Debito

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Debito

Gilberto Pierazzuoli

perUnaltracittĂ


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2017 perUnaltracittĂ edizioni

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Spazio InKiostro Via degli Alfani, 49 - 50121 Firenze www.perunaltracitta.org ISBN


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Per una bibliografia ragionata sul tema del “debito”. Sono 6 testi di vari autori che in qualche modo si compendiano a vicenda arricchendo la riflessione sul debito inteso come meccanismo che segna uno dei modi di essere della contemporaneità, con ipotesi che lo interpretano come il dispositivo principe di varie forme di assoggettamento. Un debito dunque visto come marcatore delle differenze sociali nel senso, non tanto che ne possa essere semplicemente l’indice, ma che (se non ne è la causa) operi per il loro mantenimento; che marchi e ampli il solco che separa il creditore dal debitore che, in origine, erano invece probabilmente scambiabili denotando così il modo di queste e quelle relazioni sociali. Un debito che, unito al senso di colpa che gli è intimamente connesso, opera come dispositivo che frena le capacità delle classi subalterne a lottare per svincolarsi dalla propria condizione.

Nota editoriale: i testi seguenti sono usciti precedentemente su “La Città Invisibile”, Magazine on line del laboratorio politico “perUnaltracittà” nella rubrica di recensioni librarie “Kill Billy” (l’assonanza con la più diffusa libreria è del tutto volontaria). WWW.perunaltracitta.org


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La fabbrica dell’uomo indebitato Saggio sulla condizione neoliberista.

Il saggio di Maurizio Lazzarato che ha suscitato una così buona curiosità da essere già stato tradotto in otto lingue, svolge tutta una serie di considerazioni a partire da una tesi che ha un punto di vista abbastanza originale. A partire da questa il testo cerca di verificarne la portata sia in relazione alla sua capacità di interpretazione della realtà contemporanea, sia per il suo possibile uso quale indicatore per una prassi che renda gli attuali conflitti di classe più incisivi. Sinteticamente la tesi sarebbe la seguente: il paradigma sociale non si organizza e si esprime intorno allo scambio, sia esso economico e/o simbolico, ma intorno al credito. Alla base della relazione sociale non c’è lo scambio che presuppone il concetto di eguaglianza (pari quantità e pari qualità), con tutta la problematica del valore, «ma l’asimmetria del rapporto debito/credito che precede, storicamente e teoricamente la relazione tra produzione e lavoro salariato. […] L’economia del debito riveste il lavoro nel senso classico del termine, di un “lavoro sul sé”, così da far funzionare in modo congiunto economia ed “etica”» (p. 26). È sicuramente un’affermazione di una certa originalità, visto che tanti autori hanno cercato di interpretare questa fase storica dominata dal ricatto del debito, ma il punto di vista di Lazzarato vede nel debito stesso l’incarnazione di un dispositivo che in qualche modo è all’origine dei rapporti e delle messe in atto di ogni tipo di organizzazione sociale. L’originalità della tesi è di avere esteso questo paradigma a più forme sociali – con un’ovvia attenzione al capitalismo – e non solo a quella delle origini, alla quale faceva riferimento il Nietzsche della seconda dissertazione della “Genealogia della morale”. Non occorre qui riprodurre tutta la documentazione che dimostra la capacità pervasiva del meccanismo del credito/debito che occupa la prima parte del saggio e che prosegue tra le righe nelle altre parti, cosa per altro ben conosciuta e facilmente ricostruibile tramite una semplice analisi delle vicende economico-politiche degli ultimi anni. Quello che è più interessante è la ricostruzione dei modi e delle astuzie che il dispositivo dimostra di saper mettere in atto. L’operazione in termini attuali comporta


