PRIMO PIANO
Una politica esperienziale – Gilets Jaunes come “Popolo” DI REDAZIONE · 5 DICEMBRE 2021
Traduzione di un’intervista a Michalis in lundimatin#170, 19 dicembre 2018
Lianos
apparsa
In questo millennio quasi tutte le rivolte, le occupazione delle piazze, i cortei hanno avuto episodicamente una forte intensità per poi sgonfiarsi e liquefarsi senza lasciare tracce importanti. Tanti di questi eventi avevano una caratteristica particolare, il fatto di essere inattesi, non organizzati, spontanei e non ascrivibili a categorie politiche consolidate. A parte le rivolte antirazziali americane che continuano a covare sotto le cenere per scaricarsi e incendiare molte città degli Stati Uniti e dove il lavoro dei Black Live Matter è riconoscibile tanto da dare continuità a quegli stessi episodi, in Europa le mobilitazioni di massa sono invece ad opera di un soggettività sconosciuta, sino a quando la stessa non si fa manifesta. Così è o è stato per il movimento Viola e attualmente per i Novax. In Francia le cose sono sempre state diverse perché è risaputo – come infatti dice Paolo Conte – che “i francesi si incazzano” e lo fanno per delle ragioni perfettamente riconoscibili e ascrivibili a categorie come quella della lotta di classe che hanno dominato le manifestazioni di dissenso nel secolo scorso. Così le manifestazioni e gli scioperi in opposizione alla Loi Travail del 2016, ma non però per la rivolta dei gilets jaunes a cavallo tra il 2018 e il 2019. Di questo fenomeno ha cer-
cato di dare una spiegazione il sociologo Michalis Lianos la cui intervista è comparsa su lundimatin#170, del dicembre del 2018.
Di questi stessi eventi ce ne siamo occupati anche noi del laboratorio perUnaltracittà, pubblicando alcuni pezzi qui, qui , qui e qui. Nonché in un pezzo che prendeva le mosse a partire proprio da questo articolo. Ecco allora la traduzione dell’intervista a Lianos che potete scaricare qui sotto. Segnaliamo inoltre questi due belli articoli apparsi su “qui e ora”, peraltro citati nel pezzo di cui parlavamo sopra: “Meme senza fine” e “Meme con la forza” di Paul Torino e Adrian Wohlleben. Traduzione di Gilberto Pierazzuoli Intervista apparsa in lundimatin#170, 19 dicembre 2018
Scarica il pdf: “Una politica esperienziale”
Costa San Giorgio a Firenze: i vandali in casa DI ANTONIO FIORENTINO · 4 DICEMBRE 2021
“Quanto nel fango trovi la pena chi ha troppo voluto” Dante Alighieri A Firenze, nel più totale spregio delle richieste di una puntuale informazione e di un’attiva partecipazione dei cittadini, si avvia a conclusione la procedura per la trasformazione in Resort di Lusso dell’ex “Scuola di Sanità Militare, Caserma Vittorio Veneto” di Costa San Giorgio. Il complesso, di straordinaria rilevanza architettonica, posto a ridosso del colle del Forte Belvedere e del Giardino di Boboli, nel 2015 è stato “valorizzato”, ossia privatizzato e svenduto dal Demanio dello Stato, tramite la Cassa Depositi e Prestiti, al gruppo finanziario Lionstone Development. Questo ha sede a Miami Beach e la proprietà fa capo alla famiglia Lowenstein che in Toscana è già in possesso della Villa Medicea e del Parco di Cafaggiòlo. Questa vicenda ci pone di fronte al fallimento della gestione del patrimonio culturale e architettonico del Paese. Da un lato l’amministrazione centrale dello Stato, prona ai dogmi del mercato, apre i propri beni, cioè quelli di tutti noi, agli investimenti privati di tipo immobiliare e speculativo, dall’altro, la folta schiera di arrendevoli amministratori locali è incapace di governare e controllare, nell’interesse generale e, perché no, nell’interesse delle fasce più deboli della popolazione, il modo con cui la città e il suo territorio dovrebbero trasformarsi. In questo senso, quanto accade a Firenze è emblematico delle dinamiche in atto: turistificazione di massa e saccheggio del patrimonio pubblico e storico ci consegnano una città esangue, spenta e ripiegata sulla ricerca di un immediato profitto immobiliare o commerciale, senza alcuna prospettiva di rinnovamento. La crisi pandemica avrebbe dovuto far riflettere sul fallimento del precedente modello di sfruttamento turistico della città, ma vediamo che così non è. Sindaco e assessori fanno a gara per trasformarsi nei “buttadentro”
della città, reiterando gli errori passati e rendendosi responsabili dell’“urbanicidio” di Firenze.
Quanto sta accadendo in Costa San Giorgio è ancor più grave vista la posizione centrale dell’area, cuore del Patrimonio Unesco dell’Umanità, incastonata tra i complessi artistici e monumentali che tutto il mondo conosce e ci invidia. Il medievale Podium San Georgii, uno degli angoli di più antico insediamento della città, complice un’immemore amministrazione comunale, si trasforma nella collina del lusso: viene occupato da un Luxury hotel in salsa argentina destinato a diventare il baricentro di un sistema monumentale posto al suo diretto servizio vista la contiguità con il Forte Belvedere, il Giardino Bardini, il Giardino di Boboli, Palazzo Pitti e Ponte Vecchio. E dunque a Firenze, di cosa dovremmo essere fieri? Di aver visto trasformare i conventi di San Girolamo alla Costa e di San Giorgio e dello Spirito Santo in Alberghi di lusso corredati di Centro benessere e Centro fitness? Di vedere l’antistante Teatro all’aperto “generosamente” concesso per otto giorni l’anno (sic!)? Di dover constatare la presenza sulla Costa del Ristorante San Girolamo e di una “raffinata” enoteca, per veri intenditori, con annesso ristorante all’aperto? Oppure di scoprire che la microterrazza verde, da cui ammirare la bellezza esclusiva del resort, avrà un auditorium che la città potrà utilizzare, udite udite!, dodici giorni l’anno?
Certo, è vero che per anni il complesso monumentale è stato segregato dai militari. La dismissione della caserma avrebbe potuto costituire una formidabile opportunità di recupero conservativo della struttura architettonica e di riqualificazione urbana del quadrante dell’Oltrarno, proprio a partire dai bisogni della città e del quartiere. Nulla di tutto questo. Ai nuovi padroni della città è stato consentito segregare nuovamente questo spazio mentre l’amministrazione Nardella esibisce come conquista le vergognose briciole elargite alla città dai ricchi proprietari argentini. Infatti, i prospettati accessi alla struttura, come abbiamo visto, sono risibili, mentre i tanto sbandierati due milioni di euro di compensazioni da investire in
opere in loco e nel quartiere, non sono l’esito di una efficace negoziazione condotta dal comune. In realtà, l’importo è dovuto e deriva dalla monetizzazione della superficie a standard, pari a 3.207,84 mq., superficie che invece l’amministrazione avrebbe dovuto prescrivere di reperire all’interno dell’ampia struttura (circa 30 mila mq.), rendendola permeabile e aprendola stabilmente alla città e al quartiere.
La nuova edizione del progetto che l’amministrazione dovrebbe approvare nei prossimi giorni non affronta i nodi problematici più volte segnalati, da quello delle categorie di intervento edilizio ed urbanistico, alla instabilità del versante collinare e non ultimo alla presenza della mai tanto vituperata cremagliera. L’amministrazione, nonostante le numerose e qualificate osservazioni pervenute, ripropone la ristrutturazione edilizia quale categoria di intervento al posto
del restauro e risanamento conservativo, delegando erroneamente alla Soprintendenza il controllo del cantiere. Sottolineiamo che non ottemperare alle prescrizioni della Soprintendenza, che prevedono il solo restauro quale categoria di intervento, espresse nell’atto con cui si autorizza la vendita degli immobili, comporta l’annullamento del contratto di compravendita, con tutte le conseguenze annesse. Noi saremo lì attentamente a controllare. Sono riproposti, leggermente variati, i vani interrati, i magazzini, il parcheggio sotterraneo e il lungo tunnel carrabile di accesso che sottoattraversa gli edifici storici. Ribadiamo che siamo sul Poggio delle rovinate, famoso proprio per i frequenti smottamenti del versante collinare. Lo stesso Buontalenti ne è stato testimone avendo avuto la casa distrutta da uno di questi eventi. Così a cuor leggero si scava, ci si inoltra nelle viscere di un colle profondamente instabile mettendo a rischio anche l’integrità del patrimonio architettonico soprastante. La cremagliera, nonostante non sia mai stata menzionata, non scompare ma è stata spostata sotto il Forte Belvedere, in corrispondenza della servitù di passo concessa proprio nell’area storica e in previsione del traffico merci in ingresso del complesso alberghiero e dei rifiuti in uscita.
Non ultimo, alla Corporation argentino/statunitense è concesso intervenire mediante un Progetto unitario Convenzionato, ossia con uno strumento poco più impegnativo di un semplice Permesso di Costruire, corredato di una convenzione della durata di 10 anni. Ormai è cosa nota, le amministrazioni fiorentine si sono votate a un’urbanistica light, anzi, quasi del tutto trasparente. Le varianti al Regolamento Urbanistico sono quasi sempre semplificate, si elude spesso e volentieri l’assoggettabilità a Valutazione Ambientale Strategica dei piani, mentre anche gli interventi di una certa complessità, proprio come quello in Costa San Giorgio, avvengono al di fuori di un qualsiasi Piano Particolareggiato, che avrebbe consentito maggiori controlli, maggiore partecipazione e forse esiti progettuali migliori di quello attuale. Cosa possiamo pretendere da queste amministrazioni comunali? Dovendo pianificare l’area, ammettono sfacciatamente di non essere in grado di farlo, come dichiarato nella scheda norma del 2015: “La complessità del manufatto e la sua particolare ubicazione non consentono di operare in questa fase scelte previsionali che permettano di garantire un adeguato recupero del bene … e il corretto insediamento di nuove destinazioni d’uso che non costituiscano fattori di criticità a livello urbanistico”. E allora gli amministratori cosa fanno? Lasciano mano libera al privato. Questi indice un concorso. Al termine della procedura, nell’accordo integrativo del dicembre 2015, la giunta Nardella riconosce che il progetto, selezionato dalla proprietà immobiliare, diviene la proposta di variante urbanistica, mentre “il suo svolgimento è di esclusiva competenza della proprietà dell’immobile e, di conseguenza, frutto esclusivo di autoregolamentazione”. Con quest’ultima clausola, sin dal 2015, il comune si è legato mani e piedi ai vo leri e agli interessi della proprietà! E non è quindi un caso che poi ci si ritrovi, citando Antonio Cederna, con i Vandali in casa: “Vandalo è chi distrugge l’antico. Ma non solo. Vandalo è chi distrugge l’antico perché la città assuma una fisionomia più consona a interessi privati e non pubblici, perché il suo territorio venga spremuto al pari di una risorsa dalla quale ricavare quanto più reddito possibile”. Ancor di più lo sono coloro che pur potendo, non impediscono, o addirittura sostengono, lo scempio dei vandali. *Antonio Fiorentino
I lavoratori GKN guardano alla mobilità sostenibile DI TIZIANO CARDOSI · 7 DICEMBRE 2021
Lotta per il posto di lavoro e pianificazione economica collettiva Stiamo vivendo un periodo piuttosto gramo da un punto di vista sociale ed ambientale, ma dobbiamo riconoscere che ci sono sintomi di qualcosa di nuovo nell’aria, qualcosa totalmente alieno al “totalitarismo del profitto” e all’impero della finanza. Uno di questi sintomi positivi è senz’altro l’impegno che i lavoratori della GKN stanno profondendo nella difesa del loro posto di lavoro e dello sta bilimento che la finanziaria inglese che lo ha acquistato vorrebbe chiudere per puri scopi speculativi. So
no ormai decenni che vediamo storie di delocalizzazioni, chiusure, fallimenti, ma spesso le lotte ingaggiate dai lavoratori sull’orlo della perdita del posto di lavoro erano sulla pura difensiva, disperate; spesso lotte e comportamenti coraggiosi e generosi, ma lotte di singole realtà contro un sistema inafferrabile, potente e sfuggente.
