Sardegnatavola - Settembre '12 (N. 4)

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ITINERARI: BARBAGIA E DORGALI

CIBO SARDO E SALUTE

CHEF GIRAMONDO: LUCA PUDDU sol

1€!o

ALLA SCOPERTA DEL CIBO E DEI LUOGHI INCONTAMINATI

AUTUNNO NEL CUORE DELL’ISOLA



Mensile diretto da GIORGIO ARIU giorgioariu@tin.it

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Le grandi mangiate di una volta

Sommario 5

LA RICETTA CONTRO GLI IMBROGLI DELLA SPESA

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SU PANE, SU CASU E SU VINU

12 LE GRANDI MANGIATE DI UNA VOLTA

In redazione: Simone Ariu, Maurizio Artizzu, Lorelyse Pinna, Manuela Salidu, Antonella Solinas

16 A TAVOLA CON I NURAGICI 18 L’OGLIASTRA TI ACCOGLIE

Scritti di: Giorgio Ariu, Tonino Bussu, Angelo Liberati, Michele Licheri, Lorelyse Pinna, Manuela Salidu, Giampaolo Lallai, Marilena Calzedda, Leo Fancello

20 DORGALI TI PRENDE PER LA GOLA 26 IL FASCINO DEI CUILES

Per la fotografia: GIA foto, Archivio GIA, Maurizio Artizzu, Renato Brotzu, Antonella Fadda, Florence Fredoc, Cooperativa Ghivine Nicola Pibiri, Sarah Pinson,

30 IL CUORE DELL’ISOLA DENTRO LE CORTES 34 IL CARO BENZINA NON FRENA IL GUSTO

Foto di copertina: Nicola Pibiri

35 SU PANE 42 CON QUELLA GOLOSA DI MONICA BELLUCCI

Redazione Via Sardegna, 132 - 09124 Cagliari Tel. 070.728356 giorgioariu@tin.it

44 LE RICETTE DI SARDEGNATAVOLA

Concessionaria per la pubblicità GIA Comunicazione Via Sardegna 132 - 09124 Cagliari Tel. 070.728356

42 ALIMENTIS

Stampa e allestimento GRAFICHE GHIANI

44 ANGELO LIBERATI CIBO È ARTE

Registrazione presso il Tribunale di Cagliari N. 499 del 16-10-1984 Ufficio del Garante Presidenza del Consiglio dei Ministri Registro Nazionale della Stampa n. 3165 Anno 27 - N. 4 Settembre 2012 Sped. in Abb. post. - 45% art. 2 comma 20/b legge 662/96 Filiale di Cagliari

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Sardegnatavola è marchio registrato presso il Ministero delle Attività Produttive Ufficio Brevetti N° 926965

AUTUNNO IN BARBAGIA

30 26 IL FASCINO

DEI CUILES


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iù buoni a tavola

Non ci rimane che il paese

N Giorgio Ariu Direttore di Sardegnatavola

Bruxelles ordina la nostra tavola Il Parlamento Europeo un giorno esalta virtuosamente la tracciabilità dei prodotti che finiscono sulla nostra tavola, l’indomani elimina la trasparenza sulla bistecca. Semplici distrazioni di coloro che anche gli italiani mandano a Bruxelles e Strasburgo (la Sardegna, si sa, per le lezioni europee va con il Regno della Sicilia e non conta nulla, anche se nessuno ricorda provvedimenti pro terra nostra quando qualcuno dei nostri ha saltato il muro)? O prezioso assist alla bionda lobby nord europea dei Signori che amano l’anonimato, le contraffazioni e le farine animali per l’alimentazione dei bovini? Ricordate il morbo della mucca pazza? L’indecoroso e cinico attentato alla nostra salute? Bene, non è solo una questione di veleni sulla nostra tavola, cioè di bistecche senza più etichette con le informazioni sulla pastura e sulla provenienza, come si fa dalle nostre parti. Ma saranno rinchiusi nei recinti tricolore un milione e 800 mila bovini italiani, di cui si sa tutto.Tagliati fuori dall’aggressivo mercato nord europeo che fa l’amore con quei consumatori non informati. Insomma Bruxelles vira verso un 2014 senza più la bistecca DOC, in omaggio alla bionda lobby degli allevatori tedeschi e olandesi. Epperò sempre dal Parlamento Europeo giungono azioni di lotta contro la contraffazione dei prodotti, azioni di protezione per le eccellenze territoriali (Stg, specialità tradizionali garantite), di vigilanza più stretta sull’utilizzo improprio (i falsi) delle Denominazioni, di valorizzazione di “prodotti di montagna” e dei “marchi d’area”. Sui “falsi” c’è più di uno spiraglio per potere final-

ella poverissima Sardegna, il cielo tanto e il sole – sempre fanno crescere prodotti ineguagliabili Vini, miele, formaggi, carciofi per i mercati ricchi di Milano, Russia e Quatar. Da noi rimane poco, sugli scaffali dei grandi mercati giungono (con viaggi spesso alla rinfusa che non convergono sempre con la tutela della salute) anche prodotti “alternativi”, seducenti e iperpubbli-

mente contrastare l’invasione nella nostra isola di agnelli, maialini, formaggi, pasta etc. contrabbandati e etichettati come “sardi”. Di contro, numerosi cercatori di tartufi sardi vendono il raccolto (mica marginale) ad altri mercati nobili della penisola e tornano anche qui, a scaffale, griffati dallo Stivale

cizzati. Nonostante il caro benzina, non ci rimane che la gita fuoriporta (fantastiche le tappe di Autunno in Barbagia) per trovare i prodotti dalla giusta pastura e sardi davvero. Ancora più sicuri (e più convenienti) i mezzi pubblici che attraversano l’isola lungo i percorsi del Gusto Sardo e della valorizzazione dei borghi. Una mano, per altro, contro isolamento e spopolamento.

Più export più dazi

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l manifatturiero, la cantieristica navale e, in fase crescente, ora, anche l’enogastronomia incidono considerevolmente sull’export italiano. Con un +8,7, ricavi attorno ai 25 miliardi, i prodotti di Casa Italia giungono sulle tavole di tutto il mondo. Eppure un po’ ovunque erigono muri di balzelli doganali. Più volte si cercano le scorciatoie delle contraffazioni. Il made in Italy continua a sedurre ma le ragioni di Stato fanno la guerra


LA RICETTA CONTRO GLI IMBROGLI DELLA SPESA di Michele Licheri Vi propongo una ricetta semplice, nutriente, profumata, colorata (rossoverdebianca) in linea con il risorgimento ma sarda e garibaldina nella sua struttura intima: MALLOREDDUS ALLA RICOTTA SECCA CON BASILICO E POMODORINI.

Ingredienti (rigorosamente isolani): malloreddus 320 gr., possibilmente artigiani; ricotta stagionata 250 gr., basilico fresco e pomodorini abbondanti; olio extravergine di oliva q.b.; pomodori secchi n° 2, aglio 2 spicchi e 1 cipolla rossa preferibilmente. Procedimento: affettare finemente le cipolle, sbucciare l’aglio, tagliare a tocchetti i pomodori, sminuzzare il basilico, preparare a scagliette la ricotta, portare a ebollizione l’acqua con dentro i pomodori secchi. Sistemare, quindi, i pomodori, il basilico e metà della cipolla (l’altra metà andrà nell’acqua di cottura della pasta), gli spicchi d’aglio, in un recipiente capiente e condite con l’olio extravergine e un pizzico di erbe aromatiche. Giunta a bollore l’acqua salare q.b. E aggiungere l’aglio, i malloreddus e la restante cipolla. A cottura ultimata scolare e versare la pasta in un ampio vassoio, condire con un pochino d’olio, infine versarvi sopra il condimento a base di ricotta secca, basilico, cipolla e pomodori precedentemente preparati e aromatizzati. Con un cucchiaio di legno rimestate e miscelate bene i malloreddus e il condimento. Lasciate riposare un minuto, infine servite.

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a ricetta proposta soddisferà il palato e le necessità caloriche di quattro persone e potrà essere considerato un pasto completo. Carboidrati, proteine nobili e grassi, oltre che vitamine e sali minerali sono in giusto equilibrio. La qualità degli ingredienti farà la differenza. Certo! Volete mettere la potenza vitale di un cibo prodotto in loco, fatto con ingredienti nobili -preferibilmente biologici- che per giunta hanno viaggiato poco e non sono stati parcheggiati in frigo per settimane, oppure stivati nei silos (avviene per il grano che per allungare i tempi di stoccaggio e far crescere il prezzo è trattato con nocivissimi antimuffa), con un altro, prodotto altrove, e che magari viene spacciato per sardo (alcuni pecorini p.es., il grano duro non certo della marmilla o del campidano, il latte di capra importato dall’Olanda etc.) e che sfugge ai controlli e a una seria tutela? Non basta la dicitura “prodotto sardo” per garantire la genuinità di un ingrediente, di un prodotto. Non tutti i pani carasau o pi-

stoccu sono di qualità, a volte sono farinosi e approssimativi nella lievitazione, lavorare usando il lievito madre è ben altra cosa!; non tutti gli agnelli sono sardi! Come pure non tutti i formaggi pecorini lo sono! Inoltre sarebbe bene scoraggiare l’uso dei grassi idrogenati (usati soprattutto nei dolci) promuovendo in alternativa lo strutto, il burro oppure l’olio d’oliva. Sono necessarie delle leggi e una seria opera di controllo a tutela del prodotto isolano. E allo stesso tempo, per sostenere l’economia sarda, è necessario attivare una seria informazione che promuova le produzioni di qualità della Sardegna. “Mangiare a km 0 è più sano e più buono” dovrebbe essere lo slogan. SARDEGNATAVOLA ha fatto propria questa idea e da anni, quantunque le difficoltà, veicola un messaggio culturale e alimentare all’insegna del buon gusto e della salute. Ha promosso convegni sull’argomento, pubblicato libri e articoli. Quanti possono vantare tale impegno a difesa della qualità degli alimenti sardi? Signori e signore, buon gustai di tutto il mondo unitevi e scegliete sempre con attenzione gli ingredienti da usare in cucina. La pubblicità -certo anima del commercio- è fallace; subliminalmente e spettacolarmente efficace; il più delle volte neppure lontanamente salutare! Bene, provino i consumatori a condizionarla dal basso; e i ristoratori, gli operatori turistici, propongano una cucina moderna, genuina, nel solco della tradizione, scegliendo accuratamente sardo e stagionale. Buon appetito.

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LE OCCASIONI PER LE GRANDI MANGIATE LE RADICI ETNICHE E CULTURALI DELLE ECCELLE DI GRUPPO DEI CAGLIARITANI

SU PANE, SU CA

Ogni comunitĂ o popolo ha elaborato una sua specifica pratica gastronomica frutto della terra in cui vive, condizionata dal clima, dagli strumenti a disposizione, dalla conformazione geografica, dalla flora e fauna presenti nel territorio.

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LLENZE ENOGASTRONOMICHE DELLA SARDEGNA

CASU E SU VINU di Tonino Bussu

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a cucina dei nostri progenitori e dei nostri nonni o bisnonni era abbastanza frugale, direi essenziale, quasi vegetariana tranne che nei giorni di festa importanti o nelle ricorrenze o cerimonie speciali. Eppure anche la gastronomia faceva parte integrante della cultura del popolo sardo, di questa comunità per cui ogni pasto, ogni cibo, ogni pietanza aveva sì significati letterali, specifici, culinari, ma era soprattutto termine di paragone per descrivere modi di fare, comportamenti, costumanze e regole da rispettare rigorosamente. Il pane era ed è un elemento comune ed essenziale ancora oggi, più prezioso di quel che si pensi ieri, ma aveva molti significati metaforici che permettevano di capire le regole, le tradizioni, l’identità stessa di un popolo. E infatti attorno al pane sono nati modi di dire o proverbi che sono alla base dell’educazione e della formazione del cittadino barbaricino e non solo. Anzi i significati metaforici del pane certe volte erano più importanti ed essenziali del pane stesso, nonostante la sua sacralità nell’uso. Basta pensare al detto: Menzus manchet su pane chi non sa Zustissia Qui il pane, come dicevo, come alimento non conta molto, passa in secondo ordine perché alla base dell’esistenza, del rapportarsi con gli altri, vi è un’etica, una legge superiore: la Giustizia con la G maiuscola, sa Zustissia, non nel senso di forze dell’ordine, ma nel significato più profondo del comportasi in modo giusto, equilibrato, senza far torti, senza compiere sopraffazioni che possano umiliare un cittadino, che possano privarlo della libertà, che è l’ingiustizia più grande, tanto è vero che anche per esprimere l’alto valore che la libertà ha, si dice che ‘non b’est dinare chi la pacat, non ha prezzo, non si può acquistare con i quattrini, anzi,………… Ma torramus a su pane, ritorniamo al pane Son tre gli alimenti che esprimono e esprimevano una buona soddisfazione alimentare. Questi elementi sono su pane, il pane, su casu, il formaggio e su vinu, il vino. Infatti uno dei desideri comuni era proprio sintetizzato in queste tre parole unite insieme: pane e casu e binu a rasu. In omaggio alla privacy però non si chiedeva mai: cosa avete mangiato oggi? Tanto la risposta era generica e misteriosa: istrufulos pintos o perdas de rivu. Ma il pane era sempre presente, altrimenti significava che si soffriva la fame che a lungo andare indeboliva il corpo e portava la persona alla morte per denutrizione. La fame in Sardegna era su famine, da noi sa gana, e aveva addirittura un nome, si chiamava Mastru Jubanne, e si ricordavano

annate particolari in cui su famine la faceva da padrona perché erano anni di carestia, de su cadicu, le persone apparivano con un aspetto cadaverico, e su cadicu era anche un vento, che spirava da nord ovest, la tramontana, chiamato da noi anche ventu ‘e Oroteddi che portava carestia, fame e isperdissiu. Le annate di fame, di carestia erano note e ben ricordate, l’ultima chi gli anziani ricordano è quella del ’43, mentre terribile era stato anche il ’45, s’annu de su thilipirche, l’anno delle cavallette che avevano letteralmente divorato i raccolti. Ma si riuscì a superare anche quel brutto periodo grazie all’ingegno e agli sforzi e sacrifici delle popolazioni.

Su famine Ogni tanto qualche anziano minaccia e quasi si augura che possano ritornare su ’43 o ’45 in modo che i giovani possano capire e apprezzare meglio il relativo benessere odierno, perché se paragonato a quelle tragiche e drammatiche situazioni, oggi c’è benessere, nonostante la crisi. La fame, quindi, su famine, sa gana. C’era differenza anche tra gana e gana, la peggiore era a gana netta, quando non si aveva proprio nulla da mangiare, quando non si possedeva proprio niente, neanche l’acqua. Infatti la povertà estrema era dipinta col detto: non tenet mancu abba in brocca, non ha nemmeno acqua nella brocca. Ma la persona saggia e virtuosa doveva sopportare con dignità la fame, sa gana, ingegnandosi per superare quei momenti difficili per arrivare a migliorare la propria condizione economica. E come si doveva sopportare con dignità la fame, lo stesso si doveva fare per la sazietà; un altro detto infatti recitava: bisonzu de aguantare sa gana e s’abrentru. Non bisognava mai esagerare, né in un senso né nell’altro, ci voleva e ci vuole sempre moderazione. Ma abrentu viene usato anche in senso metaforico. Quando due persone che non si incontravano da tempo, si vedono, si salutano e parlano a lungo e in modo disteso, si dice che s’an dau un abrentu de chistione, s’an fattu una bella faveddada. Qualche volta si usa anche la parola thathu, , sazio, soddisfatto, unu thathu de chistione. Thathu ha anche altri significati, indica pure grande soddisfazione, a volte indica una rivincita. E per indicare il massimo di questa soddisfazione si utilizza sì il termine thathu, ma c’è di mezzo il lardo, altro alimento prezioso, indispensabile un tempo. Il lardo era il metro per misurare la prosperità de su porcu mannale, il maiale da ingrasso di un tempo, mannale, per il maiale,mannalitha per la capra domestica che ogni famiglia aveva in casa per la prov-

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SU P vista del latte. Quando si uccideva il maiale da ingrasso, in genere nel periodo intorno all’Immacolata, Sas Virgines, ai primi di dicembre dunque, si faceva la festa che si chiamava da noi sa gaitza, altrove s’isaladura, perché il maiale veniva diviso in due parti, lados, isaladura, o sa cochina de su porcu, ecc. Quando si squartava su mere misurava con le dita, a poddiches, lo spessore del lardo ed era motivo di vanto se questo era spesso quattro o cinque dita. Ma il lardo serviva anche per misurare la soddisfazione, la rivincita, come dicevo prima, ma allora non si misurava a dita, a poddiches, ma addirittura a palmi, a pramos. Per cui chi aveva avuto una grossa soddisfazione o rivincita esclamava dicendo: mah!, ah!, ah!, ah!, unu pramu ‘e lardu m’at postu! oppure duos pramos che era il massimo, quindi il massimo della soddisfazione se la rivincita era molto significativa. Torniamo a sa gana. Chi non sopportava sa gana e quindi non si ingegnava né impegnava a superare la sua condizione di indigenza,veniva chiamato ganosu, mentre chi non si sazia mai viene bollato come cane de isterzu o isterzare. E il mangiar troppo o il credere di poter mangiare in abbondanza non è segno, indice di saggezza, sia perché può far male, sia perché quella persona dimostra di non aver il senso della misura. E allora ecco pronto e subito appioppato un altro detto: est istraganau! non t’as a irtzoffare no! oppure: at mandicau a su puntu chi che l’est issinde in sos ocros! Quindi ecco sempre l’educazione alla moderazione, alla giusta misura. Erano le continue avvertenze dei genitori soprattutto per i piccoli che spesso pretendevano razioni che poi non riuscivano a consumare, las deudavan, lasciavano gli avanzi nel piatto e si era a malincuore costretti a ch’imbolare sa grassia ‘e Deus. E allora se non riuscivano a mangiare ciò che avevano richiesto con insistenza si diceva: Juchet s’ocru prus mannu de sa brente.