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diversi risultati, uno di questi è che la finanza, le banche, ma anche certi “investitori istituzionali” non sono semplicemente degli speculatori, sono appunto il modo di manifestarsi attuale del capitale (ne sono i “proprietari”, dice Lazzarato), mentre i capitalisti industriali sono ormai divenuti dei funzionari di questa valorizzazione finanziaria. La finanza non sarebbe dunque riconducibile meramente al suo aspetto speculativo, perché altrimenti si trascurerebbe il ruolo politico di essere la rappresentante del “capitale sociale” (Marx) o come diceva Lenin, di “capitalista collettivo”. A far funzionare il dispositivo del debito, semplicemente individuabile nei meccanismi della finanza, sono una serie di accentuazioni che alcune scelte politiche hanno comportato. Si cita la cartolarizzazione (legge francese del 1988 votata su proposta del socialista Bérégovoy) che permette la trasformazione di un titolo di credito (e quindi di un debito) in un titolo negoziabile sui mercati finanziari (sono così, ad esempio, presenti nel mercato valori connessi a fatture emesse ma non saldate). Altro meccanismo che ha influito sulle articolazioni del debito è quello messo in atto nel 1979 per iniziativa di Volker (allora presidente della Federal Reserve e consigliere economico del primo staff di Obama) per il quale i tassi nominali sono passati dal 9% al 20% aumentando il debito pubblico degli stati incidendo in particolare sul debito dei paesi in via di sviluppo, ma anche al debito pubblico degli altri stati. La conseguenza è stata l’espansione del ricorso di questi soggetti ai mercati finanziari per trovare le risorse per la loro attività. Qui sarebbe da aggiungere a quelli citati da Lazzarato un altro evento che probabilmente ha reso più incisiva la capacità coercitiva del dispositivo debito/credito così come viene illustrato da G. Agamben e precisamente l’evento del 15 agosto del 1971, quando il governo americano, sotto la presidenza di Richard Nixon, dichiarò che la convertibilità del dollaro in oro era sospesa. Le conseguenze sono ben illustrate in questo articolo: qui il link. L’analisi di Lazzarato prosegue sottolineando che se ben si guarda, dal punto di vista del capitale, il debito più che essere un handicap, costituisce il motore dell’economia contemporanea che riesce anche a «riprendere, attraverso politiche di austerità, il controllo sul “sociale” e sulle spese del Welfare, cioè sui redditi, sul tempo (della pensione, delle ferie ecc.) e sui servizi sociali che sono stati strappati dalle lotte all’accumulazione capitalistica.» (p. 45). Passiamo però alle implicazioni che il sistema del debito comporta. C’è subito una conseguenza morale connessa al debito che ingenera il concetto di colpa (qui Lazzarato riprende Nietzsche), esemplificativo il luogo comune che descrive i greci nullafacenti spaparanzati al sole di una delle innumerevoli loro spiagge in confronto con i tedeschi che sgobbano «per il bene


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dell’Europa sotto un cielo uggioso» (p. 48). (In realtà i dati sull’operosità delle due popolazioni sono in netto favore di quella greca). Segue il fatto che se nel credito e non nello scambio abita l’archetipo dell’organizzazione sociale, allora il rapporto economico che si realizza a partire dal debito implica un controllo sulla soggettività e sulle forme di vita, si evoca così un tipo di potere che esprime la capacità di intervenire nei rapporti sociali in termini sia creativi che distruttivi e in particolare nei termini stessi della soggettivazione. Il meccanismo che ben illustra queste questioni è il modello dell’imprenditore di se stesso che imperversava negli anni 80 e che invece corrispondeva semplicemente a una forma di auto-assoggettamento al sistema. Qualcosa di simile all’autoassoggettamento originario che consisteva in una memoria per la quale il debitore dava in pegno al proprio creditore qualcosa d’altro che ancora possedeva come ad esempio il proprio corpo, la propria libertà, la propria vita. Si ha così un’economia come processo di soggettivazione per il quale il debito non è solo un dispositivo economico, ma anche «una tecnologia securitaria di governo volta a ridurre l’incertezza dei comportamenti dei governati» (p. 61). Qui uno dei meriti di Lazzarato è quello di aver scovato dei passi del giovane Marx in totale sintonia con il pensiero di Nietzsche: «Ma questa soppressione della estraneazione, questo ritorno dell’uomo a se stesso e dunque all’altro uomo non è se non parvenza; e tanto più essa è una auto estraneazione, una disumanizzazione assai più infame ed estrema, in quanto il loro elemento non è più la merce, il metallo, la carta, ma l’esistenza morale, l’esistenza sociale, la stessa interiorità del cuore umano, in quanto, sotto le spoglie della fiducia dell’uomo verso l’uomo, essa è la massima sfiducia e l’estraneazione perfetta» (Citazione da: Appunti su James Mill, in K. Marx, Scritti inediti di economia politica, Editori Riuniti, Roma 1963, pp. 232-233).