Le azioni degli operai della GKN hanno invece scelto fin da subito di evidenziare il conflitto e di difendere il lavoro contrattaccando, chiamando il mondo della politica e sindacale alle proprie responsabilità e a rispondere alle loro proposte molto concrete. Forse la più incisiva è stata la proposta di legge, elaborata con giuristi solidali, per impedire la delocalizzazione delle imprese per puri interessi economici della proprietà; un argomento su cui i partiti presenti in Parlamento tacciono, coprendosi dietro un europeismo falso e attento solo agli interessi finanziari delle grandi imprese transnazionali. Al contrario la proposta nata nello stabilimento di Campi Bisenzio ha ricordato come il sistema produttivo, anche industriale, sia legato al territorio e debba rispondere anche alle necessità di chi lo abita. In questa visione ampia del loro lavoro, dei diritti dei lavoratori e di quelli di chi vive attorno, è arrivata una nuova proposta molto interessante: quella di un percorso in cui elaborare un progetto industriale di riconversione dello stabilimento verso una mobilità sostenibile: assieme agli operai, economisti, ingegneri, informatici, sociologi di vari atenei toscani hanno illustrato come sarebbe possibile una proficua modifica del prodotto finale che risponda alle richieste emergenti di una decarbonizzazione di produzione e mobilità. Presente la coscienza che il mondo dell’automotive era in contrazione già prima della crisi scatenata dalla pandemia e la tendenza aumenterà, di come il passaggio progressivo a mezzi elettrici ridurrà la necessità di mano d’opera per la maggior semplicità di questi mezzi. Di questi problemi si è discusso e si sono prospettate risposte, nelle chiacchiere che vengono dal Parlamento non c’è traccia di questi fondamentali argomenti. Si è prospettato anche un piano finanziario della soluzione della crisi proponendo il coinvolgimento di centri studi, università, ma soprattutto si è ricordato che è necessario il coinvolgimento delle istituzioni per permettere finanziamenti adeguati; a questa prospettiva ha già risposto il Presidente della Regione, Eugenio Giani, esprimendo una prudenza che sa quasi di diniego; d’altronde finora si è fatta solo retorica.
Al di là delle concrete proposte in discussione ci pare molto importante il percorso che viene indicato con la collaborazione proficua di lavoratori, mondo accademico e territorio con i suoi abitanti; non può mancare il confronto di come invece si è tentato di gestire i fondi del PNRR in Toscana dove si sono succeduti intensissimi incontri tra la Regione, Confindustria e fondazioni bancarie senza alcun ascolto delle proposte della società civile. La grande novità che esce dalla lotta di questi lavoratori è la proposta politica di concreta democrazia che coinvolga tutti i settori sociali uscendo dal sistema sostanzialmente oligarchico esistente; durante il dibattito si sono sentite proposte definite di “progettualità condivisa”, formula che fa eco a quella di “pianificazione collettiva” di Emiliano Brancaccio e che ci pare faccia un passo ulteriore rispetto al “controllo operaio” o al “controllo popolare”. Questa novità si è concretizzata fin dall’inizio dell’assemblea nella frase “possiamo essere classe dirigente”, segno di una coscienza risorgente dopo 40 anni di martellamento mediatico degli pseudo-valori liberisti. Indipendentemente da come andrà la vertenza questa esperienza è la dimostrazione che un altro modo di fare politica economica è non solo possibile, ma necessario, un segno molto positivo che non dobbiamo dimenticare. Nello stesso tempo è emersa, soprattutto dagli interventi dei lavoratori, la coscienza delle difficoltà esistenti: il futuro dello stabilimento e delle politiche future dipende molto dai rapporti di forza esistenti e questi, al momento, pendono a favore dell’oligarchia al potere; sono coscienti di essere sulla difensiva e la loro azione tiene intelligentemente conto di questa condizione. Questa consapevolezza che la situazione della debolezza degli operai GKN è comune a tutto il mondo del lavoro ci dice anche come sia urgente che la coscienza delle classi subalterne riemerga, si purghi dai malefici effetti dei disvalori correnti e renda egemone la possibilità che tutti possono e devono essere classe dirigente.
Un grazie enorme lo dobbiamo dire a tutti questi lavoratori della GKN, sono un sintomo di resurrezione. Tiziano Cardosi
Violenza di genere: 25 novembre sempre DI ORNELLA DE ZORDO · 7 DICEMBRE 2021
Ancora una volta, quest’anno, una data che non dovrebbe essere vuota ricorrenza, come la “Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza sulle donne” del 25 novembre, si è puntualmente mostrata l’occasione perché istituzioni di vario livello facessero pinkwashing. Perché, se alle parole non seguono i fatti e, anzi, i fatti smentiscono le parole, di questo si tratta. Quelle stesse istituzioni che per 24 ore si sono profuse in dichiarazioni contro la violenza sulle donne, sono responsabili della carenza di risorse disponibili per i Centri antiviolenza e le Case Rifugio, le strutture di accoglienza per le donne che decidono di fuggire da situazione di violenze e abusi. E neanche tanto per mancanza di fondi, ma per il loro mancato utilizzo.
Roma, 27 novembre 2021
Il report 2021 di ActionAid “Cronache di un’occasione mancata” registra una fotografia impietosa dell’utilizzo delle risorse del sistema antiviolenza nazionale.
Un’accurata analisi dimostra che gli impegni presi sono in grandissima parte disattesi e i finanziamenti già stanziati richiedono anni per essere effettivamente disponibili, perché le pratiche si insabbiano negli uffici e nelle stanze che dovrebbero consentirne l’attuazione in tempi rapidi. I tempi, invece, sono essenziali, in un paese dove si registra un femminicidio ogni 72 ore, a cui si aggiungono 3 transcidi nel 2021. E, anche quando non si ar rivi a tanto, i ritardi si riflettono tragicamente sulla vita stessa delle persone che hanno bisogno di essere ascoltate, aiutate e accolte. Sulla carta, negli ultimi anni le istituzioni in Italia si sono occupate di prevenzione, protezione e contrasto alla violenza maschile: hanno approvato norme, elaborato documenti strategici, sfornato testi programmatici e hanno anche stanziato risorse. Ma, in concreto, quanti fondi arrivano a chi opera sul territorio? Ecco in sintesi i dati più significativi, al 15 ottobre 2021. Il Piano nazionale antiviolenza per il triennio 2021-2023, dopo un anno dalla scadenza del Piano 2017-2020, non è ancora stato reso operativo. Nessuna risorsa è ancora stata trasferita dal Dipartimento Pari Opportunità alle Regioni per il 2021. Per l’annualità 2020 ci sono voluti 7 mesi per il trasferimento dal Dipartimento Pari Opportunità alle Regioni che ad oggi hanno erogato solo il 2% dei fondi nazionali antiviolenza. Dopo tanto parlare di semplificazioni burocratiche, che guarda caso funzionano se si tratta di snellire l’iter per le Grandi Opere o per norme d’ordine pubblico cosiddette di emergenza. La situazione complessiva è disastrosa anche se risaliamo all’utilizzo dei fondi negli anni precedenti, visto che ad oggi è stato erogato solo il 56% di quanto stanziato nel 2019, il 67% per il 2018; il 71% per il 2017 e il 74% di quanto stanziato negli anni 2015 e 2016.
Roma, 27 novembre 2021
Quanto ai fondi straordinari per rispondere ai bisogni delle donne durante l’emergenza sanitaria da covid, in troppi casi non sono ancora arrivati alle beneficiarie, a un un anno e mezzo dal loro stanziamento. E solo l’1% delle risorse destinate dal DL Cura Italia alle Case rifugio per far fronte alle spese straordinarie è stato effettivamente liquidato. Ma non è finita. La prevenzione e il contrasto della violenza sulle donne sono assenti dalle pianificazioni strategiche adottate a livello nazionale con il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e la Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026. Come scrive ActionAid: “Si tratta di una decisione che confina i diritti delle donne, compreso quello di vivere una vita senza violenza, a politiche e azioni non integrate alle strategie e alle programmazioni economiche, sociali e culturali che regolano la vita del Paese”. Sono dati che devono essere divulgati, e di cui va chiesto conto a chi fa parte di questa catena tossica, perché è di fatto corresponsabile, per inerzia o disinteresse, dei mancati aiuti. E’ evidente che le politiche antiviolenza maschile e di gene re non sono state considerate dalle istituzioni italiane una priorità da affrontare con le tempistiche e le modalità che un fenomeno così grave richiede e che ha bisogno urgente di un drastico cambio di passo e di mentalità.
Basta leggere i dati: sono oltre 15mila – secondo l’Istat – le donne che nel 2020 hanno iniziato il percorso di uscita dalla violenza presso i Centri. E, nel 2020 – sempre secondo Istat – i femminicidi sono stati 106 (quasi 9 al mese) su 116 rilevati in totale, dove – sarà bene ripeterlo – la maggior parte delle donne (77,6%) è stata uccisa da un partner o da un parente (dato stabile nel tempo): percentuale che nei mesi di marzo e aprile 2020 ha raggiunto rispettivamente il 90,9% e l’85,7%. Il 2021 ha visto un aumento di questo fenomeno dell’8%. Nel 2021 sono più di 90 i femminicidi e 3 i transcidi. Inoltre, il Dipartimento Pari Opportunità continua a delegare alle Regioni l’onere di implementare quanto previsto dal Piano antiviolenza, lasciando alle amministrazioni regionali la possibilità di scegliere come utilizzare le risorse e quali attività finanziare. Con il rischio di veder aumentare i divari esistenti tra regioni, e di non assicurare la stessa disponibilità di servizi in tutte le parti del Paese. Come infatti avviene. Abbiamo anche sentito elogiare il reddito di libertà per le donne che fuoriescono dalla violenza, che è una misura ridicola: 400 euro al mese per 12 mesi sono cifre che non possono garantire autonomia e che oltretutto discriminano, perché inaccessibili per le donne migranti irregolari in Italia. Inoltre, i fondi stanziati sono insufficienti perché su oltre 20.000 donne accolte nei Centri Antiviolenza potrebbero beneficiarne solo 625. Parlando di cifre, nel 2020 il Dipartimento Pari Opportunità ha erogato circa 61,6 mln per prevenire e contrastare la violenza. Ancora una volta, tali risorse sono state prevalentemente destinate a interventi di protezione (58,5 mln di euro, pari al 95%) e in misura residuale (970 mila euro, pari al 5%) ad azioni di prevenzione. Il totale sbilanciamento dei fondi a favore dell’asse Protezione dimostra che in Italia c’è ancora un approccio emergenziale e manca di una visione politica che voglia incidere organicamente sulla prevenzione, di cui a parole tutti riconoscono l’importanza. Come ha sottolineato Di.R.E., non solo i fondi del piano triennale anti-violenza arrivano con inaccettabile ritardo, ma per il loro utilizzo non sono state interpellate le realtà che lavorano concretamente su questo fronte. Mentre sappiamo che a farsi carico delle azioni di prevenzione, soprattutto primaria e secondaria, sono stati soprattutto i centri antiviolenza che, nel corso degli anni, se ne sono occupati spesso a titolo gratuito e che si trovano a combattere quotidianamente con un numero sempre più alto di persone che hanno bisogno di luoghi sicuri e protetti.