Sa gana Ma il termine gana indica anche appetito, tenzo una gana chi non so biende prus, non ci vedo più dalla fame, quando invece c’è l’inappetenza si dice est dirganau, o quando deve fare qualcosa contra voglia si dice a mala gana, mentre basta posporre l’aggettivo e dire che est a gana mala per rappresentare la nausea, una indisposizione. Capita che, soprattutto i bambini non abbiano appetito, forse perché hanno già pasticciato con altri alimenti, dolci per es., per cui i genitori non insistono nel farli mangiare perché, sostengono, puzone chi non pillat ch’at pillatu, uccello che non prende ha già preso, se non mangia vuol dire che ha già mangiato, magari fuori orario. Torniamo al pane. Questo alimento in altri casi veniva indicato come termine per qualificare il carattere di una persona buona; infatti si dice ancora oggi ‘su tale est bonu, est unu cantu de pane’, è buono come un tozzo di pane. Ma il pane rischia anche di frantumarsi, di ridursi in briciole, diventa pistazu e dunque diventa quasi inutile e viene dato alle galline; ma pistazu è anche una persona che parla continuamente e mescola un argomento con un altro, creando confusione. Il pane,come del resto qualunque pasto, bisogna però masticarlo bene, ca su manigu prus lu masticas e prus nutrit, se mastichi bene il cibo ti nutre meglio, in senso metaforico se si ap-


PANE, SU CASU E SU VINU profondisce bene un tema, un argomento, lo si conosce meglio. Il cibo, soprattutto il pane o la carne, lo masticava, liu masticabat, la mamma per darlo già triturato al figlioletto, al pargolo, come del resto fanno anche gli uccelli e, in senso metaforico, per agevolare una persona o per renderle più facile lo studio di un argomento o il disbrigo di una pratica, la si spiegava bene in modo che non dovesse incontrare difficoltà, lia masticabat. Ed è anche a questo proposito riguardo alla mamma che si dice:Si che moet su pane dae bucca. Preferisce soffrire la fame per darlo ai figli. Ma non sempre masticare era facile e infatti quando una persona incontra difficoltà in un certo lavoro, in un impresa, si dice ja nde l’est dande pane a masticare, significando la fatica, il sacrificio, gli sforzi che fa per portare a termine una faina: l’est gherrande, peleande, gli sta dando filo da torcere. Invece per indicare risentimento si dice si l’est masticande bene, e magari medita anche vendetta. Certo che il pane da solo non basta, solo in carcere, in presone si viveva a pane e acqua. E sempre per stare al codice barbaricino anche l’acqua esprimeva un concetto importante: quello della comprensione delle disgrazie altrui, soprattutto giudiziarie. Non bisognava, e non bisogna, né irridere né condannare in assoluto chi commette azioni anche gravi, delittuose, perché bisogna capirne sempre il perché, anche senza giustificarne l’atto, per cui per il barbaricino chi incorreva in questi frangenti era ruttu in disgrassia e agli altri si ammoniva dicendo: nessunu neat de cust’aba non bibo! Ogni persona è soggetta a cadere nei rigori della legge. Ecco dunque l’uso metaforico dell’acqua. Il pane da solo non basta, dicevo, ci vuole, necessita s’agonzu, il companatico, che migliora il gusto del pane nella misura in cui è prezioso il companatico, quest’ultimo infatti può essere povero, essenziale, come la cipolla, a pane e chipudda, ma diventa più soddisfacente e nutriente se carne, petha, e addirittura permette di completare il pasto se è accompagnato dal formaggio, pane e casu. Unu cantu ‘e casu, sottinteso con del pane, a fine pasto cumponet s’istogomo, su corpus, ben dispone lo stomaco. E a s’istogomo, allo stomaco si pensava perché doveva essere a posto, tranquillo, soddisfatto. Quando si ha molto appetito e si prende un bocconcino, unu buconeddu prima del pasto si dice che lo si fa pro apachiare s’istogomo, per sedare, mettere a tacere lo stomaco, apachiare, sarebbe far la pace. Unu bucone, invece, è già un pasto anche se non completo e non in orari canonici.

Sa bucone Su bucone però non sempre va dritto, ma si blocca in gola, m’est arreschiu, mi è rimasto in gola. Anche in questo caso nel significato metaforico ci si riferisce a qualcosa di inopportuno che ha lasciato il groppo, qualcosa che non si sopporta, che non si digerisce ma che rimane in gola. Certe volte si rimane a bocca asciutta, si rimane delusi da parte di chi sembra darti, offrirti qualcosa, ma te lo fa solo vedere, li at colau solu in labras, non che l’at ifustu mancu sas lavras, se stava per bere del vino. Il termine bucone in senso metaforico rimanda ancora alla vendetta barbaricina come ordinamento giuridico. Famoso il detto:


SU P

Antonella Fadda

Bucone frittu est prus saporiu. La vendetta covata a lungo è molto soddisfacente anche se arriva dopo mesi o anni. M’est postu in s’istogomo, mi ha impacciato il cibo, il pasto consumato. Ma in senso metaforico m’at achedau s’istomagu, mi ha inacidito lo stomaco è la conseguenza di un dispiacere. I detti o i proverbi a volte descrivono un periodo, un epoca. Alla fine dell’ottocento e ai primi del novecento si sono diffusi in Sardegna in caseifici degli industriali caseari e i pastori versavano loro il latte perché i prezzi per un certo periodo salivano. Ma è aumentato anche il prezzo del formaggio che era sempre più difficile da acquistare per le classi popolari. E fu allora che si coniò il detto Chie mandicat casu juchet dentes de oro per significare che solo i benestanti potevano consumare formaggio a volontà. Ma oltre ai pasti, al cibo c’erano i momenti in cui si indicava il digiuno per la guarigione dalle malattie, tranne che quelle derivate dalla fame. L’unico rimedio alle malattie gravi infatti era il digiuno, la dieta, a sos males sa dieta; le persone lo hanno capito osservando gli animali, ma oggi lo sostengono anche i più grandi dietologi americani. Questa mia riflessione, la cui tematica è molto vasta e merita di essere approfondita perché ho solo fatto piccoli accenni, intende far capire che gli interventi politici ed economici in campo turistico ed enogastronomico non possono prescindere dalla conoscenza e dal rispetto della realtà tradizionale sulla quale

si intende operare, non si può prescindere dal rispetto e valorizzazione dell’identità profonda su cui questa società fonda il suo modo di vivere che si è evoluto nel tempo e che deve adeguarsi ai nostri tempi moderni mantenendo integri i valori della sua tradizione. E per il turista vale ancora i detto A s’istanzu no l’abbadies sa bertula, per cui l’accoglienza e l’ospitalità sono un valore aggiunto insostituibile. Oltre che proporre i piatti singolari, originali, che avevano delle particolarità nelle vari ricorrenze festive e stagionali, è necessario intervenire per salvaguardarne la genuinità, la biologicità ante-litteram, la qualità salutistica attraverso sos mandicos sanos, la moderazione e l’austerità, soprattutto in periodo di recessione, nel mangiare e quindi il bando delle abbuffate che invece di far star bene, fanno star male. Quindi ospitalità, pasti non sovrabbondanti, ma con moderazione e buoni in quanto col tempo, come dice il detto, a sa roba bona, curret su dinare, le cose buone verranno apprezzate e pagate bene. Meriterebbero approfondimenti e riflessioni più organiche i legami tra la cultura sarda e il vino, la sua produzione, il suo consumo moderato,il suo uso nei momenti più importanti legati al ciclo della vita. La coltura della vite risale a tempi così antichi e è radicata nel pensiero dei sardi tanto da innalzare a sos artos chelos il simbolo della produzione viticola, il grappolo, su gurdone; infatti


PANE, SU CASU E SU VINU proprio Su Gurdone è il nome di una delle costellazioni celesti più delicate e interessanti che in italiano si chiamano le Pleiadi e abbiamo anche su Trubadore de su Gurdone che corrisponde alla costellazione del Toro.

Su gurdone

Che il grappolo d’uva, Su Gurdone, sia stato innalzato a divinità celeste dai sardi la dice lunga sul loro attaccamento al vino, a questo fine e gustoso prodotto dell’uva, de su gurdone, assurto quasi a bevanda divina. Ma che anche la cura e la coltivazione della vite fosse legata agli astri ce lo indica e conferma la tradizione in molti paesi della Barbagia di potare i vitigni nella Settimana Santa e quindi durante la Luna calante. Infatti nella Settimana Santa la Luna è sempre in fase calante in quanto la Pasqua, secondo le regole dettate dal Concilio di Nicea del 325 d.C., cade sempre la prima domenica dopo la prima Luna piena dopo l’equinozio di primavera. Quindi questa Luna piena era sempre durante la Settimana Santa e subito dopo era Luna calante, sia che la Pasqua cadesse a fine marzo o ad aprile. Il legame tra la lavorazione del vino e il clima, su tempus, lo si nota nel momento in cui il vino viene travasato quando si sceglie,

per questa operazione, una giornata limpida, soleggiata, senza nuvole o nebbia in quanto questo status del clima sembra interagire sul vino a facendogli raggiungere il massimo della brillantezza, chiarezza e colore rappresentate dalla luce solare. Un ultimo accenno al rapporto di interazione tra lo status della natura, del clima, de su tempus, ma anche della persona umana e la produzione del vino si manifesta nella raccomandazione di non far entrare in cantina una donna che fosse interessata dal ciclo mestruale mentre si procedeva al travaso del vino. Molti sono i legami tra natura, uomo e pratiche legate alla lavorazione del vino e i sardi si adoperavano per rimuovere qualunque ostacolo che potesse nuocere alla riuscita di una buona produzione, creando d’altro canto tutte le condizioni favorevoli per ottenere un vino buono, gustoso e brillante. Queste mie analisi veloci dimostrano che la nostra enogastronomia ha le sue fondamenta e i suoi presupposti nel benessere fisico e morale della persona e a questi principi bisognerebbe ancora ispirarsi per soddisfare non solo gli appetiti fisici del turista o dell’ospite, ma anche le sue esigenze ideali e culturali.

Interni dell’Agriturismo Palai di Ollolai


Antonella Fadda

ECCO COME CI SI ALIMENTAVA ANNI FA NELLA NOSTRA ISOLA

LE GRANDI MANGIATE DI UNA VOLTA

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a cucina popolare sarda è, in prevalenza, di tipo primitivo non prevedendo intingoli o salse piccanti che sono, invece, tipici di altre culture gastronomiche. Questa semplicità tradizionale la colloca tra quelle così dette povere, ma allo stesso tempo tra le più apprezzate per gli inconfondibili sapori e l’arte che ne sta alla base. Basti pensare, a titolo di esempio, a sa fa’ cun lardu, cibo delle famiglie meno abbienti, appunto, consistente in fave

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di Giampaolo Lallai

lessate col sale e l’aggiunta di pezzi di lardo, ossa, testa e zampe del maiale. Ma anche il re della mensa sarda, il porchetto (su proceddu) arrosto, richiede notevole esperienza in chi ne cura la cottura: la cotenna (su croxolu) dev’essere fragrante e croccante, graditissima ed indimenticabile al palato di chi l’assaggia magari per la prima volta. Se poi lo spiedo è fatto di mirto, la carne assumerà un aroma ancora più squisito. Insomma ciò fa capire perché i sardi siano sempre stati dei veri


buongustai e cultori, in particolare, della loro cucina tradizionale. Per loro tutte le occasioni si prestano molto bene a delle riunioni conviviali da trascorrere in gruppo ed in allegria. E di tali incontri culinari esiste un’ampia varietà. Si va da quelli meno formali in cantina, ai pranzi o alle cene per i matrimoni (is cojas), i fidanzamenti, i battesimi (is batiaris), gli anniversari, le ricorrenze, le feste patronali, gli intrattenimenti collegati ai lavori in campagna come per la mietitura (sa messi), la tosatura (sa tundidura) delle pecore, la vendemmia (sa binnenna), la marchiatura (su sinnu) del bestiame, la sistemazione in luogo chiuso del grano appena raccolto (s’incungia); vi sono sempre state anche le scorpacciate in riva al mare e nelle splendide spiagge isolane durante la stagione estiva. Tutti scenari molto differenti tra loro, dove, però, il comune denominatore è costituito dal cibo prelibato che la fa comunque da padrone mettendo tutti d’accordo. La cantina (su magasin‘’e su binu) si presta egregiamente alle merende o agli spuntini (pichetadas) tra parenti ed amici. Con le botti (is carradas) a facile portata di tutti favorisce una mescita illimitata

e costante del vino che, di conseguenza, scorre a fiumi. Lo scopo di questi incontri frugali, almeno in teoria, è, in genere, quello di assaggiare insieme il vino novello o il formaggio fresco o la salsiccia appena insaccata. Il tutto a base di pane sfornato da poco (pani callenti). Una volta il re incontrastato delle pichetadas era il formaggio marcio (su casu martzu) che la normativa europea ha messo, però, fuori legge ormai da tempo. Gli intenditori più provetti lo rimpiangono ancora, pur con i suoi vermiciattoli che saltavano da tutte le parti, perché molto saporito e compagno inseparabile delle migliori e spensierate bevute. Gli avventori di queste simpatiche mangiate dovevano, naturalmente, mettere in conto anche un’eventuale sbornia (imbriaghera) che, a seconda della quantità di vino tracannato (calau), si poteva manifestare anzitutto con un’improvvisa e repentina loquacità, voglia di cantare mutetus e di precisare ogni cosa a voce sempre più alta. In compenso il mondo appariva, in quei beati momenti, decisamente più roseo, luminoso e felice. Vi era, poi, una seconda fase, già abbastanza preoccupante: il venir meno progressivo dell’equilibrio. Chi si accorgeva dell’aggravarsi della situazione doveva avere la prontezza di svignarsela alla chetichella e di tornarsene a casa appoggiando la mano al muro (camminendi manu a muru) e zigzagando (stombi stombi). La terza fase era la più temuta perché faceva perdere completamente la lucidità e, inoltre, costringeva irrimediabilmente a stendersi per terra (corcaus). In tal caso il rientro a casa era all’insegna della peggiore ignominia, a futuro ricordo di tutti i vicini pronti, per antica abitudine, al passaparola più disonorevole. L’ubriaco veniva portato di peso nella sua abitazione dagli amici più comprensivi e letteralmente “scaricato”, calzato e vestito, sul primo letto rimediato. I rischi erano ancora maggiori quando ci si incontrava non per un …semplice spuntino, ma per una mangiata, un pranzo o una cena, appositamente programmata. In questi casi era quasi d’obbligo un’autentica scorpacciata (sa satzada) che durava molte ore per la gioia ed il piacere di tutti gli invitati. In quest’ambito ricadevano soprattutto le festività più care al comune sentimento popolare. La festa era il pretesto tanto atteso per socializzare, il momento di aggregazione più spontanea e partecipativa di un’intera comunità che trascorreva insieme una o più giornate all’aperto. Al riguardo, un tempo erano molto sentite e seguite le feste del Santo Patrono locale il cui simulacro, in tanti centri, veniva trasferito in processione nella chiesetta di campagna e ricondotto in paese dopo qualche giorno. I fedeli vi accorrevano in massa, a piedi, a cavallo o con le tracas e in queste riponevano tutto il necessario per il periodo da passare lontano da casa: prima di tutto, ed in abbondanza, le scorte alimentari. Quasi ovunque vi erano gli appositi ricoveri per pernottare, is cumbessias, e proprio nelle loro vicinanze si svolgevano i banchetti succulenti, molto vari, ma, in prevalenza, con maccheroni (macarronis) alla salsa di pomodoro (cun bagn’‘e tomatas), con carne (petza), pesce (pisci) e salsiccia (sartitzu) arrostiti poco prima al fuoco, con gallina ripiena (pudda fartzia), insalate, dolci sardi (pirichitus, pardulas, candelaus, turroni, bianchitus), frutta e vino a profusione. Oggi è molto diffusa la gita fuori porta per Pasquetta. Il lunedì dopo Pasqua è entrato anche nelle usanze dei sardi specialmente da quando, ormai da parecchi anni, dispongono di un proprio mezzo di locomozione. L’escursione, nei pressi o lontano dalle città, riserva alcune ore di serenità al pranzo in campagna con vere e proprie ghiottonerie portate da casa per la gioia del palato di grandi e piccini. La scampagnata cui tenevano maggiormente i cagliaritani di in un passato sempre più lontano e dai colori molto sbiaditi era

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LE GRAND quella del 1° maggio, in prossimità dei ponti della Scaffa, vicinissimi quindi alla città, per assistere al passaggio di Sant’Efisio in partenza per Nora. Le comitive erano innumerevoli. Intere combriccole festanti e vocianti vi si recavano a piedi sin dal primo mattino e si piazzavano nelle distese disponibili per vivere una giornata in piena baldoria e letizia, dando sfogo a quella cagliaritanità sincera, aperta e intrisa di sana ironia di cui attualmente in molti sentono la mancanza. Si cantavano a voce alta (a boxi prena) i motivi e i ritornelli delle canzoni più conosciute, si improvvisavano is mutetus più spassosi che facevano sganasciare dalle risate, con scracallius coinvolgenti e l’accompagnamento immancabile della chitarra o del mandolino. Solo pochi cucinavano in loco, magari alla brace. La maggior parte, invece, preferiva portarsi da casa il pranzo minuziosamente confezionato secondo la precisa tradizione cittadina. Non poteva certamente mancare, soprattutto, la frittata di piselli freschi, sa turt’‘e pisurci, di cui ancora oggi i veri cagliaritani non sanno fare a meno proprio in quel giorno. Ma le stesse uova sode (is ous buddius), le favette in umido (sa faixedda a schiscionera), i carciofi (sa canciofa) e, beninteso, il vino (su binu) facevano parte di quel menu consumato all’aperto subito dopo il passaggio della processione appena uscita dalla città. Per quel pranzo in comitiva si indossava il vestito buono (sa bestimenta bona),

quasi sempre leggero, se non addirittura estivo. Al termine della mangiata ci si augurava “A aterus annus” (“Ad altri anni”), con la fatidica risposta “Deus bollat” (“Se Dio vorrà”). E sempre la riva di ponente, peraltro, già da tempo era stata individuata come spiaggia libera da molti cagliaritani che solevano recarvisi in gruppo, durante la buona stagione, per delle immemorabili scampagnate di fine settimana. Trascorrevano beatamente la giornata a crogiolarsi al sole, tra una nuotata e l’altra. I meno arditi se ne stavano prudentemente vicino alla riva; gli altri preferivano la zona denominata Su Trincagliu dove l’acqua era subito alta: ciò consentiva di tuffarsi senza temere di battere la testa sul fondo dopo una breve rincorsa dalla spiaggia. I tuffi veri e propri, però, venivano fatti dalla ringhiera del ponte in legno, da un’altezza di circa quattro metri. Quando, poi, il sole iniziava a tramontare dietro i monti di Capoterra, illuminando come un fuoco l’orizzonte, si faceva l’ultimo tuffo e subito dopo si cenava in un clima di esaltante ilarità con i più noti canti e stornelli. Sul menù più frequente ci informa Luigi Colomo (1859-1936), avvocato, provetto nuotatore e soprattutto attento osservatore di quegli anni ormai lontani: malloreddus a tomatas friscas, cun pitzialla de caboniscu, perdingianu fartziu, pisci fritu e binu bonu. Ma quel mondo venne completamente superato dalla scoperta

