viamare numero 24

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Anno VI N. 24 2010 - Spedizione in Abb. Post. - 45% - Art. 2 comma 20/b legge 662/96 •

Mensile di portualità, spiagge, sport, trasporti, viaggi e cultura mediterranea

ESCLUSIVA

NUOVI PORTI NELL’ISOLA

Fotodi Paolo Curto

Sardegna estate tutto l’anno

€ 2,00

MAXI YACHT E TAVOLE A VELA

THE COAST OF SARDINIA

FUNTANAZZA E DINTORNI

N.24


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Giornale di bordo

Giorgio Ariu Direttore di Via Mare

A ROMA L’ISOLA DELLE ECCELLENZE

Quelli che il mare l’hanno attraversato tanti anni fa, magari con le carrette di Caronte Tirrenia e la valigia di cartone. Quelli che il mare lo ritrovano ogni estate per sgonfiare la nostalgia. Quelli che hanno fatto fortuna nell’accogliente Capitale: nella ristorazione domina la colonia dei sardi e il menù a base di pesce e l’insegna evocano ancora le nostre coste, il mare, i luoghi dell’infanzia. Quelli e gli altri venuti dall’isola per rappresentare tante eccellenze della nostra terra per una tre giorni a

Porta Piazza San Giovanni, nel cuore di Roma, abbracciati dall’universo di turisti, dai romani e dalla Arcibasilica più amata della Città Eterna. I giornalisti più popolari (Bianca Berlinguer, Mario Sechi, Pasquale Chessa, Tiziana Ribichesu, Giovanni Floris, Anna Piras, Jana Gagliardi, Sergio Frau, Giovanni Maria Bellu) hanno ricevuto il Premio L’isola che c’è con una prestigiosa e personalizzata scultura in trachite dello scultore Roberto Budroni di Castelsardo; Paola Saluzzi, meravigliosa creatura e sensibilissima conduttrice a Sky, ha ricevuto da Neria De Giovanni il Premio Alghero Donna (“questa collana di corallo la porterò sempre con me”);Grazia di Michele da “Amici” alla testimonianza assieme alla “Oriana Fallaci” Maria Rosaria Omaggio dello stilista emergente Roberto Stella di Sassari: una sfilata, la sua, in uno scenario incantevole come quello di piazza San Giovanni che ha creato emozioni su emozioni. Mille e uno gli attraversamenti de L’isola che c’è il format della Gia Comunicazione che ha promosso la Sardegna dalle eccellenze, dalle incomparabili coste alle struggenti suggestioni dell’interno con i profumi del mirto e del corbezzolo che hanno inebriato il Villaggio e la mitica Piazza San Giovanni grazie allo stand dell’Ente Foreste. Eppoi gli scenari della Provincia di Sassari, quelli di territori ricchi di cultura come Villasor, Samugheo, Assemini, Isili, Monastir, Castiadas, Tonara, Castelsardo. Un mare di emozioni, un evento storico sublimato dai canti sardi durante la messa delle 12,00 in una domenica che rimarrà

impressa nella memoria di una moltitudine di sardi stretti stretti assieme ai romani e ai turisti di tutto il mondo, che hanno sciolto lacrime e riserbo con un applauso liberatorio e di consenso quando sull’altare c’è stato il dono del Pecorino Romano “eccedente” prodotto dalla fatica dei pastori sardi per i più bisognosi del quartiere..

PESCATORI, SCULTORI E PASTORI INSIEME

Quella mattina d’agosto sotto un sole impietoso i pescatori correvano tra la stiva e i frigo fiorino per proteggere il pescato, dopo una notte al largo di Castelsardo. Non troppo distante uno scultore a modellare mare e sirene sulla trachite. Ancora genio, tenacia, cultura dei sacrifici. Pescatori e artisti vicini per accostare i mondi diversi della fatica. Roberto Budroni, lo scultore, non era mai uscito dalla bottega fronte mare e “quelli che comandano” continuavano a ripetere: “quando diventerai bravo e famoso, anche l’Amministrazione si avvicinerà alle tue opere”. Lo scultore ha sudato un mare di fatiche, ad agosto eppoi a settembre. Quella mattina la cultura degli incontri lo ha proiettato a Roma per le eccellenze de L’isola che c’è e la favola è diventata realtà: in Piazza San Giovanni le sue sculture, tutte diverse, dieci tutte mirabilmente a celebrare il mare, hanno premiato i dieci giornalisti sardi più popolari in Roma. Le sue sculture ora stanno sui tavoli delle direzioni RAI (Bianca Berlinguer), Il Tempo (Mario Sechi) e nelle redazioni delle testate più prestigiose.


PORTFOLIO


L’ISOLA OLTRE L’ESTATE - DI PAOLO CURTO


Investire sui porti: ecco la chiave per lo svilu Incontro di Giuseppe Zedda con Franco Meloni Servizio fotografico di Paolo Curto

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er chi è attento ai problemi dello sviluppo economico, e che quindi guarda con particolare attenzione ai settori ed ai comparti più dinamici ed in salute, non può esimersi dall’osservare quanto va registrandosi nelle attività turistiche, specie in quelle localizzate nello scacchiere geografico del mar Mediterraneo. Ed è poi proprio questo mare, da sempre punto centrale di raccordo fra le comunità di tre grandi continenti (Europa, Africa e Asia) ad avere assunto un ruolo centrale anche in quel particolare settore del movimento turistico legato alla nautica da diporto. Un settore, come dicono le statistiche, che gode buona salute e che va conquistando, anno dopo anno, nuovi appassionati cultori. E che per la Sardegna può e deve rappresentare un punto di forza per costruire un più completo sviluppo nel settore del turismo. Infatti, se si va in

barca navigando da Ovest ad Est, da Nord a Sud di questo mare, non si può non imbattersi nelle coste dell’isola di Sardegna che ne è, come scrivevano gli antichi cosmografi, il prezioso ombelico. E se è vero, come è vero, che “andar per mare” è divenuto un desiderio sempre più diffuso, è certamente importante dove trovar rifugio e ospitalità, per calare l’ancora e far sosta o trovare asilo sicuro. C’è dunque, ed è importante, nel parlare di turismo nautico, la verifica delle attrezzature di ricovero disponibili, siano essi dei veri porti o dei semplici punti di ormeggio. Ed è anche importante valutare che, a dar retta ai dati diffusi dall’Osservatorio nautico nazionale, nell’ultimo triennio c’è stato in Italia un incremento del 16,4 per cento, passando da 451 a 525 le infrastrutture portuali, assicurando una disponibilità complessiva di oltre 150 mila posti barca. Ed in questo trend di crescita è parsa in testa la Sicilia che ha raggiunto


santa teresa di gallura

luppo una crescita del 21,1 per cento, con 85 punti d’approdo, spiazzando la Sardegna rimasta a quota 75. Pare anche importante valutare l’entità del “parco nautico immatricolato” che ascenderebbe, nazionalmente, a circa 100 mila unità, il 16 per cento circa dell’intero parco ammontante ad oltre 600 mila unità. Può anche essere interessante rendersi conto di cosa rappresenta la sosta od il passaggio nei porti o nei punti d’ormeggio in tema di entrate (cioè, per dirla più semplicemente, a quanto ammonta la spesa giornaliera di un diportista stanziale o di uno in transito). Sempre quell’Osservatorio nel suo ultimo rapporto ha stimato che un diportista spende giornalmente (per ristorazione, shopping, intrattenimento e cultura) una cifra tra i 100 e i 170 euro e per ogni natante

TURISMO NAUTICO si spendono, sempre giornalmente, tra i 45 e i 70 euro. Se poi si tiene presente – come indica lo studio – che l’utilizzo della barca può essere compreso fra i 30 ed i 75 giorni all’anno e che per ogni natante, mediamente, vi sono tre persone, si ha davanti un movimento finanziario non certamente trascurabile, capace di alimentare positivamente l’economia dei porti interessati. Dentro questo scenario, certamente suggestivo ed importante, va posta la situazione della Sardegna. Che per la sua posizione geografica ha certamente un ruolo strategico nella valorizzazione del turismo nautico mediterraneo. Sarebbero infatti non meno di 50 mila le imbarcazioni, a motore ed a vela, che per quattro-cinque mesi all’anno incrociano in questo mare. “Catturare” una parte non marginale di questo traffico, dovrebbe o potrebbe essere uno degli obiettivi principali per l’offerta portuale sarda. D’altra parte il parco nautico totale dell’isola viene stimato attorno alle 30 mila unità (il 5 per cento circa del dato nazionale), mentre i natanti “immatricolati” (e, quindi, bisognosi di attrezzature portuali) dovrebbero essere non più di 7-8 mila, a cui va raffrontata la disponibilità totale di posti barca, nelle circa 30 “marine” (porti turistici attrezzati) oggi funzionanti, viene stimata in 16-18 mila (l’11,3 per cento del totale nazionale). Su questo fronte – il miglioramento ed il potenziamento dell’offerta sarda di portualità turistica – si è mosso il dottor Franco Meloni, Consigliere regionale dei Riformatori, che ha presentato il 3 febbraio scorso un’apposita proposta di legge (la n. 112 di questa XIV legislatura). Nello scorrere la relazione che accompagna la proposta traspare in bella evidenza quella che è la cultura manageriale del proponente, un medicomanager che ha fatto delle sue esperienze alla guida del più importante e prestigioso ospedale isolano un motivo di vanto per tutta la sanità sarda. Intenditore quindi, per pratica esercitata e per risultati conseguiti sul campo, di problemi gestionali, di proiezioni di crescita e di equilibri nelle esigenze finanziarie. È stato quindi facile conversare con lui, ponendolo proprio dinanzi alla prima domanda: è sicuro, onorevole, che investire sui porti turistici sia proprio la chiave per dare un forte sviluppo alla nostra economia turistica? La risposta è assai articolata, proprio perché parte da uno dei nodi principali dell’offerta turistica sarda, che è quella della sua eccessiva stagionalità. Per cui destagionalizzare l’offerta (scusando per il brutto neologismo) impone certamente che la si arricchisca e la si completi con nuove opzioni. Da questo presupposto nasce certamente – come precisa Meloni – l’esigenza di meglio integrare l’attuale offerta della portualità turistica con le azioni tendenti a far sì che gli attuali diportisti “di passo” (quelli che vengono in Sardegna con la barca nei due-tre mesi estivi) diventino “stanziali”, cioè che siano incentivati a tenere le loro barche nei nostri porti per tutto l’anno. Se oggi quest’offerta appare disorganica (ad esempio, nei 100 e passa chilometri di costa nord-orientale troviamo dieci marine, nei 300 e passa Km. Della costa centro-orientale ne troviamo solo tre. E in tutto il periplo costiero occidentale gli approdi attrezzati sono soltanto sei!), occorre far sì che essa venga migliorata e potenziata in un disegno organico ed integrato con l’offerta di terra. «Si dovrebbe ipotizzare – precisa meglio Meloni – un sistema portuale che consenta il periplo dell’isola, creando una serie di porti posti a distanza strategica in modo da poter essere raggiunti in non più di una giornata di navigazione». Vi è ancora l’esigenza, continua, «di dover dare organicità al porto, legandolo e collegandolo a strutture d’accoglienza e di ricettività che consentano al diportista di trovare a terra dei “servizi”». Questo approccio al problema, così intrigante, provoca certamente l’esi-

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genza di una successiva domanda: per questa prospettiva ritiene, domando a lei onorevole, in che modo l’offerta portuale attuale debba essere ampliata e integrata: innanzitutto nell’intento di meglio corrispondere a delle indicazioni geografiche preferenziali e, secondariamente, di impegnarsi per attrezzare con più completezza i “servizi” disponibili a terra? La risposta che ci fornisce Meloni è in linea con quel presupposto iniziale: che cioè investire nei porti turistici significa produrre sviluppo. E lo fa tracciandone il percorso. «Noi oggi abbiamo un’occupazione di posti barca che è molto interessante nella stagione estiva, mentre è deficitaria nei restanti lunghi mesi. Soffriamo nei porti lo stesso basso utilizzo degli hotel, e non è di certo un dato confortante. Dobbiamo quindi creare una “rete” portuale che promuova e faciliti l’acquisizione di diportisti “stanziali”, capaci di allungare la stagione». L’on. Meloni mette ben in chiaro quelle che sono gli obiettivi della sua proposta. Che tende al miglioramento delle attrezzature dei porti già esistenti e, contemporaneamente, a favorire la localizzazione di nuovi approdi che siano conseguenti a quel concetto di “rete” a cui si è fatto cenno. Si tratterà quindi di intervenire sui quanto già esistente, potenziandone attrezzature e servizi, e promuovendo la creazione di dieci nuovi porti, dislocati razionalmente nei chilometri di costa oggi privi di approdi. Questi nuovi porti – precisa Meloni ‹‹avranno la duplice funzione di contribuire a completare il sistema portuale nel rispetto dei criteri di efficienza nautica da un lato, e di favorire dei processi di riequilibrio territoriale dall’altro. In modo da poter intervenire positivamente per riequilibrare le capacità economiche dei diversi territori dell’isola›. L’obiettivo generale dovrà essere quello di portare ad almeno 25 mila posti barca l’offerta sarda e di offrire una copertura di approdi costieri che permetta con facilità il periplo dell’isola (e, contestualmente, che offra possibilità di rifugio e di sosta a quei natanti che navigano nel Mediterraneo da Ovest ad Est, o da Nord a Sud. Aggiunge ancora il proponente: ‹il risultato finale dovrà essere quello di metter su un sistema di portualità per la nautica da diporto costituito da almeno 66 impianti, tra pubblici e privati, con una distanza media l’uno dall’altro inferiore a 20 miglia e con un dimensionamento di ogni singolo porto adeguato a dei valori gestionali che possano garantire una redditività tale da non richiedere interventi pubblici di sostegno›. Ma c’è ancora una domanda in agenda che ci pare importante, anche per comprendere se, e come, queste prospettive