Da questo quadro (e da molto altro) dobbiamo dedurre che l’Italia non è stato finora un Paese per donne. Persino 7 ministre di questo Governo se ne sono accorte, se hanno presentato il 3 dicembre in Consiglio dei Ministri un Disegno di Legge per rivedere alcuni parametri del Sistema Antiviolenza, un iter i cui esiti sono tutti da verificare. Fanno dunque benissimo le ragazze, giovani e meno giovani, insieme a perso-
ne LGBTQIAP*+, a denunciare discriminazione e violenza – come in 100.000 hanno fatto a Roma il 27 novembre – e a incalzare con ogni mezzo necessario istituzioni locali e nazionali finché dalle piazze le loro voci vengano sentite nelle stanze del potere di uno Stato ancora misogino e omofobo. Come diceva un cartello che sfilava il 27 novembre per le strade di Roma: “Sex is cool but have you ever fucked the Patriarchy?”. Appunto. Ornella De Zordo
Mai più orfani di madre: un viaggio attraverso la discriminazione di genere nel mondo accademico DI FRANCESCA PIGNATARO · 1 DICEMBRE 2021
Con quale criterio si scelgono gli autori da inserire nei libri da studiare tra scuola e università? Ufficialmente si selezionano i pensatori fondamentali per la formulazione teorica di quel preciso campo di studi. Il processo di selezione, se lo si guarda da questa prospettiva, potrebbe sembrare neutrale: gli studiosi più acuti e che per primi hanno studiato alcuni fenomeni hanno buone possibilità di diventare classici, e gli studenti hanno buone possibilità di doverli studiare per forza. Questo processo, che potremmo definire di inclusione-esclusione, diventa interessante analiticamente se non lo si osserva da un punto di vista individuale e si presta attenzione ai gruppi sociali inclusi ed esclusi dalla categoria dei classici. In questo caso l’esclusione non si fonda sulla validità o l’innovatività del pensiero o della proposta scientifica, a farsi avanti è un principio discriminatorio. Quanto frequentemente si sente parlare dei “padri fondatori” di una certa disciplina o di un certo filone di pensiero? Ma è possibile che tutta la storia del pensiero sia orfana di madre? Questo è un chiaro esempio di esclusione su base discriminatoria. Si potrebbe contestare la mia affermazione dicendo che gli uomini -in particolare gli uomini delle classi sociali più ricche- storicamente abbiano avuto più liberamente accesso all’istruzione; dunque, siano stati più istruiti e liberi di dedicarsi alla attività intellettuale. Le donne, al contrario, sono state relegate in una dimensione domestica e privata vedendo negato il riconoscimento delle proprie capacità cognitive. Il che è vero, ma questa spiegazione è sufficiente o è viziata dal senso comune?
Cerchiamo di rispondere partendo da un esempio concreto, il caso di Marianne Weber. Nei corsi di sociologia è un evento più unico che raro sentir parlare di lei, al massimo la si cita in quanto moglie di Max Weber, tra “i padri fondatori” della sociologia. Ma prima di essere moglie di qualcuno, Marianne Weber è stata una sociologa, una politica ed una femminista. Nacque in Vestfalia nel 1870 in una famiglia della medio-alta borghesia tedesca: il padre era un medico e la madre era figlia di un importante uomo d’affari, Karl Weber. Dopo la morte dei suoi genitori, Marianne si trasferì e iniziò a studiare in un collegio ad Hannover, grazie al sostegno economico del nonno Karl che pagava la sua retta. In seguito, si trasferì da una zia, Alwine Weber, e lì incontrò Max. Dopo il loro matrimonio Marianne continuò a studiare, seguì soprattutto corsi di filosofia, sostenuta dallo stesso Max. Iniziò a militare in movimenti femministi liberal-borghesi, iniziò a pubblicare i suoi primi libri, nel 1919 entrò nel Partito Democratico Tedesco diventando la prima donna eletta nella Repubblica di Baden e fu anche presidente dell’Unione delle organizzazioni femministe tedesche. In seguito, anche dopo la morte del marito, continuò a dedicarsi alle sue attività di ricerca e scrittura e nel 1924 le fu concessa una laurea honoris causa in giurisprudenza. Marianne era una parte attiva della socialità accademica tedesca, eppure tutti ricordano il marito dimenticando lei. Questa non vuole essere una battaglia tra i sessi, tra chi è più meritevole e chi non lo è, ma è interessante constatare quanto fin da allora le studiose fossero delegittimate rispetto ai propri colleghi. Non erano percepite come sociologhe, per esempio, ma viste primariamente come moglifiglie-compagne di qualcuno, come se vivessero all’ombra degli uomini della loro vita, e al massimo percepite come attiviste più che come accademiche.
È facile intuire perché, da un punto di vista femminista, dimenticare l’esistenza di queste donne e le idee portate avanti da loro sia discriminatorio, ma questo non è l’unico aspetto problematico della vicenda. Riprendiamo il caso di Marianne Weber: dimenticare lei, i suoi libri e la sua produzione intellettuale significa ridurre gli strumenti analitici a propria disposizione per studiare la realtà ed i suoi processi sociali. Smettere di ignorare le studiose che si sono susseguite nei secoli non è solo un atto politico, permette anche di superare uno stato di ignoranza recuperando delle conoscenze andate perse. In questo caso il concetto di “ignoranza” non è usato per descrivere un semplice stato di non conoscenza, ma assume delle caratteristiche filosofiche peculiari: l’ignoranza sul sapere prodotto dalle donne è un prodotto culturale, in quanto deriva da un sistema sociale fondato su rapporti di genere diseguali in cui la voce delle donne è silenziata in virtù del dominio maschile sulla scena pubblica. Non è un’ignoranza inconsapevole, ma un’ignoranza colpevole. Le accademiche sono state vittime, per riprendere un concetto teorizzato dalla filosofa Miranda Fricker, di un’ingiustizia epistemica: le donne anche nel mondo accademico sono state oggetto di un deficit di credibilità a causa dei pregiudizi legati alla femminilità e agli stereotipi di genere: dipingerle come meno razionali rispetto agli uomini, e per natura meno inclini al pensiero logico e astratto, ha generato lo stereotipo per cui le loro idee sono da considerarsi meno valide. Cosa aspetta il mondo accademico a riscattarsi da un’arretratezza culturale che condiziona la formazione di studenti e studentesse? Francesca Pignataro
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Per un’ecologia anticapitalista del digitale
La catastrofe è il capitalismo DI GILBERTO PIERAZZUOLI · 5 DICEMBRE 2021
Per un’ecologia anticapitalista del digitale – Parte numero 7.1 Il mondo occidentale è in crisi, il mondo globalizzato lo è di riflesso. Siamo immersi in una crisi ambientale, in una crisi sanitaria, in una crisi economica e sociale. Non è l’ansa di una curva periodica alla quale seguirebbe un picco di crescita. È qualcosa di più profondo. Se osserviamo il mondo con gli occhi dell’Occidente, si tratterebbe di coincidenze, si tratterebbe di ambiti non in relazione diretta. Il progresso scientifico, la tecnoscienza vanno infatti avanti, forse miglioreranno ancora le aspettative di vita; forse miglioreranno ancora le possibilità evolutive della specie. Si parla qui di evoluzione culturale che ormai sappiamo essere intrecciata con quella biologica e con quella tecnica. Siamo ibridi simbionti, esseri plurimi la cui individuazione è sempre più contaminata dalle coevoluzioni con altre specie (in primis, virus e batteri) e con l’ibridazione tecno-cognitiva che le macchine permettono. Macchine reali e macchine virtuali: entità algoritmiche capaci di agire autonomamente. Ma la crisi è quella di un modello. Dire che a quel modello non esiste alternativa (TINA), accentua la crisi. Accentua la depressione, lo spaesamento, la perdita di realtà. Su molti piani, il modello occidentale ha fallito. Sulla capacità di redistribuire la ricchezza – si allarga infatti sempre di più la forbice tra i pochi ricchi e gli innumerevoli altri. In Occidente il numero dei poveri è in aumento, così nel mondo, se escludiamo dal calcolo la Cina che però applica una forma di sviluppo in parte diverso da quello dell’Occidente. Segue il riscaldamento globale con gli indicatori ormai ben presenti, ma rispetto ai quali poco si fa per porci rimedio. Le discriminazioni di genere, di raz za, cultura e religione, lungi da essere ormai estinte si riproducono con virulenza (femminicidi in aumento), rivolte degli Afroamericani, nuove crociate nei confronti dell’Islam. Con virulenza si riproduce il Covid 19 e dopo 5 milioni di morti, con molti vaccinati (sempre in Occidente) siamo ancora ad assistere a una nuova ondata di contagi. E la pandemia non è una piaga naturale, ha origini da alcuni comportamenti intrinsechi al modello occidentale di sfruttamento della natura e si diffonde attraverso la mobilità degli ospiti umani anche questa tipica dei modi di vita della modernità occidentale.
Stiamo parlando del modello occidentale che si basa su alcuni assiomi: il modo di produzione capitalista, il controllo patriarcale delle donne e dei minori, il libero mercato, con la forma stato ridotta ai minimi termini, perlopiù facilitatori delle politiche liberiste; l’uso della natura come luogo esterno e sullo sfondo, sulla quale domina l’economia umana. Una forma di liberismo che prevede l’abbattimento di ogni tipo di ostacolo per la mobilità delle merci, mentre ne costruisce di appositi per bloccare la circolazione di quegli umani che carestie, guerre e sfruttamento, mettono in cammino per accedere alla fortezza occidentale dove abitano ancora i più ricchi del pianeta. Un modello di sviluppo
a grossa domanda energetica con la produzione della stessa per mezzo di materiali fossili non rinnovabili. Un modello che misura la ricchezza attraverso dei parametri quali il PIL, che deve essere sempre in crescita a meno di una crisi profonda e letale per il sistema che non si potrebbe più alimentare attraverso le fasi di accumulo della ricchezza.
Per molti aspetti questo sistema si dimostra essere non riformabile, pena la sua completa rovina. Non uno degli assiomi citati è infatti rivedibile o azzerabile. Così è delle discriminazioni che lavorano tutte in favore del sistema stesso che si alimenta infatti tramite le differenze. Differenze che lo potenziano e con le quali giocare nei confronti dei subordinati, che accrescono la sua capacità di svolgere il compito della lotta di classe. Il sistema ha bisogno di subordinati da poter utilizzare sia come forza lavoro sia come consumatori. Il sistema ha bisogno di non prendersi cura dei processi della riproduzione della natura e degli umani, della forza lavoro. Il sistema soffre di crisi periodiche da sovrapproduzione e per la caduta tendenziale del saggio di profitto; ecco perché nelle fasi negative cerca di ampliare le fonti per l’accumulazione della ricchezza. Ecco il capitale che fa la spesa attingendo ai beni comuni; che esaspera le differenze esternando e delocalizzando le sue produzioni verso i nuovi ultimi. Ci sono ormai lavori pensati per loro: sono i lavoretti (la cosiddetta gig economy) che in realtà tutti coloro che l’avrebbero dovuta fare (per esempio gli studenti) non hanno fatto. Una economia dei lavoretti che perciò fanno coloro che un reddito bastante e decente non lo hanno. Ecco anche lo sfruttamento delle donne alle quali il modello patriarcale ha affidato il compito della cura e della riproduzione, ma che possono – sulla scia di forme di emancipazione conquistate con le lotte – anche accedere ai lavoretti per i “non lavoranti” o al lavoro vero, ma con una certa differenza di trattamento. Cose risapute, eppure… Eppure il fatto che non ci possa essere liberazione delle donne, dei diversamente colorati, dei colonizzati, della natura dallo sfruttamento incondizionato da parte del capitale; che non ci possa essere un ambiente che goda degli stessi diritti degli umani che lo sfruttano; che non si possa chiedere cosa produrre, come produrre e dove produrre, ma che tutto questo lo scelga il sistema; che si cerchi di rimediare ai disastri attraverso delle forme di aggiustamento che non mettono in discussione il modo, il modello e le ragioni ultime. Ebbene, tutto questo non è così evidente. Non è così evidente tantoché uno storico bengalese di orientamento marxista si incaponisce a dire che le responsabilità dello scempio e della catastrofe ambientale è qualcosa di inerente all’umanità tutta e non di quella parte dell’umanità che ha perseguito questi comportamenti per il proprio tornaconto. Certo ci sono responsabilità diverse, ma il cambiamento climatico è per Dipesh Chakrabarty qualcosa che ha a che fare con la storia del pianeta e non con la semplice storia umana. Questi sarebbero fenomeni che viaggiano a velocità così diverse, tali da essere in sé di valore indifferente da un con-
testo all’altro. Ci sarebbero infatti due modi di maneggiare il tempo, uno sarebbe il tempo degli umani, l’altro sarebbe il tempo profondo che ci racconta anche altro. E cioè che questo punto di crisi – nel senso originario del termine[i] – di punto critico nel decorso della malattia del pianeta, fosse il frutto di una serie di svolte anche casuali e di una serie infinita di contingenze, quali il passaggio dal legno al carbone, quindi al petrolio, all’industria automobilistica, all’agricoltura intensiva, all’allevamento e «più in generale alla tecnologia», dicono Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi curatori e autori della introduzione all’edizione italiana, probabilmente ignorando le conseguenze che sarebbero state inizialmente difficile da immaginare. Sino al paradosso per il quale «se non ci fossero state tutte le diseguaglianze economiche e sociali che conosciamo, se al mondo ci fossero meno poveri, se tutti gli esseri umani godessero già oggi del benessere “occidentale”, la crisi ambientale sarebbe ancora più aspra. Quasi come se il problema fosse una conseguenza non voluta dal capitale. Tutto questo a un analista dei dispositivi e dei meccanismi che informano e riproducono l’accumulo capitalista, pare essere un punto di vista alquanto discutibile. Certi eventi, certi percorsi, certi modelli di sviluppo – al pari dei fenomeni biologici inerenti i processi evolutivi – possono avere anche un’origine casuale, ma la loro diffusione si è potuta perpetrare perché erano “adatti” e consoni agli interessi di chi gestiva il potere e, in ultima istanza, al capitale. Questo è uno dei punti di arrivo della teoria dell’evoluzione a partire dal “Caso e la necessità” di Monod e dagli studi successivi che, non solo ben spiegano il meccanismo, ma anche mettono in discussione il fatto che il punto di arrivo di un filone evolutivo possa essere considerato gerarchicamente e ontologicamente superiore. Lo dico, perché interviene a questo punto l’idea tutta occidentale di un vettore del progresso puntato in avanti e verso l’alto. Un’idea che rinsalda la credenza di vivere nel migliore dei mondi possibili. Un mondo che ha messo a frutto tutte le “conquiste” umane. Il progressismo che poi celebra il capitalismo digitale come quell’ulteriore possibilità che permette all’umanità di accedere a una nuova splendida fase della propria avventura evolutiva. Non a caso, le culture altre sono quelle che gli antropologi chiamano “primitive” in un’accezione negativa del termine.