Florence Fredoc

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DI MANGIATE DI UNA VOLTA del Poetto, agli inizi del Novecento. Pian piano la grande spiaggia dalla sabbia finissima e bianca divenne la meta preferita dai cagliaritani. Chi arrivava ogni giorno da Cagliari, prima a piedi non essendovi un’apposita strada, successivamente con il tram a vapore e poi elettrico (1913), portava con sé borse strapiene di pomodori, zucchine, gnocchetti, melanzane, patate, carne già cotta, pesce fritto, angurie, meloni e bottiglie di vino rosso. Con l’aumento progressivo del numero dei casotti diventarono consuetudinarie anche le grandi scorpacciate domenicali e dei giorni di festa, in particolare per Ferragosto. Nell’occasione si riuniva tutta la famiglia: nonni, nonne, zii, zie, e un’infinità di figli, figlie, cognati, generi, nuore, nipoti, pronipoti, cugini, amici e vicini. Si cucinava di nascosto vicino allo stesso casotto, celati il più possibile agli sguardi delle guardie che stavano sempre girando e andando a odore, pronte a beccare chi accendeva il fuoco. Si usava il braciere grande a carbone per arrostire carne o pesce. Il pranzo cominciava quasi sempre con i maccheroni conditi con salsa di pomodori freschi; nonostante fossero di norma in grande quantità sparivano in un attimo. Poi c’era la carne fritta per i bambini e le anguille in umido per gli altri. Il vicino, ce n’era immancabilmente almeno uno, portava il pesce pescato in riva la mattina presto e portato vivo vivo (biu biu), ancora saltellante (sartiendi). Si passava, quindi, all’agnello o al porchetto arro-

sto, o a tutti e due insieme. Non potevano mancare il sedano (s’apiu), i ravanelli (s’arreiga), i carciofi (sa canciofa) e la lattuga (sa latia). Il vino, in prevalenza nero, era consumato rapidamente e ben presto faceva venire la voglia di cantare a pieni polmoni canzoni allegre e mutetus a trallallera. L’anguria (sa sindria) rossa tagliata a fette grosse contribuiva, come per incanto, a far passare la sete accumulata nel mangiare salsiccia, prosciutto, formaggio, magari marcio, tonno e altre pietanze molto salate. Per ultimo compariva il cabarè (sa saffata) dei dolci: pirichitti, bombe, amaretti, pardulas, candelaus. A questo punto tutti erano ben satolli (satzaus) e andavano a riposare per lo più sotto il casotto, all’ombra, sdraiandosi nella sabbia bianca, soffice ed invitante. Quando la compagnia lo permetteva e non creava imbarazzo, quello era il momento di dar sfogo ai rutti in piena libertà, forti come tuoni, che suscitavano le risate di tutti. Ma subito dopo il sonno dolce e piacevole si impadroniva di quasi tutti i commensali. Il ronfare collettivo diventava armonico e musicale tanto da fondersi sorprendentemente con il ronzio delle mosche e dei mosconi accorsi anch’essi a far festa.

Florence Fredoc

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ome potrebbe essere sedersi a tavola con i nostri antenati nuragici? Una fantasia che è diventata realtà grazie a un progetto enogastronomico itinerante del Consorzio Turistico dei Laghi, che tra la Barbagia di Seulo e il Sarcidano ha creato dei pacchetti turistici molto particolari legati a “La vita e l’alimen-

terie prime alla modalità di preparazione. Il presidente del Consorzio Turistico dei Laghi, l’ing. Antonio Orgianu, ne è entusiasta: «Dopo diversi tentativi attivati con altri progetti sul territorio, questo sicuramente arricchisce il sistema perché l’enogastronomia in Sardegna, e in particolare nel Sarcidano e nella Barbagia di Seulo, è uno degli elementi più interessanti». Un’occasione che non è rivolta solo alla

ALLA RICERCA DELLE NOSTRE RADICI

A TAVOLA CON

di Lorelyse Pinne

tazione dei nuragici”. Alla base del progetto gli studi del Laboratorio della Conoscenza e della Memoria, diretto da Fulvia Lo Schiavo, che ha individuato alcuni piatti e abitudini alimentari del popolo nuragico sulla base di oltre 50 mila reperti provenienti dal Nuraghe Arrubiu di Orroli. A questi studi si sono aggiunti gli approfondimenti dell’archeologo Mauro Perra, che ha descritto le pietanze così come venivano preparate e consumate 4 mila anni fa. Così è nata l’idea di offrire questo speciale pacchetto: diversi itinerari che partono con la visita guidata ai siti archeologici, con descrizione e analisi dei reperti e in cui i visitatori potranno “toccare con mano” gli strumenti preistorici. Tra questi il Nuraghe Arrubiu di Orroli, il complesso megalitico di Pranu Mutteddu a Goni e il Santuario di Santa Vittoria a Serri. La giornata prosegue con il pranzo nuragico curato dall’Associazione Chef di Sardegna, durante il quale ogni pietanza verrà descritta e spiegato il percorso storico scientifico che ha permesso di ricrearne il sapore, dalla ricerca delle ma-

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Sardegna ma a tutta l’Europa: «il progetto è stato inserito tra i pacchetti che il Consorzio Turistico dei Laghi ha portato a Madrid alla Fiera promossa dalla Camera di Commercio italiana in Spagna», sottolinea il presidente. Ma cosa si mangiava all’ombra dei nuraghi? Nel corso degli scavi in varie località dell’isola sono emersi dei resti di alimenti, primi fra tutti i cereali, dai semini di grano duro e tenero, al farro e all’orzo, ma anche residui di pane azzimo, ossia non lievitato. Sono stati rinvenuti legumi (favini, piselli e lenticchie) e semi di ulivo e di fico, usato fino a qualche decennio fa per aumentare la gradazione dello zuccherino nel vino. E infatti i nostri avi coltivavano la vite e producevano il vino: all’interno dei nuraghi vi erano vinacciuoli e acini di vite in avanzata fase di domesticazione. Della loro dieta facevano poi parte la carne e il pesce: ovini, caprini, bovini e suini allevati e macellati, alcuni entro i sei mesi di vita, segno che già da allora si banchettava con maialetto arrosto, ma anche pesce, mitili, cozze e ostriche. «La cucina dei nuragici era molto diversificata»,


spiega il responsabile territoriale di Chef di Sardegna Cosimo Mocci, «un posto di rilievo avevano le carni, in particolare di cervo, maialetto, agnello e prolagus sardus, mammifero estinto che era una via di mezzo tra un coniglio e un criceto, e soprattutto da latte, che venivano cotti prevalentemente arrosto allo spiedo. Oltre alle verdure selvatiche come cardi e cicoria, i funghi e i formaggi».

A Nuraghe Arrubiu, uno dei siti più importanti dell’isola e sede di una delle escursioni del progetto, sono stati trovati infatti un bacile, un pozzo, un focolare e un bancone con sedile, oltre a varie ceramiche, una brocchetta, un sostegno per lo spiedo. Insomma i loro pranzi non si discostavano molto dai nostri. Non resta che augurare ai partecipanti buon appetito.

LA VITA E L’ALIMENTAZIONE DEI NOSTRI AVI

N I NURAGICI Il Consorzio dei Laghi

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l Consorzio Laghi & Nuraghi è nato a metà degli anni Novanta dall’iniziativa di alcuni Comuni e di un gruppo di imprenditori per promuovere lo straordinario patrimonio paesaggistico, fatto di laghi cristallini e altipiani, valli e foreste incontaminate in cui si ergono maestosi i resti dell’epoca nuragica, nei territori del Sarcidano e della Barbagia di Seulo.Il Consorzio oggi conta 11 Comuni (Esterzili, Goni, Isili, Seulo, VillanovaTulo, Serri, Orroli, Nurri, Sadali, Nurallao e Siurgus Donigala) e molte aziende turistiche, tra le quali agriturismi e alberghi (il Villaggio Antichi Ovili che riprende lo stile delle tipiche dimore di pietra e fango dei pastori, l’albergo diffuso e museo Omu Axiu, la beauty farm Canali Nur, l’albergo e centro nautico Istellas sul Flumendosa, l’hotel Janas Village, il Borgo dei Carbonai e l’Hotel S’ilixi). La sua offerta turistica può contare inoltre sul servizio di trasporto GT Lusso Dedoni Turismo. Nel caso di questo progetto itinerante, per poter coprire capillarmente tutto il territorio, l’iniziativa è stata aperta anche alle strutture private non direttamente consorziate.

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IL CASO SARDEGNA LA DISOCCUPAZIONE E LE NUOVE SFIDE PER I GIOVANI NEL SETTORE TURISMO E DELLA FILIERA DELL’OSPITALITÀ

“L’OGLIASTRA TI ACCOGLIE” forma nuovi operatori turistici Incontro con Stefano Tunis, direttore di Agenzia del Lavoro Fotografia coop Ghivine

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e cifre impietose sulla disoccupazione ci portano dentro un osservatorio particolare, l’Agenzia regionale per il Lavoro. Direttore ci dia una sua lettura. Il problema non sono le cifre ma il mancato adattamento al sistema economico che deve accompagnarci nell’avvenire e che sarà fondato sul settore terziario (servizi, turismo, ecc.)». Ci spiega il ruolo dell’Agenzia: come vi muovete per aggredire la Grande Crisi? «Esiste un gap sulla veicolazione nel mondo del lavoro. Per questo abbiamo progettato alcune misure che hanno dato impulso al mondo dell’occupazione, in particolare i Tirocini con Voucher (TFO) e i Piani di Inserimento Professionale (Pip)». Quali sono i risultati di queste azioni? «A partire dal 2010 il nostro contributo è sta-

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to l’attivazione di 2200 Pip e 3700 TFO, oltre ai mille percorsi di inserimento con Master and Back». Alla luce della Riforma del Lavoro avete accolto nuovi segnali? «È molto presto per recepire nuovi segnali ma i tecnicismi lavoristici non penso possano portare risultati sul lavoro. Ciò che conta è l’economia nel suo complesso, i tecnicismi sul mercato del lavoro non producono occupazione. Pare che questa riforma sia stata impostata sulla possibilità di un incremento del gettito fiscale previdenziale, mentre non ha riguardato la prestazione e la retribuzione, che sono gli elementi essenziali del contratto di lavoro». I giovani talentuosi: quali sono le strategie messe in campo dall’Agenzia per connetterli con le aziende? «Normalmente i giovani con talento e un bagaglio culturale competitivo non hanno biso-

gno del nostro aiuto. Ne hanno bisogno quelli meno dotati di talento e di possibilità. È a loro che rivolgiamo maggiormente la nostra attenzione. Chi è dotato di talento ha bisogno di aiuto soprattutto in quelle che vengono chiamate “competenze trasversali”». Risulta anche a voi che i giovani, e non solo loro, rifiutino lavori come panettiere, falegname, infermiere...? «È un fatto legato all’economia italiana: l’abbandono di professioni a carattere manuale ha costituito un problema per la nostra economia, infatti in alcuni settori c’è stata la necessità del supporto dei lavoratori extracomunitari. Il nostro stile di vita ci ha allontanato dalle professioni che avevano minore attitudine a mantenere un alto livello di vita». “L’Ogliastra ti accoglie” e “Alimentis”: due progetti diversi, uno rivolto al lavoro e uno alla solidarietà, che assumono un signifi-


cato importante in questo momento. «Sono due progetti diversi: “L’Ogliastra ti accoglie” riguarda il settore turistico ed è una misura sperimentale per favorire l’incontro tra l’offerta di lavoro degli operatori del settore in Ogliastra e la domanda dei potenziali lavoratori, a cui noi offriamo la formazione. “Alimentis” è invece realizzato in collaborazione con la Caritas per incentivare l’impegno, anche lavorativo, nel terzo settore, unito allo sviluppo sostenibile. Si tratta della ridistribuzione di ciò che domani sarebbe diventato un costo di smaltimento a chi ne ha bisogno attraverso le mense dei poveri».

Sullo scenario internazionale si muovono, come voi, altre agenzie tipo Menpower (Progetto Talent University), Openjobmetis (offerta degli strumenti per ottimizzare i curricula, la gestione dei colloqui di selezione, ecc.) e Randstad (cv days in estate per orientare gli studenti). In tempo di crisi è un proliferare di sigle, agenzie e presidi: vi misurate su scenari drammatici, si può fare di più? «Non si possono assimilare le attività di soggetti privati come queste agenzie, che si occupano soprattutto di somministrazione, con quella di un soggetto pubblico come

noi. Queste agenzie svolgono sicuramente un ruolo importante ma è un altro mestiere. Le modalità di incontro domanda-offerta per tramite di soggetti pubblici sono sicuramente insufficienti, quindi riescono a ritagliarsi uno spazio importante in questo frangente. Noi siamo invece a disposizione delle istituzioni, in qualunque modalità decidano di indirizzare la loro decisione politica. L’Agenzia fornisce l’impegno professionale per dare contenuto tecnico adeguato all’indirizzo deciso dalla politica. Siamo umili faticatori al servizio degli organi istituzionali».

ALIMENTIS, IL MERCATO DELL’ULTIMO MINUTO

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l progetto “L’Ogliastra ti accoglie” si propone di formare 40 giovani ogliastrini nel settore turistico mediante un’azione formativa mirata che prevede un percorso formativo 100 ore e l’inserimento in azienda per 4 mesi. I giovani beneficiari riceveranno un bonus economico pari a 2 mila euro per lo svolgimento dell’attività formativa e per l’inserimento lavorativo a carico dell’Agenzia regionale per il lavoro, al quale si aggiungerà un bonus di rimborso spese di 1500 euro a carico dell’azienda ospitante. Per favorire l’incontro tra giovani e aziende è stato organizzato un evento nei locali dell’ex Bloccheria Falchi a Tortolì, durante il quale si sono svolti

i colloqui individuali per la selezione. Alimentis è la trasposizione sul territorio sardo del modello Last Minute Market (il “mercato dell’ultimo minuto”), studiato e collaudato dall’Università di Bologna, (Dipartimento di Economia e Ingegneria Agrarie) che consiste nella possibilità di recuperare e ridistribuire i beni alimentari rimasti invenduti ma ancora perfettamente salubri, alle associazioni di assistenza per indigenti. Si basa sulla donazione diretta da parte degli esercizi commerciali alle associazioni di assistenza, secondo un rapporto fiduciario che riproduce quello del negoziante e del cliente: gli incaricati del ritiro da parte delle associazioni caritative “fanno la spesa” presso i donatori aderenti

ed utilizzano immediatamente gli invenduti alimentari per i propri scopi benefici. Si innesca così un circolo virtuoso che coinvolge tutti gli attori basato sulla filosofia dello “spreco utile” che permette il miglioramento della qualità nell’assistenza agli indigenti e, più in generale, della vita dell’intera comunità che ne trae benefici di tipo sociale, con un miglioramento della qualità dell’assistenza e della qualità della vita delle persone indigenti, e ambientale, con la diminuzione del flusso dei rifiuti in discarica.

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L’ISOLA CHE INCANTO! LUNGO IL GOLFO DI OROSEI PAESAGGI TRA MARE E MONTAGNA GROTTE E MILLE ATTRAZIONI

I monti hanno protetto il paesaggio costiero ancora incontaminato, fatto di calette chiuse da faraglioni di roccia raggiungibili solo dal mare, famose in tutto il mondo per la loro straordi-

DORGALI

ti prende per la gola naria bellezza, Cala Luna, Cala Mariolu, Cala Golortzè, Cala Sisine e Cala Fuili, ma anche di spiagge più accessibili e pur sempre meravigliose, come la Spiaggia Centrale e quella di Palmasera.