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possano essere realizzate. Ed è quindi questa la domanda: Lei onorevole ha indicato che questi interventi correttivi sull’esistente e di promozione per i nuovi investimenti avvengano soprattutto attraverso l’iniziativa privata. Ma come pensa di poter incentivare l’interesse di investitori che, per un cumulo di ragioni, hanno posto la Sardegna fuori dai loro interessi e dai loro programmi? Non vi è dubbio alcuno, infatti, come sia man mano calato l’interesse del capitale privato ad investire in Sardegna. Lo è stato nelle attività industriali e lo è tuttora in quelle legate al turismo: l’esempio che viene dai progetti da troppo tempo in un penoso stand-by sulla Costa Smeralda o sul compendio di Is Molas danno da pensare. Anche per i porti non si vorrebbe correre gli stessi tempi lunghi e defatiganti. ‹Nella proposta di legge – precisa ancora il dottor Meloni – sono

state individuate delle modalità atte a favorire la partecipazione di investitori privati in questa tipologia di investimenti. Esse sono state articolate in tre misure principali. Con la prima si prevede di mettere in campo una semplificazione dell’iter d’approvazione dei progetti, in modo da abbreviare e da rendere certi i tempi di rilascio delle licenze. Con una seconda si è ritenuto di concedere alle progettualità portuali dei vantaggi premiali con delle volumetrie commerciali e ricettive anche in deroga alle normative attualmente in essere. Ancora, come terza misura, si è ritenuto di dover mettere in campo delle incentivazioni finanziarie da parte della Regione, sia come contributo in conto capitale che sotto forma di abbattimento dei tassi bancari sui mutui. Nel disposto legislativo – aggiunge – viene indicato in un massimo di 270 giorni il tempo occorrente per il rilascio delle concessioni, oltre alla quantificazione delle volumetrie premiali che si indicano in 60 metricubi per posto barca›.


Non vi è dubbio alcuno che lo sviluppo del turismo nautico non possa che essere assai profittevole per il bilancio turistico della Sardegna. Non è quindi tassando i natanti, come in passato si era improvvidamente pensato, ma incentivando le attrezzature d’offerta che si può arrecare un evidente beneficio – in termini di entrate – al nostro bilancio regionale. Certo è che pensando ai volumi economici prodotti da quest’impostazione innovativa dell’offerta nautica del turismo sardo, i benefici per l’economia e per l’incremento del Pil regionale non saranno certamente pochi. C’è un dato che, conclusivamente, s’intende sottoporre all’attenzione del lettore e che si può ricavare dall’attenta analisi compiuta dal proponente: ogni posto barca che comporta un costo di realizzazione di circa 30 mila euro produce una ricaduta annuale sull’economia locale (per un’occupazione media di 190 giorni), come spesa in loco, assai interessante (circa 31-32 mila euro) ed un’occu-

giunge Meloni – che le entrate fiscali rivenienti alla Regione da questi investimenti si prevede siano ben superiori ai 45 milioni di agevolazioni qui concesse›. C’è infine una domanda finale per il proponente: per quanto previsto da questa legge chi pensa ne potrebbero essere i beneficiari? L’articolo 3 è sufficientemente esplicito. Meloni ce lo legge e qui lo trascriviamo: ai benefici previsti dalla presente legge concorrono (1) gli enti locali territoriali, altri enti pubblici e loro forme associative; (2) le società e consorzi a capitale misto e/o interamente pubblico e/o interamente privato; (3) le associazioni sportive regolarmente iscritte alla Federazione italiana motonautica e alla Federazione italiana vela; (4) le società di capitali. Ma c’è la volontà in Consiglio Regionale, e soprattutto nella maggioranza di governo, di portare al voto questa proposta? La

portocervo

cagliari

pazione di 1,2 unità: poter realizzare, quindi, dieci nuove “marine” per un totale di 4-5 mila posti barca significherebbe mettere in campo un investimento di 135-140 milioni di euro, determinare un’occupazione di circa 500 nuovi posti di lavoro e mettere in circolo annualmente, nelle economie locali, una spesa turistica pari a più o meno a 135 milioni di euro. C’è infine una domanda che s’intende porre al proponente: ma quali costi, come provvidenze agli investitori privati, dovrà sopportare la Regione Sardegna? E quali benefici ne potrà ricavare in tema di entrate fiscali? L’on. Meloni chiarisce subito i termini della sua proposta: ‹Secondo quanto da noi indicato il contributo regionale in conto capitale dovrà essere pari al 20 per cento del costo delle opere realizzate, presumibilmente ammontante per i dieci porti a circa 20 milioni di euro. Anche l’abbattimento dei tassi d’interesse sui mutui, eventualmente richiesti dall’investitore al sistema bancario, per un esborso totale, in 15 annualità, di circa 25 milioni di euro. Vi è da tener presente – ag-

domanda, in un certo senso impertinente, intende solleticare il gruppo politico dei Riformatori a mettere sul piatto della loro collaborazione alla Giunta Cappellacci l’impegno a metter mano ad un’azione legislativa che rilanci le capacità della Regione di proporre temi e azioni per lo sviluppo. Questa è la risposta che ci dà Franco Meloni: La competente commissione consiliare l’ha già in agenda e c’è da presumere che a breve se ne apra una discussione. Purtroppo, sono emerse in questi ultimi mesi molte emergenze che hanno sconvolto il calendario dei lavori consiliari. Dovrei però ritenere che ci sia, ad iniziare dall’attuale maggioranza, la volontà e l’interesse di intervenire in un settore che non può che essere strategico per lo sviluppo non solo turistico dell’isola. Noi anche con quest’intervista intendiamo sollecitare la Regione Sardegna perché affronti, con vera capacità d’indirizzo e di promozione, una questione che appare strategica per l’economia sarda del futuro prossimo venturo.

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Campionato Nazionale Testo di Carlo Cottafavi Foto di Barbara Michalak

FORM

ECCOLI

I CAMPIONI DELLA


IL MARE A TESTA IN GIÙ RMULA WINDSURF DAL SUPRAMONTE DI URZULEI A MALLORCA

M

arco Begalli, autentico dominatore delle competizioni italiane ed internazionali, ha conquistato il titolo europeo nella categoria formula svoltosi nel Golfo di Cagliari. Tante nazioni in gara, provenienti da tutto il mondo, protagoniste di una settimana di sport, mare, passione e... divertimento. Organizzato egregiamente dal Windsurfing Club Cagliari, dal 6 al 10 luglio è andato in scena il “Campionato Formula Windsurfing European Festival 2010”. Cinque giorni di emozioni in acqua e divertimento a terra, tra il campo di regata situato di fronte all’Ospedale Marino e la sede del Circolo a Marina Piccola. Diversi gli atleti provenienti da tutto il mondo, Brasile, Australia e Paesi dell’Est Europa su tutti, autori di grandi battaglie agonistiche. Il caldo torrido e il poco vento hanno in assoluto dominato la scena durante tutta la manifestazione, comunque svoltasi regolarmente lungo tutte le regate previste.

A TAVOLA A VELA


Campionato Nazionale

FORM

Marco Begalli (ITA 415), 44 primavere alle spalle, ha vinto la competizione mettendosi dietro atleti ben più giovani e con tanta fame di vittorie. Vittorie che Marco ha ottenuto in lungo e in largo nella sua carriera, ma che ancora oggi gli danno la spinta per continuare con forza e determinazione in tutto il mondo. E per noi sardi, anche l’orgoglio di ammirarlo con i colori del Windsurfing Club Cagliari indosso. Secondo tra gli italiani, e quarto assoluto, l’amico e personal trainer di Begalli, Giuseppe Pugliese (ITA 60), autore di una prova superlativa durante tutta la manifestazione, questa volta gratificante non solo per la vittoria del “suo” atleta ma anche dal punto di vista personale. Decimo un altro italiano esperto, Arcangelo Delogu che, all’età di 52 anni, è dotato di una tecnica eccellente che lo ha portato ad ottenere questo prestigiosissimo piazzamento. Festa finale con una regata notturna cui hanno preso parte i soci del Circolo e tutti gli atleti in gara: poco vento ma tanto, tantissimo divertimento.

ECCOLI

I CAMPIONI DELLA TAVOLA


RMULA WINDSURF

A A VELA


Un oceano di emozioni per esaltare le eccellenze dell’isola nella Capitale Eterna. Le coste della Provincia di Sassari, il mare di Castiadas, la storia delle ex miniere e il Parco Geominerario con Pan di Zucchero sul trono, i boschi con i profumi del mirto e del corbezzolo portati in piazza dall’Ente Foreste per inebriare migliaia di turisti di tutto il mondo e i romani calorosi come non mai per L’isola che c’è, il format più avvincente e articolato che rappresenta da anni le eccellenze della Sardegna a Roma e oltre. L’isola dal volto umano, quella della cultura del lavoro e della genialità è stata abbracciata nella Capitale con un successo senza precedenti: spettacoli culturali ed etnici : Fueddu e Gestu per il teatro sul palco; Etnias per la musica; le sfilate di moda di uno sorprendente Roberto Stella; gli abiti di Adelino Cabras; gli incontri culturali su


I MILLE ATTRAVERSAMENTI OLTRE IL MARE

L’ISOLA CHE C’È SEDUCE ROMA Fotoservizio di Simone Ariu


identità ed emigrazione; degustazione dei prodotti di nicchia eppoi i confronti, gli incontri con il mondo della solidarietà (la donazione del sangue con AVIS Roma e AVIS Cagliari assieme all’Assessorato alle Politiche Sociali). La messa cantata in sardo con il Coro Gavino Gabriel di Tempio nella Arcibasilica più amata da turisti e romani con il pensiero rivolto ai pastori sardi e ai poveri del quartiere di San Giovanni. La Sardegna dal volto umano che tanto può dare al mondo confrontandosi, ha riscosso consensi senza precedenti e finalmente, con i suoi mille attraversamenti culturali, ora è conosciuta oltre il mare, le incantevoli coste, per un’estate infinita.



maxi yacht

rolex cu IL VENTO E IL CIELO LIMPIDO DELLA COSTA SMERALDA

Testo e foto di Andrea Nissardi


up

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on poteva che chiudersi così la ventunesima edizione della Maxi Yacht Rolex Cup, la manifestazione annuale organizzata dallo Yacht Club Costa Smeralda in collaborazione con Rolex. Il vento tra i 15 e i 16 nodi e il cielo limpido hanno fatto da scenografia all’ultimo entusiasmante giorno di regate. E’ Ran il campione della prima edizione del Mini Maxi Rolex World Championship, mentre il vincitore 2010 per la divisione Supermaxi è Hetairos. Tra i J Boats Ranger chiude in vantaggio l’agguerrito testa a testa con Velsheda, mentre Esimit Europa 2 e Y3K trionfano rispettivamente nelle categorie Racing & Racing/Crusing e Wally. MINI MAXI. La prima regata a bastone, l’ottava della serie, ha visto trionfare Ran di Niklas Zennstrom, che ha tagliato il traguardo in testa a Bella Mente dell’americano Hap Fauth e Shockwave di Neville Crichton. Il team di Ran riesce a mantenere il primato anche nella seconda prova, dove avviene il sorpasso di Shockwave su Bella Mente, e la performance regala a Zennstrom la vittoria overall per la classe davanti al fortissimo Alegre, protagonista di questa edizione con ben 4 primi posti. Terzo posto per Shockwave. All’interno di questa categoria Aegir, dell’armatore inglese Brian Benjamin, è stato premiato come migliore tra le imbarcazioni Cruising. Per le altre divisioni il Comitato di Regata dello Yacht Club Costa Smeralda ha scelto un percorso costiero che dallo specchio di mare a largo di Porto Cervo prevede un passaggio tra Capo Ferro e l’Isola delle Bisce e giunge fino al Golfo delle Saline. Da qui la flotta ha effettuato una virata ed è risalita lungo Caprera fino all’isola dei Monaci, per poi iniziare un lungo tragitto in direzione di Mortoriotto. Lasciando Soffi a dritta i superyacht hanno veleggiato fino al Golfo del Pevero e terminato la regata davanti al Porto. SUPER MAXI. Gliss di Marco Vogele vince la regata davanti a Hetairos e Visione, lo scafo del tedesco Hasso Plattner, ma si deve accontentare del secondo posto overall dietro a Hetairos. Chiude il podio 2010 per la divisione Visione. RACING & RACING CRUISING. Highland Fling ottiene il miglior tempo corretto della regata davanti a Singularity e DSK Pioneer Investment, una sequenza che nel tabellone overall slitta di una posizione per far posto al primo classificato assoluto Esimit Europa 2, certo della vittoria overall. WALLY. Il miglior risultato in tempo corretto per questa categoria va a Y3K di Claus Peter Offen, alla cui spalle si sono piazzati Indio di Andrea Recordati e Magic Carpet 2 di Lindsay Owen Jones. Il podio della classe vede in testa Y3K, Magic Carpet 2 e Indio. Nel corso della premiazione in Piazza Azzurra i vincitori della Maxi Yacht Rolex Cup 2010 per ciascuna categoria sono stati premiati con un orologio Rolex. Oltre a Ran, campione del primo Mini Maxi Maxi Rolex World Championship, Indio e Alegre sono stati insigniti dell’IMA Championship per il circuito 2010. Il calendario sportivo dello Yacht Club Costa Smeralda è proseguito con la Rolex Swan Cup 2010, l’evento biennale tra i più attesi a Porto Cervo, che quest’anno include anche il Rolex Swan 45 World Championship.

