi nelle cabine della nave Tirrenia che collega Cagliari con Civitavecchia. Ormai siamo da tempo abituati a sentire dei disservizi della compagnia di navigazione. Ma, insomma, «ci boliant is priogus puru!». Qualcuno ha ricordato analoghe esperienze durante e dopo l’ultima guerra ed ha malignato, con ironia, dicendo che sa spriogadura è, alla fin fine, un buon passatempo durante le interminabili traversate a bordo delle navi più vecchie della flotta Tirrenia. Sarà pure così. Ridiamoci su per non piangere. Credevamo che Sa genti brutta, carrigh’ ‘e priogu di Gaetano Canelles fosse solo un lontano ricordo.

Addio Tiddia, tzaca Marieddu Una notizia, invece, inaspettata e triste per gli sportivi cagliaritani è stata quella della morte di Mario Tiddia, giocatore ed allenatore del Cagliari. Da allenatore aveva riportato, per la seconda volta, nel 1979, la squadra in serie A ed aveva raggiunto il sesto posto, uno dei traguardi più prestigiosi nella storia rossoblu dopo, naturalmente, lo scudetto con Scopino ed il piazzamento nell’UEFA con Mazzone. Tiddia c’era anche nella prima conquista della Serie A, nel 1964, ma da giocatore, da terzino. Ed in quel ruolo è rimasto nel ricordo dei tifosi come Tzaca Marieddu, un insuperabile baluardo della difesa del Cagliari che ce la metteva tutta, con le buone e con le cattive. Sempre, però, leale e semplice così come nella vita di tutti i giorni, nel suo lavoro nei campi a Sarrock e nei rapporti con la gente. Con lui se n’è andata una fetta importante della storia del Cagliari di cui è stato un protagonista di primo piano.

PREMIO A ROSANNA ROMANO “Addetto Stampa dell’anno” “Una questione di Democrazia” è il titolo del libro con cui Rosanna Romano, caporedattore dell’ufficio stampa del Consiglio regionale, ha vinto il premio internazionale “Giornalismo: l’addetto stampa dell’anno 2009” per la sezione speciale GUS. La giornalista, già condirettore di Videolina, direttore responsabile di Sardegna Uno, Sardegna Due, Videon Sardegna, aveva già vinto il premio nel 2004 con l’opera “Le donne sarde nelle istituzioni”. Con “Una questione di Democrazia” la Romano ha analizzato il fenomeno della democrazia paritaria nel mondo per mezzo di una ricerca e una raccolta dati ad ogni livello: dalle varie nazioni europee al Parlamento europeo e nazionale, le Regioni, le Province, i Comuni della Sardegna e dell’Italia in genere. Sono stati raffrontati i sistemi elettorali, sono state contattate le ambasciate delle nazioni con più alta densità femminile nelle istituzioni per capire come si è arrivati a una democrazia paritaria compiuta. Di particolare rilievo l’attenzione data all’attività del consiglio regionale, ai provvedimenti legislativi “al femminile” e alle schede delle consigliere regionali elette dal 1948 ad oggi.


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il Cagliari-


Un libro per amico per un regalo indimenticabile



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