Il sindaco Angelo Carta

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coop Ghivine

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di Lorelyse Pinna

e acque cristalline di Cala Gonone e del Golfo di Orosei e le montagne incontaminate del Supramonte: questa è la magia di Dorgali, capoluogo del turismo della Barbagia. Nel suo territorio convivono paesaggi tipicamente montani e marini, fluviali e palustri, caratteristica che costituisce un patrimonio naturalistico senza eguali che l’uomo non ha intaccato. I campi coltivati, gli ovili in pietra e legno di ginepro e le chiese campestri sono entrate a far parte dei paesaggi senza trasformarli, anzi abbellendoli. Qui molte specie animali e vegetali, alcune anche molto rare se non uniche, hanno trovato il loro habitat ideale: dal cinghiale al cervo sardo, e poi volpi, donnole, martore, ghiri, daini, aquile reali e mufloni, fino a tartarughe d’acqua e marine e la rarissima foca monaca convivono qui tra piante di olivastri, lecci, corbezzoli, mirto e asfodelo e un mare da cartolina. I monti hanno protetto il paesaggio costiero ancora incontaminato, fatto di calette chiuse da faraglioni di roccia raggiungibili solo dal mare, famose in tutto il mondo per la loro straordinaria bellezza, Cala Luna, Cala Mariolu, Cala Golortzè, Cala Sisine e Cala Fuili, ma anche di spiagge più accessibili e pur sempre meravigliose, come la Spiaggia Centrale e quella di Palmasera. La cooperativa Ceacalagonone ha raccolto la ricchezza faunistica di questo territorio in un museo, il Primo Museo della Foca Monaca, presso il Centro di Educazione Ambientale di Cala Gonone, dove i visitatori potranno ammirare un esemplare di foca monaca e oltre 300 esemplari di fauna sarda naturalizzata. Ma Dorgali è famosa anche per la sua tradizione enogastronomica: dagli anzelottos, i gustosissimi ravioli ripieni di ricotta o formaggio fresco conditi con ragù di carne, al pane frattau, da “su porcheddu”, maialetto arrosto aromatizzato al mirto, ai più particolari “tattaliu”, spiedino composto da pezzi di cuore, fegato, polmone alternati a fettine di lardo, il tutto avvolto da interiora, e “cordedda”, intestini di agnello intrecciati e cucinati arrosto. E se si passa per il paese è impossibile non assaggiare anche i tanti formaggi tipici e non assaporare l’olio d’oliva, il tutto accompagnato da un bicchiere di ottimo vino: Cannonau, Filieri o Noriolo, il novello Santa Caterina o il bianco Cala Luna. Per poi passare alle grappe di cannonau e ai dolci tradizionali, “papassinos”, amaretti, “s’aranzada” con buccia d’arancia, mandorle intere e miele, e quelli delle feste: “su pistiddu”, una crostata di pasta frolla ripiena di buccia d’arancia e vin cotto, tradizionalmente offerto a gennaio durante la festa di S. Antonio, e le “orullettas”, dolci fritti spennellati con il miele o lo zucchero che si consumano a Carnevale, mentre lungo Corso Umberto, al centro del paese, si svolge la tradizionale corsa dei cavalli. Cavalli e cavalieri in abito tradizionale sfilano di nuovo lungo le vie del paese durante la Processione della Vergine Assunta, nei giorni di ferragosto. Tipici di questa zona sono i gioielli in oro e la filigrana, i tappeti e le ceramiche, i coltelli e le “tascheddas”, gli zaini di pelle. Ognuno di questi oggetti ricorda l’ospitalità dorgalese, la bellezza della sua natura e i suoi sapori inconfondibili.


QUI DORGALI INCONTRO CON STEFANO LAVRA, ASSESSORE AL TURISMO

MISSIONE ACCOGLIENZA

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l patrimonio naturalistico del territorio dorgalese è davvero unico, ciò che colpisce ancora di più è il fatto che la vostra comunità ne abbia avuto rispetto e non l’abbia intaccato come spesso, purtroppo, accade. Qual è il segreto per mantenere questo delicato equilibrio e stare contemporaneamente al passo con i tempi e coi mercati? «I nostri punti di riferimento sono le risorse naturali: gli ambienti costieri della splendida baia di Cala Gonone, quelli montani del Supramonte, tutte quelle aree turistiche estese a quelle rurali e i prodotti locali derivanti dalla fiorente attività antropica del territorio dorgalese. Possiamo proporre il cambiamento in molti modi diversi, ad esempio incoraggiando il progresso con una missione culturale e sociale per eliminare gli stili di vita inefficienti, quindi non più sostenibili né accettabili. Si deve lavorare congiuntamente, istituzioni, cittadini, mondo dell’associazionismo e del volontariato, realizzando una “rete intelligente”, un vero e proprio laboratorio di collaborazioni per difendere il bene comune, il nostro cortile, la nostra strada, la nostra spiaggia». Un cambiamento che prende quindi

avvio dal basso, dalla presa di coscienza del valore del territorio da parte dei suoi abitanti... «Si perché la prima vera azione di marketing turistico-territoriale si avvia grazie alla consapevolezza dei cittadini: tutti noi siamo i primi a poter fare qualcosa per valorizzare il nostro territorio. Solo così potremo creare le basi per poter essere accoglienti con i turisti. Turismo e ambiente sono le risorse più importanti che la nostra comunità possiede, è dovere delle autorità, delle istituzioni e dei cittadini vigilare per poterle preservare e valorizzare». Qual è la strategia delle istituzioni? «Il nostro Piano punta a consolidare le strategie di sviluppo locale, a riorganizzare la competitività territoriale delle produzioni agroalimentari di nicchia, a promuovere l’offerta territoriale sfruttando le varie potenzialità. Gli obiettivi sono: attuare sinergie tra pubblico e privato per la progettualità congiunta; qualificare il sistema locale di ricettività e offrire servizi al turismo; sostenere le produzioni di nicchia (micro filiere) e l’artigianato; realizzare un sistema unico di rete tra le imprese. Il Piano prevede, infine, l’adesione ai progetti regionali dei vari Enti (Laore, Comunità Montana, Gal) e raggruppamenti comunali per aree territoriali omogenee,

attivare progetti verso le aree del Nord Europa e sfidare l’orizzonte del turismo che guarda a Oriente, verso Cina e Giappone». Tempi previsti per l’attuazione? «Già da ora si lavorerà affinché per la stagione prossima si possa rendere pienamente operativo e avviare il Piano che riguarda le azioni rivolte al turismo e allo sviluppo delle attività ricettive e produttive che dialogano con il mercato nazionale e internazionale, “Qualità della vita e diversificazione dell’economia urbana e rurale”, i cui interventi sono proiettati a creare e consolidare l’ospitalità nelle strutture alberghiere e agrituristiche, a creare aree attrezzate per il tempo libero, per la sosta di camper, per lo svolgimento di attività culturali e sportive, escursionistiche e ippoturistiche. Ma anche la creazione e il consolidamento di imprese agricole che amplino la loro offerta con fattorie sociali, didattiche, creative ed ecofattorie, supportando la multifunzionalità dell’azienda».


QUI DORGALI SARDEGNATAVOLA TI ACCOMPAGNA PER UN ITINERARIO INCONSUETO

MAGICA E AVVOLGENTE

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di Manuela Salidu

orgali definisce in se l’identità multi sfaccettata dell’intera isola; circondata da magnifiche coste e spettacolari antri rocciosi, testimone di un’eredità archeologica millenaria e unica nel suo genere, Dorgali affascina e tramortisce con le sue fatali attrazioni. Il nostro viaggio all’interno del territorio prende vita in riva al mare, sulle magnifiche coste della baia di Cala Gonone: kilometri di spiagge dorate e acque cristalline incorniciano le spettacolari falesie, affacciate senza alcun timore a picco sul mare. Cala Luna è la spiaggia più famosa, accessibile via mare dal porto di Cala Gonone, ma ambite sono anche le tante e solitarie calette dislocate sul litorale. Tra le grotte marine, di grandissimo interesse è sicuramente la grotta del Bue Marino, la cui denominazione si

deve all’appellativo in lingua sarda con cui veniva identificata la foca monaca che popolava il territorio nel recente passato. Lunga ben 15 kilometri, la grotta si snoda attraverso due tronconi, nord e sud, l’ultimo percorribile per quasi 900 metri. Il grande lago sotterraneo salato, su cui si specchiano stalattiti e stalagmiti, è l’attrattiva principale della spelonca; di grande rilevanza anche la presenza d’incisioni rupestri riconducibili alla cultura di Ozieri. L’aria di mare continua a soffiare sull’Acquario di Cala Gonone, affacciato sulla suggestiva baia di cala Gonone nel Golfo di Orosei; le 24 vasche del percorso espositivo ospitano le specie tipiche del mare isolano, eccezion fatta per una piccola sala dedicata ai mari tropicali. L’emozionante scoperta della fauna marina caratteristica accompagna il viaggiatore verso una piena visione del microcosmo sardo. Abbandonata la costa e intrapreso il cammino verso l’en-


MAGICA E AVVOLGENTE coop Ghivine

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troterra, ogni visitatore avrà la possibilità di immergersi completamente nel passato; numerose sono infatti le strutture archeologiche nel territorio, baluardi irremovibili di una storia infinita. Il più importante e spettacolare è il villaggio nuragico di Tiscali, collocato ai piedi del monte omonimo e considerato probabilmente il sito archeologico più importante della Sardegna. Immerso all’interno di una voragine creata dal crollo del soffitto di una grotta carsica, il villaggio fu edificato circa 3000 anni fa dalle popolazioni nuragiche per sfuggire alle persecuzioni degli invasori. Ancora oggi è impossibile visitare questo strategico senza rimanere ammaliati dalla sua mistica peculiarità. Profumo di storia si respira anche nel villaggio nuragico di Serra Arrios: un agglomerato di circa cento capanne, cronologicamente inserito a cavallo tra Bronzo Medio e Bronzo Recente. Per la cospicuità delle sue dimensioni e per la sua organizzazione urbanistica l’intero sito è considerato un insediamento proto urbano, ben articolato tra reperti di case, strade, piazzette, pozzi e aree templari. Non meno accattivante la visita al villaggio nuragico insediatosi a Nuraghe Mannu, posizionato su un altopiano a 200 m. sul livello del mare, strategicamente eretto quale punto di controllo dell’intero Golfo di Orosei. Con i suo quasi 5 metri d’altezza Nuraghe Mannu svetta su più di 200 capanne, abitate da quasi un migliaio di persone nel periodo tra l’epoca romana e l’età imperiale inoltrata. Abbandonato il passato, si ritorna a contatto con la natura incontaminata; la grotta di Ispinigòli è tappa obbligata per ogni turista. Antro carsico sito nel Supramonte di Dorgali, la grotta cela al suo interno una magnifica colonna stalagmitica di quasi 28 metri, che collega la volta con il pavimento della stessa grotta. Grande curiosità suscita il cosiddetto “Abisso delle Vergini”: un inghiottitoio profondo circa 60 metri che collega la spelonca alla grotta di S. Giovanni Su Anzu e che, secondo le leggende, veniva utilizzato per compiere dei sacrifici umani. Ma il territorio non è solo turismo o archeologia; anche la natura gioca un ruolo importante nella definizione dell’identità dorgalese. Il Museo Foca monaca ripropone, attraverso i diorami, l’ambiente naturale del territorio di Dorgali, dalle zone di montagna a quelle marine, da quelle delle paludi a quelle dei fiumi. All’interno del museo si possono ammirare circa trecento specie di animali imbalsamati caratteristici della fauna territoriale. Spazio anche alla flora nel parco Museo S’Abba Frisca, situato nel cuore del Golfo di Orosei tra Dorgali, Ispinigoli e Cala Gonone: al suo interno i due itinerari naturalistico ed etnografico si fondono in un unico percorso di ricerca e scoperta del rapporto uomo-natura. A corredo di tutto oltre 4000 pezzi della civiltà contadina pastorale e 450 specie della macchia mediterranea. Presente e memoria vivono e convivono a Dorgali, definendo i contorni di una realtà territoriale unica e ineguagliabile, specchio della bellezza intrinseca della nostra isola.


IO MANGIO SARDO QUI IL GUSTO DI GEMMA AZUNI*

A ROMA LA MIA TAVOLA

È DORGALESE *Roma Capitale Presidente del Gruppo Misto Sinistra ecologia Libertà in Assemblea Capitolina Maria Gemma Azuni Nata ad Olzai, residente a Roma dalle superiori dove ha conseguito una laurea in Assistente Sociale. Dirigente in pensione della Provincia di Roma è sposata con Vincenzo Loi e madre di due figli. Le sue vacanze “sarde” si svolgono prevalentemente a Dorgali, città natale del marito, dove si diletta nella pesca, nel giardinaggio, nella cucina e in interessanti visite archeologiche.

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he importanza ha per lei la buona tavola : La buona tavola è per me molto importante in quanto momento di socializzazione che definirei “molto intimo”, sia con la famiglia che con gli amici per i quali adoro cucinare; ho molta cura nella scelta delle pietanze, che definirei prevalentemente tradizionali della cucina sarda. Macchina del tempo : cibo e sapori di un tempo. Ci racconta di quel piatto e quell’atmosfera così particolari ? Più che ad un piatto in particolare, la memoria mi porta ad un alimento, il pane. Sin da bimba, mia madre, ha insegnato, a me e mia sorella, a fare il pane in casa, e questo significava alzarsi molto presto la mattina per iniziare la complessa lavorazione che richiede il pane carasau. Varie le fasi e molte le emozioni ed i profumi che le accompagnavano, tanto da conservarle tuttora nel mio cuore e avere trasmesso la passione anche ai miei figli con i quali spesso impastiamo ed inforniamo. A tavola con i migliori amici : … indubbiamente menù tipicamente sardo … come da loro richiesto.

4. Prova ai fornelli : una volta tanto, spesso, mai e con quali risultati ? Spesso, quando l’impegno politico me lo consente e, sempre, con ottimi risultati …. a detta degli amici. Tavola e buoni affari ne ha concluso qualcuno o comunque ha creato rapporti ? A tavola mai affari, solo amicizia e gratitudine. Cibo sardo che fa tendenza : moda, convenzione, salute o ultimo treno per la nostra economia ? Salute e tradizione. La sua valorizzazione è fondamentale perché rappresenta il volano per la nostra economia. Quali prodotti della nostra terra ritiene indispensabile per una sana alimentazione ? I prodotti sono tanti e sani, purtroppo non commercializzati a sufficienza fuori dalla Sardegna. La loro distribuzione è molto carente. Prediligo il pecorino, sia fresco che stagionato, elemento essenziale alla base delle seadas e dei ravioli, i piatti preferiti da amici e parenti. Dulci in fundo: Cossiga ne era così ghiotto che gli amici veri alla sua porta bussavano

con i piedi … … perché avevano le mani occupate da bellissimi cesti pieni di dolci sardi. La nazionale dei prodotti sardi. Mi ripeto, formaggio, seadas, ravioli, bottarga, malvasie e cannonau. La ricetta preferita, quella che fa tornare il buon umore dopo una giornata pesante. Senza ombra di dubbio, il pane frattau. Piatto semplice da fare e delizia per il palato.

M.C.

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IL FASCINO DEI CUILES di Leo Fancello

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n quell’ampio territorio di luminoso calcare, chiamato “Supramonte”, delimitato dai paesi di Baunei, Dorgali, Oliena, Orgosolo e Urzulei, in prossimità delle nude cime dei monti o nascosti tra la fitta macchia mediterranea, s’incontrano spesso delle vecchie costruzioni in pietra e legno. Sono i “Cuiles”, le antiche dimore di chi in quei monti ha duramente lavorato per lunghi anni, allevando capre e maiali. Da questi insediamenti svettano le superbe capanne di abitazione, i “Pinnettos”, con la caratteristica forma circolare ed il tetto in tronchi di ginepro, che ricordano straordinariamente da vicino le capanne nuragiche. Nei pochi metri quadrati di un pinnettu, si lavorava, si dormiva, si trovava riparo dalla pioggia e dal vento, qualche volta nascevano dei bambini, spesso avvenivano drammatiche e feroci tragedie. Nei cuiles si consumavano gli anni di una vita

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dura e selvaggia. Anni scanditi dai ritmi arcaici della vita pastorale: la mungitura e la lavorazione del latte, il raduno serale degli animali, la nascita dei capretti e la ricerca della preziosa acqua, il taglio della legna o, raramente, la gradita visita di un familiare o di un ospite inatteso. Una vita contraddistinta da una profonda solitudine che, sovente, durava mesi. I sistemi d’allevamento e di vita adottati dai pastori supramontani erano prettamente arcaici: le capanne non avevano un solo chiodo di ferro, gli strumenti di lavoro erano tutti in legno, sughero e pelle; il metallo lo si usava solamente per confezionare armi da fuoco e da taglio. Le malattie erano curate esclusivamente con le erbe medicinali. Carne, latte e loro derivati costituivano l’alimentazione più comune. I capi di vestiario erano confezionati con la lana ed il lino negli antichi telai di famiglia; con le pelli conciate si ricava-


ITINERARI TURISTICI E CULTURALI ALLA RICERCA DELLE RADICI DEI SARDI LUNGO GLI INSEDIAMENTI PASTORALI DEL SUPRAMONTE TRA DORGALI OLIENA E ORGOSOLO vano zaini, bisacce, abiti e scarpe. Nei desolati pianori carsici si seminavano i cereali per ricavare la materia prima per il pane e per nutrire il bestiame. Si attingeva l’acqua da fiumi, risorgenti, vasche naturali e cavità carsiche. Il pastore supramontano intraprendeva la sua attività d’allevatore dopo aver fatto per lunghi anni, sin da bambino, un duro apprendistato alle dipendenze di un altro capraio, oppure al seguito del gregge di famiglia, coadiuvando padre e fratelli. Raramente i figli dei pastori riuscivano a concludere le Scuole Elementari: già all’età di sette anni raggiungevano il padre nel Supramonte, per aiutarlo nella cura del gregge, condividendo con lui i lunghi giorni di solitudine e pesante lavoro. Per il bambino si trattava di una scuola di vita estrema e difficile, in un’età dove il desiderio maggiore è quello di giocare con i propri

coetanei o stare al caldo della propria casa. A dispetto dei propri sogni, rincorreva le capre in un territorio aspro e selvaggio, sferzato dalla pioggia e dal vento o tormentato dal sole rovente. I cani del cuile e gli animali del gregge sostituivano i compagni di gioco; i suoi giocattoli erano l’immancabile fionda e pochi oggetti in ferula e legno. La sua presenza permetteva al genitore di assentarsi, senza lasciare il gregge incustodito. Tristi eventi, come un padre che moriva improvvisamente o che finiva incarcerato per lunghi anni, costringevano dei ragazzi poco meno che adolescenti, ad affrontare la dura realtà dei monti. Le donne di famiglia, mogli o madri e sorelle, si occupavano del trasporto delle provviste alimentari (costituite generalmente dal solo pane carasau) a quei pastori che non potevano lasciare incustodito il gregge, sobbarcandosi lunghi e faticosi viaggi, talvolta cariche


sino all’inverosimile. Procedevano da sole, con calzature e abiti inadeguati, in mezzo ai mille pericoli della montagna, tra pietraie e profondi dirupi, con una pesante cesta in asfodelo portata sulla testa.