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Il meccanismo dell’assoggettamento agisce anche nell’uniformizzazione dei comportamenti in modo tale che il soggetto debba tenerne uno tale da poter essere semplicemente giudicato meritevole del credito. Ulteriore considerazione riguarda l’entità del debito. Organico al funzionamento del dispositivo capitalista, esso potrà essere di proporzioni tali da potersi considerare infinito in maniera che l’uomo si senta perennemente assoggettato ad un meccanismo che trova come una rassegnazione o, al limite, una possibilità di uscita (di redenzione) soltanto in una trascendenza messianica. Qui il rapporto tra tempo e “credito” ci fa venire in mente un altro articolo di Agamben, lo potrete leggere a quest’altro link. In nome del debito si sono messe in atto tutta una serie di misure di austerità che hanno provocato una generale precarizzazione del lavoro e, quindi, della vita tutta. Ecco comparire delle pratiche attraverso le quali si rendono i soggetti succubi di se stessi a partire da meccanismi anche semplici. Un esempio: i disoccupati che per ricevere l’assegno di sussistenza, erano tenuti a subire tutta una serie di interrogatori e a sottostare ad azioni di controllo atte a verificare un presunto o meno comportamento etico tale da giustificare il merito dell’assegnazione del contributo stesso. Un’ulteriore considerazione merita il fatto che debito e diritti prendano poi strade divergenti: «Infatti, i diritti sono universali e automatici poiché riconosciuti socialmente e politicamente, mentre il debito è concesso a partire da una valutazione della “moralità” e si fonda sull’individuo e sul lavoro su di sé che egli deve attivare e gestire» (p. 142). Le conclusioni vanno perciò nella direzione di annullare il debito e il suo potere opprimente. Le azioni conseguenti sono quelle di richiederne il non pagamento, battersi per la sua cancellazione. La ripresa della lotta di classe dovrebbe, secondo l’autore, ritrovare una forma di innocenza verso non soltanto il debito divino contro il quale si era scagliato Nietzsche, ma anche verso quello terrestre che «modula e formatta le nostre soggettività» (p.174.). La stessa individuazione e presa di coscienza dei meccanismi legati al debito ci possono restituire un soggetto capace di nuovo di riconoscere i punti attraverso i quali recuperare la propria dignità da poter usare in aperto conflitto con le forze che mettono in campo il dispositivo annichilente del debito. Ed è proprio nel riconoscergli tutte queste capacità, nell’averlo individuato come dispositivo veicolante la strategia di assoggettamento che il capitale mette in atto,


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che il saggio di Lazzarato si distingue da altre analisi che avevano egualmente preso in considerazione il debito semplicemente come caratteristica di un modo di presentarsi del capitalismo contemporaneo. Maurizio Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato – Saggio sulla condizione neoliberista, Derive Approdi, Roma 2012. Pagine 175, ₏ 12.00.


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Creditocrazia e rifiuto del debito illegittimo “Creditocrazia e rifiuto del debito illegittimo” di Andrew Ross (link ad una conversazione con l’autore)

Affronta la problematica del debito secondo tutta una serie di prospettive a partire principalmente dalla situazione negli USA, ma non trascurando i fatti più indicativi di quella nel resto del mondo. L’autore svolge così un excursus sul fenomeno per il quale l’uomo contemporaneo è completamente immerso in una situazione debitoria a partire dal dover far fronte ad alcune esigenze fondamentali: l’abitazione, l’istruzione e la salute. Questa situazione ha determinato lo spostamento della conflittualità da quella messa in atto nei decenni precedenti che invece era legata alla produzione industriale e che era imperniata intorno al tema del salario e alle condizioni di vita all’interno della fabbrica. Se il debito verso l’estero dei paesi in via di sviluppo è stato l’elemento che più ha permesso il mantenimento della loro subordinazione in epoca post coloniale, lo stesso meccanismo sta agendo nei confronti delle nazioni periferiche del comparto nord-occidentale. Si suggerisce allora la ricerca di soluzioni facendo proprie le esperienze delle lotte messe in campo per l’azzeramento del debito di dette popolazioni, soluzioni queste applicabili anche al nord del mondo, là dove ormai il meccanismo del debito è la causa più incisiva nel provocare l’allargamento delle diseguaglianze. La prima operazione è quella di dimostrare l’illegittimità del debito stesso per poter successivamente richiederne la sua soppressione. Essa sarà totale o parziale in relazione alla legittimità o meno degli elementi che sono emersi. La considerazione più generale è che il “sistema del debito” stia agendo in maniera asfissiante anche all’interno delle democrazie contemporanee allargando sempre di più le diseguaglianze socio economiche delle popolazioni. Le sue fondamenta sono facilmente interpretabili e criticabili. Il dato di fatto è che le banche private hanno messo in piedi meccanismi sempre più sofisticati in favore dei profitti, scaricandosi sempre di più dei rischi che certe “scommesse” comportavano,