Nella foto: Esimit è il Maxi sponsorizzato da Gaprom del magnate russo Non si chiama come il cacciatore del famoso fil di fantascienza ma la chigli di certe barche in particlri condizioni ricorda la combinazione mimetica di Predator. Una partenza dei maxi al largo di Porto Cervo sotto un cielo pittorescamente procelloso.


ciao ciao estate

il festival della di Francesco Fuggetta

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vela

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entotrenta imbarcazioni partecipanti, di cui cinquantacinque cabinati, per un totale di oltre quattrocentoventi concorrenti, fra i quali cinquanta bambini. Numeri così non si vedevano da anni: la classica veleggiata di fine estate, dopo un periodo di calo (l’anno scorso non si è disputata) è tornata ad essere un appuntamento fisso che riunisce tutti gli appassionati. Organizzata come sempre dallo Yacht Club Cagliari, la ventunesima edizione del Festival della Vela si è svolta lo scorso 12 settembre nel tratto di mare fra Cagliari e Quartu. Il vento è debole, ma sufficiente a percorrere le sei miglia dal porticciolo di Marina Piccola fino alla torre di Foxi e ritorno. A mezzogiorno “Sa Giustizia”, la storica barca del comitato, dà il segnale: la veleggiata può iniziare. Partenza spalle al vento, con i cabinati e gli Hobie Cat a fare da apripista, seguiti a distanza di cinque minuti da Optimist, Laser, 420 e 470, che hanno però affrontato un percorso più breve. Presenti sul campo di regata anche le canoe, compresi i modelli classe 2.4, per disabili. Una flotta estremamente variegata, che ha coinvolto velisti di tutte le età, dai ragazzini di dieci anni sui piccoli Optimist (2,35 metri) fino ai veterani su scafi da crociera lunghi 17 metri, come quello che ha ospitato il presidente dello Yacht Club Cagliari, Alberto Floris. In gara anche Marta Maggetti, a soli 14 anni campionessa del mondo di windsurf nella categoria Techno 293, e il vicecampione italiano Michele Cittadini. Una manifestazione non competitiva, ma affrontata con particolare entusiasmo dai ragazzini degli Optimist (tra i quali i padroni di casa, vicecampioni italiani a squadre), che prima della gara hanno lanciato gavettoni e uova contro gli scafi rivali: un rito goliardico che avveniva spesso nelle prime edizioni del Festival. Solo per questa categoria è stata stilata una classifica, che ha visto la vittoria di Elisabetta Fedele per i Cadetti ed Elena Puddu per gli Juniores. Come ogni anno, dopo la gara tutti i soci si sono dati appuntamento per la festa serale nella sede dello Yacht Club Cagliari, con malloreddus alla campidanese e grigliate di pesce. A seguire la consueta lotteria con i premi offerti dagli sponsor, balli e karaoke. E l’indomani, ancora ad allenarsi, perché la prossima gara è imminente: il Trofeo Regione Autonoma della Sardegna, tappa finale del circuito Audi Med Cup, in programma dal 20 al 25 settembre.


LunedĂŹ mattina

Un salto in palestra Riunione

In Sardegna vivi di piĂš.


Mensa di mezzogiorno

Ora di punta

Spettacolo di prima serata

w w w. s a rd e g n a t u r i s m o . i t


LA SPIAGGIA DEI CAGLIARITANI TEMPO FA

quelle indimenticabil Che il Poetto non sia più la splendida spiaggia di un tempo è ormai fuori discussione; ne abbiamo preso atto tutti, anche coloro che per anni si sono ostinati nel negare l’evidenza. La finissima sabbia bianca, a dune, di una volta ed i casotti di legna colorata sono un lontano ricordo che solo qualche ingiallita fotografia può riportare alla memoria dei cagliaritani di allora. Ma il ripascimento e l’eliminazione totale dei casotti hanno anche modificato di molto le abitudini dei bagnanti.

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È cambiato, in particolare, il loro vecchio rapporto con il Poetto. La presenza della sabbia bianca e dei casotti non solo conferivano alla spiaggia cagliaritana un aspetto di rara bellezza, ma costituivano un invito irresistibile a trascorrervi l’intera giornata. Oggi, invece, si va al mare, quasi di corsa,


bili gite al poetto con una sosta di appena qualche ora: si prende il sole, si fa il bagno, si mangia un panino e via, si rientra a casa con la propria utilitaria che ci attende rovente incolonnata nel vialone. Fino agli anni Sessanta del secolo scorso, andare al Poetto era una vera

e propria gita per tutta la famiglia che vi arrivava con il tram, carica di sporte, borse, borsoni, ombrelloni, seggiole, secchielli, palette, bottiglie e l’immancabile anguria. L’obiettivo era quello di passare una tranquilla giornata al mare e al sole per la gioia

di Giampaolo Lallai

di grandi e piccini. Le borse pesavano anche perché contenevano il pranzo, il più delle volte tutt’altro che frugale; un sacrificio che, perciò, valeva la pena accollarsi nell’interesse familiare comune. Allora non prevaleva la fretta che, al

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contrario, è una caratteristica sempre più costante dei giorni nostri. C’era tempo per tutto: per rilassarsi, per giocare, per tuffarsi, per fare lunghe nuotate, per prendere la tintarella, per chiacchierare con i vicini, per passeggiare, per amoreggiare, per fare scherzi, per cantare in compagnia, per mangiare a sazietà, per un pisolino e persino per una sbornia singola o collettiva che per qualcuno era quasi una consuetudine. In una divertente poesia, Femmus a su Poettu, Luigino Cocco (1910-1997), il poeta che forse più di tutti è riuscito a rappresentare la cagliaritanità, le macchiette e i personaggi più illustri, i comportamenti popolari più autentici, le immagini più colorate, descrive questo tempo in maniera circostanziata ed ironica. Leggiamoli insieme questi versi che ci parlano con nostalgia di una Cagliari semplice, ma molto vivace e briosa, che non c’è più. Una donna riferisce ad un’amica di una recente gita al Poetto assieme alla famiglia, conclusasi con s’ imbriaghera del marito Arricchettu. Seguiamo il suo racconto spontaneo e sincero. La giornata era iniziata in allegria, con su spassiu di tutti i componenti la famiglia corcaus in s’arena conc’a soli, po coi, distesi sulla sabbia e rivolti verso il sole, per abbronzarsi. Carrigus de istrexiu ci seus arribaus; no ti nau su prexiu de is pipiusu spollaus. Ci siamo arrivati carichi di tutte le cose necessarie; i bambini appena hanno indossato il costume da mare si sono sentiti davvero felici. Arricchettu è atturau a palar’ ‘e camisa e nd’ hari strantaxiau ‘na barracchedda lisa, po no si callentai su zicchedd’ ‘e binu e po s’arreposai iss’ e totu, mischinu. Enrichetto ha tenuto la camicia sulle spalle e ha costruito una semplice capannina per tenere al fresco la bottiglia del vino e, poverino, per potersi lui stesso riposare. Su mari prenu-prenu pariar unu ’nferru de genti senz’ ‘e frenu

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in avvolotu e in gherru. Sa basca è cosa mala, ma cussu è buddidori… Bandant a fai sciala, aturu che sudori! Cun is cambas in foras, che sa pixi nieddas, bagarias, signoras, mannas e picioccheddas. Candu s’esti spollara Annetta filla mia,

mi dd’ hapu castiara ’nu pagu sbregungia. Ci hapu calau ‘s ogus po no biri prus nudda; po no ddi fai arrogus su pillonch’ ‘e xibudda! Il mare sembrava un inferno tanto brulicava di gente che si agitava in modo scomposto e in lotta. Il caldo è una cosa brutta, ma quello è un ribol-


lire. Vanno a fare baldoria, altro che sudore! Le donne sia nubili che sposate, quelle in età adulta e le ragazzine, mostrano le gambe nere come la pece. Quando mia figlia Annetta si è messa in costume, l’ho guardata con un po’ di vergogna. Ho abbassato gli occhi per non vedere più nulla; per non essere tentata di fare in mille pezzi il costumino leggero e sottile quanto la pellicola di una cipolla.

A prandi heus cumenzau pagu prim’ ‘e sa una (issus hianta smurzau, ma deu femmu digiuna). Tenemus malloreddus, unu spren’ imbuttiu, ’nu pagh’ ‘e prupixeddu e sartizzu arrustiu, pruna de ollaniou, pressiu, pir’ ‘e buttiru, e unu bellu gattou

chi giai tenemu a tiru. Abbiamo cominciato a pranzare poco prima dell’una (loro avevano fatto uno spuntino, ma io ero digiuna). Avevamo gnocchetti, una milza imbottita, un po’ di polpo tenero, salsiccia arrosto, susine del tipo a tuorlo d’uovo, pesche, pere-burro, e un bel gateau che mi faceva gola.

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Candu heus accabau de si preni sa brenti, Arricchettu m’ha nau: “Baxi a biri sa genti chi mi boll’arrimai un’or’e mesu, o duas. Ma coit’a torrai; no fazzas de is tuas”… Quando abbiamo terminato di riempirci la pancia, Enrichetto m’ha detto: “Andate pure a vedere la gente, io ne approfitto per riposare un’oretta e mezza o due. Ma torna presto; non fare delle tue”… E fazzu sa sconcada de ddu lassai solu! Cessu, ’ ta molentada de nascu e piricciolu! Tot’ hari sburiau, ampudda e fiascu, e no sin ci ha’ lassau mancu ’nu stiddi’ ‘e Nascu! E faccio la stupidaggine di lasciarlo solo! Oddio, che sbornia di Nasco e vinello! Ha svuotato tutto, bottiglia e fiasco, non ha lasciato neppure una goccia di Nasco! Torraus. E dd’ agattu fueddend’ in italianu cun d’ una chi hemmus fattu connoscenzi’ a mengianu. Issa candu ma biu sin d’ è tot’azzicara e de maridu miu sin c’esti stesiara. Al rientro lo trovo mentre parla in italiano con una conosciuta la mattina. Lei, appena m’ha visto, si è spaventata e si è allontanata da mio marito. A issu dd’ hapu nau: “Gi ti tengu seguru! Ti ses imbriagau e isciollorias puru! Là, babb’ ‘e fillus mannus!... Babbu senz’ ‘e xiorbeddu! Bugginu! A cinquant’annus ancora picioccheddu! Ma si Deus si lassa’, torraus a su Poettu, e su giogu ti passa’, creimì puru, Arricchettu!” A lui ho detto: “Di te non mi posso fidare! Ti sei ubriacato e dici anche sciocchezze! Guardatelo, il padre di figli ormai grandi!... Padre senza cervello! Che diavolo! A cinquant’anni ancora

ragazzino! Ma se Dio ci tiene in vita, torneremo al Poetto, e ti assicuro, Enrichetto, che la voglia di giocare ti passerà”. Quanta cagliaritanità in questi versi, quanta passione nel mettere in evidenza un mondo decisamente piccolo, fatto di personaggi e vicende di tutti i giorni. Luigino Cocco, edicolante per tutta la vita in Piazza Martiri, aveva un occhio molto attento per queste presenze e per questi fatti e li ha raffigurati in modo addirittura beffardo ma, comunque, anche molto realistico. Così, ad esempio, l’andare al Poetto

stracarichi di tutto l’occorrente, carrigus de istrexiu, era un’abitudine che ricordiamo tutti perché, per la causa, abbiamo dato il nostro contributo di braccia e spalle seppure quelle di bambini. Così l’impegno immediato e preciso di Arricchettu nel metter su sa barracchedda lisa, po no si callentai su zicchedd’ ‘e binu, fa pensare, per come sono andate poi le cose, che il capo famiglia avesse, sin dall’inizio, una sua ben chiara, seppure personale, gerarchia delle …priorità e delle urgenze del momento. Mica scemo l’uomo! La descrizione della spiaggia è un ca-