LA COSTRUZIONE E IL VISSUTO Dal punto di vista architettonico, il tipico cuile del Supramonte era composto da diverse strutture aventi funzioni ben precise: la capanna di abitazione (pinnettu); la capanna “ausiliaria” (su pinnettu de sa cosa o de s’isterzu), non sempre presente; il recinto per le capre (mandra); i ricoveri per i maiali (cumbulas e aullas); il cuile “alto” dei pascoli primaverili (cuile d’eranu); l’orto, non sempre presente; la vasca per la raccolta dell’acqua piovana (sa disterra, sa lacanedda, su presettu, su barchile, su idile). Oltre a questi manufatti, il cui insieme era chiamato appunto cuile o coilarza, facevano parte integrante dell’insediamento anche eventuali cavità carsiche esistenti nelle vicinanze, destinate dal pastore ad usi particolari (dispensa, rifugio di emergenza, nascondiglio, ecc.). L’ingresso di queste grotte era occultato e l’esistenza taciuta. La capanna del pastore aveva pianta circolare, mediamente con diametro interno di circa quattro metri. La struttura portante era formata da un conoide in legno, realizzato con travi di ginepro o leccio di oltre tre metri e cinquanta d’altezza, e da un muro in lastre di pietra calcarea, alto poco più di un metro. La forma e i materiali impiegati rappresentavano quanto di più razionale e idoneo si può trovare in natura nel Supramonte. La forma adottata consentiva stabilità ed un’altezza adeguata per potervi lavorare all’interno. Inoltre, il tetto conico in legno, creando un effetto “camino”, favoriva l’evacuazione del fumo attraverso gli spazi tra le travi, oltre a scaricare pioggia e neve grazie alla forte pendenza ed alla ridotta superficie di raccolta. Sempre in virtù della sua forma, resisteva egregiamente alle sollecitazioni trasmesse dai forti venti di ponente e maestrale, capaci di danneggiare strutture più complesse e tecnologicamente avanzate. La sua costruzione era piuttosto lunga e laboriosa. Per costruire un pinnettu occorrevano almeno 50 - 60 travi di ginepro selezionate e un intero anno di tempo. Un così lungo lavoro era determinato dal poco tempo libero a disposizione, necessario per la ricerca ed il taglio dei ginepri con le caratteristiche adatte; inoltre, spesso, si

LE MASCHERE DELLA NOTTE DEI TEMPI 28

trasportavano faticosamente le travi da luoghi lontani, in più tappe e più giorni, quasi sempre in occasione del ritorno serale con il gregge. Il recinto per le capre si componeva di diversi elementi: il recinto esterno (sa mandra), il cortile interno (crapile), le nicchie per i capretti (sos ediles), il recinto interno per i capretti (sa cherina). La tecnica costruttiva ricalcava, grosso modo, quella delle capanne di abitazione. Il recinto esterno era costruito con tronchi di ginepro disposti fittamente in circolo ed aveva il pavimento lastricato con cura e periodicamente pulito, dato che, notoriamente, le capre non gradiscono gli ambienti sporchi. Le piccole nicchie dei capretti, consentivano ai piccoli di stare al caldo e al sicuro dai predatori; avevano il pavimento in tavole grezze di legno e si affacciavano in un recinto secondario, dove le figliate si radunavano per l’allattamento. L’insieme, realizzato con centinaia di tronchi e al prezzo di un faticoso e lungo lavoro protrattosi per molti mesi, evidenziava una grande solidità e funzionalità. I ricoveri per i maiali erano posizionati un po’ distanti dal pinnettu e dalla mandra, anche molte decine di metri, a causa dei parassiti e del fastidio che i maiali arrecavano alle capre, animali notoriamente molto puliti e schizzinosi. In alcuni cuiles si usava richiudere i maiali nelle cosiddette ruttas terrenas, cavità carsiche con l’ingresso depresso rispetto al piano naturale del terreno; questa particolarità non consentiva ai maiali di uscire, per cui erano alimentati sul posto. Un modo arcaico per farli ingrassare velocemente... Non in tutti i cuiles venivano adottate le stesse tecniche e gli stessi materiali; alcuni fattori ne influenzavano la scelta e la qualità costruttiva: le caratteristiche geologiche, geomorfologiche e paesaggistiche dei Supramontes dove erano costruiti; la loro destinazione; la capacità individuale del pastore; la tradizione locale e quella tramandata dagli avi. Per esempio, la copertura arborea della zona di pascolo e le caratteristiche del terreno condizionavano sensibilmente la tecnica costruttiva. I cuiles del Supramonte di Dorgali e Baunei erano nettamente differenti dalla maggior par-


IL FASCINO DEI CUILES te di quelli di Urzulei e di Oliena. A loro volta, questi si distinguevano da quelli del Supramonte di Orgosolo. Nel Supramonte di Dorgali e Baunei vegetano comunemente lunghi e regolari ginepri secolari, il cui tronco è adatto a costituire l’ossatura delle capanne, così come altrettanto comune è trovare quelle lastre di calcare, eccezionalmente adatte a realizzare gli spessi muri dei pinnettos. I manufatti così costruiti si caratterizzavano per solidità, stabilità, durata e imponenza dell’insieme. Negli altri Supramontes, la tecnica costruttiva risentiva della mancanza di ginepri idonei, la cui crescita è soffocata dal fitto mantello delle foreste secolari di leccio. Di conseguenza le capanne erano piccole, costruite con rami di ginepro corti, poco regolari e scarsamente sviluppati, oppure con tronchi di leccio, meno duraturi nel tempo perché più vulnerabili all’attacco dei parassiti. I muri perimetrali erano fatti con massi rotondeggianti di calcare dolomitico, non adatti allo

dere la faticosa strada della montagna. Lavorare in un cuile era quasi diventata una cosa di cui vergognarsi, di fronte alle prime case con i servizi igienici all’interno, il frigorifero e la TV. I prodotti delle grandi industrie casearie ed alimentari sostituivano nelle tavole dei sardi, quelli più genuini provenienti dalle montagne. I pastori supramontani, oramai vecchi e stanchi, sempre più isolati e poveri, con le famiglie non più disposte a quegli intollerabili sacrifici, ritornarono lentamente giù in paese. Alcuni di loro, pur di non vendere o abbandonare il gregge, cercarono di resistere fino ad un’età che aveva dell’incredibile, aggrappati quasi con disperazione a quel mondo irrimediabilmente condannato. Minati dagli acciacchi di una vita passata all’aperto, consumati dalle febbri malariche e dalla bronchite cronica, con la vecchia moglie non più in grado di portare le provviste ed i figli lontani a cercare fortuna, si piegarono alle ineluttabili leggi della natura.

scopo. Queste opere risultavano poco stabili e non in grado di sfidare gli anni. L’uso cui era destinato il cuile, ne determinava anche l’accuratezza costruttiva. Le strutture per l’allevamento di maiali, attività più frequente all’interno delle foreste di leccio, erano “tradizionalmente” costruite in maniera approssimativa. La permanenza nel Supramonte, coincidente con il ghiandatico, era temporanea e plurilocalizzata; pertanto, non prevedendo lavorazioni o cure particolari come per l’allevamento caprino, anche la capanna era piccola e provvisoria. Nel cuile destinato principalmente all’allevamento di capre, la tecnica costruttiva era più accurata, le capanne più grandi e idonee per lavorarvi all’interno e dimorarvi anche con la famiglia. Dal 1960 in poi, con l’avvento di un diffuso benessere economico generale, i Supramontes cominciarono a spopolarsi. I giovani, attirati da ben più comode e remunerate occupazioni lavorative, rifiutavano di pren-

Talvolta il ritorno al paese avvenne a causa di eventi traumatici, incidenti e malattie, dovuti all’età avanzata. Nei cuiles tosto abbandonati, rimasero tutti i loro oggetti e gli attrezzi di lavoro: ancora nel 1980-85, era possibile trovare dei pinnettos con all’interno tutte le cose meticolosamente in ordine, come se il padrone non fosse mai andato via. La breve restante vita di molti vecchi pastori, si è consumata tra i non abituali ozi dell’ambiente paesano, vinti da una struggente nostalgia per la montagna, i loro animali e la sconfinata libertà di cui godevano. Un oblio colpevole ricopre questi uomini e le loro svettanti opere, ultimi eredi di una tradizione millenaria. I segni di un’antica civiltà del lavoro sono stati inesorabilmente sepolti e dimenticati da un frettoloso, inarrestabile e distratto progresso senz’anima e senza cultura.

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I GRANDI EVENTI IN SARDEGNA AUTUNNO IN BARBAGIA TI ACCOGLIE A BRACCIA APERTE

IL CUORE DELL’ISOLA DENTRO LE CORTES

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e Cortes barbaricine si sono aperte anche quest’anno ai turisti: è il sedicesimo autunno in cui la manifestazione “Cortes Apertas”, organizzata dall’Azienda speciale della Camera di Commercio di Nuoro con il supporto dell’Assessorato del Turismo, Artigianato e Commercio, percorre la Barbagia. «Un territorio sfiancato dalle ripetute crisi ma capace di affrontare con caparbietà le vicissitudini del periodo», come afferma l’assessore del Turismo Luigi Crisponi, «senza i grandi numeri dell’estate, ma con un’attività intelligente». Puntare quindi sulla cultura, l’arte, gli spettacoli e, soprattutto, sull’enogastronomia e il recupero delle tradizioni, per rivitalizzare i paesi dell’interno dell’iso-

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la, che hanno tanto da offrire: «una cosa su tutte», continua l’assessore Crisponi, «il cuore: questa manifestazione è un’iniezione di fiducia, un sostegno agli amministratori locali, anche a livello economico, da parte della Camera di Commercio e della Regione». La rassegna “Autunno in Barbagia” è nata quando la Camera di Commercio di Nuoro ha fatto propria l’idea lanciata dal Comune di Oliena, che aveva organizzato nel 1996 la prima edizione di Cortes Apertas nel proprio territorio, ed è ora una realtà importante per questi piccoli Comuni, ognuno con i suoi tesori valorizzati dall’unione sotto il marchio Barbagia che li identifica. Un successo testimoniato dall’aumento delle comunità entrate di anno in anno nel circuito.


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Luigi Crisponi, assessore regionale al Turismo e Vincenzo Cannas presidente di Aspen Camera Commercio Nuoro

In questa edizione i primi Comuni coinvolti, a settembre, sono stati Bitti, famoso per il canto a tenore e per la pecora bittese, Oliena, patria del Cannonau e del pane carasau, dove si è parlato e assaggiato l’olio di qualità. Poi Austis, ad ammirare le sculture create dalla natura con le rocce granitiche come Sa Crabarissa, e Dorgali, dove mani esperte di anziane signore preparano gli “anzelottos”, i famosi ravioli di ricotta o formaggio fresco; Orani, che ha dato i natali a Costantino Nivola e Salvatore Niffoi, dove i costumi della tradizione sembrano vere e proprie opere d’arte e Onanì, finestra sul passato grazie ai tanti nuraghi, tombe dei giganti e domus de janas che la circondano. Seguiranno a ottobre Tonara, ad assaporare il torrone

e osservare il lavoro dei mastri ferrai e degli artigiani dei tappeti, Lula, avvolta dalla natura incontaminata e perfetta culla faunistica; Meana Sardo, con il suo suggestivo centro storico di case costruite in pietra scistosa e decorate in stile aragonese, Gavoi, in cui è possibile degustare l’eccezionale connubio di “pane e fresa”e Fiore Sardo, Ollolai e la sua Punta Manna, chiamata “la finestra sulla Sardegna” per il suo panorama mozzafiato; Orgosolo, terra dei celeberrimi quanto tipici murales che abbelliscono e arricchiscono i muri delle case e Sorgono, le cui origini risalgono all’epoca prenuragica e che conserva il sito di “Biru’e Concas”, tra i più suggestivi raggruppamenti di menhir di tutta la Sardegna; Belvì, tra i boschi di ciliegi,

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Nicola Pibiri

Renato Brotzu

Nicola Pibiri


IL CUORE DELL’ISOLA DENTRO LE CORTES noccioli, noci, castagni, roveri, lecci e agrifogli e il Museo naturalistico, poi Aritzo dai panorami su vallate ricoperte da castagneti e noccioleti alternate alle ripide spaccature e gole create dai torrenti, e Sarule, dove è possibile ammirare “sa burra” il tappeto tradizionale che veniva dato in dote dalle donne al figlio primogenito. A novembre è il turno di Desulo, dove la bellezza della tradizione convive con le bellezze naturali della vallata coperta di boschi di lecci e castagni e ricca di sorgenti, Mamoiada, che oltre ai suoi famosi mamuthones vanta antiche specialità come il pane frattau e Ovodda, il paese dei centenari circondato da menhir e nuraghi; poi Lollove, villaggio immerso nel verde, tra ruscelli e montagne, incantato e sospeso nel tempo e Nuoro, cuore pulsante della Barbagia, dove il profumo delle sabadas ac-

Nocola Pibiri

compagna la sua storia lontana; ancora Tiana, con la sua affascinante necropoli di domus de janas, Olzai, in cui ammirare la lavorazione del pane e degustarne il sapore intenso, Atzara, a passeggiare tra le vie del borgo medievale con le tipiche case basse in granito dalle soffitte coperte con travi di quercia; inoltre Gadoni, famoso per le miniere di “Funtana Raminosa”, sfruttate già nel periodo nuragico per la produzione di rame e oggi parte del Parco Geominerario, Storico e Ambientale della Sardegna, e infine Teti, circondato di fitti boschi di lecci e sugherete secolari abitati da cervi, daini, cinghiali, volpi e lepri e numerosi siti archeologici di epoca prenuragica e nuragica. E per finire, a dicembre, Fonni, patria dei tipici quanto straordinari savoiardi e Orune, in cui è sempre più viva la tradizione del “Canto a tenore” o “Cuncordu”. Difficile, spiega il presidente dell’ASPEN Vincenzo Cannas, fare una stima delle presenze: siamo tra le 10 e le 15 mila persone, sulla base dei dati della scorsa edizione, in cui sono state 370 mila le visite al sito della manifestazione dove era possibile scaricare il programma. Altrettanto difficile dire se sia un turismo interno o straniero. «”Autunno in Barbagia” infatti», sottolinea Cannas,

«è un’occasione particolare: è uno stimolo all’attività imprenditoriale anche per chi non ha molto a che fare con turismo ed enogastronomia, ed è anche un’occasione per rivedere le cose come si facevano un tempo, soprattutto per chi è originario della Barbagia ma ha vissuto e vive fuori dal proprio paese». Insomma un momento particolare anche per i sardi che volessero scoprire, o riscoprire dopo tanto tempo, le loro antiche tradizioni. E per chi arrivasse in aereo è stato attivato l’“open voucher”, una promozione che prevede l’affitto della macchina e della camera d’albergo a prezzi scontati, oltre ai viaggi in pullman organizzati ogni anno da molti tour operator. La Barbagia, nella sua antica bellezza, si fa dunque di anno in anno sempre più vicina.


IN VIAGGIO DENTRO L’ISOLA CON I MEZZI PUBBLICI

IL CARO BENZINA NON FRENA IL GUSTO di Manuela Salidu

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i, viaggiare. Questo il pensiero principe di un’isola votata al turismo, pronta ad assecondare il viaggio di ricerca dei suoi visitatori. Ed è proprio attraverso la rete dei trasporti che la Sardegna mira oggi ad ampliare i suoi orizzonti. In una regione in continuo movimento come la nostra, da sempre confinata entro le sue coste, il trasporto pubblico assume una rilevanza strategica, sia per chi in Sardegna vive e lavora, sia per chi sbarca sulle nostre coste, desideroso di scoprire le zone ancora poco conosciute. La mobilità interna, gestita negli ultimi anni dall’ARST, ha rappresentato e rappresenta tuttora una valida alternativa agli spostamenti con mezzi propri. E sono tanti i turisti che scelgono di “esplorare” la nostra isola affidandosi al trasporto pubblico, dividendosi tra corse in autobus, treni e metropolitane di superficie. La fitta rete capillare di collegamenti, che interessa oggi 375 su 377 comuni sardi, ci permette di tracciare idealmente un percorso enogastronomico pressoché completo dell’identità isolana. Cagliari sarà la nostra base di partenza, con i profumi tipici del mare ad accompagnare il nostro viaggio. E le diramazioni sono davvero tante: dalla costa all’entroterra, dalla città alla campagna, ogni curiosità culinaria avrà l’occasione di essere sopita, mettendo d’accordo anche i più esigenti. Seguendo la litoranea che costeggia le meraviglie di Villasimius e Costa Rey, il nostro percorso fa scalo a Muravera, famosa e rinomata per i suoi agrumi, e si spinge poco oltre, fino a S. Vito, dove l’assaggio della tipica “Prazzira” quasi diventa un dovere. Ad attenderci più avanti è Jerzu, con i calici di Cannonau

sollevati in un brindisi di benvenuto. Ci addentriamo nel cuore dell’Ogliastra sulle rotaie del Trenino Verde, diventato ormai un’icona, dove i Culurgiones, le Panadas e le loro preparazioni diventano espressione territoriale, definendo con le loro piccole differenze l’identità dei paesi in cui primeggiano. Salumi e formaggi faranno da splendido contorno al nostro peregrinare, che ci conduce ora tra le frastagliate coste del Nord, insaporendo ogni nuova esplorazione. Carasau e Pistoccu saranno un ricordo quando il Torrone di Tonara avrà finito di sciogliersi nel palato, e già saremo pronti ad assaporare il dolce delle ciliegie di Aritzo, dando nuovamente credito all’affermazione che una tiri l’altra. Attraversando trasversalmente il territorio si arriva ad Oristano e Arborea; il pesce fresco della zona e l’ormai epica bottarga non faranno rimpiangere a nessuno il sapore della carne. Angurie, fragole e formaggi, tipiche realtà tradizionali del luogo, ci assisteranno nel ritorno; lungo lo sterminato tratto di costa sud occidentale sarà impossibile resistere al richiamo dell’isola di Carloforte, che come una sirena ci incanta con la sua peculiarità d’isola nell’isola e ci trascina ad assaporare i suoi tonni. I vini di Santadi e i dolci isolani chiuderanno un pasto lungo una vacanza, il cui ricordo rimarrà nel tempo. Ma è davvero possibile catturare l’essenza di un intero territorio semplicemente addentrandocisi? Questo è ciò che l’ARST si prefigge di fare, attraverso un continuo rinnovamento delle sue politiche di sviluppo. “Il nostro vero segreto è l’integrazione tra gomma, ferro e metropolitana – afferma il direttore generale dell’ARST Carlo Poledrini – I turisti che arrivano nell’isola con i voli low cost prendono l’autobus. Questa per noi può essere una scommessa in chiave turistica in coerenza con la nostra mission che punta alla continuità territoriale interna”. Non resta che fare le nostre puntate allora, comodamente seduti al nostro posto finestrino.