La storia che ha come apice anche valoriale l’attuale società “del benessere”, era questa: un tempo gli esseri umani vivevano in piccoli gruppi egualitari di cacciatori-raccoglitori. Poi venne l’agricoltura, che portò alla produzione eccedentaria e alla proprietà privata. Le bande si allargarono a tribù e l’aumento della scala ri chiese un’organizzazione crescente: stratificazione, specializzazione; capi, guerrieri, sacerdoti. Poi le città e con esse la civiltà: alfabetizzazione, filosofia, astro -
nomia; gerarchie di ricchezza, status e potere; i primi regni e imperi. Con un balzo in avanti di qualche migliaio di anni, con la scienza, il capitalismo e la rivoluzione industriale, assistiamo alla creazione del moderno stato burocratico. Una storia fatta per tappe, per punti successivi in un disegno che porta al miglioramento. In realtà – come dicono Graeber e Wengrow – le società di cacciatori-raccoglitori erano molto più complesse e più varie di quanto abbiamo immaginato. Gli autori ci raccontano le sontuose sepolture dell’era glaciale (si ritiene che la perlina di un solo sito abbia richiesto 10.000 ore di lavoro), nonché dei siti architettonici monumentali come Göbekli Tepe, nella moderna Turchia, che risale a circa 9000 anni a.C. (a almeno 6.000 anni prima di Stonehenge) e presenta intricate incisioni di bestie feroci. Ci parlano di Poverty Point, un insieme di massicci e simmetrici terrapieni eretti in Louisiana intorno al 1600 a.C., una “metropoli” di cacciatori-raccoglitori delle dimensioni di una città-stato mesopotamica. Descrivono una società amazzonica indigena che si spostava stagionalmente tra due forme completamente diverse di organizzazione sociale, fatte di piccole bande nomadi e autoritarie durante i mesi secchi; grandi insediamenti orticoli comuni durante la stagione delle piogge. Parlano del regno di Calusa, una monarchia di cacciatori-raccoglitori che gli spagnoli trovarono quando arri-
varono in Florida. Il punto però al quale bisogna fare attenzione è che i cacciatori-raccoglitori hanno fatto delle scelte consapevoli, deliberate, collettive, sui modi in cui volevano organizzare le loro società: ripartire il lavoro, disporre della ricchezza, distribuire il potere. In altre parole, praticavano la politica. Alcuni di loro hanno sperimentato l’agricoltura e hanno deciso che non ne valeva la pena; altri guardavano i loro vicini e decisero di vivere nel modo più diverso possibile. La mancanza di alternativa al modo di produzione capitalista e alla società che lo esprime è una forzatura della storia. Il libro di Graeber e Wengrow è ricco di esempi e di documenti (una bibliografia di 63 pagine), ma quello che ci interessa è che la società attuale non è il disegno che l’umanità voleva perseguire, è il disegno momentaneamente vincente, frutto di scelte spesso imposte dai vincitori e subite da chi ha perso. Di dispositivo in dispositivo siamo arrivati a questo universo quotidiano della contemporaneità, ma non è detto che non si potesse arrivare altrove o non lo si possa andare oggi. E di dispositivi che hanno fatto virare la società su questo versante, ce ne sono stati tanti. Il capitalismo è il punto di arrivo (momentaneo) del percorso occidentale. E di dispositivi tecnici intesi come “pharmakon” che hanno agito per portarci al punto in cui siamo, ce ne sono stati tanti. Per iniziare dal primo pharmakon della filosofia, quello di Platone (Fedro 274c – 275b), ne avevo già accennato, dove si parla dell’invenzione della scrittura che, nel momento in cui soppianta la voce (scrittura alfabetica), permette di speculare, di pensare in maniera autonoma e non dialogica. Trasforma il logos in ratio. Provoca l’espulsione di un mondo evocativo e mitologico, all’interno del quale i rapporti simbolici soprassedevano alle forme di scambio sociale, dove il prestigio dipendeva dallo spreco e non dall’accumulo, la sovranità dal sacrificio – che è sempre perdere qualcosa – e non dalla coercizione. Una sovranità autolesiva e non una violenza costitutiva che si rivolge all’altro. Si apre quel percorso che per Derrida porta al dominio di quello che chiama il fallogocentrismo.Ma la scrittura non fu subito a disposizione di tutti, da strumento per tenere traccia dei “versamenti” nel silos delle sementi, a traccia mnesica del sapere, sul quale si può esercitare
una forma di “ritenzione” attraverso la quale la tecnica diventa ancella del potere. Situazione che si esaspera nell’ambito della “comunicazione” all’interno di un’infosfera in mano a poche piattaforme private che operano in quasi monopolio. Nel mezzo la stampa che allarga il raggio di azione del dispositivo tecnico della scrittura, le religioni monoteiste che verticalizzano la trascendenza, soppiantando gli dei pagani che animavano la fenomenologia del quotidiano per restituirci un mondo materiale, inerte e senza anima, a disposizione per ogni speculazione e distruzione umana. E di dispositivo in dispositivo, da pharmakon a pharmakon, il modello di vita occidentale trova una propria strada. Ma non è stata per forza una strada maestra: il pharmakon, per definizione, può essere sia rimedio che veleno. Poteva andare diversamente, ma oltre al caso, operava un motore legato al rinsaldamento del potere; a privilegiare chi lo deteneva. La storia si fa sempre di più espressione della lotta di classe, per questo il modello occidentale si è sviluppato intorno a uno scippo da parte di una fetta di umanità nei confronti degli interessi comuni. La costante che ha disegnato la curva di sviluppo dell’Occidente che culmina nel capitalismo, è un meta dispositivo (una specie di super meccanismo) che ha perseguito ostinatamente gli interessi di pochi a scapito della comunità tutta. È un meta dispositivo vincente che ci ha portato nell’oggi, dove continua ad operare sottraendo le tecnologie digitali a un uso per un fine condivisibile da tutti. È un meta dispositivo competitivo che orienta i conflitti anche all’interno della sua stessa classe sociale. Per questo non è un dispositivo etico. Un’etica, una morale sono soltanto altri dispositivi per la gestione del potere, per il suo consolidamento, ma sono dispositivi di grado subalterno. Per questo il meta dispositivo è sordo ai problemi ambientali, per questo può essere un dispositivo distruttivo, per questo il veicolo che viaggia veloce verso la catastrofe climatica e quindi ambientale, non prevede scialuppe di salvataggio nemmeno per i più ricchi. Ma non siamo tutti – ricchi e poveri – sulla stessa barca, di fronte al collasso del mondo, come dice Chacrabarty. L’antropocene è capitalocene come ipotizzava Jason Moore, nel senso che è il percorso, cioè il modello di sviluppo occidentale, di cui il capitalismo è l’attuale configurazione, a essere il responsabile della crisi attuale e nello stesso tempo il responsabile dell’impossibilità di uscirne. Non certamente tutte quelle popolazioni che hanno scelto, o semplicemente percorso, strade diverse. E non si decide di cambiare percorso nemmeno di fronte alla evidenza dell’incombere della catastrofe, proprio perché la competizione comporta che tra chi detiene il potere, non ci sia nessuno disposto a tirare il freno a mano per primo. Per questo il capitalismo è un modo di produzione e di organizzazione sociale incompatibile con l’ambiente.
Per questo esso è non riformabile: è, tout court, insostenibile. Bisogna cambiare strada e, per trovare quale strada fare, diventa indispensabile capire i meccanismi storici e le svolte (spesso tecnologiche) che hanno agito per portarci sino a questo punto. Non siamo sulla stessa barca perché abbiamo deciso di scendere da quella barca. __________________________________ [i] criṡi criṡi (ant. criṡe) s. f. [dal lat. crisis, gr. κρίσις «scelta, decisione, fase decisiva di una malattia», der. di κρίνω «distinguere, giudicare»]. – 1. Nel linguaggio medico: a. Repentina modificazione, in senso favorevole, o anche sfavorevole, … https://www.treccani.it/enciclopedia/tag/crisi/ (*) La rubrica, curata da Gilberto Pierazzuoli, raccoglie una serie di articoli che riprendono il lavoro di “Per una Critica del Capitalismo Digitale”, libro di prossima stampa uscito a puntate proprio su questo spazio. Una sorta di secondo volume che riprende quelle considerazioni e rende conto del peso antropologico e delle trasformazioni che il mondo digitale provoca nel suo essere eterodiretto dagli interessi di tipo capitalistico. Una prosecuzione con un punto di vista più orientato verso le implicazioni ecologiche. Crediamo infatti che i disastri ambientali, il dissesto climatico, la società della sorveglianza, la sussunzione della vita al modo di produzione, siano fenomeni e azioni che implicano una responsabilità non generalizzabile. La responsabilità non è infatti degli umani, nel senso di tutti gli umani, ma della subordinazione a uno scopo: quello del profitto di pochi a discapito dei molti. Il responsabile ha un nome sia quando si osservano gli scempi al territorio e al paesaggio, sia quando trasforma le nostre vite in individualità perse e precarie, sia quando – in nome del decoro o della massimizzazione del profitto– discrimina e razzializza i popoli, i generi, le specie. Il responsabile ha un nome ed è perfettamente riconoscibile: è il capitale in tutte le sue declinazioni e in tutti i suoi aggiornamenti. Come per gli articoli della serie precedente, ognuno – pur facendo parte di un disegno più ampio – ha un suo equilibrio e una sua leggibilità in sé e là, dove potrebbero servire dei rimandi, cercheremo di provvedere tramite appositi link. Qui la prima parte, Qui la seconda. Primo intermezzo, Secondo intermezzo, Qui la terza, Qui la quarta, Qui la quinta, Qui la sesta
Seguirà la 7.2 Gilberto Pierazzuoli
LE RUBRICHE
Kill Billy
Il delitto di Vico San Domenico Maggiore DI EDOARDO TODARO · 5 DICEMBRE 2021
Dopo Il delitto di via Crispi n. 21 Lidia Del Gaudio, sviluppando la toponomastica di Napoli, ci porta verso Vico San Domenico Maggiore e un altro delitto. Anche in questo caso è decisamente importante il contesto in cui si svolgono gli avvenimenti. Eravamo nel 1938 nel precedente romanzo, siamo nel 1940 in questo. In entrambi troviamo l’insofferenza del commissario Sorrentino, combattuto tra il desiderio di essere amato e la voglia di solitudine; un commissario che preferisce le pasticcerie con i babà e le sfogliatelle ai monumenti, che è intollerante nei confronti del regime fascista sempre più opprimente ed invasivo (addirittura arriva a rinominare il tennis pallacorda), si preoccupa per le intenzioni belliche
di Mussolini, resta perplesso di fronte a cosa sia la verità, visto che ognuno ha la sua, e ritiene la casualità e la fortuna elementi essenziali e risolutivi di una indagine. In entrambi i romanzi troviamo la simpatica descrizione delle vie di Napoli, da Via Medina a Via Monteoliveto, da la calata Trinità Maggiore a piazza Gesù Nuovo, fino alle strade in cui si vendono strumenti musicali; poi Corso Vittorio Emanuele, le curve spettacolari sul Golfo volute dai Borboni, il rione Carità e Mergellina, i quartieri spagnoli con la trattoria a Montecalvario con i purpetielli alla Luciana, le melanzane a scarpone, i bucatini allarpiati, gli spaghetti con chiapparielle ed olive e il caffè che, grazie all’autarchia è un surrogato, una fetenzia. Il te sto è disseminato di espressioni dialettali, che intercalano le 290 pagine e le rendono attraenti ai lettori: “nu guagliuncello”, “nu scugnizzu” (che senza voler anticipare alcunché è al centro del noir), “abbuffato di mazzate”, “comprare per abbuffarsi l’anima”, “pucundria”, “fare ammuina”. Ma se il colore locale può essere considerato un aspetto importante, con le voci dei bassi, i panni stesi da un palazzo all’altro, i panieri calati per fare la spesa, non è quello dominante. A mio avviso ancora maggiore importanza assume la descrizione del contesto storico e politico in cui si svolge il tutto, con l’imminenza della guerra che sconquassa il cervello. Una guerra che la propaganda descrive e prospetta come veloce e vittoriosa, addirittura conveniente, e che invece viene vissuta da molti come un futuro molto incerto. Napoli: due città in una, da una parte quella fredda per disciplina di regime; dall’altra quella popolare delle autentiche tradizioni. Lidia Del Gaudio ci porta a fare i conti con l’omicidio, cranio fracassato ed un paio di forbici nel basso ventre, di un chirurgo stimato. Un omicidio che viene volutamente mascherato da suicidio rendendo complessa un’indagine che non deve urtare la sensibilità del potere costituito, visto che il chirurgo assassinato appartiene agli ambienti della Napoli/bene: ricco, di una ricchezza senza senso, fine a se stessa; abita in un palazzo pieno di opere d’arte che colleziona; marito di una donna nobile; promotore di associazione culturali ed attività filantropiche per raccogliere fondi a sostegno di strutture ospedaliere per infanzia e maternità. Oltre al commissario, e all’assassinato, anche altre figure assumono caratteristiche di rilievo come ad esempio il questore, il maggiore Salviati, organico al regi me, che insiste sull’ importanza di perseverare con la tranquillità della vita delle persone in un momento difficile: evitare allarmismi e trovare un colpevole che faccia da capro espiatorio è ciò che serve agli apparati investigativi del regime.