polavoro. Una bolgia dantesca o quasi, come tutti l’abbiamo conosciuta, specie nelle giornate più afose, nelle quali ognuno cerca un po’ di refrigerio. Genti senz’ ‘e frenu… bandant a fai sciala. C’è lo scandalo delle gambe abbronzate ed in piena mostra, in foras, non solo di ragazzine, ma de feminas mannas puru. Per intenderci, ancora oggi a Cagliari la fattispecie è conosciuta come giogh’ ‘e coscias. C’è, poi, sa bregungia per Annetta che sfoggia un costume che lascia scoperte braccia e gambe e, quindi, molto più moderno rispetto a quello della madre

che evidentemente ha ancora un bel ricordo di quelle castigatissime tuniche in tela nera, a maniche lunghe, con sotto i mutandoni che arrivavano sino alle caviglie. L’imbarazzo della signora deriva certamente dal fatto che proprio al Poetto il costume da bagno, sia maschile che femminile, registra una rapida evoluzione, seguendo, per fortuna, la moda del tempo. Bikini e topless verranno più tardi. Il pranzo-satzada, cioè la scorpacciata in compagnia, rientra nella normalità della tradizione cagliaritana per cui ogni commento mi sembra superfluo

e scontato. Ben più degna di attenzione è la piega improvvisa che gli eventi assumono subito dopo, ossia a brenti prena. Enrichetto continua ad avere le idee molto chiare. Con la scusa de si bolli arrimai, allontana i familiari “baxi a biri sa genti” e con tono responsabile raccomanda persino alla moglie di tornare presto e di non combinarne delle sue “Ma coit’a torrai; no fazzas de is tuas”…Rimasto finalmente solo, si scola il Nasco ed il vinello e, euforico, si ponit a ingranai, si mette a fare la corte a una conosciuta la mattina. La scena che si presenta alla moglie, al suo rientro, è inequivocabile. Lui, solitamente abituato a parlare in sardo, si esprime in italiano e ciò rivela l’implicita intenzione di far colpo dando a vedere di essere…emancipato ed erudito e non un qualsiasi caddaioni. Quella, peraltro, colta di sorpresa, si spaventa e si stacca, sin c’esti stesiara da Enrichetto, che, ormai imbriagu perdiu, in preda all’alcol, pronuncia solo frasi sconclusionate, sciollorius. La stupenda giornata al mare si conclude, insomma, in modo del tutto imprevedibile ed inglorioso, ed offre materiale infinito per i pettegolezzi, is crastularas, dei conoscenti. La figura di Enrichetto ricorda molto da vicino un noto personaggio cagliaritano che la fervida fantasia popolare aveva soprannominato braghet’ allirga, proprio per la sua fama di dongiovanni, di ingranadori, impenitente. Luigino Cocco naturalmente non lo dice, ma è verosimile che a lui si sia ispirato in questa poesia piena di tanti riscontri quotidiani, compresa la voglia di rivalsa della moglie che giura la sua vendetta la prossima volta che torneranno al Poetto, e su giogu ti passa’, creimì puru, Arricchettu!. Con la sabbia bianchissima del passato è volato via per sempre anche quel mondo di simpatica e squisita cagliaritanità.

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GHIANI


Sarah Pinson

The charm of the islands, which is still alive in every one of us, lets our imagination wander in pursuit of an ancestral memory and fascinates us with their obscure mystery. It still remains difficult to understand how a civilisation that came from the sea – such as the Sardinian people of the Neolithic era, who established a relationship with the sea as far back as in the proto-Neolithic era, as it was demonstrated by many archaeological finds (let us think of the S’Adde cave in Macomer or the material discovered near the Cabras pond) - could develop a fear for the sea.

COASTS of SARDINIA past and present


castiadas spiaggia di feraxi

Maurizio Farigu


The charm of the islands, which is still alive in every one of us, lets our imagination wander in pursuit of an ancestral memory and fascinates us with their obscure mystery. It still remains difficult to understand how a civilisation that came from the sea – such as the Sardinian people of the Neolithic era, who established a relationship with the sea as far back as in the proto-Neolithic era, as it was demonstrated by many archaeological finds (let us think of the S’Adde cave in Macomer or the material discovered near the Cabras pond) - could develop a fear for the sea. With regard to this, it was highlighted that the “the principal reason and main attraction that led Neolithic populations to Sardinia was, undoubtedly, the existence of lagoons behind the gulf of Oristano, which were teeming with fish, the wetland between Santa Giusta and Terralba, which was full of game and the Monte Arci mountain, which is only about 10 kilometres away from the coast as the crow flies” . Indeed, it was the obsidian found in the Monte Arci mountain (the black gold of prehistory) to determine the intensification of trade flows between the island and the other regions. However, it was the arrival of the first Phoenician-Punic conquerors to arrest the profitable relationship with the sea, when the management of the most important maritime economic activities was transferred from the local population to the conquerors. Subsequently, under Roman rule, for the non-Romanised people of Sardinia the sea became the theatre of wars and pirate incursions, losing its meaning as “economic space”. This resulted in the onset of a process of detachment from the sea that found even more favourable conditions during the decline of the Roman Empire and further increased during the Byzantine and High Judicial eras. Hence, we can assert that the reasons behind failure to develop a maritime economy in Sardinia and, in particular, nautical activities and the fishing industry, must be sought in the peculiarity of its historical process. In fact, still today, in all the major centres of the maritime fishing industry, the employees predominantly come from the regions of Liguria, Campania, Lazio and Sicily. In particular, they come from the coastal towns of Camogli, Resina and Ponza among others. Nevertheless, this status quo has been rapidly changing over the last few years, thanks to the fact that young people have had a very positive attitude towards the sea. The natural conditions of Sardinia – particularly the high temperature of the superficial coastal waters and of the atmosphere, the strong winds and the morphology of the coast (often edged with lagoons and ponds) – have always been ideal for the production of sea salt. Additionally, its geographical position (in the middle of the western Mediterranean Sea) has created favourable conditions for the trade of salt at a large scale. Over the centuries, the coastal areas had the possibility to establish relationships with the external world and were able to transmit – towards the hinterland – the culture, the ideas and the experiences that had been developed away

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piscinas from home. The coast, over the course of different eras, played a primary role in leading the process of inclusion of Sardinia within the context of the Mediterranean Sea and represented the meeting point between the world beyond the sea (the continents) and the “internal” world. Therefore, it can express in the clearest way the tension that exists between these two geographical areas of opposite qualities. In the history of humanity, the coast has always represented a frontier and it always had a symbolic power over its population. Whoever arrived to the shore, no matter how, had to stop, having found an impassable limit. Moreover, we must not forget that great part of the history of Sardinia passed through the coastal areas, which were the first to become populated and the first to have to suffer from the impact caused by each domination. Indeed, it was through the sea that the Mycenaean sailors - attracted by the metals and the natural resources of the island – arrived, followed by the Philistines (who came looking for iron). And it was again from the sea that the first Phoenician-Punic colonizer arrived, followed by the Romans, the Vandals, the Byzantines, the Pisans, the Genovese, the Catalans, the Spanish, the Austrian and the Piedmontese. And the sea also brought the violent incursions of the pirates and the privateers. Over the centuries, the conviction took shape among Sardinian people that “the enemy comes from the sea”. Indeed, enemies apart, the sea has always and inevitably dictated the way in which the relationship with the external world developed. It seldom created opportunities for aggregation, but rather, it accentuated geographical and cultural factors of isolation. Within this continuous dialectics of openness and closeness, over the unstoppable course of time and through centuries of historical vicissitudes, Sardinian people have developed their self-awareness as a “different” ethnical-historic group. A group of people that is “distinct” from their dominators, who contributed to the formation and progressive development of the Italian and European civilisations. The Mediterranean Sea has represented, over the centuries, the meeting point among the western Christian civilisation, the Islamic culture and the Jewish tradition. A space that, in certain periods, has become a barrier - sometimes crossed by men under arms – but that often represented a channel through which men brought goods, technology and, most importantly, ideas. Different populations who stayed apart for a long time, both physically and metaphorically, but that now are led by the historical events to unite, learn about each other and live together. Today, when we look at the sea we do not think about the incursions of the Barbarian pirates, but we see a great resource which stimulates solidarity among different and distant populations who share the same destiny. In particular, the Mediterranean represents a privileged area of international cooperation which can contribute to strengthen and spread the awareness of the state of interdependence that exists among the different nations and populations that make up humanity. It can facilitate the necessary integration of the world within a

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Maurizio Artizzu



sole, huge and organised community consisting of different nations and civilisations. This must happen in the respect of the ethnic and historic peculiarities of the different cultural heritage and traditions which have their roots in this sea. While we cannot see beyond the horizon, it still remains true that the longing to discover new lands and new truths, to measure oneself against the dangers and the unknown, is embedded in mankind. Indeed, we can assert that this longing originated with mankind and its quest for a better world. Therefore, in order to win the conditions of isolation and underdevelopment which still today persist (in forms that are different but still insidious), Sardinian people will have to pursue the way of the sea with determination and courage. However, if the future is in the coast development, particular attention must be paid to the coastal towns. From history, we learnt that during those periods when the coasts were sufficiently populated and had some social groups that were able to guide the acknowledgement of new experiences made elsewhere, the entire island benefited from phases of openness in which Sardinian people worked together towards the common goals of development and civil progress. By contrast, whenever unfortunate historical events caused the depopulation of the coast, periods of underdevelopment and closeness occurred. The consequences of this situation differed according to the specific island’s geographical district in question, but they always translated in ruptures, barriers and regression84. The conquest and peopling of the coastal areas took place in different phases, during which Sardinian people often had to meet the demands of the dominators and “external� political, economic and cultural identities. Over a long period, the Barbarian incursions dictated the patterns of repopulation in Sardinia. It was under the pressure of the Barbarians that, starting from the 8th century, the coastal towns gradually lost their importance until they almost disappeared. This resulted in the progressive depopulation of the coastal areas and, consequently, the abandonment and decay of the nearby plains. These areas, particularly those near the coast and bordered by ponds and lagoons, became a breeding ground for malaria. Starting from the late 1950s, after dark centuries and various vicissitudes, the costal areas came to play a central role again, offering the liveliest image of Sardinia recognised by the great public. However, summer tourism has erased some other emblems that are part of the historical and civil tradition of Sardinia. Moreover, the beach, the sea and the sun have been exploited through initiatives that developed outside of the island and were generally alien to the culture and aspirations of its inhabitants.

buggerru 37


As a result, the configuration of the coastal urban planning was changed. Presently, the coastal towns are the result of a long and non-linear process of transformation in which their role as fortified towns and emporiums was substituted by new and sometimes contrasting functions. Such alterations were sometimes requested by the local population, but other times dictated by outside interests. Nevertheless, the coastal towns of Sardinia, even the most open to external influences (first of all Ca-

gliari), manage to preserve their historical, cultural and civic traditions. Undoubtedly, in the question of identity, the protection and appropriate development of the coastal landscape plays a primary role, since the values represented by the coast


are not only those of the environment, but also of the economy, culture and civilization of the island. Therefore, the landscape is not only the natural environment, but also the historical and cultural result of the alterations made by men to the territory. Hence,

the landscape is part of a dynamic, permanent and ongoing process, fruit of the dialectical inter-relationship between man and nature. It will depend on the governors to transform this renewed interest in the sea and the shores in new opportunities for development and progress for the Sardinian society at large.

Paolo Curto

alghero


LunedĂŹ mattina

Un salto in palestra Riunione

In Sardegna vivi di piĂš.


Mensa di mezzogiorno

Ora di punta

Spettacolo di prima serata

w w w. s a rd e g n a t u r i s m o . i t


N

ello stesso anno in cui l’avvocato fiscale cagliaritano Sigismondo Arquer finiva i suoi giorni sul rogo di Toledo - era il 1571 - quattrocento archibugieri sardi facevano trionfale rientro in città da Lepanto, porto della costa ionica situato di fronte al Peloponneso e non distante da Corfù. Agli ordini di don Giovanni d’Austria e sotto le milizie cristiane, il 7 ottobre, avevano combattuto e sconfitto la potente flotta turca. In vista della battaglia, ad iniziativa del papa Pio V, eletto alla cattedra di Pietro nel 1565, si era formata una coalizione di stati cristiani, la “Lega Santa”, sotto le cui insegne, a Lepanto, avevano partecipato duecentotto galee. Oltre la Spagna (con settantasette galee comandate da don Giovanni d’Austria), la Repubblica di Venezia (con centoquattordici galee sotto Sebastiano Venier), il pontefice (con dodici galee dirette da Marcantonio Colonna), il duca di Savoia Emanuele Filiberto (con tre galee condotte da Andrea Provana), i cavalieri di Malta (con sei galee agli ordini del priore Pietro Giustiniani), la Repubblica di Genova (con lo Spinola), i regni di Napoli e della Sicilia ed il Granducato di Toscana.