Il presidente dell’ARST Giovanni Caria e il Direttore generale Carlo Poledrini

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Tradizioni popolari

Su pane pro esser bonu bi queret s’ozu de pala

Iteprotriballu fragher su pane! di Tonino Bussu

Giuseppe Crobu

Su pane

u pane,ischimus totus ite cherer narrer,ma dae ube benit?Dae ite si faghet?Inube lu faghen? Chie lu faghet? Cantas zenias de pane bi sunu?Cantas variedades de pane bi sunu in cada bidda de Sardigna? A custas dimandas amus a rispondere pianu pianu,picandebos a sa manu e torrande in segus in s’istoria pro cumprendere ite cheriat narrer labore,tridicu,orzu in Sardigna pro sos sardos,sos fenicios, sos romanos e sos ateros populos chi an dominadu sa Sardigna in sos seculos passaos. Unu si dimandat: dae cando si faghet su pane in Sardigna? E gai torramus in segus in s’istoria e iscoberimus chi in sos terrinos de Mara,in provincia de Tatari, in d-una grutta,giamada “ Sa ucca de su tintirriolu”,a su tempus de su neoliticu,an agattadu sos cereales prus antigos de Sardigna. Ma logos inube fit ammuntonadu tridicu e orzu de su tempus de sos nuraghes nde ant agattadu in medas biddas sardas: in su nuraghe Nurdole de Orane e Genna Maria de Villanovaforru. Paret,si est beru su chi contan sos istoricos antigos,chi sos Fenicios sian bennidos in Sardigna mescamente pro ca abian intesu chi bi fit meda tridigu e orzu. Sos Grecos e sos Romanos naraban chi sa Sardigna fit ricca de cereales e Cicerone,chi fit pagu amigu de sos sardos, iscribiat chi sa Sardigna e sa Sicilia fin sos logos prus famados pro su tridigu e s’orzu pro s’istadu romanu. Su poeta Orazio iscribiat chi in sa Sardigna bi fin bonos labores,opimae Sardiniae segetes feracis. Ma non solu su labore in Sardigna fit meda,ma si che lu pigaban belle totu sos romanos, siat in bonas siat in malas ,ca lis bisonzabat pro fagher su pane in Roma e a sos esercitos. Una pessone chi si ch’at furadu su tridigu sardu fit su gubernadore Emiliu Scauro chi abiat pedidu pro tres bortas sighidas sas degumas de sos fruttos de sa terra. Pro cussu est istadu puru accusadu de crimen frumentarium e processadu in Roma. Ma si cumente s’abocadu de defesa fit Marco Tullio Cicerone,est istadu assoltu dae cada imputu,mentre sos sardos s’an pigadu sas ingiurgias de Cicerone chi los at definios latruncoli mastrucati. Difenentes iscritziones


Su pane testimonian chi in sa biddas o tzittades de sa costa bi fin magasinos pro sa regorta de su labore; binas calchi lumene de bidda benit dae custos magasinos chi in latinu fin giamados ‘cella’ e propriu dae custu lumene est naschida una bidda serente,a curtzu a Casteddu, chi si giamabat Cellarius e oje Selargius. In custa bidda bi fin sos magasinos mannos de su labore regortu dae su campidanu e partiat a pustis in nabe dae Casteddu car’a su portu de Ostia pro finire in Roma. Ma chi sa Sardigna esseret importante pro sa produzione de tridicu,orzu e ateros cereales si notat binas dae sos toponimos,dae sos numenes de logu, dae sa presenzia de lumenes cumente composto dae furru e orrea,cumente a pro narrer a Villanovaforru, o numenes de terrinos cumente a Orrocoghina o s’arzola uscrà , o lumenes de meses cumente a su mes’e Argiolas. Unu brunzittu nuragicu,agatadu in sa bidda ‘e Abini,in Teti, rappresentat una pessone chi presentat su pane a sa dibinidade.Custu pane est tundu,est pintadu cun rajos e custu cheret narrer chi finas dae tando su pane beniat pintadu pro una promissa,cumente capitat ancora oje pro certas festas. Puru sos brunzittos nuragicos nos chistionan de su pane. Ma bastat a bider sas pintaderas,chi sun marchios, timbros de linna o de brunzu chi serbian pro imbellire su pane e pro lu marchiare. Sas pintaderas pintaban su pane a chircos e non cumente in sos brunzittos a rajos e custu difenente modu de pintare non fit de badas,ma dipendiat dae un’atera cultura . Sa presenzia de su tridigu o orzu in s’antichidade est dimostrada finas dae sos furros e sas macinas chi impreaban pro pistare o mòlere sos cereales. Sos furros de su tempus de sos fenicios s’assimizan a sos chi bi sun oje in su nord Africa e in s’Oriente accante a nois e de custos si nde est agattadu in Tharros,a Nora,in su ‘e su Monte Sirai,a Neapolis e sun belle totus postos in d-unu tretu de sa domo riparadu e seguru. De solitu su furru fit postu accante a su molinu cumente si podet bider in Olbia in su cuzone de una fattoria romana giamada s’Imbalconadu inube an agattadu duos apposentos: unu pro su furru,bene pintadu e decoradu, s’ateru pro sa macina inube an atzappadu biculos de basaltu chi faghian parte de una mola manuaria pumicea. Su fattu chi si sian agattadas monedas de su tempus de sos fenicios cun ispigas testimonzat semper chi sa Sardigna dae s’anti-

ghidade fit cussiderada terra de tridigu e de orzu. E su tridigu fit gai diffusu in s’isola chi serbiat puru pro misura de su balore de sas ateras merces; medas ateros fruttos si comporaban pro trigu, canchi borta,conform’a su fruttu, a cambia a pare,diat essere una tantu ‘e tridigu e unu tantu ‘e casu pro narrer; sas jorronadas de sos triballadores si pagaban cun su tridigu,cumente su pastore pagabat su teracu cun su casu. Finas a pacu tempus faghet in medas biddas de Sardigna non si pagabat in dinare,ca non si nde cuberabat,ma in merce,tridigu,casu,orzu,p atata,petta e gai totu conforma a s’arte, a su triballu. Su tridigu e s’orzu si produian mescamente in campidanu e in sas ateras regiones de sa Sardigna in pianu. In sas partes de montagna e in sas terras de mesu bi fin pacos massajos e sos omines su prus fin pastores. E custa situazione fit galu gai puru a su tempus de Ospitone tra su seculu VI e VII d.C. Ospitone fit su re de sos barbaricinos, in cussu tempus fit in Barbagia s’unicu cumbertidu a su cristianesimu e su Papa Gregoriu Mannu l’at


Nicola Pibiri

Qui jurghet pani in saccu nè faddidu men maccu

iscrittu una litera narandeli de cumbincher sos barbaricinos a si cumbertere a su cristianesimu e a lassare sa religione antiga. Ospitone,chi abiat defesu sa libertade de sos barbaricinos dae sos bizantinos ,naran chi permettiat a su populu suo,populu de pastores, de andare a sos campidanos, a sas terras de josso pro si cuberare,furare, tridigu e orzu pro fagher su pane. E sos barbaricinos difatis faghian sas barbanas in sas biddas de bassura furande sos fruttos de sa terra a sos massajos. Duncas bi fit, e gai est abbarrada finas a tottu su medioevo, una Sardigna de pastores e una Sardigna de massajos. Ma su pane bi fit in totube o in bonas o in malas,siat chi l’esseren tentu ca triballaban sa terra,siat chi l’esseren iscambiadu cun ateros fruttos,comente su casu, sia chi l’esseren furadu. A su tempus de sos Giudicados in sa biddas bi fin sos tretos de terrinu dedicados a sas ortalissia o a labore e orzu, e fin su prus acurzu a sa bidda, e sos tretos dedicados a sa pastura pro su bestiamene,pro sas berbeghes o capras. Sos massajos a annos cambiaban terrinu e pigaban sa pastura

de sos pastores ca sa terra fit troppu isfruttada. Belle in cada bidda bi fit un’organitzazione chi si depiat produire de tottu, assimizante a s’economia curtense, e a pustis ,pianu a pianu, cada bidda s’est ispetzializada in certos prodottos difenentes dae sas ateras. Pro narrer chie produiat de prus labore e chie casu, chie faghiat teulas e chie tazeris e turuddas de linna,chie produiat binu e chie ozu e gai totu. Sicumente però medas bortas sas berbeghes si ch’intraban a su terrinu semenadu o a sa binza,e faghian dannu, an comintzadu a fagher lezes pro punire chie brincabat sas lacanas de sos ateros. E sa leze prus importante ,chi prebediat totu sos casos, fit sa Carta de Logu, publicada dae sa judicissa de Arborea Eleonora in su 1392, sa die ‘e Pasca Manna. In custa Carta bi sun totus sas regulas pro poder gubernare bene una soziedade de massajos e de pastores. Ma sa leze non bastabat e pro cussu sos massajos an costituidu una compagnia de caballeris armados pro defender sos campos semenados a labore e sas binzas. Custas compagnia si mutian, e si mutin galu oje, cumpagnias barracellares. Su barracellu fit una ispessia de polizia de campagna ,reberia e timia ca su chi detzidiat fit leze e beniat respettada. Ma un’atera timoria manna de sos massajos fit sas pestas de su tilipirche. Custu animaleddu,mancari minore, a annos arribabat a muntones, fit gai meda chi faghiat una nue chi iscurabat sa lughe de su sole e inube passabat non lassabat mancu una foza,ispiliat totu .De tridigu o orzu no nde lassabat mancu unu granu. Est una pesta, su tilipirche, che s’est connotta dae s’antighidade e est durada finas a su ‘45de su seculu passadu. Fit gai timia e nodia chi s’annu pigabat su nomene dae custu animaleddu e sa zente narabat s’annu ‘e su tilipirche, chi cheriat narrer annada mala, annada de pesta. Medas pessones anzianas ammentan sos annos de custas pestas,mestamente su ’45 e lu contan cumente unu dannu de cuddos chi si leghiat in sa Bibbia. Cando fit un isperdissiu,si perdiat totu. Su terrinu ‘e arare Su massaju arabat siat in su terrinu suo siat,pro sa paga, in su terrinu anzenu. Sos terrinos depian esser bonitos e belle in paris,non bi depiat esser troppu montes ca su jubu non che colabat e duncas non si podiat arare. In sas arturas difatis non s’arabat e non si ghettabat nen tridigu né orzu,ma si lassabat a pastura pro su bestiamene. Solu sas pessones poberas,chi non tenian terrinu bonu pro arare, dimandaban a sos meres si lis permettian de si lu poder ghettare(semenare) a tridigu o a orzu pro sa provvista de su pane. E sicumente non podian arare lu marrabat cun su marrone cun grandu iffortzu e pelea.


Cando custos terrinos los marraban goi si narabat a los nabronare e custos terrinos si naban nabrones. Gai binas chie non teniat terra si podiat fagher sa provvista de su tridigu o orzu pro su pane.

Dae s’aradu ‘e linna a su trattore

Dae meda,in s’antighidade,bi fit s’aradu de linna chi non podiat entrare meda in sa terra e duncas sos surcos fin bassos e su rendimentu pagu,mescamente in sos logos de terra sùttile. A pustis a su postu de su punzone de linna l’an postu de ferru e custu faghiat sos surcos pius profundos e rendian de prus,sos fruttos fin prus bundantes; ma finas a tando s’aradu fit meda semplice, sas manicas pro ispinghere e mantenner e su punzone pro arare. Una mezoria manna l’an fattu cando an battidu s’aradu cun sas arbadas de ferru e menzus ancora sas de attalzu.Gai su surcu fit abberu altu e camminabat menzus. Tiraban custos arados o jubos o cabaddos o molentes. Custa situazione est durada in sas biddas finas a sa metade de su seculu passadu circa, tando an comintzadu a battire sos trattores e s’agricoltura est cambiada meda,non bi fit paragone cun su tempus passadu. Su chi faghiat unu trattore non lu faghian 50 jubos. Dae tando sos cambiamentos fin mannos, a pagu a pagu sos massajos an lassadu sos jubos e sos carros e in cada bidda sun arribados sos trattores. Modos de narrer pro arare e aradu: Arare a sas primas abbas de Capodanni Est che arare in su mare Unu terrinu totu de arare Ses arande a punt’e ispada Arare totu sa die a sole artu No andes a arare in logu anzenu Sos boes fin arande e sas poleddas paschìan a fiancu issoro Chie arat irrocande messat precande Est issiu a arare a pane solu Aradore a contu propriu Aradore a zorronada Sun comintzande a issire a s’aradura Sas arbadas fin che isprigos lughentes Chie tenet ferru faghet arbada

Semenare

A pustis aradu su massaju semenabat su labore,lu teniat in d-una sacchetta,cun d-una manu lu pigabat a punzos e l’isparghiat in su terrinu aradu e narabat ‘Deo ti semeno e Deus ti prodighet’.Accabadu de semenare tando torrabat a colare cun su trazu attaccadu a sos jubos e cuguzabat su labore ghettadu o semenadu. Modos de narrer: Semenare a punzu Semenare a roccu Chie sementa ispinas incunzat crabos Chie semena boddit

Iserbare

In su mes’e martu o aprile su massaju mutiat sas feminas a sa zorronada pro iserbare su labore o s’orzu e custas totu sa die si la passaban moendeche sas erbas

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malas chi podian nocher a sa creschida ‘e su labore.

Messare

Cantu su labore fit mannu,cun s’ispiga piena, cun sos granos grussos,in color’e oro fit su tempus de messare. Su massaju s’appompiabat su labore mescamente in sos annos de bundassia, li piaghiat binas su colore,bellos cuddos campos de oro nettu moghidos a undas dae su bentu. Tando ,in Tribulas o su mes’e Argiolas, mutiat sos messadores, feminas o omines a sa zorronada e custos istaban tottu sa die,dae su manzanu a sero, e pro medas dies,semper messande cun sa farche. Sos messadores prendian sas ispigas e nde faghian unu mannugu e ses mannugos presos a pare faghian una maniga. E sas dies fin longas,ca semus in s’istadiale e su sole cochiat sas caras e sos bratzos de sa pessones chi si faghian nieddas. Difatis una poesia de sas partes de Nugoro narabat: Bella mia non b’andes a messare Ca su sole ti perdet sa bellesa Jughes sas tittas che una nugoresa E sa panza che unu cadinu Modos de narrer: Jucher sa falche in pes Ponner sa falche pro sa surbile Poi passat sa falche e che segat tottu Su massaju dat a sos messadores su battorunu A bonu messadore su tricu li frorit Su messadu est meda ma sos messadores sun pacos(Matteu)


Su pane Nè in triulas né in austu non s’affidaiat Cando si tenet su bentu est prezisu bentulare Pala pro bentulare Non tratto nen pala nen piccu Collire su dinare a palas Sa pala ojos in culu no nde jughet

Su carru

S’argiola e s’incunza

A pustis messadu su massaju colliat totus sos manigas de tridicu o orzu e cun su carru che los carrubabat a s’arzola chi fit posta semper in dunu ispuntone largu e pranu chi l’esseret toccadu sos bentos ca bisonzan pro ispazare. Faghiat unu muntone mannu e largu cun sas manigas, pigabat sos jubos, li sattaccabat una perda bona,sa perda ‘e tribulare o perd’e argiola, e los faghiat passare supra sas manigas pro las pistare in modu de che mogher sas restes dae s’ispiga e dae su granu. Tando, cando bi fit tottu bene pistadu,paris chi bi fit su bentu,si picabat sa pala de ispazare ,si bestiat a mesu e su massaju artziabat paza e granu e cando abbassabat sa paza andabat a una parte,mentres su granu a s’atera; gai si separabat su granu dae sa paza. Su granu,a pustis, beniat collidu in sos saccos e carrigadu a su carru e ghiradu a sa bidda. Sa paza inbezes beniat imballada e ghirada issa puru a sa bidda a carru e posta in sos pazarjos,ca bisonzabat in iberru pro dare a mandigare a sos boes e cabaddos. Su terrinu messadu beniat affittadu a sos pastores chi ghettaban sas berbeghes a istula puru in sos campidanos. Modos de narrer: Misèra s’argiola chi timet sa formiga Sas argiolas si triulan a una una Pagare sos males a s’incungia Chie non semenat non incunzat Cadaunu incunzat su chi semenatat Isposare a s’incunza Triulas est su mes’e argiolas