Nel romanzo non incontriamo solo specifiche figure umane, ma conosciamo anche la tradizione napoletana funzionale all’esaltazione della dottrina fascista che deve formare le future classi dirigenti e tendere “al cameratismo”, una cultura fascista che deve avere al suo servizio insegnanti che non lascino spazio ad alcuna discussione critica. Insegnanti e uomini di cultura che hanno perso la dignità per porsi al servizio del nuovo regime. Ai meno attenti può sfuggire quanto invece siano importanti in queste pagine i riferimenti al fascismo che con le sue armi di distruzione si impone alla resistenza delle popolazioni delle colonie africane come all’Amba Aradan, oppure al Minculpop e alla gestione della cultura, con le donne umiliate, abusate, uccise. Siamo di fronte a un’ indagine che risulta un complicato rebus da risolvere, con reperti archeologici, eredità, onomastici da festeggiare e, per finire, la dichiarazione di guerra con la quale il commissario, e non solo lui, ammette di vivere in un’epoca sbagliata. Edoardo Todaro Lidia del Gaudio, Il delitto di Vico San Domenico Maggiore, Time Crime, Roma 2021, pp 320, 15 euro
PRIMO PIANO
Parcheggio al posto del podere trecentesco, qualcosa non Quadra DI FRANCESCA CONTI · 7 DICEMBRE 2021
In una città come Firenze letteralmente divorata dagli interessi di grandi multinazionali, che sta cambiando pelle e soprattutto padroni, la vicenda di un vecchio podere trecentesco destinato a diventare un parcheggio potrebbe apparire secondario. Ma la storia del Podere Mattonaia e del parcheggio che verrà costruito a cura della Società Podere Mattonaia s.rl. è molto di più che l’ennesimo scempio fatto a danno dei residenti, è una vicenda esemplare sull’eterno ritorno dei soliti noti, con gruppi di potere che si alternano e talvolta si stratificano e un comitato di cittadini a fare da unico argine contro un progetto sbagliato e dannoso a colpi di ricorsi al TAR, esposti e denunce. La vicenda inizia ben 15 anni fa, nel 2006, quando viene presentato un progetto per costruire un parcheggio nell’area fra via Caponsacchi, via Accolti e via di Ripoli nel quartiere di Gavinana, una colata di asfalto e cemento su un’area verde, un’oasi per una zona densamente edificata e trafficata, che è quel che resta di un podere trecentesco. Il podere Mattonaia, con il suo grande orto, il lavatoio e il vecchio muro di cinta, è uno spicchio di campagna d’altri tempi in mezzo alla città, uno dei pochi rimasti a Firenze. Sarebbe perfetto da destinare a orti sociali per i residenti del quartiere o a fattoria didattica per i ragazzi e le ragazze delle numerose scuole della zona. Per la proprietà è chiaro che un parcheggio sia al -
quanto più redditizio, starebbe all’amministrazione vigilare affinché questo non accada. Ma torniamo al 2006, il parcheggio era uno dei progetti di Quadra, società di progettazione, vero asso pigliatutto nella cementificazione dell’era Domenici, travolta da un’inchiesta chiusa nel 2016 con varie prescrizioni al processo di appello. La vicenda giudiziaria coinvolse tecnici e politici all’epoca ai vertici del PD cittadino. Quadra fu protagonista di un periodo di edificazione aggressiva di Firenze, tanto che il tribunale, nella sentenza di primo grado, scrisse cosa fosse diventata l’urbanistica, in quel periodo «come se si trattasse – nelle mani dei professionisti, degli imprenditori e dei pubblici funzionari imputati nel processo – di uno strumento funzionale al massimo sfruttamento della capacità edi-
ficatoria di un territorio, peraltro ormai saturo, e non, al contrario, di uno strumento di tutela del territorio stesso». Viste le vicende giudiziarie, del parcheggio non si era più parlato fino al 2016 quando il progetto è stato ripresentato. Da allora i cittadini riuniti nel Comitato Salviamo il Podere Mattonaia hanno portato avanti una battaglia senza sosta, facendo istanza di revoca/annullamento, ben due ricorsi al TAR e due esposti alla Procura, uno dei quali con Italia Nostra. Il Comune di Firenze aveva quindi avviato a inizio 2018 un procedimento di revoca/annullamento i cui termini erano stati fatti decorrere senza che si prendessero di fatto provvedimenti.
Nonostante tutto questo lo scorso 24 novembre gli uffici del Comune hanno rinnovato il permesso a costruire, un’approvazione a tempo di record, notano i cittadini. Per il Comitato è prima di tutto una questione ambientale, in tempi di crisi climatica salvaguardare il poco verde cittadino dovrebbe essere buon senso. “In primo luogo vogliamo segnalare che tale progetto è uno scempio dal punto ambientale e paesaggistico, inoltre risulta in palese contrasto con le politiche comunali, volte (almeno sulla carta) a salvaguardare la qualità della vita dei propri cittadini e a tutelare il verde cittadino con frequenti interventi di piantumazione”, denuncia il comitato di protesta contro la realizzazione del parcheggio che “snatura un’area verde con alberi da frutto e olivi (e lucciole d’estate) sostituendola con decine di posti macchina”. I cittadini di Gavinana lamentano che così “non viene tutelata la salute dei cittadini se si concede di cambiare la destinazione d’uso di un hortus conclusus trasformandolo in un parcheggio lesivo della salute delle circa cinquecento persone che vivono in case e appartamenti con finestre che si affacciano su questo spazio”. Al posto del podere ci saranno 80 posti auto che saranno sicuramente venduti o affittati a prezzi esosi vista la scarsità di parcheggi della zona e saranno piantati 44 alberi come compensazione. Un albero ogni due auto, soffocato dall’asfalto. Di fatto una presa in giro. Altra criticità giustamente sottolineata dai cittadini è costituita dalle dimensioni delle due corsie di accesso una su via Caponsacchi e l’altra su via di Ripoli, questi accessi dovrebbero lasciare uno spazio di 90 cm libero dal passaggio delle auto per i pedoni ma essendo molto stretti, quello di via Caponsacchi è appena 2,64 metri, è evidente come macchine e pedoni non siano compatibili sul medesimo percorso. Per non parlare di un disabile su una carrozzina. Ci sarebbe anche un vincolo paesaggistico, ma evidentemente tutto questo non è sufficiente a mettere la parola fine a questo scempio. Il Comitato si sta preparando all’ennesima battaglia, ma sembra incredibile che la salvaguardia dell’ambiente e di quel che resta della storia di questa parte di città interessi soltanto ai cittadini.
A fare da ciliegina su questa torta avvelenata da giugno la proprietà dell’area è passata ad una società di recente costituzione la Società Podere Mattonaia srl. Dalla visura alla Camera di Commercio di Firenze l’amministratore unico della società risulta essere Lorenzo Giudici, costruttore anche lui condannato in primo grado, condanna poi cancellata dalla prescrizione in appello, per la vicenda Quadra. Corsi e ricorsi storici dell’urbanistica fiorentina.
Francesca Conti
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Bibliotecari in appalto, domenica 12 dicembre la prima mobilitazione DI BIBLIO-PRECARI FIRENZE · 8 DICEMBRE 2021
Non si prospetta un dicembre ricco di regali per le lavoratrici e i lavoratori in appalto di Biblioteche e Archivio Storico del Comune di Firenze: dopo le dichiarazioni dell’assessore Gianassi e la proclamazione dello stato di agitazione, infatti, continuano le incertezze. Anche nell’ultimo consiglio comunale del 6 dicembre scorso, l’amministrazione, attraverso le parole dell’assessore al Personale Alessandro Martini, conferma l’infondatezza delle “voci” che vorrebbero un taglio di due milioni sul prossimo bando di gara – come se il bilancio non fosse pubblico – e sottolinea come il Comune di Firenze abbia sempre avuto a cuore le biblioteche e gli archivi cittadini, impegnandosi a far lavorare i dipendenti in appalto anche nei periodi più bui della pandemia. Eppure l’anno scorso, anche dopo la fine del lockdown, erano stati lasciati da un giorno all’altro in cassa integrazione. Sempre nello stesso intervento, l’Assessore continua ribadendo in buona sostanza che il Comune deve occuparsi dei propri dipendenti e non può farsi carico di quelli in appalto, che devono invece rivolgersi al proprio datore di lavoro: eppure, queste esternalizzazioni – messe in piedi dai loro predecessori e compagni di partito e portate poi avanti dalla presente Giunta – son0 state utili negli ultimi 15 anni a garantire e incrementare i famosi servizi essenziali tanto cari ai politici quando c’è da fare campagna elettorale, mentre ora si riduce a scapito dei salari e della stessa tenuta occupazionale. Inoltre, l’assessore forse dimentica che poco più di un mese fa anche gli stessi lavoratori del Co-
mune avevano proclamato lo stato di agitazione in seguito a varie problematiche non risolte, a dimostrazione che anche con i propri dipendenti le criticità siano numerose. È così che il sindaco Nardella intende «fare della cultura uno slancio economico e sociale»? È così che intende fare del centro «un grande quartiere dei saperi e della conoscenza»? Supportiamo ancora una volta le lavoratrici e i lavoratori precari delle Biblioteche e dell’Archivio Storico del Comune di Firenze, partecipiamo alle loro iniziative, a partire da quella che si svolgerà la prossima domenica 12 dicembre, alle ore 15:30 nel giardino della Biblioteca delle Oblate, per difendere tutti insieme il servizio pubblico.