Tutti operavano sotto il comando di don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Carlo V e di Barbara Blomberg, il quale - benché avesse appena venticinque anni - aveva acquisito una buona esperienza per quanto concerne le strategie di guerra e si dimostrò all’altezza del difficile compito. La sua energia, sostenuta dal fascino della sua personalità e dalla naturale attitudine al comando, ebbe un ruolo molto importante. Alla battaglia prese parte, tra i soldati spagnoli, anche Miguel de Cervantes, il celebre autore del Don Chiosciotte. Si era imbarcato nella galea Marquesa, comandata da Diego di Urbino. I turchi avevano dalla loro trecento galee comandate da Alì Pascià che dirigeva le operazioni militari dalla sua nave ammiraglia, la Sultana. Sulla propria ammiraglia, la Réal, don Giovanni d’Austria volle avere i quattrocento archibugieri del Tercio de Cerdeña. Si trattava dei valorosi e disciplinati soldati sardi i quali peraltro non avevano un’autonoma configurazione. Se i reggimenti levati nell’isola non vennero indicati col nome

LE GRANDI BATTAGLIE di Attidi Antonello Angioni

FURONO GLI ARCHIBUGIERI SARDI A SCONFIGGERE A LEPANTO LA FLOTTA TURCA 42


della terra da cui provenivano - come avvenne per quelli di Napoli e di Sicilia - fu perché in Sardegna, nel XVI secolo, mancavano signori che, per risorse e grandezza di natali, fossero in grado di formare e comandare reggimenti idonei a prestar servizio fuori dell’isola. Pertanto i soldati sardi, anche se riuniti in apposito tercio, in quanto ingaggiati e comandati da ufficiali spagnoli, vennero considerati, nei quadri militari, come spagnoli. La partecipazione dei soldati sardi a Lepanto é stata posta in discussione da diversi studiosi. Tuttavia, una inequivocabile testimonianza di tale presenza si ha nello stendardo che si conserva nella cappella del Rosario realizzata, alla fine XVI secolo, nella chiesa di San Domenico a Cagliari. Il gonfalone veniva portato nella processione del Rosario, cioè in una solennità rievocante la battaglia di Lepanto: un evento di importanza decisiva nell’ambito dello scontro tra gli eserciti cristiani e la potente flotta dell’Impero Ottomano. A Lepanto cozzarono le forze vive del Mediterraneo, espressione di due civiltà la cui coesistenza non era possibile nello stesso mare.

La mattina del 5 ottobre 1571 don Giovanni d’Austria, avvistata la flotta turca presso le rocce delle Curzolari nella baia di Lepanto, innalza sull’albero maestro della Réal lo stendardo della “Lega Santa” offerto dal pontefice Pio V e, con un colpo di cannone, dà ai suoi comandanti il segnale dell’attacco. La superiorità numerica, gli ordini avuti dal sultano Selim II ed il suo temperamento personale indussero il comandante in capo della flotta Turca, Alì Pascià, a non sottrarsi al combattimento, benché tra i comandanti turchi non poche voci si erano espresse in senso contrario. Don Giovanni ed il comandante pontificio, Marcantonio Colonna, imbarcatisi su due piccoli e veloci legni, percorsero tutto lo schieramento, ricordando la natura divina della causa per cui combattevano e che il crocifisso era il loro vero comandante. A bordo i cappellani confessavano e i capitani incitavano; gli equipaggi lanciavano grida di guerra. I turchi iniziarono l’avvicinamento con un rumore assordante suonando timpani, tamburi e flauti. Il vento era a loro favore e la flotta

E SUL MEDITERRANEO cristiana era nel più assoluto silenzio. Il mare si calmò improvvisamente e, dopo che dalle navi ammiraglie erano partiti i primi colpi di artiglieria, la battaglia si accese. Ecco l’inizio della battaglia di Lepanto attraverso il racconto di un marinaio della nave cristiana “San Teodoro”, narrato da Gianni Ganzotto nel libro La battaglia di Lepanto: “L’armata cristiana stava ferma sulla sua linea. Il solo movimento ordinato da don Giovanni riguardò le galeazze, che si andarono a schierare un miglio davanti a noi, come isole avanzate. Le galeazze erano sei, e dovevano mettersi a due per due all’innanzi di ciascuno dei nostri corpi, due per l’ala di Barbarigo, due per il centro di don Giovanni, due per l’ala del Doria”. “Se non che costui, comandato dall’argarsi verso il pieno del golfo, girò fin troppo il bordo allontanandosi al largo più di quanto si credeva opportuno. Per quella mossa si aprì una specie di varco sulla parte destra del nostro schieramento e le due galeazze che dovevano andare a proteggere il corno dei genovesi si trovarono un po’ sperdute nel mezzo del mare”. “Ma le altre furono pronte a scatenare tutto l’inferno dei cannoni di cui erano strapiene, immobili in mezzo al mare sotto quel peso come enormi tartarughe galleggianti. Sui turchi che avanzavano a tutta voga, senza più vele ai trinchetti per la caduta del vento, piovvero i colpi ed il fuoco in una terribile tempesta all’improvviso infuriante sul mare tranquillo”. “Davanti al nostro corpo di navi sparavano le galeazze di Francesco Duodo e di Andrea da Pesaro. Vidi le palle lanciate dal Duodo sfracassare il fanale più grande della Reale dei Turchi, che per altezza dominava il gruppo dei legni nemici avventati all’assalto. Un secondo colpo frantumò la spalla d’una galera vicina, un terzo mandò in pezzi il fasciame di un’altra, che si mise ad imbarcare acqua a fiotti sprofondando nel mare come in una sabbia”.

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il veronese: allegoria della battaglia di lepanto 1571 44


“Uomini con i turbanti in capo si buttarono a nuoto dagli spalti divelti, tra remi spezzati, frammenti di chiglia, tronconi d’alberi dimezzati che cadevano da altre galere colpite travolgendo soldati e rematori, mentre il fuoco prendeva a divampare su questo e quel bordo illuminando le acque di inverosimili bagliori”. Arrigo Petacco, nel libro La Croce e la Mezzaluna, descrive le fasi più concitate della battaglia: “..... anche al centro si era intanto formata un’altra grande “isola” di legno avvolta in una nube di fumo. Attorno alle ammiraglie di don Giovanni e di Alì, incastrate di prora, una trentina di galee si erano imbrigliate in un groviglio inestricabile di rostri, di reti e di sartiame .....”. “La capitana pontificia di Marcantonio Colonna aveva arrembato la galea di Pertev Pascià, un soldato di ventura europeo cui era affidato il comando delle milizie turche, e lo stesso principe, spadone in pugno, menava fendenti a diritta e a manca sul ponte della nave nemica ..... Sulla sinistra del fronte cristiano la squadra di Barbarigo era ancora impegnata in una lotta feroce con le galee di Maometto Scirocco, mentre Gianandrea Doria, sul lato destro, faticava a disimpegnarsi da Occhiali che l’inseguiva”. “Ma era al centro, e in particolare sulle due ammiraglie avversarie, che si svolgeva lo scontro decisivo. Dopo che gli archibugieri sardi avevano respinto per due volte gli attacchi dei giannizzeri (erano giunti fino al pennone di prua dove era issato lo stendardo della Lega e lo stesso don Giovanni era stato ferito leggermente alla gamba), i cristiani erano passati al contrattacco. I primi a saltare sulla Sultana furono gli archibugieri del tercio di Sardegna e del tercio di Castiglia ....”. “Dall’ammiraglia cristiana il combattimento si era dunque trasferito su quella turca, ma l’esito era ancora incerto. Ai decimati giannizzeri si erano uniti altri uomini inviati dalle galee turche per portare soccorso al Kapudan. La stessa cosa era accaduta anche sulla Real: entrambe le ammiraglie ricevevano infatti da poppa i rinforzi di truppe fresche. Dopo oltre un’ora di lotta sanguinosa, era ormai evidente che sul ponte della Sultana si sarebbe decisa la partita. Alì Pascià, circondato dalla sua guardia personale attorno all’albero maestro, si batteva come un leone saettando il nemico col suo arco e impartendo ordini concitati ....”. “Approfittando del momento critico, altre galee cristiane si erano avventate contro la Sultana, cannoneggiandola e interrompendo così l’afflusso da poppa delle truppe mandate in suo soccorso. Contemporaneamente, altri duecento archibugieri del tercio di Sicilia si erano uniti agli uomini di don

Giovanni ribaltando definitivamente le sorti dello scontro. Ora la Sultana, investita da più parti e circondata dai relitti che impedivano l’accesso ai soccorritori, era chiaramente condannata e tuttavia i turchi, rimasti in molti casi senza munizioni e senza frecce, continuavano a resistere con le unghie, con i denti ....”. “Vistosi ormai perduto, Alì si mise coraggiosamente alla testa dei sopravvissuti e si gettò contro don Giovanni che stava avanzando verso di lui. Ma non ci fu tra i due ammiragli un cavalleresco scontro finale: un colpo di archibugio freddò il turco che cadde riverso sui banchi dei rematori con in pugno la scimitarra. Senza perdere tempo, un “buonavoglia” gli staccò la testa dal busto e, infilzatala su una alabarda, andò a gettarla ai piedi di don Giovanni”. “La morte del Kapudan demoralizzò i superstiti i quali si affrettarono ad abbandonare la nave. Pochi minuti dopo, lo stendardo con il nome di Allah ...... veniva ammainato dal pennone della Sultana e sostituito dal vessillo con l’immagine di Sant’Andrea, simbolo del Tercio. A questo punto, soldati e galeotti avidi di preda si precipitarono nelle stive dell’ammiraglia turca per il consueto saccheggio. Ne risultò un bottino impressionante: oltre i ricchi arredi e le suppellettili, Alì Pascià si era portato appresso tutta la sua intera fortuna onde evitare il rischio della confisca nel caso che, perduta la battaglia, fosse caduto in disgrazia presso il sultano”. Molti furono gli episodi di eroismo: l’equipaggio della galea Fiorenza dell’Ordine di Santo Stefano era stato ucciso ad eccezione del suo comandante, Tommaso de’ Medici, e di quindici uomini. Il generale Giustiniani, dell’Ordine di Malta, ed il comandante della galea capitana dell’Ordine, fra’ Rinaldo Naro, furono feriti tre volte; quaranta cavalieri di Malta caddero nel combattimento. Tre giorni dopo la battaglia, morì anche il comandante in seconda veneziano, Agostino Barbarigo, il quale, accorgendosi che i suoi ordini non erano uditi bene, si scoprì il viso mentre i nemici più fieramente saettavano; essendogli detto di coprirsi, rispose che minor offesa egli avrebbe subito se fosse stato ferito anziché dal non essere udito; e così fu ferito mortalmente. Del valore di don Giovanni si è detto; va anche ricordato il grande apporto di Marcantonio Colonna e del settantacinquenne comandante veneziano Sebastiano Venier. Le proporzioni della sanguinosa battaglia possono essere riassunte in poche cifre. I caduti cristiani furono circa novemila e diverse migliaia quelli catturati. Soltanto trenta navi turche riuscirono a fuggire; delle altre, centodiciassette furono catturate e divise tra gli Stati membri della Lega mentre le rimanenti andarono distrutte. In esito alla furiosa battaglia, i turchi furono annientati e, con le loro galee, affondarono anche i progetti di illimitata espansione nel Mediterraneo che avevano coltivato per diversi secoli. Gli archibugieri sardi tornarono a Cagliari, orgogliosi della vittoria, con quella bandiera che, ancora oggi, è possibile vedere nella cappella del Rosario dell’antica chiesa di San Domenico. Il lacero stendardo, con quattro pali rossi su sfondo giallo oro, simboleggia l’arma aragonese. Pertanto non è - come erroneamente ritenuto da taluni - la bandiera tolta ai turchi dalla galea ammiraglia di Alì Pascià ma è proprio lo stendardo del Tercio de Cerdeña comandato da don Lopez de Figueroa al quale, dopo la vittoria, venne riservato anche l’onore di annunziare il glorioso avvenimento all’imperatore Filippo II.