Su massaju si teniat sos jubos non podiat esser chene carru chi li bisonzabat pro totus sos triballos suos. Su carru fit su simbulu de su massaju e fit unu istrumentu meda balorosu siat ca costabat su dinare,siat ca fit meda necessariu. Sos carros in Sardigna si distinghian mescamente pro sa zenia de sas rodas ca podian esser o pienas o a rajos. In montagna de solitu fin a rajos,mentres in pianura fin su prus pienas. Est importante a ischire cumente fit fattu su carru, chi fit semper de linna. Chie faghiat carros si narabat su mastru ‘e carros e depiat esser meda capassu ca a lu fagher cheriat tempus meda e duncas costabat. Sas partes printzipales de su carru fin s’iscala e su lettu,sa forchidda,sas costanas ; pro jungher sos boes bi fit su jubale,semper de linna. Prus a dainnantis amus a chistionare prus a fundu de su carru. Cando su tridicu fit in sa domo sas massajas lu comintzaban a magonire: prima lu ponian in d-una canistedda larga e pianu a pianu lu prugaban de totu sas perdigheddas o cantos de linna chi podiat tenner, a pustis lu faghian in abba,diat essere a lu sapunare belle cun s’abba in mdu chi no esset tentu peruna brutesa e cantu che fi nettu e pulidu lu pigaban in sas corbes e lu juchian a su molinu pro lu molere. Su molinarju lu ghettabat a su mojolu e lu moliat siat chi esseret molinu a abba o a elettricu. Tando sa massaia si che picabat sa farina e ghirabat a sa domo pro la traballare e ammaniare su pane. Sa bona massaia ‘e domo depiat sestare bene cantu tridigu ponner pro sa cotta ‘e su pane, non si che podiat ponner tottu su tridigu ca depiat durare tottu s’annu; depiat pessare chi bi fit su pane de cada die,ma puru su ‘e sa festa. Tando depiat istare attenta a tottu sos tribaglios che depiat fagher pro ammaniare su pane: ammaniare bene su labore,prugandelu,faghendelu in abba,assuttandelu, depiat dare bene attentu in su mamentu de su molinzu,depiat impreare su sedattu addattu conforma a sas zenias de pane chi depiat preparare. Depiat ponner su tantu zustu de fremmentarju in sa madrìche pro podet pesare bene sa pasta,nen de prus nen de mancu( e custu l’abiat imparadu dae pitzinna minore aggiudande in sas cotta),de sale,de abba conform’a sa calidade de sa farina. Puru faghende sos cumassos depiat dare attenzione ,impastande,cariande,subighende, ammaniande sos coconeddos prima de los iffurrare pro cocher su pane. Puru su furru cheriat ammaniadu bene, su tantu ‘e

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Su pane linna zusta, pro lu inchender ,conforma puru a su tempus ca cambiabat si fit in iberru o in s’istadiale. Sa massaia dunjas istabat attenta a tottu ca su manizu suo fit dilicu e si su pane non bessiat bene sas curpas fin a issa. Si una pessone intrabat a sa domo de cocher depiat narrer : ‘Deus bos bardet’ e li depian responder: ‘Deus che bardet a tottus’. E pro non nocher a su pane ,lu depiat toccare,ca si timiat meda s’ogru malu. Ma como c’amus fattu tottu,depimus iffurrare,su pane si bestit a su furru cun sa palitta de cocher, in intro si pesat, si buffat,paret unu pallone, sa femina lu girat, cun sa palitta e a tempus zustu che lu tirat e lu pozat in sa mesa ‘e cocher inube bi sun sas ateras aggiudantes chi sighin a magonire su pane, a lu carasere e a pustis a che lu ponner in sas corbes pro lu collire.

Su chilibru

Modos de narrer Chilibrare:ponner a peleare,trattare male,tribulare sa zente St fattu in chilibru e sedattu- si narat pro una cosa fatta bene,perfetta; ghettare dae su saccu in su chilibru cando battin sos chilibros mi nde appo a comporare unos duos o tres che-i su chilibru ‘a s’abba su chilibru non istat appiccadu sette dies su chilibru bonu in artu s’appiccat Unu frastimu: Anco ti colen in chilibros!

Dae sa mola a su molinu ( a abba, a carburu e a elettricu) Est notu a totus chi puru in Sardigna sos populos antigos molian su tridigu e s’orzu cun sas perdas, una sutta pro ponner su labore e una supra pro lu pistare. Pian a pianu tando sun istadas fattas sas molas e in cada bidda estistian medas molas de perda pro molere.Chie si lu podat permittere teniat propriu sa domo de sa mola inube bi fit sa mola e su molente chi,presu cun duas istangas de linna, totu sa die girabat in tundu molende cada zenia de granu. Si una famiglia non teniat sa mola andabat a si moler su tridicu o orzu a pagamentu dae atere. Si cumente sa necessidade fit meda a pustis an imbentadu sos molinos a abba, molinos cun rodas a dentes chi zirabat un ingranagiu complicadu; custos molinos fin a abba,difatis s’agattan in sos ribos. Finas a su seculu passadu fin galu in funzione siat sas molas chi sos mulinos a abba. Mentre sas molas fin intro ‘e bidda,sos mulinos a abba fin in foras,in sos ribos, e sa zente depiat fagher chilometros e chilometros ,a pede o a cabaddu o a carru pro che jucher s’orzu o su tridigu a molere. E mulinos a bentu in Sardegna nde fit solu calicunu,ma propriu raru e no at duradu mancu meda. Solu in su seculu passadu sos mulinos an comintzadu a andare prima a carburu e tando a elettricu. Custas zenias de molinos ‘s’acattaban intro ‘e bidda e gai pro molere non bi fit prus su bisonzu de fagher chilometros. De solitu custos mulinos fin de pribados e chie cheriat moler su tridigu o s’orzu depiat pagare unu tantu;su prus is

pagabat in farina o tridigu e totu. Partes de sa mola: mola suberana: sa parte de supra, chi girat, su coperciu ‘e sa mola su mojolu,s’imbudu, sa perda ‘e mola, sa pala de sa roda de su molinu Modos de narrer pro sa mola: Sa mola pronta e su tridicu in Sèdilo Cun tres perdas de mola pro non ti nocher orassione Primavera zirabat attaccadu a sa mola Si fabeddas che ghettas mola e furru Custa est farina chi torrat a molere Moler in bòdiu nande meda e nande nudda Chie non mandicat tridicu,non molet

Dae su molinu a sa domo

Sa massaja,pro esseret bona femina ‘e domo,controllabat bene sa farina chi esseret molia cumente s’ispettat e chi non aer brutesa veruna. Ghirada chi ch’esseret a sa domo pigabat un isterju mannu e largu de iscraria,su dorja e supra de custa poniat su sedattu de sa zenia chi li bisonzabat pro simula grussa o fine. Cun su sedattu separabat sa simula dae su mussu; sa prima la poniat pro fagher su pane,s’ateru


non baliat e lillu ghettabat a sas puddas.

Su sedattu

Sedattos bi nde fit de medas zenias: sedattu a rete, de seda,de ghinistra; sedattu de lìmpia pro separare sa simula fine dae sa grussa. Modos de narrer pro su sedattu: s’and’e torra de su sedattu; sedattu meu sedattu su chi mi faches ti faco; no nch’amus a andare a su chelu ‘e su sedattu; su tzoccu ‘e su sedattu est s’allegria de sa domo; su sedattu nou appiccadu durat pagu pagu, su etzu durat chent’annos.

Sos furros

Su pane si cochiat,e si cochet ,in sos furros. Cada famiglia,cando si frabrigabat sa domo,in sa sa domeogu,si faghiat su furru chi podiat essere o totu in intro,in su cuzone, sa bucca serente a sa ziminera, o parte in intro e parte in foras,ma sa bucca depiat essere semper in intro,pro poder traballare e iffurrare. Su furru beniat fabricadu dae su mastru ‘e muru e fit de terra ‘e pipa,sos mattone puru fin de terra;fit de forma a chircu, e a cupola cumente sa parte alta de sa bucca de

pane suighelu bene et coghelu male dalu a su cane suighelu male e coghelu bene dalu a quie queres

su cristianu. Su mastru ‘e muru depiat esser meda capassu faghende su furru ca su chircu manu a manu chi su furru creschiat fit semper prus astrintu finas a lu crusare,tancare in altu cun d-una crai,sa crai de sa bobeda. Custu furru si faghiat sene armatura o impalcatura e in custu si notabat sa bravura de su muradore che ,a pustis posta sa crai in altu, si che podiat artziare a supra su furru e custu, si fit fattu bene, non irruibat. In sutta su pamentu ‘e su furru,pro lu rendere prus cajentosu e pro l’imbuddidare in presse, ponian roba ‘e ferru e l’isterrian a cantos de ferru,pinnas de boes,ferros de cabaddu e gai totu. Puru pro su furru bi bin modos antigos de narrer: Cochere in bucca ‘e furru est cosa mala Una bucca che unu furru Cust’istantzia est unu furru Sa janna ‘e su furru B’at unu furru cante unu nuraghe Chie non at bidu mai bene s’anta ‘e su furru s’adorat. Non b’at furru chi non rifìutat forcone.

Su pane

Su pane ch’est fattu,s’intendet su nuscu e est prontu pro lu mandigare. Ma ite pane est? Cantas zenias de pane si faghiat? Dimandas bellas,ma puru de meda impinnu, ca sas zenias de pane dipendian dae bidda a bidda e in cada bidda conform’a s’occasione si faghian panes difenentes. E gai bi fit su pane de cada die, su pane carasau, su pale longu de sos patores chi ponian in sa bertula e lu picaban a sartu,in campagna e durabat finas tres meses, su pistoccu,su coccoi, su civraxiu e medas ateras castas . Ma tando bi fit su pane pro sas festas( Pasca ‘e Nadale, Pasca Manna, Santu Jubanne), pro sos cojobios, sos battizos, su pane pro sos mortos( su mortu mortu,su pedicocone, su prigatoriu), su pane pro sa candelaria,chi sifaghiat su 31 ‘e Nadale,su cocone de animas,fattu pro promitta o impignu in zertas biddas e dadu a tottu sa zente. Medas sun puru sos modos de narrer,sos ditzos, de su pane: Bonu cumente su pane – lu naraban pro una pessone bona,sapia. Pane menzus de su ‘e tridigu – pro chie non s’accuntentabat mai. Pane e casu e binu a rasu S’est arricchidu chircande pane in terra anzèna Chie pane fuliat,pane chircat Chie at dentes no at pane, e chie at pane no at dentes Non tenet mancu pane Nessi pane tenimus Pro cada fizu unu pane Pasca martale annada ‘e pane A chie tenet pane,no li mancat cane.


CON QUELLA GOLOSA

DI MONICA BELLUCCI Prima di arrivare a Parma ha girato mezza Europa, ma non con la valigia del turista, bensì con “l’uniforme” del cuoco: Spagna, Grecia, Francia, Turchia, Russia, Svizzera, Brasile e i Balcani sono solo alcune mete di un pellegrinaggio che lo ha portato dietro ai fornelli della cucina dell’ex presidente della Macedonia, Boris Trajkovski.


CHEF SARDI NEL MONDO LUCA PUDDU, IL GIRAMONDO ORA SI È FERMATO A PARMA

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l viaggio di Luca Puddu, giovane chef, uno dei titolari del ristorante Sa Marjoga a Parma, parte dalla Sardegna, da Iglesias dove è nato 40 anni fa e dove, nonostante il curriculum da giramondo, torna per ispirarsi nelle sue creazioni in cucina. «I miei genitori volevano che facessi la scuola alberghiera», racconta, « ma per spirito di contraddizione mi sono iscritto a un istituto professionale, anche se la passione per la cucina ce l’avevo nel sangue». Forse è una questione di Dna, visto che il papà di Luca è originario dell’isola di San Pietro, la patria del tonno rosso. E infatti le sue specialità sono i piatti di pesce ed è stato fra i primi chef ad introdurre la cucina sottovuoto e l’affumicatura dello storione o della triglia e a servire il carpaccio di barracuda. Per i suoi piatti, nel 2003 ha anche inventato un forno grazie al quale affumica il pesce. La sua voglia di sperimentare va di pari passo con il desiderio di girare il mondo e imparare i segreti dell’arte dei fornelli. La prima vera esperienza oltre mare è il “Rugantino” vicino a Casalmaggiore dove rimane fino al 2000 prima di farsi le ossa nelle cucine di Mantova, Guastalla, Pomponesco, Reggio Emilia. Verso la fine del 2000 Luca ha l’occasione di andare a lavorare in Macedonia, dove incontra il presidente della Repubblica Trajkovski e diventa il suo chef personale. «Adorava gli scampi più delle aragoste, e in quel periodo ho anche conosciuto personaggi del calibro di Putin», ricorda. Poi vola a Parigi dove nel 2002 si occupa della consulenza del “Il Sardò”, di cui ben presto diventano clienti fissi Monica Bellucci, Vincent Cassel e Andrea Ferreol. A Parma ci si ferma per caso, in seguito ad un incidente d’auto, ma alla fine decide di rimanere: nel 2007 apre il “Pappa e Citti”, ma si accorge di aver bisogno di un locale più piccolo, con meno tavoli, per concentrarsi al massimo su una cucina detta da lui avanguardista. E così apre anche il “Sotto Sopra” e successivamente “Sa Marjoga”. Ogni piatto servito è cucinato sul momento con materie prime di qualità, per la maggior parte arrivate dalla Sardegna perché, spiega, «Dopo tutto le mie radici arrivano fino all’Isola di San Pietro». Cosa significa essere chef oggi in Italia? «Il mio lavoro è prima di tutto una passione. Ma è un settore difficile perché si fonda sempre più sul marketing e meno sulla professionalità. Ho girato abbastanza l’Europa

per poter dire che ci sono grandi esperienze di preparazione e professionalità, superiori all’Italia nonostante sia considerata la patria della gastronomia. Potrei fare un esempio: ci sono scuole italiane molto conosciute anche all’estero, in cui un corso base costa tantissimo e gli allievi passano giorni a pelare patate. Poi escono titolati senza sapere neanche le parti di un animale. Insomma è solo un sistema per guadagnare. Mi riferisco anche alla proliferazione dei programmi tv sulla cucina che sono semplicemente format che mettono in mostra giovani promesse, mentre “i grandi” non si mettono mai in discussione. La cucina in televisione è dappertutto, la ristorazione però non è fatta solo di cucina ma anche di sala. Non c’è più la cultura del ristorante ed è ormai difficile in Italia trovare la “brigata”, ossia il gruppo che forma la cucina, composto di tante figure diverse e importanti. Ormai si parla solo di chef: “chef” significa maestro e molte persone si fregiano di un titolo che non gli compete. Nel 2005 ho rinunciato a partecipare a uno di questi programmi perché la personalità non si dimostra in tv, io cerco di dimostrarla con la professionalità, soprattutto in un momento in cui la cucina è diventata una moda, ed è pure curata male». Ha compiuto anche altre scelte particolari, per esempio quella di aprire ristoranti di dimensione ridotta, mentre normalmente si pensa al successo come a un ampliamento delle attività. «La riduzione è proporzionale alla qualità. Ridurre le dimensioni significa avere meno dipendenti da seguire e assicurare il passaggio di ogni piatto tra le mie mani. Questa è la sicurezza della qualità dei miei piatti, dalla materia prima al prodotto finito: assicurare che lo stesso piatto tra dieci anni sia perfettamente identico a quello di oggi. È un mondo in cui non ci si può permettere di sbagliare». Una qualità che si esprime nella cucina tradizionale tanto quanto in quella d’avanguardia. «Con cucina tradizionale intendo proporre ricette antiche non alterate, cioè riprodotte con le materie prime tipiche di quei piatti. La cucina avanguardista e invece quella modificata, sottovuoto o molecolare, ed è un’attività molto completa. In Italia purtroppo c’è poca cultura sulla cucina scientifica, non si sa per esempio che molte materie prime della cucina molecolare si trovano anche nella grande distribuzione, lecitina di soia, azoto

liquido, ecc. Nei prodotti liofilizzati ci sono ingredienti che fanno parte della cucina molecolare. È una continua evoluzione: l’azoto liquido che fino a vent’anni fa veniva considerato pericoloso, adesso viene normalmente usato per la surgelazione degli scampi e di altri prodotti. Il vantaggio di questa tecnica è che elimina la “grassatura”, il ghiaccio, e blocca subito gli agenti batterici. Sono tecniche contestate spesso da coloro che non sono preparati e che non hanno il coraggio di evolversi». Parliamo dei due anni in Macedonia in qualità di chef personale del Presidente della Repubblica. Che differenza c’è tra il lavoro di chef in un ristorante e quello di chef personale di una figura così importante? «La mia esperienza in Macedonia è stata bellissima: ero già abbastanza maturo da avere la consapevolezza della situazione dei danni della guerra civile. Il Presidente Trajkovski era una persona di una rara semplicità ed è stato un piacere rapportarsi con lui. Dal punto di vista professionale essere chef personale lascia poco spazio per vedere il mondo perché ci si concentra ovviamente sulla soddisfazione di quel personaggio: sapevo quali erano i piatti che amava e mi concentravo per fare qualcosa di più per lui. È stato davvero professionalmente stimolante. Il luogo poi era davvero fantastico, su un lago» Ha cucinato anche per altri personaggi, Putin per esempio, e poi a Parigi per Monica Bellucci, Vincent Cassel, Andrea Ferreol... «In effetti lavoravo nell’equivalente della “Casa Bianca”, quindi sono state tante le personalità che ho incontrato. Putin è una persona molto fredda e silenziosa. Non l’ho mai visto ridere e sorrideva persino poco. Mi ha dato l’impressione di un uomo diffidente. Sono stato molto legato invece ad Andrea Ferreol, che ho conosciuto attraverso mio cugino. Poi Bernardo Bertolucci, Monica Bellucci, molto più bella dal vivo, silenziosa e affascinante, Vincent Cassel, chiacchierone... sono persone più alla mano di quanto immaginiamo. Ma l’incontro più bello a livello umano è stato quello con Giovanni Parisi, una persona sincera, controcorrente, che mi chiamava al telefono per avvisarmi: “Luca preparami la catalana, tra due ore sono da te”. Lo ricordo con grande affetto».