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Postini sull’orlo di una crisi di nervi DI EDOARDO TODARO · 4 DICEMBRE 2021
Poste Italiane è un’azienda con un bilancio azionario in positivo e con quotazioni in borsa sempre alte. Eppure rallegrarsi di questo è come fare i conti senza l’oste. Il perché è presto detto nelle righe che seguono, ed è riscontrabile in quanto è accaduto ed accade in questi ultimi tempi. Alcuni mesi fa Poste Italiane ha portato a compimento l’acquisizione di Nexive, l’azienda diretta concorrente nel recapito della corrispondenza. Tale acquisizione non è stata un’opera di bene che l’amministratore delegato di Poste, Del Fante, ha condotto a buon fine. Certamente non possiamo che essere felici di questo avvenimento se guardiamo ai dipendenti di Nexive, che spesso e volentieri venivano messi in cassa integrazione. Oggi, se le politiche governative non peggioreranno ulteriormente, queste misure non saranno più all’ordine del giorno.
Detto questo, non possiamo però non evidenziare l’altra faccia della medaglia. La corrispondenza, prima consegnata dai postini Nexive, è oggi a pieno carico lavorativo dei portalettere di Poste Italiane. Con carichi di lavoro notevolmente aumentati senza che sia loro corrisposto nessun beneficio. Né economico – ci mancherebbe – né lavorativo, visto che non è stata effettuata alcuna riduzione delle zone in cui viene consegnata la corrispondenza. Tutto questo si è andato a sovrapporre ad una situazione già difficile per quanto riguarda la consegna dei pacchi, Amazon in particolare, che Poste Italiane ritiene fondamentale in un periodo di sviluppo del settore della logistica (Quanti corrieri vediamo nelle strade?). Amazon oltre ad avere i propri corrieri, appalta la consegna alla DHL, a Bartoli-
ni, a SDA ed anche a Poste Italiane, tramite i postini. I quali oltre alla corrispon denza già decisamente aumentata, si ritrovano con un servizio consegna pacchi che aggrava una situazione già difficile. Va anche sottolineato che il lavoro del portalettere non è più assolutamente quello che era qualche decennio fa, e che in molti hanno ancora nel proprio immagi nario. Le responsabilità nella consegna sono aumentate, attraverso la consegna al numero civico di corrispondenza da acquisire tramite palmare (piccolo computer portatile). Poste Italiane è completamente incapace di affrontare questa situazione. I mezzi motorizzati sono insufficienti, i già citati palmari non reggono la giornata lavorativa e si scaricano in continuazione, oltre a essere scarsi, obsoleti ed inservibili per le funzioni che dovrebbero assolvere. A tutto questo dobbiamo aggiungere che i postini attualmente in servizio sono sempre meno, visto che l’azienda non fa più assunzioni da moltissimo tempo e, se facciamo delle proporzioni, il personale a contratto determinato risulta essere numericamente maggiore rispetto a quello a tempo indeterminato. In questo modo di fatto si è costituita un’azienda di precari, sempre ricattabili attraverso il miraggio del rinnovo del contratto o dell’assunzione. Questa situazione vede una categoria con scarsa capacità di iniziativa e mobilitazione, salvo lamentarsi attraverso i canali social. A livello sindacale, se il sindacalismo di base e conflittuale ha da tempo intrapreso un percorso di unità di intenti e di iniziativa anche se con poco, ma valido, seguito in categoria, i sindacati confederali CGIL CIS LUIL – oltre ad altri sindacati corporativi e così poco rappresentativi che sono identificabili solo tramite una sigla – sono da tempo immemorabile complici e corresponsabili delle scelte aziendali, avendo abbandonato completamente i terreno del coinvolgimento dei lavoratori per restare solo e soltanto un sindacato burocratico che serve a far carriera o per compilare documenti amministrativi o fiscali. Questo è il panorama della situazione in Poste Italiane, nel recapito in particolare. Visto il silenzio che regna su questo settore è necessario che si sviluppi un livello di controinformazione che sveli la realtà dei fatti. Todaro Edoardo, delegato RSU/RLS Cobas Poste
Riqualificazione urbana, ovvero Rigenerazione dei Fondi di investimento DI ALBERTO ZIPARO · 2 DICEMBRE 2021
E’ senza dubbio positivo che il Governo spinga per approvare – sia pure con dotazione non rilevantissima di risorse rispetto al fabbisogno totale- il “Programma Nazionale di Rigenerazione Urbana”; sancendo ancora una volta come le nostre città debbano (almeno) evitare di consumare ulteriore suolo per crescita urbana, che sarebbe ormai antistorico, e che vada perseguita “l’urbanistica delle R” : riqualificazione, riuso, recupero, restauro. Tut-
tavia il programma di rigenerazione in questione rischia di accentuare, anziché mitigare, le contraddizioni che segnano da tempo le politiche urbanistiche delle nostre città, favorendone ulteriori sfondamenti nella governance, da parte della speculazione finanziaria; con esiti sociali ed ecologici esattamente opposti a quelli di “Riconversione” dichiarati nell’apparato retorico del piano stesso; oltre che nelle dichiarazioni governative.
I progetti contenuti nel dossier “Rigenerazione Urbana”, infatti, risentono quasi sempre di contraddizioni e problematicità già presenti in molta programmazione istituzionale e governativa, da cui scaturiscono e discendono; e in linea con le criticità contenute in tutta l’armatura del “piano grande e miracoloso” all’ordine del giorno: quel PNRR che dovrebbe rilanciare “meravigliosamente” economia e ambiente nazionali. Già il programma PINQUA, di cui la versione attuale del piano di rigenerazione (2,8 MLD di Euro per 159 progetti, mentre altri 400 circa restano in attesa di fondi) costituisce per molti versi aggiornamento progettuale e completamento di spesa, era caratterizzato da forti tendenze ad una “programmazione troppo centralizzata anche a livelli diversi dell’amministrazione”. I relativi progetti, infatti, raramente erano esito sostanziale di una pianificazione urbanistica ecosostenibile e partecipata, sempre invocata (specie nel sempre più frequente materializzarsi dei rischi da cementificazione diffusa in disastri e conseguenti permanenti dissesti dei contesti urbanizzati), ma quasi mai realmente perseguita. Molti dei progetti contenuti nel PINQUA erano invece esito della “concertazione tra poteri forti” che ha marcato pesantemente le politiche urbanistiche e territoriali nel recente passato e che spesso si traduceva in maggiore o minora permeabilità dell’amministrazione ai diversi livelli rispetto ai soggetti dominanti delle relative governance, in primis gli interessi finanziari, rappresentati dai relativi fondi. La logica, centralizzatrice e “developed Oriented”, della Programmazione Operativa, comunitaria e nazionale, come quella del PNRR, fa il resto. Non a caso il Ministero in questione (nel frattempo da MIT diventato MIMS, Infrastrutture e Mobilità Sostenibile) dichiara che la città da “prendere a modello” per i programmi di rigenerazione è Milano: laddove le politiche urbanistiche sono “fortemente condizionate” – per non dire direttamente determinate – dai fondi d’investimento finanziari, dichiarati “irrinunciabili” non solo dagli stessi amministratori, ma anche da autorevoli urbanisti, pure sinceramente progressisti, come Sandro Balducci. La rigenerazione milanese è infatti mirata soprattutto sui soggetti che Guido Martinotti definiva “MBP” (Metro Business People), cioè quella ristrettissima fascia di persone appartenenti all’alta borghesia internazionale, professionale, commerciale, finanziaria, ludico-mediatica, fino alle élite politico-istituzionali, che si muovono da agiatissimi “Globe Trotter “ tra le “Città Mondiali”. Laddove la Milano “modello” è una città invece preclusa a vecchi e nuovi abitanti, che subiscono gli ingombri da sottrazione degli spazi e da realizzazio-
ne di enormi volumi edificati, da guardare solo da lontano. A meno di non avere redditi da appartenenza alle soggettività citate; ovvero di essere assunti come lavoratori (spesso precari) negli esercizi commerciali, tendenzialmente per consumatori “esclusivamente” dotati, realizzati nelle aree “rigenerate” (vedi CityLife o Santa Giulia), o come “vigilantes” degli enormi volumi (semivuoti, anche se serviti da agenzie internazionali di marketing, che devono piazzarne gli spazi nel mercato mondiale dei MBP), ivi edificati. L’estetica di questi brani urbani è quella della Benjaminiana “città in vendita”, da marketing. Il Greenwashing (altro che riconversione ecologica) rende strumentali verde e apparati vegetali rispetto a simili destinazioni d’uso, con bizzarrie ambientali che diventano architetture “di successo” (“Se Dio avesse voluto i Boschi verticali avrebbe fatto le mucche coi ramponi” – ha commentato un comico assai noto). Certo non tutte le operazioni di rigenerazione presentano i caratteri morfologici, dimensionali e antisociali delle recenti citate realizzazioni milanesi, ma molte di esse sono marcate dall’”urbanistica dei fondi d’investimento” già presente nella pianificazione concertata degli ultimi periodi (vedi anche le ristrutturazione per vendita ai privati di non pochi palazzi storici fiorentini); sovente sottoposta a forti critiche anche per esulare troppo spesso da qualsivoglia risposta ai problemi di degrado ecologico della città. A fronte dei connotati di molta della rigenerazione citata, lo stesso “Piano di Ripresa e Resilienza” non presenta alcun incentivo per nuove politiche abitative. Per l’esattezza non prevede neppure un centesimo per il recupero dell’edilizia popolare (centinaia di migliaia di alloggi inagibili per perdita di abitabilità da degradi o dissesti) né promuove alcuna operazione di riuso di quel quarto di patrimonio abitativo nazionale (circa 7,5 MLN di alloggi ) vuoto o inutilizzato. Si seguita quindi ad attendere che l’ulteriore deterioramento renda tale enorme bene potenzialmente collettivo svendibile – quasi a prezzi di regalo – alla grande proprietà immobiliare e finanziaria. Un processo già in atto da lustri. I programmi di riqualificazione urbanistica e socio- ambientale avrebbero senso se scaturenti da una reale svolta rispetto alle politiche del recente passato, con una pianificazione socialmente innovativa e mirata concretamente anche alla ricostituzione degli ecosistemi urbani e territoriali, che oggi, specie a scala comunale, si intravede solo in un numero limitatissimo di piccole realtà; quasi sempre grazie all’azione di abitanti e attori locali sensibili alla qualità dei luoghi. E come tra l’altro prescriverebbero di operare ormai molti piani territoriali paesaggistici,
regionali e sub regionali, che dettano indirizzi di recupero ecologico anche a scala locale. Certo, anche tra i 159 progetti compresi nel programma in questione, sono comprese alcune operazioni virtuose (per esempio il recupero lungamente atteso dagli abitanti di Messina di alcuni vecchi quartieri “minimi” storicamente degradati). Ma tali opzioni costituiscono eccezioni in un’ operazione che, per la gran par te, ripropone molte delle dinamiche che hanno alimentato – anziché risolvere- i problemi sociali, urbanistici e ambientali che oggi gravano sulle nostre città. Alberto Ziparo
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Crimini e misfatti della Nato, spiegati bene DI ANGELO BARACCA · 2 DICEMBRE 2021
Il 10 gennaio 2021 l’Italia assumerà il comando della missione NATO in Iraq. Nel 2003 avvenne la brutale invasione del paese da parte degli Stati Uniti. Il rischio è che l’Italia rimanga invischiata nella lotta per il controllo dell’Iraq per interessi neocoloniali e non per favorire lo sviluppo della democrazia Chi ha meno di 30 anni è nata/o dopo che l’Alleanza Atlantica aveva assunto la sua nuova fisionomia, e forse quando ne sente parlare la considera qualcosa di “naturale”, da sempre: la storia è estremamente più complessa ed è necessario conoscere per lo meno l’ABC su questa alleanza, che è stata, e rimane, uno dei fattori cardine delle vicende mondiali successive al 1945, e condiziona profondamente la nostra vita e le scelte politiche. Intanto una precisazione, non puramente lessicale, l’«Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord» avrebbe come acronimo OTAN, e così la chiamano in tutti paese di lingua latina, ma noi italiani ci distinguiamo per una subalternità anche ai nomi inglesi, che magari non tutti capiscono, appunto North Atlantic Treaty Organization, da cui NATO: vogliamo provare a chiamarla OTAN? Può essere un esercizio utile, non per caso si dice “parla come mangi”. La storia dell’OTAN è estremamente complessa ed intricata, e per scrivere un ABC senza appesantire troppo è inevitabile fare drastiche semplificazioni: fornirò qualche riferimento per chi fosse stimolato e voglia saperne di più senza ricorrere alle genericità di Wikipedia (senza sminuire l’utilità di questa fonte, non sempre però di uguale valore). Personalmente non credo nelle professioni di obiettività, dietro la quale si celano spesso insidie: la mia sintesi sarà dichiaratamente “di parte” perché solo presentando idee molto chiare si può stimolare il dubbio e la riflessione, che sono il fondamento su cui ciascuno può farsi una vera
opinione propria. Le mie idee le ho esposte in maggiore dettaglio quattro anni fa [Baracca, 2017]. Intanto ci sono due fasi storiche ben distinte della storia dell’OTAN: quella durante la Guerra Fredda (1947-1991 ), e quella successiva alla dissoluzione dell’Unione Sovietica.