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I PAESAGGI COSTIERI DELLA NEAP

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paesaggi costieri costituiscono uno degli ambiti più delicati dell’ecosistema, in quanto soggetti ad un complesso di elementi che ne causano una continuativa trasformazione. Una disciplina giovane, l’Archeologia dei paesaggi, studia con appropriate metodologie la dinamica dei paesaggi dall’antichità ai nostri giorni e si avvale, per la lettura di questa trasformazione, anche delle scienze geografiche, geomorfologiche, geologiche, della paleoecologia e

di altre discipline onde determinare le cause, sia naturali sia antropiche, del mutamento dei paesaggi. Nella consapevolezza del significato scientifico e culturale di questi ambiti costieri, l’Università di Sassari, primo ed unico Ateneo del Mediterraneo, ha istituito, nella sede gemmata di Oristano, a partire dall’Anno accademico 2010/2011, la scuola di specializzazione in Archeologia subacquea e dei paesaggi costieri, succedaneo del


EAPOLIS DELL’AFRICA PROCONSOLARE E DELLA NEAPOLIS DELLA SARDINIA curriculum in Archeologia subacquea nell’ambito della laurea triennale in Scienze dei Beni Culturali. In accordo con la Soprintendenza per i Beni Archeologici di Cagliari e Oristano e con l’Istituto Nazionale del Patrimonio del Ministero della Cultura di Tunisi, abbiamo sviluppato due ricerche parallele relative ai paesaggi costieri di due città puniche della Sardegna e dell’Africa

della Sardegna con la Neapolis dell’Africa Proconsolare. Di fronte a Tharros, a circa 25 km da Oristano, sorgeva la città di Neapolis: è alquanto probabile che questo nome accenni all’esistenza di un emporio greco. I Massalioti, sebbene nemici dei Cartaginesi, come tutti i popoli commercianti, dovevano avere relazioni di traffico con costoro; recandosi a Cartagine non potevano non visitare le

Proconsolare, l’odierna Tunisia, caratterizzate dal medesimo toponimo, Neapolis, “la città nuova”. In questa sede intendiamo esporre i risultati preliminari della ricerca comparata essenzialmente incentrata sui due porti neapolitani punici. Ettore Pais nel suo studio Sopra due iscrizioni greche rinvenute in Sardegna, per primo, ha messo frontalmente in rapporto la Neapolis

coste orientali dell’Isola. Se li troviamo a Tharros, tanto più dobbiamo immaginarli a Neapolis, la quale probabilmente fu un emporio ellenico sotto la sorveglianza punica di quello stesso genere che fu Naucratis in Egitto. E, per trovare un esempio ancora più calzante, ricordiamo Neapolis della Zeugitana, alle porte per così dire di Cartagine stessa, ove per quel che pare avevano facoltà di sbarcare i Sicelioti.


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Al di là della contestata ipotesi dell’emporio ellenico sotto il controllo punico, il parallelo tra la Neapolis sarda e la Neapolis d’Africa è perfettamente calzante in quanto, nell’uno come nell’altro caso, si tratta non di un toponimo effimero, dovuto ad un calco culturale, bensì della denominazione ufficiale della città, attestata in età romana, medievale fino agli esiti attuali di Nabui per la città sarda, e di Nabeul per quella africana. Il punto di partenza per la nostra analisi è costituito dal testo tucidideo che rappresenta la più antica menzione del toponimo Neapolis d’Africa, a proposito dell’arrivo a Siracusa dei rinforzi guidati da Gilippo. Ma Gilippo era venuto con un altro grosso esercito raccolto nella Sicilia e con gli opliti che in primavera erano stati mandati dal Peloponneso a bordo delle navi mercantili, ed erano arrivati a Selinunte dalla Libia. Erano stati spinti dal vento in Libia, poi i Cirenei avevano fornito loro due triremi e guide per la navigazione; mentre andavano lungo la costa si erano alleati con gli Evespertiti, che erano assediati dai libici, e sconfitti questi ultimi, da lì avevano seguito la costa fino a Neapolis, stazione commerciale cartaginese, dove la distanza dalla Sicilia è più breve, cioè due giorni e una notte di viaggio; da questa città avevano attraversato il mare ed erano giunti a Selinunte. Questa Néa póliw Karxhdoniakòn \ mpórion deve essere considerata, più precisamente, una città dotata di un \ mpórion cartaginese, ossia di una struttura di scambio organizzato da Cartagine, cui avevano accesso le diverse componenti dei traffici mediterranei. Veniamo alla interpretazione del passo citato di Tucidide. Agosto 413 a.C.: davanti alla costa bassa e sabbiosa di Nabeul, sul versante meridionale del Capo Bon, in Tunisia, appare una flotta di decine di navi da carico greche che trasportano seicento guerrieri (opliti) di Sparta, sotto il comando di Eccrito. Le navi erano partite nella primavera di quell’anno dal Capo Tenaro, nel Peloponneso meridionale, dirette in Sicilia per portare soccorso a Siracusa, stretta nella morsa delle navi e dei soldati di Atene. Ma il vento del nord, il meltemi, aveva deciso diversamente sulla rotta delle navi spartane sospingendole, per 215 miglia, sino in Africa, al porto di Cirene, Apollonia, dove ebbero l’aiuto prezioso dei Cirenei che offrirono loro due triremi con i rispettivi capitani per accompagnarli, lungo le coste della Libia e della Tunisia, fino alla Sicilia. Tuttavia, dopo un primo tratto della rotta libica, per un centinaio di miglia, dovettero portare aiuto ai greci di Euesperides (Bengazi), assediati dagli indigeni. Dopo la battaglia proseguirono per circa 700 miglia, sempre costeggiando Libia e Tunisia, fino a Neapolis, che lo storico greco Tucidide

definisce “emporio dei Cartaginesi”. Questo era il punto dell’Africa dal quale la Sicilia si trova alla distanza minore, due giorni e una notte di navigazione (circa 135 miglia nautiche), e dal quale ripartì la flotta greca alla volta di Selinunte, alleata di Siracusa, per offrire un contributo decisivo alla vittoria di Siracusa nei confronti degli Ateniesi. Gli archeologi e gli storici si sono interrogati su questo porto cartaginese, dal nome greco (Neapolis), che offrì ospitalità alla grande flotta spartana. Nel V secolo, dunque, Neapolis esisteva e costituiva un emporio amministrato dai Cartaginesi, cui potevano avere accesso le diverse componenti degli scambi mediterranei.

Diodoro Siculo attesta che la città venne espugnata da Agatocle, alla fine del IV sec. a.C., ma i suoi abitanti furono trattati con clemenza. Ignoriamo la sorte di Neapolis all’atto dell’impresa africana di Attilio Regolo, anche se un livello di incendio, datato alla metà o alla fine del III sec. a.C., interessante varie abitazioni puniche litoranee della città, è stato messo problematicamente in rapporto con Regolo. All’atto della III guerra punica, nel 148 a.C., Neapolis venne conquistata una seconda volta con l’inganno da Pisone. All’epoca della guerra tra cesariani e pompeiani, nel 47 a.C., Neapolis è ricordata lungo la rotta seguita da Cesare, dopo Clupea (Kelibia). Dopo la vittoria di Cesare a Thapsos nel 46 a.C., dovette essere gratificata con altre città del Capo Bon del rango di città libera, per essere poi costituita in colonia iulia Neapolis. Il cristianesimo penetrò assai precocemente a Neapolis che conosce una


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comunità retta da un vescovo sin dal 258. Dalla seconda metà del VII secolo l’insediamento perde progressivamente il proprio carattere urbano a favore di una struttura insediativa rurale. Lo spoglio delle strutture edilizie avviene a più riprese in fase islamica a vantaggio del nuovo centro fortificato di Nabeul. Gli scavi archeologici, iniziati nel 1965-1966 ad opera dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Arte, hanno riguardato un edificio per la produzione del garum, la celebre salsa di pesce, e una grandiosa abitazione tardo antica, denominata domus Nympharum (casa delle Ninfe). La ripresa degli interventi archeologici, nell’ambito di un accordo di cooperazione tra l’Istituto Nazionale del Patrimonio (Latifa Slim) e il C. N. R. S. (Michel Bonifay e Paul Trousset), è avve-

nuta nel 1995. I nuovi interventi hanno riguardato lo stabilimento delle salagioni del pesce. Straordinario rilievo ha la scoperta nei sondaggi di anfore puniche e ceramica ateniese della fine del VI sec. a.C. che indizia il carattere di “emporio internazionale” ricordato da Tucidide. Una nuova stagione di scavi è stata avviata dalla missione archeologica tunisino-italiana nel passato mese di luglio. Il 3 aprile di quest’anno in Tunisi l’Istituto Nazionale del Patrimonio del Ministero della Cultura (col Direttore Generale Fethi Bejaoui) e l’Università di Sassari (rappresentata dal Rettore Attilio Mastino, dal Preside di Lettere Aldo Morace e dal Cattedratico di Archeologia fenicio-punica Piero Bartoloni, ispiratore dell’accordo), alla presenza del rappresentante dell’Istituto di Cultura dell’Ambasciata d’Italia a Tunisi, Caterina Veglione, hanno firmato un Accordo-quadro

per le ricerche di Archeologia subacquea e del paesaggio costiero a Nabeul, presso la più celebre meta del turismo balneare Hammamet. L’équipe archeologica tunisina era composta dal Direttore della missione Mounir Fantar, dai ricercatori dell’Istituto del Patrimonio Imed Ben Jerbania e Ouafa Ben Slimane (archeologa subacquea) e dai giovani archeologi Soumaya Trabelsi e Intissar Sfaxi, mentre l’Università di Sassari (curriculum di Archeologia Subacquea di Oristano-ConsorzioUno) era rappresentata da Pier Giorgio Spanu e Raimondo Zucca e dai laureandi in Archeologia subacquea Giovanni Meloni, Paolo Sechi e Cinzia Vargiu. Nell’accogliente maison des fouilles (casa degli scavi) di Nabeul il gruppo tunisino-italiano ha alacremente lavorato, sia in acqua sia in terra, sotto il solleone cocente, con l’intervento dei bravissimi operai di Nabeul. Nelle acque terse di Nabeul è emerso, a bassa profondità (fra 1 metro e 5 metri) un gigantesco bacino portuale, costruito in “opera cementizia” (tipica tecnica romana), che parrebbe funzionale alle attività di commercializzazione del garum e, presumibilmente, di altre risorse del territorio neapolitano. Sott’acqua sono apparse le vasche per la preparazione della salsa di pesce anch’esse inabissatesi a causa del cambiamento della linea di costa, assai più arretrata nell’antichità. A settembre la missione tunisino-italiana ha ripreso il lavoro a Nabeul per proseguire nei rilevamenti del porto e nello scavo terrestre che ha già restituito, fra l’altro, ceramica fenicia del VII secolo a.C., che a tutt’oggi costituisce la più antica testimonianza dei rapporti fra gli indigeni libici e i fenici dell’intero Capo Bon. L’archeologia rivela così nuove pagine della storia del Mediterraneo, legando insieme Tunisia e Sardegna, in nome del comune passato cartaginese, che determinò la nascita, sul Capo Bon e sulla costa sud orientale del golfo di Oristano, di due centri di mercato chiamati entrambi Neapolis, in rapporto ai traffici che furono instaurati, sotto il controllo di Cartagine, anche con i mercanti greci.

Il lunato golfo di Oristano si apre sulla costa centro occidentale dell’isola, delimitato a nord e a sud rispettivamente dalle due piattaforme basaltiche del promontorio di San Marco e de La Frasca, che insistono su strati miocenici e pliocenici. La complessità della geomorfologia del litorale del golfo di Oristano è determinata dalle due antiche valli würmiane del Rio Mare Foghe a nord e del Riu Sitzerri a sud, sommerse dalla ingressione marina versiliana. Successivamente la paleo-valle del Mare Foghe fu sbarrata da sedimenti versiliani e alluvionali determinando la laguna di Mar’e Pontis («stagno» di Cabras). Gli stagni di Mistras e di Mardini sono invece dovuti allo sbarramento


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di specchi marini da parte di cordoli sabbiosi. La paleo-valle del Riu Sitzerri ha dato luogo alla laguna di Marceddì, anche a causa degli apporti alluvionali dello stesso Riu Sitzerri e del Flumini Mannu. Al centro del golfo si presenta la rotonda insenatura di Santa Giusta, sbarrata da un cordone dunale certamente già allo scorcio del II millennio a.C. Il Neapolitanus portus - localizzato nel settore sud orientale del golfo di Oristano, connesso alla città di Neapolis, di origine cartaginese (succeduta ad uno stanziamento fenicio in ambito indigeno e vissuta almeno fino al VII sec. d.C.) - è ampiamente attestato, nella cartografia nautica e nei documenti, solo a partire dal medioevo in relazione, evidentemente, alla denominazione antica del porto: “lo dicto capo de Napoli è bono porto, et è capo soctile si com murro de fera, et estendese ver lo maestro. e se te voli ponere entro da lo capo averete fondo de XV passi”. (B.R. Motzo, Il compasso de navegare, p. 90). Le ricerche del 1986 di Giuseppe Nieddu, Nicola Porcu e Raimondo Zucca, avevano restituito una situazione di depositi materiali archeologici estesi dall’età arcaica all’età romana imperiale, contenuti al di sotto dello strato di fango depositato su un fondale di età storica, e localizzati lungo una linea approssimativamente ovest-nord-ovest/est-sud-est all’interno della laguna di San Giovanni, in relazione alla creazione di un argine a cura dell’Assessorato Difesa Ambiente della Regione Autonoma della Sardegna. Tale argine, costituito da materiali litici di media e grande pezzatura cavato nell’area di Monti Ois a sud-est di Neapolis, all’atto della sua realizzazione consentiva la risalita e il recupero dei materiali depositati sul paleofondale, curato dall’Ispettore onorario per l’Archeologia subacquea Nicola Porcu. Il carattere del deposito subacqueo richiama la situazione dei canali d’accesso agli approdi, che documentano materiali infranti gettati dai natanti in partenza o in arrivo. L’analisi cartografica della laguna di Marceddì ha consentito di appurare l’esistenza, da dimostrarsi con future ricerche subacquee, di un canale sinuoso d’accesso agli specchi d’acqua più interni, definito da linee isobatiche, costituente il paleo alveo del Rio Mannu-Sitzerri, la cui paleofoce deve collocarsi a 5 km a nord-ovest, rispetto all’attuale, in fase neolitica, quando San Giovanni e Marceddì erano una fertile vallata incisa dal fiume. Altro elemento da considerare è la corrispondenza di questo canale con il paleo alveo del fiume Sitzerri-Flumini Mannu. Come è noto il sistema lagunare di Marceddì-San Giovanni è interpretato dai geomorfologi come l’evoluzione di una vallata fluviale sommersa, per cui è evidente che il letto del fiume e le sue foci dovettero essere progressivamente guadagnate dall’ingressione marina successiva all’ultima glaciazione. Si pone al riguardo il problema del riconosci-