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Le ricette di Sardegnatavola di Michele Farru

Ingredienti per 4 persone

Preparazione:

2 Kg di granseole femmine 3 spicchi d’aglio 1 limone 500 g di pomodori san marzano 1 rametto di timo fresco 1 dl di vernaccia peperoncino q.b sale e olio extravergine d’oliva gr 150 pasta filindeu

In un tegame capiente fate dorare due spicchi d’aglio nell’olio, poi aggiungete la polpa di pomodoro san marzano, e condite con il sale e il peperoncino. Girate e fate cuocere per 5 minuti; aggiungere l’acqua e far cuocere per 5 minuti. Staccare le gambe e aprire alle granseole e farle cuocere per 3 minuti, infine i carapaci per 10/12 minuti. Scolare questi ultimi e privarli di una parte del corallo e della polpa raschiando anche le parti molli, rimettere in cottura per 20 minuti ancora. Sminuzzare la polpa e il corallo, le parti

molli e mescolare il tutto con il timo, l’aglio e la scorza di limone aggiustare di sale e pepe formando delle piccole morbidelle. Alla fine della cottura del brodo aggiungere la vernaccia e pressare i carapaci di granseola, filtrare aggiustando di gusto e di peperoncino. Rimettere a bollire e spezzare una lastra di pasta filindeu e farla cuocere per 5 minuti, alla fine aggiungere le morbidelle di corallo e polpa di granseola preparato in precedenza. Finire con rametto di timo e olio extravergine d’oliva.

SUA MAESTÀ “IL BRODETTO” 44


zuppa di pesce tradizionale

Ingredienti: 1 Kg di pesce misto: scorfano, grongo, pesce prete, tracina, calamari e seppie teneri, gamberi 500 g di cozze 3 spicchi d’aglio 500 g di polpa di pomodoro 1 ciuffo di prezzemolo 2 foglie di basilico peperoncino q.b sale e olio extravergine d’oliva Preparazione: Pulite tutti i pesci squamandoli, tagliando le pinne, levando le interiora. Apriteli e separateli dalla testa e dalla lisca. In poca acqua fate cuocere le teste e le lische per crearvi un brodetto che poi aggiungerete al resto della zuppa. Pulite bene le cozze, fatele cuocere in una padella con un po’ d’olio e uno spicchio d’aglio fino a quando saranno aperte; togliete l’aglio. Pulite e tagliate a rotelle le seppie e i cala-

mari, e lavate bene i gamberi. In un tegame capiente fate dorare due spicchi d’aglio nell’olio, poi aggiungete la polpa di pomodoro, il prezzemolo tritato fino, e condite con il sale e il peperoncino. Girate e fate cuocere per 5 minuti; adesso aggiungete le seppie e i calamari e fateli cuocere per qualche minuto prima di aggiungere i pesci più teneri. Aggiungete il brodetto di pesce che avete tenuto da parte ma prima passatelo al setaccio per eliminare eventuali spine. Girate con attenzione per non sfasciare i pesci e fate cuocere per circa 15 minuti. Prima di finire la cottura, aggiungete una parte delle cozze insieme al sugo di cottura. Lasciate da parte il resto dei molluschi per dividerli nei vari piatti in un secondo momento. Nel frattempo, preparate del pane fatto in casa tagliatelo a fette e fatelo tipo bruschetta in forno; o se siete in campagna sulla griglia del barbecue se a voi piace potete passarle anche con uno spicchio d’aglio. Mettete delle fette di pane in ogni piatto

(fondo), dividete i vari pesci e appoggiateli sul pane, aggiungete le cozze e le vongole che avete tenuto da parte e versateci il brodo di cottura caldo.

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ogo, un non mercato appunto, dove attori diversi dalle imprese commern potere d’acquisto. Qui entrano in persone bisognose da queste assise. Il libro del cibo solidale. Trasforinute Market: Food & Book, Edizioni

minuto, che non prevede quindi stoccaggio e giacenza di prodotti e ne riduce al massimo i successivi sprechi e costi. Nei moduli applicativi finora attuati di Last Minute Market Food non viene esclusa nessuna tipologia di attività commerciale, dalla grande struttura distributiva (ipermercato) al piccolo negozio di alimentari di vicinato per arrivare alla mensa industriale.

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Il terzo settore e enti di carità) riceve prodotti gratuiti e di Rete(associazioni regionale delle economie solidali qualità e può così ridurre i costi di gestione e liberare maggiori risorse da contro gli disprechi alimentari reinvestire in qualità e quantità servizi offerti ai propri assistiti.

Rete regionale delle economie solidali contro gli sprechi alimentari I cittadini hanno una migliore qualità di vita vivendo in un ambiente con meno rifiuti e più solidarietà.

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attare i nostri uffici:

Le imprese possono gestire i prodotti invenduti in maniera innovativa e attivare un’azione concreta di Responsabilità Sociale di Impresa, oltre a risparmiare sui costi di smaltimento.

070 606 7968

Il Mondo ringrazia.

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Cos’è Alimentis Il progetto Alimentis, promosso nel 2004 dall’Agenzia regionale per il lavoro attraverso una sperimentazione del modello “Last Minute Market” nell’area vasta di Cagliari, consolida la propria attività attraverso la costruzione di altri rapporti donatore/beneficiario per la donazione di alimenti invenduti ma ancora salubri ai fini solidali da parte di soggetti operanti in altre aree della Sardegna, con la specifica finalità di costruire una vera e propria “rete regionale delle economie solidali contro gli sprechi”. Il modello LMM può essere esteso ad altri ambiti di intervento oltre a quello food (farmaci, libri e raccolta diretta di prodotti agricoli). Fasi e obiettivi Il progetto è diviso in differenti fasi che partono dal potenziamento nell’area in cui il modello è stato sperimentato, attraverso la stabilizzazione o la formalizzazione dei rapporti in essere tra donatore e beneficiario e arrivano all’attivazione della rete su scala regionale: 1. Potenziamento del modello nell’area vasta di Cagliari; 2. Identificazione delle aree territoriali nel cui ambito attuare il modello “Alimentis” già sperimentato nell’area vasta di Cagliari; 3. Identificazione e contatto dei soggetti potenzialmente interessati all’attuazione del modello “Alimentis” nei territori identificati come oggetto degli interventi; 4. Attivazione delle esperienze “Alimentis” territoriali; 5. Coordinamento operativo delle esperienze territoriali in funzione della costituzione della rete regionale prevista dal progetto Alimentis;

6. Diffusione nei punti della rete, costituita nel tempo, di un’ omogenea metodologia di rilevazione dei dati finalizzati all’operatività dell’Osservatorio regionale delle povertà, previsto dalla L.R. 23/2005; Gli obiettivi specifici del progetto sono: - la diffusione su tutto il territorio regionale del modello già sperimentato nel precedente progetto Alimentis; - la promozione, a livello regionale, di una rete che, utilizzando il modello Alimentis”, favorisca il raccordo tra tutti i soggetti impegnati nella donazione, nella raccolta e nel riutilizzo a fini solidali dei prodotti invenduti; - il supporto all’Osservatorio regionale delle povertà, attraverso la raccolta dei dati forniti dalla rete, nelle sue attività istituzionali. La “Rete regionale delle economie solidali contro gli sprechi”, attraverso il raccordo tra tutti gli attori indispensabili per l’attuazione, l’espansione e il consolidamento del modello su tutta l’area regionale, darà continuità e sostenibilità all’intervento sperimentale proposto dal progetto Alimentis. Invendibile ma buono Trasformare lo spreco in risorsa: questo è l’obiettivo del modello Last Minute Market (il “mercato dell’ultimo minuto”). Un mercato dove per favorire gli indigenti, gli ultimi, non bisogna sprecare neppure un minuto e neanche un prodotto. Il terreno privilegiato per la sperimentazione di questo nuovo mercato è quello della gestione dell’invenduto alimentare. Nasce così il Last Minute Market Food: “(...) i surplus, che hanno perso il loro valore


commerciale, vengono donati a chi è in deficit. Questi beni, pur avendo perso il valore di scambio, mantengono il valore d’uso, ma non solo. Grazie al dono ed alla solidarietà, questo scambio amplia le relazioni sociali ed estende la nozione di valorizzazione perché deve avvenire in un luogo, un non mercato appunto, dove possono entrare a pieno titolo anche attori diversi dalle imprese commerciali (for profit) e dai consumatori con potere d’acquisto. Qui entrano in scena le organizzazioni no profit e le persone bisognose da queste assistite”.

Un aiuto concreto I beni recuperati creano una risorsa sul territorio di valore estremamente superiore ai costi necessari per individuarla e renderla accessibile per le associazioni caritative. Il modello è stato sostenuto normativamente con la Legge n. 155 del 25 giugno 2003, la cosiddetta “legge del buon samaritano”. Così come vengono coinvolti tutti gli enti caritativi e le associazioni, in grado di esercitare una domanda di prodotti invenduti, come quelle che assistono indigenti e quelle che si occupano del mantenimento degli animali abbandonati. I progetti Last Minute Market Food sono stati finora attivati, oltre che in Sardegna, in Piemonte, Emilia Romagna, Liguria, Veneto, Sicilia, Lombardia, Toscana e Marche.

La “Rete regionale delle economie solidali contro gli sprechi”, attraverso il raccordo tra tutti gli attori indispensabili per l’attuazione, l’espansione e il consolidamento del modello su tutta l’area regionale, darà continuità e sostenibilità all’intervento sperimentale proposto dal progetto Alimentis. - la diffusione su tutto il territorio regionale del modello già sperimentato nel precedente progetto Alimentis; - la promozione, a livello regionale, di una rete che, utilizzando il modello Alimentis”, favorisca il raccordo tra tutti i soggetti impegnati nella donazione, nella raccolta e nel riutilizzo a fini solidali dei prodotti invenduti; - il supporto all’Osservatorio regionale delle povertà, attraverso la raccolta dei dati forniti dalla rete, nelle sue attività istituzionali.

Gli obiettivi specifici del progetto sono:

da Andrea Segrè, Lo spreco utile. Il libro del cibo solidale. Trasformare lo spreco in risorsa con i Last Minute Market: Food & Book, Edizioni Pendragon, Bologna, 2004, pp.19-20

1. Potenziamento del modello nell’area vasta di Cagliari 2. Identificazione delle aree territoriali nel cui ambito attuare il modello “Alimentis” già sperimentato nell’area vasta di Cagliari; 3. Identificazione e contatto dei soggetti potenzialmente interessati all’attuazione del modello “Alimentis” nei territori identificati come oggetto degli interventi; 4. Attivazione delle esperienze “Alimentis” territoriali; 5. Coordinamento operativo delle esperienze territoriali in funzione della costituzione della rete regionale prevista dal progetto Alimentis; 6. Diffusione nei punti della rete, costituita nel tempo, di un’ omogenea metodologia di rilevazione dei dati finalizzati all’operatività dell’Osservatorio regionale delle povertà, previsto dalla L.R. 23/2005;

Da spreco a risorsa Il modello Last Minute Market Food è una metodologia studiata e collaudata dall’Università di Bologna, Dipartimento di economia e ingegneria agrarie, che, attraverso il suo Spin-Off, Last Minute Market srl, è in grado di fornire tutte le competenze necessarie all’attivazione e gestione di progetti di recupero dell’invenduto. Il metodo consiste nella possibilità di recuperare e ridistribuire in loco i beni alimentari rimasti invenduti per le ragioni più varie, ma ancora perfettamente salubri, alle associazioni di assistenza che gestiscono mense per indigenti e a quelle che gestiscono l’assistenza agli animali d’affezione.

Vantaggi per tutti Le imprese possono gestire i prodotti invenduti in maniera innovativa e attivare un’azione concreta di Responsabilità Sociale di Impresa, oltre a risparmiare sui costi di smaltimento. Le Istituzioni vedono diminuire il flusso di rifiuti da gestire e ottengono maggiori risorse per l’assistenza alle fasce più deboli della popolazione.

Il progetto è diviso in differenti fasi che partono dal potenziamento nell’area in cui il modello è stato sperimentato, attraverso la stabilizzazione o la formalizzazione dei rapporti in essere tra donatore e beneficiario e arrivano all’attivazione della rete su scala regionale:

Il terzo settore (associazioni e enti di carità) riceve prodotti gratuiti e di qualità e può così ridurre i costi di gestione e liberare maggiori risorse da reinvestire in qualità e quantità di servizi offerti ai propri assistiti.

Fasi e obiettivi

Caritas San Saturnino Fondazione Onlus

La differenza con gli altri modelli già in uso è I cittadini hanno una migliore qualità di vita il concetto di spesa dell’ultimo minuto, che non vivendo in un ambiente con meno rifiuti e più prevede quindi stoccaggio e giacenza di prodotsolidarietà. ti e ne riduce al massimo i successivi sprechi e Rete regionale delle economie solidali costi. contro gli sprechi alimentari Nei moduli applicativi finora attuati di Last Minute Market Food non viene esclusa nessuna tipologia di attività commerciale, dalla grande struttura distributiva (ipermercato) al piccolo negozio di alimentari di vicinato per arrivare alla mensa industriale.

bo.it

Per aderire al progetto come donatore o beneficiario basta contattare i nostri uffici:


TRA PASSIONE E RISPARMIO

L’ORTO di casa

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econdo la Società di studi economici Nomisma sono più di 18 milioni gli italiani che coltivano per passione un piccolo appezzamento di terra, a volte in terrazzo o in balcone. Un hobby per allontanarsi qualche ora dallo stress quotidiano, un modo per fare esercizio fisico, ma anche un’integrazione importante alla voce vitto domestico, soprattutto in tempo di crisi. Ma coltivare un piccolo orto favorisce anche il benessere alimentare e le sane abitudini di vita. Lo rivela uno studio condotto dalla Texas A&M University, che ha coinvolto 261 persone dai 50 anni in su: chi si dedica all’orticoltura consuma più verdura. Per quanto riguarda invece i più giovani, alcuni esperti della University of Texas School of Public Healt di Austin hanno messo a confronto i punteggi ottenuti sul consumo di frutta e verdura degli studenti che hanno partecipato a due o più iniziative di un intervento educativo concentrato sull’orto e i suoi prodotti e di quelli che hanno partecipato a meno di due: gli studenti che hanno partecipato attivamente a due o più interventi sono risultati più inclini al consumo di frutta e verdura e meno a quello di cibi poco salutari, rispetto ai loro colleghi meno interessati alle iniziative.

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Insomma chi studia o si applica nella coltivazione dell’orto impara anche a mangiare sano. È per questo che, per esempio, Whirlpool EMEA ha organizzato il corso “L’Orto in Casa alla portata di tutti - dal principiante al pollice verde, dal giardino al balcone”, all’interno delle iniziative Health Works, il programma per la salute e il benessere dei dipendenti, che nei mesi scorsi si è occupata di cultura del cibo, stress ed educazione alimentare. Il corso sarà tenuto da Giacomo Brusa, titolare dell’Agricola del lago, di Varese e ideatore della Green Academy, dove si insegnano, anche on line, materie come irrigazione, giardinaggio, piante e decor. Si affronteranno aspetti teorici e pratici di facile applicazione per la scelta del terreno, degli attrezzi di lavoro, dei concimi, per la creazione vera e propria di un orto amatoriale, la sua manutenzione, infine per la raccolta e la conservazione degli ortaggi. Ma perché un’azienda come la Whirlpool investe nella formazione dei dipendenti sulla coltivazione ortofrutticola casalinga? «Questa iniziativa ha un forte legame con la nostra politica aziendale», spiega Giuseppe Geneletti, director corporate communications and learning & development di Whirlpool EMEA, «L’utilizzo dei migliori elettrodomestici per la cottura e la conservazio-

ne delle proprietà nutritive e organolettiche dei cibi avrà tanto più senso quanto migliore sarà la qualità della materia prima, quindi se le verdure verranno dal nostro orto. In questo senso l’orto in casa non è che il primo anello della catena». Infatti a breve, dall’accordo dell’azienda con il Politecnico di Milano, nascerà un Food District che realizzerà un’importante sinergia fra l’eccellenza industriale della multinazionale leader mondiale negli elettrodomestici e la competenza scientifica di uno dei più prestigiosi atenei italiani. Dunque la tendenza verso il biologico è sempre più forte. L’Italia risulta attualmente al sesto posto nel mondo per consumi bio, dopo Usa, Germania, Francia, Regno Unito e Canada. I prodotti biologici si trovano tra gli scaffali di tutte le catene della grande distribuzione, senza contare gli oltre 1300 punti vendita specializzati che rappresentano da soli il 45 % del mercato italiano. E in Sardegna come ce la caviamo? L’isola è tra i primi produttori biologici e tra i più grandi consumatori: 1985 aziende che producono un valore di 90 milioni di euro. Un anno fa è nato il primo orto urbano dell’isola: si chiama “Orto di Emilio” ed è coltivato dai soci dell’associazione Terraterra, in collaborazione con il Comune di Settimo San Pietro che ha fornito i circa 1100 mq


mia la coltivazione secondo la Società di studi economici Nomisma sono più di 18 milioni gli italiani che coltivano per passione un piccolo appezzamento di terra, a volte in terrazzo o in balcone.

l’orto in casa secondo la Confederazione Italiana Agricoltori l’urban farming coinvolge ormai 4,5 milioni di appassionati, chi mosso da sensibilità ambientale, chi particolarmente attento al portafoglio in tempi in cui il risparmio non guasta.

di terreno. L’idea è nata con scopi educativi come la creazione di percorsi di inclusione sociale, ma anche “liberatori” dallo stress e dai problemi della vita quotidiana. Per non parlare dei vantaggi economici. Il funzionamento è semplice: gli associati pagano una quota, alla quale se ne aggiunge un’altra per avere il proprio spazio da coltivare, che equivale ad un lotto di 30 mq. Un’esperienza che sta aprendo la strada a progetti simili, per esempio quello dell’associazione MUSA (Monte Urpinu Salvaguardia Ambientale), che propone il recupero dell’area dell’excava di Monte Urpinu come “orto sociale di auto-produzione alimentare collettiva”. Il terreno è però sottoposto a vincolo ambientale e oggetto di un contenzioso tra il Comune di Cagliari e il proprietario, che lo ha già dato in gestione all’associazione. Ci sono comunque anche altre aree che potrebbero essere riqualificate in questo modo: il Comune ha approvato l’avvio della ricognizione delle aree e del progetto pilota, che permetterà di sperimentare in modo no profit l’idea degli orti urbani cagliaritani.


CIBO Ăˆ ARTE di Angelo Liberati




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