Una barriera contro il comunismo Alla conclusione della seconda guerra mondiale il fronte degli “alleati” contro la barbarie nazista si spezzò e lasciò il posto alla contrapposizione fra l’Occidente capitalista e il Blocco Comunista, la quale diede inizio alla cosiddetta Guerra Fredda (che per circostanze fortunate non divenne “calda” con la corsa incontrollabile agli armamenti nucleari). La creazione dell’OTAN nel 1949 fu una precisa operazione politica per consolidare la coesione del Blocco Occidentale con la consegna della “fedeltà atlantica”, che di fatto ha condizionarono molte scelte politiche in tanti paesi: basti pensare che il “Patto di Varsavia” dei paesi del Blocco Comunista fu fondato 6 anni dopo, nel 1955.
Una manifestazione contro Gladio e il potere democristiano
Di fatto, è impossibile capire i misteri dell’Italia, le trame nere, i delitti, gli attentati, i tentativi di colpo di stato senza tenere conto del ruolo che ha giocato l’adesione dell’Italia all’Alleanza. Vi era stata un gestazione ancor prima dello sbarco degli alleati in Sicilia sulla base addirittura della rete segreta nazifascista organizzata da Herbert Kappler (1) articolata in una miriade di formazioni paramili-
tari clandestine legate ai poteri criminali e al banditismo: dal 1942 gli USA attraverso la mafia americana attivarono una rete informativa in Sicilia in vista dello sbarco. Dopo la guerra la rete nazifascista cambiò forme, integrandosi con mafia, separatismo, indipendentismo, banditismo, con esplicite complicità e coperture delle forze dell’ordine: cambiò solo chi dava gli ordini, il Comando Alleato in Ita lia. Non mi soffermo sulle tappe estremamente complesse, pur importantissime per capire l’Italia di oggi. Nel 1947 fu fondata la CIA, gli USA decisero di fornire armi e denaro ai movimenti paramilitari anticomunisti, neofascisti e monarchici: furono i prodromi della struttura segreta Stay Behind e “Gladio” (2). Negli USA fu sconfitta l’ala militarista che voleva continuare l’occupazione militare e si preparò la nascita dell’OTAN. «Quando [il trattato OTAN] viene esplicitamente formalizzato [1949], sul piano militare si ebbero cessioni di quote di sovranità in cambio di garanzie contro il nemico esterno e interno, percepito come unico e mortale» [Cortesi, 1993]: ecco l’origine della militarizzazione dell’Italia, con l’invasione di basi militari statunitensi! In questo quadro l’installazione nel 1960 di 30 missili Jupiter con testata nucleare in Puglia fu condotta in gran segreto (3), è grave che oggi pochi lo ricordino o lo sappiano [Nebbia, 1999]. Un punto politico cruciale è che la fedeltà atlantica è stata LA condizione posta a tutte le forze di sinistra che hanno avuto ambizioni istituzionali o di governo: avvenne per l’apertura al Partito Socialista nei primi anni ’60 (governo di centro-sinistra); si ripeté per il Partito Comunista in vista del Compromesso Storico negli anni ’70; avvenne dopo la caduta del regime franchista per il Partito Socialista spagnolo; è accaduto alla giovane Slovenia, le cui posizioni favorevoli al disarmo nucleare rientrarono quando si trattò di aderire all’OTAN [Juri, 2005]. In Italia nel corso degli anni ’60 si intensificò una trafila di trame eversive e at tentati sanguinosi che da un lato sbarrarono per sempre all’Italia la strada di uno sviluppo autonomo, pur sempre interna allo sviluppo capitalistico, per superare il ruolo internazionale subalterno che le era stato assegnato nel dopoguerra (4), e dall’altro inaugurarono quella che è ormai chiamata “strategia della tensione”, con vaste complicità internazionali, all’interno del contesto atlantico: un intreccio, mai chiarito fino in fondo, di complicità di apparati dello Stato (carabinieri, esercito, servizi segreti), con forniture di armi e avallo dell’OTAN (5), organizzazioni fasciste italiane (1966 “Ordine Nuovo”) e internazionali. Ma esistette probabilmente una struttura clandestina internazionale più ampia che non cono-
sciamo, con diverse catene di comando, inglobata dell’apparato difensivo OTAN (6).
Le vittime della Strage di Piazza Fontana
La tensione salì con un crescendo nel 1969, dagli attentati ai treni della primavera-estate, alla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre: dietro le trame eversive c’era la coordinazione di Ordine Nuovo e Alleanza Nazionale, ma la regia superiore venne dall’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno ed era collegata all’OTAN e pilotata dagli USA (7). È il caso di ricordare che nell’ultimo processo per Piazza Fontana, in Cassazione nel 2005, tutti gli imputati sono stati assolti, e i parenti delle vittime della strage sono stati condannati a pagare le spese processuali! Si aprì una stagione di tentativi di golpe (1970, tentato golpe del comandante Junio Valerio Borghese; 1974 era previsto il tentativo di golpe bianco di Edgardo Sogno) e stragi: strage dell’Italicus (8); di Piazza della Loggia, Brescia 28 maggio 1974, 8 morti, 102 feriti (9). Se ne parla nelle scuole? Come non ricordare la drammatica accusa di Per Paolo Pasolini sul Corriere della Sera del 14 novembre 1974? «Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che vie-
ne chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano … Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna. … Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti. … Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni … che si sono messi a disposizione, come killer e sicari … Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti … Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi» (10). Pasolini venne assassinato 11 mesi e 18 giorni dopo! Il 2 novembre 1975. Lavorava a un libro esplosivo, tanto più in tempi di emergenza climatica, Petrolio. La vicenda del rapimento di Aldo Moro nel marzo 1978 ebbe una svolta quando fu chiaro che stava rivelando segreti indicibili: tra questi Gladio e il sistema difensivo dell’OTAN (11). Ma perché Gladio era così importante? «Gladio … non era l’unica struttura militare-civile clandestina: faceva da cappello a un intero arcipelago di reti e organizzazioni parallele che hanno operato in Italia, una nazione dove anche i gesuiti e l’Azione cattolica hanno avuto la loro struttura segreta armata» (12). I misteri e le ipoteche atlantiche non finiscono qui. Per la strage di Ustica (27 giugno 1980) il ruolo del nostro paese nel contesto internazionale consentiva a navi ed aerei militari stranieri di scorrazzare nei nostri cieli e mari, provocando veri scenari di guerra: questa nostra subalternità consente tuttora a Francia e Stati Uniti di tacere con protervia a qualsiasi richiesta di chiarimento. Poco più di un mese dopo (1 agosto 1980) una terrificante esplosione alla stazione ferroviaria di Bologna provocò 85 morti e oltre 200 feriti, il più grave attentato terroristico compiuto in Europa nel XX secolo: dopo 41 anni non è ancora stata fatta piena luce! (13) Questo si è ripetuto per il disastro della «Moby Prince» dell’11 aprile 1991 e l’ormai indubbia quanto misteriosa presenza di navi da guerra quella notte nella rada di Livorno (14). È evidente per tutti che gli Stati Uniti e i paesi della Nato conoscono perfettamente la verità, non solo su questo mistero, sulla strage di Ustica del 27 giugno 1988, e su tutti i misteri italiani. Vi è poi una conseguenza dell’adesione all’OTAN molto pesante: i partners eutopei accettavano di ospitare armi nucleari statunitensi sul proprio territorio (Nu-
clear sharing). Il numero di queste testate raggiunse un massimo di circa 7.000 negli anni ’60, e a metà degli anni ’80 era di circa 4.000.
Crolla l’URSS, scompare il Blocco Comunista, ma l’OTAN rimane e diventa un’altra cosa Dopo la caduta del Muro di Belino nel 1989 il Patto di Varsavia si sciolse, nel 1991 scomparve l’Unione Sovietica, la funzione per la quale era stata creata l’OTAN come alleanza militare difensiva si era esaurita, il nemico era scomparso. E invece l’OTAN cambiò letteralmente pelle, diventò una cosa molto diversa pur conservando il nome: nel 1991 fu approvato infatti il «Nuovo concetto strategico». In estrema sintesi esso prevedeva interventi dell’OTAN “al di fuori del territorio dell’Alleanza”, nominalmente per la sicurezza a fronte delle nuove minacce, nei fatti per proiettare in regioni anche lontane interessi di controllo delle aree e delle risorse strategiche. Si svilupparono i concetti di peacekeeping, quello abnorme di “guerra umanitaria”, che nella realtà legittimarono le guerre nei Balcani (1992-1999) che determinarono la dissoluzione della Repubblica Jugoslava, il disastroso intervento in Afghanistan (OTAN dal 2003 (15)), la guerra in Siria (2012) [Dinucci], l’attacco alla Libia (2011) con l’uccisione di Gheddafi, che era stato il grande alleato dell’Italia. La partecipazione dell’OTAN è stata massiccia. È difficile non riconoscere dietro a questi interventi obiettivi neo-coloniali.