mento della dinamica delle rive degli specchi d’acqua e del letto (o dei letti variabili con le relative foci) del fiume Sitzerri-Mannu. Sono importanti, ma non decisivi per definire le antiche linee di riva, i ritrovamenti del neolitico antico di Sa Punta di Marceddì e l’inedita individuazione di un livello con industria litica di ossidiana (anche con lame a sezione triangolare, forse del Neolitico tardo) in località su Bottaiu, lambito dalle acque della laguna di S. Giovanni, nel settore a contatto con la barra occidentale dello stagno di S. Maria. L’assenza di fauna marina nell’insediamento neolitico di Riu Saboccu, sulla sponda meridionale odierna di San Giovanni, ha accreditato l’ipotesi della persistenza della valle in fase neolitica. L’ingressione marina nella valle fluviale di San Giovanni-Marceddì dovrebbe essere avvenuta progressivamente tra secondo e prin-

cipio del I millennio a.C., giungendo a sommergere l’insediamento nuragico di S’Ingroni ‘e S. Antoni, presso la base militare di Capo Frasca. Il paleo alveo sommerso potrebbe essere identificato col canale definito da pali, a causa delle secche circostanti, testimoniato da un anonimo portolano della prima metà del Seicento: “Volgendo il Capo di San Marco à miglia 10 si trova il Capo delle Liesce [Capo Frasca], dentro esso Capo andando à Levante, à miglia 10 ci è bonissimo porto per galere perché si entra in certe secche, però con una pica à tastone lasciando i segni per poi poter uscir fuora” (S. Crinò, Un portolano inedito della prima metà del sec. XVII, in Atti del V Congresso Geografico Italiano, Roma, 1945, p. 605 e ss.). Il problema principale messo a fuoco dalla campagna di ricognizione in oggetto è stato quello dei modi e dei tempi di formazione della barra che, separando la parte centro settentrionale della laguna


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di San Giovanni dal suo settore sud orientale, ha determinato la formazione degli stagni in via di impaludamento di S. Maria, prospicienti le terrazze alluvionali di Neapolis. L’indagine è stata condotta per la prima volta lungo il canale che fu escavato intorno al 1986, al centro della barra settentrionale degli stagni di S. Maria per mettere in comunicazione diretta con la laguna di San Giovanni il Riu Sitzerri, la cui ultima sezione è stata contemporaneamente ricostruita secondo un percorso rettilineo. Il detto canale, orientato est/ovest, ha una larghezza di circa 9 metri, con una profondità variabile tra i 50 cm e i 110 metri. La ricognizione ha consentito di verificare la stratigrafia in diversi settori del canale, messa a nudo dallo scorrere dell’acqua, talvolta impetuoso in rapporto all’idrodinamica del Rio Sitzerri.

Lo scavo del canale nel 1986 distrusse un crostone carbonatico esteso presumibilmente lungo tutta la barra settentrionale dello stagno di S. Maria. Sottostante il crostone si sono individuati depositi di materiale archeologico frammentario il cui terminus post quem è assicurato dalla parte superiore di un’anfora Ramón 4.2.1.5, di produzione dell’area di Tunisi (della metà del IV sec. a.C.) e da un frammento del collo e della spalla di un’anfora Proto greco-italica, del tipo A-MGR 5 di Lattara-6 = WILL A-1 (riportabile agli anni intorno al 350 a.C.). Si aggiunga anche un frammento di gola egizia in arenaria, il primo dell’area di Neapolis, cui si può assegnare la medesima cronologia al IV sec. a.C. Il rinvenimento in superficie nell’area a quota + 1, tra lo stagno di S. Maria centrale e lo stagno di S. Maria occidentale, di materiale arcaico, tra cui un frammento di orlo di anfora ionio massa-

liota di produzione magno greca della seconda metà del VI sec. a.C. e un frammento di orlo di Corinzia B, oltre a materiale anforario fenicio e punico, denuncia l’antichità dell’uso dello specchio d’acqua per la navigazione di natanti. Possiamo cioè ricostruire una profonda insenatura sud orientale del golfo di Oristano che raggiunge il piede settentrionale della città di Neapolis, che poté rappresentare l’approdo di Neapolis, forse legato ad un santuario emporico extraurbano (cui si riferirebbero i frammenti di vasi attici anche figurati dello scorcio del VI e del V sec. a.C. individuati tra il 1973 e i nostri giorni nell’area del deposito votivo neapolitano), che in età ellenistica fu caratterizzato dai culti di sanatio, come evidenziato dallo scarico di terrecotte figurate del IV-III sec. a.C. In un periodo successivo alla metà del IV sec. a.C. ma anteriore al I secolo d.C. si dovette formare la barra nord con la conseguente creazione di uno specchio d’acqua interno, protetto dalla stessa barra e dotato almeno in principio di una o più bocche. Non sappiamo, in relazione alla preliminare individuazione delle stesse bocche e alla cronologia della loro chiusura, se l’approdo arcaico ipotizzato al piede settentrionale di Neapolis continuasse a funzionare in età romana, ovvero, secondo l’interpretazione di Giulio Schiemdt, il ponte de Su Stradoni de Is Damas (la via a Tibulas a Sulcis) funzionasse, eventualmente, con moli lignei da portus neapolitanus. Il terminus ante quem non del I sec. d.C. (età flavia) per la formazione della barra è dato dallo scavo di una buca nella parte centrale della barra, riempita con un terreno argilloso e con tre colli rovesciati di anfore Dressel 2-4, che sono stati fortunosamente messi in luce completamente dallo scorrere dell’acqua del canale. L’indagine preliminare sui porti delle due città di Neapolis di Africa e della Sardegna ci mostra, concretamente, la trasformazione di due paesaggi costieri, in cui i Cartaginesi costituirono due formazioni urbane, caratterizzate da un emporio, aperto alle correnti mediterranee. I paesaggi attuali sono distanti dai paesaggi costieri di 2500 anni addietro: i porti sono stati impaludati e interriti o sommersi dall’aumento del livello del mare. La ricerca tende a esplicitare la dinamica dei paesaggi, ma rappresenta un elemento imprescindibile della politica di tutela e valorizzazione dei beni culturali ed paesaggistici che, insieme, costituiscono il nostro patrimonio culturale, secondo il dettato dell’articolo 2 del Codice dei beni culturali e del paesaggio.


CULTURA MEDITERRANEA


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ra gli sfavillanti e coloratissimi tesori racchiusi nelle case dell’antica Pompei, la città romana distrutta dall’eruzione del Vesuvio, si nasconde un graffito ormai quasi cancellato dall’incuria e dal tempo. Vi appare una nave, non particolarmente grande, ma tuttavia imponente, con un’ampia vela, un groviglio di cime e sartie, merci disordinatamente sparse sul ponte, un uomo a prora in un autoritario atteggiamento di comando ed un altro, pericolosamente in equilibrio in cima al pennone, che sembra saluti con gioia. E’ solo un piccolo segno che una mano sconosciuta ha voluto lasciare sulla parete di una abitazione, ma che ci trasmette inequivocabilmente un mondo antico, fatto di mare, viaggi e commerci. Il graffito appare preciso, eseguito da qualcuno che ben conosceva il mondo del mare e delle navi, che verosimilmente ha viaggiato a lungo, come mercante o come semplice e umile schiavo che aveva avuto la possibilità di conoscere il via vai di merci e imbarcazioni in uno dei numerosi porti del Mediterraneo. Sullo scafo appare un nome: Europa. Certamente l’anonimo disegnatore non poteva immaginare che un giorno quel nome avrebbe designato un intero continente. Il nome si riferisce ad uno dei più antichi miti della civiltà classica: Europa era una bellissima fanciulla di Tiro, la città dei fenici, alla quale apparve un giorno, mentre giocava sulla spiaggia, un toro maestoso. La ragazza dapprima spaventata, ebbe poi il coraggio di avvicinarsi all’animale e accarezzarlo. Il toro in realtà era Zeus, il re degli dei che, invaghitosi della giovane, aveva preso quelle sembianze per ingannarla.Infatti, non appena Europa gli si sedette in groppa, si lanciò nel mare, iniziando con lei un lungo viaggio. Questo rapimento, nel mito, sta alla base della storia europea; la coppia raggiunse l’isola di Creta e dalla loro unione nacque Minosse, che sarebbe diventato il più celebre dei re cretesi e forse dell’intera tradizione greca. Minosse fu un sovrano civilizzatore e legislatore e, come racconta lo storico Tucidide, lui fu il primo a creare un impero del mare procurandosi una flotta, controllando una parte del Mare Egeo, dominando delle isole, imponendo tributi ed eliminando la pirateria dalle rotte marittime: una vera e propria talassocrazia che presuppone il controllo del mare e delle sue rotte, i traffici commerciali e il flusso delle ricchezze e dei tributi. L’apogeo della civiltà marittima cretese si ebbe tra il XVIII e il XV secolo a. C. D’altra parte il mito di Europa ci racconta anche altro. Il padre della giovane inviò i suoi tre figli alla ricerca della sorella e il loro viaggio si trasformò in un percorso di civilizzazione che portò alla fondazione di città in diversi territori del Mediterraneo, dalla Cilicia alla Tracia, dalla Fenicia alla Grecia: la stessa Tebe, una delle città cardine del mitico sistema greco, che avrebbe dato i natali a eroi come Eracle ed Edipo, fu fondata secondo la tradizione da Cadmo, fratello di Europa. Lo stesso eroe avrebbe in seguito fondato Rodi, per secoli crocevia di culture e uno degli epicentri dei commerci mediterranei in cui si sono succeduti i guerrieri micenei, i mercanti di schiavi greci e romani, i cavalieri crociati e i mercanti arabi. Il rapimento di Europa è solo uno dei molti miti del Mediterraneo antico imperniati sull’idea del viaggio. Le peregrinazioni di Ulisse, le av-


venture di Giasone e dei suoi compagni sulla nave Argo, i lunghi viaggi di Eracle costretto a superare prove sempre più ardue sono esempi ben noti, ma vi sono molte altre storie, magari legate a tradizioni locali, che raccontano o presuppongono viaggi e imprese lontane. Ma quando fu e chi furono i primi viaggiatori? Nel IV millennio a.C. gli uomini costruirono i primi agglomerati urbani nelle terre comprese tra il Tigri e l’Eufrate, e diedero vita alla prima nazione unita lungo le rive del Nilo. I corrieri cominciarono a fare la spola da un centro all’altro, gli amministratori a spostarsi all’interno dei territori di loro competenza, i commercianti a seguire i circuiti dei mercanti, le folle a spostarsi dalle loro abituali residenze e ad affluire nei santuari nei giorni festivi. Gli orizzonti si ampliarono in modo eccezionale poco dopo il 3000 a. C., quando i costruttori di navi impararono a disegnare imbarcazioni

rente da un carro trainato da terra da una fila di persone o di animali. I battellieri armeni, che partivano dal lontano nord e di là si allontanavano un bel tratto, facilitavano il loro lungo ritorno usando leggere zattere sostenute da numerosi otri di pelle gonfiati. E’ sempre Erodoto, nel V secolo a.C., a raccontarci: “…ciascuna zattera aveva a bordo un asino vivo, le più grandi più d’uno. Una volta arrivati a Babilonia e venduto il carico, mettono all’asta le strutture della barca, caricano le pelli sugli asini e ritornano a piedi in Armenia”. La zattera sostenuta da otri, come naturale, era la più adatta per superare le rapide che essi

capaci di navigare in modo relativamente sicuro e confortevole in mare aperto. Queste trasportavano carichi attraverso il Mediterraneo orientale tra l’Egitto ed il Medio Oriente, su e giù per il Mar Rosso tra l’Egitto e l’Arabia, sul Golfo Persico e l’Oceano Indiano tra la Mesopotamia e le coste nord-occidentali dell’India. Non sappiamo esattamente chi fu il primo a costruire una vera e propria flotta. Potrebbero benissimo essere stati gli egizi dato che, situati lungo un fiume navigabile per eccellenza, si rivolsero all’acqua assai presto nel corso della loro civiltà. Erodoto narrava: “Quando il Nilo inonda la campagna, l’intero Egitto diventa un mare, e solo le città spuntano sulla superficie delle acque. Quando questo avviene, la gente usa le barche…”. Nella prima metà del IV millennio a. C. essi viaggiavano in canoe e zattere costruite con fasci di canne di papiro, pianta che cresceva a profusione lungo le rive; la famosa cesta su cui fu abbandonato Mosé certamente doveva essere realizzata con queste canne. Intorno al 2700 a.C. utilizzavano già robuste imbarcazioni di legno; mezzo secolo dopo si hanno notizie di una flottiglia di quaranta navi che effettuò la traversata dalla costa libanese alle foci del Nilo. La Mesopotamia ha due grandi fiumi, ma nessuno è utilizzabile quanto il Nilo; benché siano ambedue navigabili, non c’è nessun vento favorevole che prevalga per spingere le imbarcazioni contro corrente. Intorno al terzo millennio a.C. venivano comunemente usate piccole imbarcazioni fluviali di legno; quando le stesse ritornavano da un viaggio seguendo la corrente, venivano rimorchiate controcor-

incontravano quando il Tigri attraversa le montagne dell’attuale Kurdistan; se urtava contro una roccia, il peggio che potesse capitarle era prodursi alcune falle, che venivano riparate in breve tempo. Gli abitanti della Mesopotamia, nei loro bassi e calmi canali, preferivano usare, specialmente per i trasporti da riva a riva, larghe e rotonde imbarcazioni fatte di pelle impermeabile cucita intorno ad una intelaiatura di vimini. Queste imbarcazioni erano abbastanza grandi per trasportare carri e persino pesanti carichi di pietre da costruzione. Ora i nostri mari sono solcati da navi portacontainers che ripercorrono spesso le stessi rotte già tracciate da qui naviganti che tanto ci hanno insegnato; malgrado i grandi liner attraversino i Continenti in poche ore, il fascino delle crociere rimane immutato, quasi a voler rivivere le emozioni già provate da chi ci ha preceduto nel vedere pian piano comparire la terra dopo tanto sconfinato mare.


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Marco Deiana

UN SOGNO

TRA CIELO E MARE

ECCOLI


Se non avete mai fatto kitesurf vi sarete chiesti come funziona questo spettacolare sport. Diversamente dal wakeboard, che viene trainato dalla spinta costante di una barca, la primaria fonte di energia per un kiter è il vento. Per poterlo praticare sono essenziali delle solide conoscenze sul funzionamento dell’aquilone in volo e sulle sue svariate performance a seconda delle differenti condizioni meteo. L’attrezzatura di un kiter è caratterizzata dai seguenti elementi: una tavola, un aquilone (detto anche kite), una barra di controllo, quattro o più cavi e un trapezio. A questi strumenti bisogna aggiungere altri tre equipaggiamenti obbligatori in Italia, ossia il casco (o helmet), l’impact vest (una sorta di giubbino di salvataggio, che pro-

Marco Deiana

tegge il rider da eventuali impatti con l’acqua) e un apposito coltellino per tagliare i cavi, qualora il sistema di apertura dell’ala sia guasto. Nonostante sia uno sport estremo, la sua diffusione in Italia è in continua crescita e sta coinvolgendo un numero sempre maggiore di donne. Non stupitevi se, quando andrete in spiaggia, troverete delle fanciulle dalla lunga chioma, che si apprestano a volteggiare nell’aria con i loro coloratissimi aquiloni. Ma come mai questo sport si sta diffondendo così tanto anche tra le ragazze? Innanzitutto, perchè non richiede

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Frequentate un corso base. Per intraprendere questo sport, bisogna necessariamente frequentare un corso con un istruttore professionista, il quale sia preferibilmente in possesso del brevetto di insegnamento rilasciato dalla FISN (Federazione Italiana Sci Nautico), l’unica riconosciuta ufficialmente dal CONI. Pagate di volta in volta. Un corso per principianti ha un costo che si aggira intorno ai 300 euro, ma vi consigliamo di dividere tale spesa lezione dopo lezione, e di non pagare l’intera quota in anticipo, poiché, nonostante la stragrande maggioranza degli istruttori in Italia sia composta da persone oneste e affidabili, c’è sempre il rischio di trovare insegnanti poco seri. Non fatevi insegnare da un amico. Anche se il vostro migliore amico è un asso col kitesurf e in acqua è in grado di compiere delle evoluzioni pazzesche, potrebbe non essere altrettanto bravo ad insegnare e dunque optate per seguire un corso con un istruttore esperto. Ricordatevi che questa disciplina è molto pericolosa e l’improvvisazione va messa al bando, altrimenti rischierete di fare del male sia a voi che agli altri. Siate collaborativi. Una volta che avrete imparato a muovere i primi passi in questo meraviglioso mondo, date una mano agli altri kiters in spiaggia. Se per esempio hanno bisogno della vostra assistenza per far decollare l’aquilone o per avvitare gli straps di una tavola, datevi da fare e aiutateli. Può darsi che un giorno sarete voi ad aver bisogno di loro .... Acquistate l’attrezzatura solo dopo averla testata personalmente. Finalmente avete imparato a fare i primi bordi e non vedete l’ora di comprare la vostra prima attrezzatura? Ma quale sarà l’aquilone giusto per voi? Sarà meglio uno SLE, oppure un C-KITE? E per quanto riguarda la tavola? Sarà meglio una tavola grande o più leggera? Esiste un’unica soluzione a questo problema: provate di persona svariati tipi di kitesurf in acqua. Solo in tal modo, capirete qual’è l’attrezzatura più adatta alle vostre esigenze. Inoltre, vi sconsigliamo di rivolgervi al mercato di seconda mano, poiché, nonostante sia molto florido, è molto simile a quello delle macchine usate e la probabilità di acquistare un bidone è sicuramente più alta di quella di fare un affare. Rivolgetevi dunque a dei rivenditori specializzati, che vi dovranno offrire i loro prodotti in garanzia. Siate pazienti. Immaginate che oggi sia una splendida domenica e abbiate fatto circa 80 km per raggiungere un meraviglioso spot, inondato di kite. Siete pronti ad entrare anche voi in acqua e l’emozione è a mille, ma la sfortuna vuole che il vento quel giorno sia troppo forte e quindi al di sopra delle vostre capacità, dato che siete ancora alle prime armi. Pazienza! Non vi demoralizzate, rimpacchettate la vostra attrezzatura, armatevi di macchina fotografica e divertitevi a scattare miliardi di foto agli altri kiters, felicemente impegnati ad effettuare salti e triks in mare. Vi accorgerete che gli effetti più belli trasmessi da questo sport, non sono solo l’adrenalina e il benessere personale, ma soprattutto lo spirito di amicizia e di socializzazione.

Pipi Surfaction

Alcuni consigli per chi vuole iniziare:


una grande forza fisica. Infatti, grazie alla realizzazione di materiali sempre più leggeri e di nuovi sistemi di rilancio, esso sta diventando sempre più accessibile anche al pubblico femminile. In secondo luogo, il kitesurf è una disciplina nella quale contano soprattutto l’agilità, l’equilibrio psico-fisico e la coordinazione nei movimenti (doti fortemente presenti nel DNA delle donne). In terzo luogo, tale sport non ingrossa i muscoli, ma li tonifica dolcemente, permettendo alle signore e signorine di mantenere intatta la propria femminilità. Dalle coste agrigentine al Salento, dal litorale toscano a quello laziale, il kitesurf viene praticato con gran-

de passione da migliaia di riders, sia professionisti che amatoriali. Ma la Mecca del kitesurf in Italia è senza ombra di dubbio la ventosissima Sardegna. L’Isola è dotata di numerosi spot, ognuno dei quali presenta differenti condizioni di vento e di mare, adatti ad ogni livello di difficoltà. Tra questi spot, è di notevole fama il centro Chia Wind Club situato nell’affascinante spiaggia di Su Giudeu a Chia (nel comune di Domus de Maria). Qui potrete imparare a fare kitesurf (in piena sicurezza) grazie alla professionalità ed esperienza di istruttori altamente qualificati, tra i quali spicca il nome di Mirco Babini, volto molto noto nel mondo del kitesurf.

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FUNTANAZZA CHE NE SARÀ DI QUESTO PARADISO?


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LA CAGLIARI-POETTO IN ACQUE LIBERE

NUOTO ESTREMO SUL GOLFO DEGLI ANGELI

Oltre alla fatica e all’acido lattico, quest’anno c’è stato un avversario in più: le meduse. Ma loro ce l’hanno fatta: Andrea Volpini (Fiamme Oro) e Rachele Bruni (Esercito) sono i vincitori della Cagliari – Poetto, la storica gara di nuoto in acque libere. Una sfida tra l’uomo e il mare, nata grazie all’iniziativa del Nuoto Club Cagliari e alla collaborazione del Comitato F.I.N Regionale.

I PERCORSI. Tre giorni di gara

– dal 10 al 12 settembre – con il suggestivo scenario della Sella del Diavolo: il primo dedicato alla distanza del gran fondo (16 km, dal molo di Levante al Margine Rosso), il secondo al mezzofondo (3,8 km, da Calamosca al Poetto) e l’ultimo al fondo (7,5 km, dalla spiaggetta di Sant’Elia allo stabilimento della Marina Militare). Un evento identitario per lo sport cagliaritano, che ha richiamato nel capoluogo atleti provenienti da tutta la Sardegna e da diverse regioni d’Italia, accompagnati da decine di tecnici, dirigenti, giudici e cronometristi.

LA STORIA. Nata negli anni ’50

con partenza dal vecchio molo di Su Siccu, presso il campo a mare della Rari Nantes, oggi è diventata un appuntamento fisso per i nuotatori sardi. Nel 1979 è stata organizzata la prima gara ufficiale, che ha visto Maddalena Migliaccio e Cesare Goffi nei primi posti femminile e maschile. Proprio quel Cesare Goffi che oggi è il responsabile organizzativo della gara. Nel 2004, dopo un’interruzione durata quindici anni, è stata riproposta con partenza dal molo di Levante, e l’ottima riuscita delle ultime edizioni ha consentito alla Cagliari – Poetto di ottenere il riconoscimento della Federazione Italiana Nuoto, e di essere inserita nel calendario nazionale.

I RISULTATI. Andrea Volpini e

Rachele Bruni, dopo aver trionfato nel fondo e nel mezzofondo, si sono aggiudicati anche la “Tripla Ugo Goffi”, trofeo della classifica combinata delle tre prove. L’azzurra dell’Esercito ha fatto il pieno: tre vittorie su tre. Volpini, atleta di Empoli, è stato superato solo nella gara d’esordio, il gran fondo, nella quale ha avuto la meglio il genovese (con genitori di Arzana) Edoardo Stochino. Una prova estenuante, che solo quattro sardi hanno avuto il coraggio di affrontare: Enrico Follese, Luigi Pintus, Maurizio Iovieno e Amanda Melis. Oltre duecento nuotatori, invece, si sono cimentati nelle distanze più brevi. Il mare, calmo e limpido, non ha creato problemi, se non nella giornata del mezzofondo. Un’ottima occasione, anche per gli amatori, di mettersi alla prova. Contro la fatica, le onde e le meduse.

copiright photo Ignazio Sanna


PORTFOLIO L’ISOLA OLTRE L’ESTATE


Riccardi Palmiero


Mensile di portualità, spiagge, sport, trasporti, viaggi e cultura mediterranea mediterranea ®

Anno VI N. 24 2010 - Spedizione in Abb. Post. - 45% - Art. 2 comma 20/b legge 662/96 •

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MAXI YACHT E TAVOLE A VELA

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Tra i nostri collaboratori • Attilio Mastino - Rettore dell’Università

di Sassari, é nato a Bosa nel 1949. Professore di storia romana ed epigrafia latina, é particolarmente impegnato nella promozione delle indagini sulla Sardegna romana e sul Maghreb romano (dal 1994 dirige le campagne di scavi in Tunisia). E’ autore di

Scritti di: Giorgio Ariu, Attilio Mastino, Raimondo Zucca, Antonello Angioni, Paolo Fadda, Lucio Deriu, Carlo Cottafavi, Simone Ariu, Francesco Fuggetta, Nadia Pacini Fotografie Gia Foto, Andrea Nissardi, Paolo Curto, Barbara Michalak, Sarah Pinson, Enrico Spanu ,Maurizio Artizzu, Pipi Surfaction

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oltre 200 importanti pubblicazioni e svolge anche un’intesa attività di carattere divulgativo.

• Raimondo Zucca - Archeologo e storico

dell’antichità, é nato a Oristano nel 1954. Curatore dell’Antiquarium Arborense dal 1992, professore di Antichità romane nell’Università di Sassari dal 1998, ha promosso l’attivazione dell’insegnamento di Archeologia subacquea. Ha effettuato diversi scavi archeologici ed é autore di numerose pubblicazioni.

Marchio N° CA2005-C000191 Depositato il 30/11/2005

giorgio ariu editore Premio Europa per l’Editoria - Pisa Premio Editore dell’Anno per l’impegno sociale e la valorizzazione della cultura sarda VIA MARE E’ MARCHIO DEPOSITATO N° CA2005C000191

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• Andrea Nissardi - Da 35 anni fotografo professionista per le più importanti testate internazionali dalla Costa Smeralda e della GIA Editrice. • Paolo Fadda - scrittore, economista, storico della città di Cagliari. Recentemente ha pubblicato con Gia Editrice “C’era una volta in Sardegna la DC”

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