Addestramento militare “coloniale” dell’esercito italiano
L’Italia in particolare è impegnata in ben 40 missioni militari all’estero (16), per le quali è stata funzionale, meglio dire necessaria, l’introduzione del «Nuovo modello di difesa» che nel 1999 eliminò l’esercito di leva creando un esercito professionale, dotato di armamenti indiscutibilmente aggressivi, quali portaerei, sommergibili, o droni armati. È opportuno chiedersi, al di fuori di stereotipi per farsi la propria opinione, chi ci minaccia? L’appartenenza alla “nuova OTAN” ci impone anche di adeguare la nostra spesa militare, nel 2021 è poco meno di 25 miliardi di euro (1,41% del Pil), ma l’OTAN ci chiede di aumentarla al 2% del Pil, attorno a 40 miliardi di euro: si rifletta che in tempo di pandemia sarebbe piuttosto assolutamente necessario aumentare la spesa sanitaria (17). È interessante il raffronto con paesi che non appartengono all’OTAN: la spesa militare dell’Austria è lo 0,6% del Pil, dell’Irlanda 0,2% (18), della Svizzera 0,8% (19). Questi paesi subiscono forse minacce diverse rispetto all’Italia? C’è un paradosso molto eloquente da sottolineare: la Grecia – che nel 2015 fu massacrata dalla UE per costringerla a pagare un debito impossibile da restituire (salito nel frattempo da 177% a 205% del Pil), imponendole tagli selvaggi ai servizi essenziali – ha elevato la spesa militare dal 2,46% al 2,79% del Pil: chi la minaccia? La vicina Turchia, anche essa appartenente all’OTAN! Paradossi dell’Alleanza. Per di più, Atene compra la maggioranza delle armi dalla francese Dessault! *** Ritorno alla notizia dalla quale sono partito, il trasferimento all’Italia del comando della missione dell’OTAN in Iraq: essa verrebbe ampliata da 500 a 4.000 uomini, trasformandola di fatto in missione di combattimento da quella che, almeno sulla carta, era solo funzionale all’addestramento dell’esercito iracheno; e le Forze Armate italiane saranno dotate di una flotta di Hero-30, i cosiddetti droni Kamikaze dichiaratamente finalizzati all’utilizzo nel “mutato scenario operativo in Iraq”. La missione italiana in Iraq diventa così la più grande missione italiana all’estero. ***
Da ultimo riprendo il problema delle testate nucleari basate in Europa, e in Italia. In primo luogo non vi è dubbio che dopo il 1990 con la dissoluzione del Blocco Comunista il loro numero in Europa è diminuito drasticamente, da 4.000 a meno di 1.000, e ancora nel 2020 a meno di 200, ed è diminuito a 4 il numero di paesi che le ospitano (Turchia, Italia, Germania e Olanda): il maggior numero è schierato in Turchia e in Italia (meno di 40 tesate B-61, nelle basi italiana di Ghedi Torre, e USA di Aviano). Rimane comunque un potenziale distruttivo spaventoso, che sarebbe un obiettivo privilegiato nel caso di una guerra nucleare; per di più, nel corso del 2021 esse verranno sostituite con nuove testate B-61-12 più precise ed efficaci. Ma vi è dal gennaio 2021 un fatto nuovo: nel 2017 fu approvato in un negoziato all’ONU un nuovo Trattato di Proibizione (TPAN, in inglese TPWN) che nel gennaio 2021 è entrato in vigore come norma del Diritto Internazionale (Baracca, 2021). Ora, il problema è che i paesi dell’OTAN non parteciparono al negoziato (tranne l’Olanda, che poi espresse l’unico voto contrario), l’OTAN rimane fermamente contraria a che i paesi dell’OTAN firmino e ratifichino il TPAN. In altre parole, si è aperta dopo 76 anni da Hiroshima e Nagasaki una prospettiva concreta di eliminazione totale delle armi nucleari, ma l’OTAN oppone una barriera a che i paesi aderenti firmino il TPAN. Per riprendere le considerazioni sulla spesa militare, l’Austria, l’Irlanda, lo Stato del Vaticano, San Marino hanno firmato e ratificato in TPAN, e nel marzo prossimo Vienna ospiterà il primo meeting degli stati aderenti al trattato. Queste sono in estrema sintesi le mie opinioni, espresse senza infingimenti: spero che vi siano utili farvi la vostra opinione.
Angelo Baracca, militante ecopacifista
Note (1) Kappler aveva comandato l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Arrestato dagli inglesi e tras ferito alle autorità italiane fu condannato all’ergastolo. Ammalato di tumore, nel 1976 fu trasferito all’ospedale del Celio a Roma, da dove il 15 agosto 1977 riuscì a fuggire in Germania dove visse libero e morì il 7 febbraio 1978. Nella sua fuga sono state ipotizzate pesanti complicità di una struttura dei servizi segreti italiani rimasta occulta fino a pochi anni fa, detta “Anello” [Stefania Limiti, 2008]. (2) «Gladio, struttura ufficiale del SID [Servizio informazioni difesa, è stato il servizio segreto italiano dal 1966] gestita dalle Forze armate all’interno di una legittimazione OTAN, usava una rete di civili che dovevano “reclutare” i partigiani in vista della resistenza all’invasore comunista … La struttura di questa commistione era costituita … dalle “Unità di pronto impiego” (Upi). … solo l’Upi del Friuli aveva armi ed esplosivi per 2000 uomini. E nessuno ha mai visto l’elenco degli aderenti alle Upi …» [Cucchiarelli, p. 509; anche Pellegrino et al., p. 24]. Dal 1972, con la scoperta dei depositi di armi, i Nds passarono sotto la supervisione OTAN. (3) Alla fine degli anni ’50 gli Stati Uniti istallarono missili a testata atomica in due paesi aderenti all’OTAN, la Turchia e l’Italia, con gittata tale da raggiungere il territorio dell’Unione Sovietica. In risposta a questa minaccia diretta, nel 1962 Mosca iniziò in segreto l’installazione di missili nucleari a Cuba. Gli aerei spia rivelarono questa operazione, il presidente Kennedy proclamò il blocco navale all’isola, scoppiò la “crisi dei missili” che portò il mondo sull’orlo di un conflitto nucleare. La crisi si risolse con il titiro dei missili da parte dell’URSS, ma gli USA si impegnavano come contropartita a rimuovere i missili nucleari installati in Turchia in Italia. Per inciso, è il caso di ricordare che solo nel 2012 è stato rivelato che gli USA nel 1961 avevano installato, segretamente, missili nucleari anche in Giappone, ad Okinawa, anche se la loro gittata poteva colpire parti della Cina ma non l’URSS. (4) Basti ricordare succintamente: l’omicidio di Enrico Mattei (27 ottobre 1962); gli intrighi delle «Sette Sorelle» petrolifere; l’attacco di Saragat (esecutore di direttive probabilmente internazionali) del 1963 al Presidente del CNEN, Felice Ippolito, e il successivo processo che seppellì le aspirazioni nucleari italiane; l’analoga incriminazione di Domenico Marotta, che aveva portato l’Istituto Superiore di Sanità ad alti standard internazionali; la cessione nel 1964 alla General Electric della Olivetti, che era divenuta leader mondiale nei computer. (5) Limiti, 121, 126-31; Pellegrino, 74, 101; Cucchiarelli, 542, 597. (6) Pellegrino, 57; Cucchiarelli, 58-60, 485; De Lutiis, Prefazione a Limiti, 13-15.
(7) Dietro gli attentati della primavera-estate 1969 c’era già l’idea del colpo di stato: dietro c’erano i Colonnelli del colpo di stato in Grecia! (Dittatura militare dal 1967 al 1974) Indagini successive individuarono anche il deposito di esplosivo, con esplosivo OTAN [Cucchiarelli, 386-89]. «Gli agenti CIA infiltrati tra i gruppi della destra avevano la loro base nelle sedi dei comandi OTAN di Verona e Vicenza» [Cucchiarelli, 530, 577]. Il 13 dicembre il SID conosceva già esecutori, intermediari, mandanti internazionali di Piazza Fontana, ed anche la natura militare dell’esplosivo utilizzato: iniziarono gli occultamenti e i depistaggi, la verità non doveva emergere! Vi fu uno duro scontro nella Democrazia Cristiana, in ballo c’era l’apertura al Partito Comunista. Quel 12 dicembre di Piazza Fontana, Aldo Moro era a Parigi per appoggiare la proposta di sospensione della Grecia dei Colonnelli dal consesso europeo, l’OTAN era allarmata: il giorno successivo Moro moderò la posizione italiana. La DC si compattò attorno a Moro, bloccando la spinta autoritaria di Saragat e il golpe. L’oceanica mobilitazione popolare impedì la provocazione dei fascisti. (8) Aldo Moro doveva essere su quel treno: scese solo per una fortuita coincidenza. (9) Il processo si è chiuso (dopo 43 anni!) nel giugno 2017. (10) Pier Paolo Pasolini, “Cos’è questo golpe? Io so”, Corriere della Sera, 14 novembre 1974, articolo completo: http://www.corriere.it/speciali/pasolini/ioso.html. (11) La DC non voleva Moro libero, e fermò le offerte di Cosa Nostra e della camorra, di Paolo VI di trattare la sua liberazione. Il memoriale di Moro è stato amputato, manomesso e rimaneggiato nelle parti che assolutamente non dovevano divenire di pubblico dominio («Una parte degli scritti, quelli con gli elenchi degli appartamenti a Gladio, fu ritrovato addirittura negli archivi della Digos» da due consulenti della Commissione sul terrorismo e le stragi [Limiti, 223]). Anche successivamente il segreto venne protetto con tutti i mezzi: i costanti depistaggi dei servizi nei confronti della magistratura nelle indagini per gli attentati e le trame dal 1969 al 1974 «volevano impedire che i giudici scoprissero l’esistenza di Gladio … e di quella vasta rete di organizzazioni paramilitari clandestine legate agli apparati, dovevano difendere il segreto OTAN» [Pellegrino, 108-109]. (12) Cucchiarelli, 507. (13) Dopo le codanne nel 1995 di tre esecutori appartenenti ai NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari), si è aperto un nuovo processo che vede imputati il defunto Licio Gelli, maestro venerabile della loggia massonica P2 e Umberto Ortolani come mandanti-finanziatori; l’ex capo dell’ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno Federico Umberto D’Amato indicato come mandante-organizzatore; Mario Tedeschi, direttore della rivista “Il Borghese” ed ex senatore del Movimento Sociale Italiano considerato organizzatore per aver coadiuvato D’Amato nella gestione mediatica della strage – preparatoria e successiva – nonché nell’attività di depistaggio delle indagini [si veda ad esempio: https://tg24.sky.it/cronaca/approfondimenti/strage-bologna-stazione-2-agosto-1980]. (14) Anche per la Moby Prince il processo è stato riaperto. (15) Il 20.12.2001 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU autorizzò la costituzione dell’Isaf (Forza internazionale di assistenza alla sicurezza) con il compito di assistere l’autorità ad interim afghana a
Kabul e dintorni. “Ma improvvisamente, l’11 agosto 2003, l’OTAN annuncia di aver «assunto il ruolo di leadership dell’Isaf, forza con mandato ONU». E’ un vero e proprio colpo di mano: nessuna risoluzione del Consiglio di sicurezza autorizza l’OTAN ad assumere la leadership, ossia il comando, dell’Isaf. Solo a cose fatte, nella risoluzione 1659 del 15 febbraio 2006, il Consiglio di sicurezza «riconosce il continuo impegno della Nato nel dirigere l’Isaf»” [Dinucci] (16) Anche se è fermo a due anni fa (quando le missioni miliatri dell’Italia all’estero erano … solo 29), questo sito chiarisce molto bene i luoghi, la consistenza, la natura e le “appartenenze” delle missioni, OTAN, ONU, Unione Europea: “Missioni all’estero: dove sono i militari italiani”, 29.01.2019, Babilon, https://www.babilonmagazine.it/missioni-italiane-estero-nato-onu-ue/. (17) È interessante il raffronto fra il costo di armi avanzate e quello di apparecchiature sanitarie: si può vedere ad esempio D. Mancino, “Medicine vs. armi”, IlSole24Ore, https://www.infodata.ilsole24ore.com/2020/05/07/medicine-o-armi/?refresh_ce=1. (18) L. Giordana, “Quanto spendono i Paesi UE per la difesa?”, 28 agosto 2021, https://www.apiceuropa.com/quanto-spendono-i-paesi-ue-per-la-difesa/. (19) https://it.wikipedia.org/wiki/Stati_per_spesa_militare. Riferimenti bibliografici — A. Baracca 2017, “La Nato e la torbida storia segreta dei misteri d’Italia”, Pressenza, 19.11.2017, https://www.pressenza.com/it/2017/11/la-nato-la-torbida-storia-segreta-dei-misteriditalia/ — A. Baracca 2021, “Da oggi le armi nucleari sono illegali”, Pressenza, 22 gennaio 2021, https:// www.pressenza.com/it/2021/01/da-oggi-le-armi-nucleari-sono-illegali/. — L. Cortesi, Linee e caratteri della politica estera italiana dopo la seconda guerra mondiale, in S. Minolfi (a cura di), L’Italia e la Nato, Napoli, CUEN, 1993, p. 33. — P. Cucchiarelli, Il Segreto di Piazza Fontana, Ponte alle Grazie, 2009. — Manlio Dinucci, “Il riorientamento strategico della Nato dopo la guerra fredda”, Sinistrainrete, 22 0ttobre 2014, https://www.sinistrainrete.info/estero/4209-manlio-dinucci-il-riorientamento-strategico-della-nato-dopo-la-guerra-fredda.html — Franco Juri, “La vergogna nucleare”, 10.08.2005, http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/4592/1/50/ — Stefania Limiti, L’Anello della Repubblica, Chiarelettere, 2008. — Giorgio Nebbia, “Quando in Puglia c’erano 50 megaton di bombe nucleari“, 3 marzo 1999, http://www.peacelink.it/disarmo/a/1464.html. — G. Pellegrino, G. Fasanella, C. Sestieri, Segreto di Stato, Sperling & Kupfer, 2008.