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rovesciandoli di fatto sull’intera popolazione. Il risultato è che le banche hanno abbondantemente lucrato all’interno di questa situazione ed anche quando hanno esagerato sono state salvate perché “troppo grandi per fallire”. La situazione attuale può far dire all’autore che essendo il sistema bancario stesso il soggetto creditore ed essendo stato ampiamente remunerato dagli interessi sin qui riscossi, sarebbe legittimo pretendere l’annullamento del credito residuo. Occorre però smascherare i meccanismi messi in atto sino ad adesso per dimostrare l’illegittimità di alcune pretese e questo viene svolto egregiamente nella prima parte del libro all’incirca nei primi quattro capitoli. Il quinto invece rovescia le carte mettendo in campo il debito climatico che certi comportamenti hanno creato con tutta una serie di considerazioni attraverso le quali poter mettere in atto una forma di compensazione tra paesi ad alto consumo energetico e quelli in via di sviluppo, per poter armonizzare i diritti delle rispettive popolazioni in vista anche di un consumo più sostenibile delle risorse di materie prime e di quelle energetiche.


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L’ultimo capitolo si pone appunto il problema di sciogliere l’unione tra debito e crescita in relazione alla sostenibilità di quest’ultima, verificando gli strumenti che in varie parti del mondo sono stati adoperati per scardinare l’oppressione del debito stesso. Anche in questo caso l’autore legge nei meccanismi del debito l’esistenza di un dispositivo che riesce ad occultare i reali interessi in atto e a tenere basso il livello di conflittualità conseguente alla loro messa in opera, constatando identicamente ad altri autori la capacità diffusa del debito/credito di operare nei confronti dei termini della soggettivazione e quindi della capacità di assoggettamento che il sistema riesce a realizzare. Il connubio debitocolpa che, in chiavi diverse avevano caratterizzato l’analisi di altri autori, è egualmente affrontato ma non riconoscendogli il valore dominante espresso da questi. Diciamo che, questa chiave di lettura, se può aiutare la spiegazione di situazioni create dal meccanismo o dal dispositivo, tende poi a coincidere nel ricercare le forme di lotta per poter uscire da questa perversa e antidemocratica situazione; in definitiva dall’asservimento al debito e, di conseguenza, a quell’un per cento di creditori che hanno approfittato dalla messa in opera del meccanismo. Si potrà perciò verificare come i contratti di debito abbiano svolto egregiamente il lavoro di restringere la democrazia. E di come la condizione debitoria non rappresenti un fine in sé, ma piuttosto uno strumento per consentire una maggior dipendenza del lavoro dal capitale all’interno dei modi di produzione e scambio contemporanei. «I proprietari del capitale hanno da tempo superato il luogo di lavoro, inserendosi nella “fabbrica sociale” della vita quotidiana. La loro portata estrattiva ora raggiunge ogni attività quotidiana, così lo sfruttamento attraverso il debito personale interviene su ogni aspetto dell’individualità» (p.81). Questo equivale in qualche modo alla lettura data da Lazzarato nel saggio recensito in precedenza e cioè che il capitale ha messo in atto una serie di meccanismi di assoggettamento che operano direttamente sull’individuo, tanto da poter inserire queste strategie all’interno di un dispositivo che ben rappresenta il modo di agire del capitale contemporaneo e ne esprime la sua potenza.


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Il libro di Ross riporta dunque a quegli eventi e a quelle scelte che hanno permesso l’espandersi del sistema del debito e quindi a fondare quella che lo stesso Ross chiama una creditocrazia nella quale il futuro sembra essere confiscato. Una di queste fu, ad esempio, la possibilità concessa alle banche di dare in prestito quantità di denaro enormemente più alte di quelle realmente possedute, a partire dalla creazione nel 1938 della Federal National Mortgage Association (detta Fannie Mae) che permetteva il commercio delle ipoteche in modo tale che gli istituti di credito avevano la possibilità di rivendere i debiti, e quindi di poter prestare molto più denaro di quello posseduto, troveremo così che nel 2008 «il rapporto tra attività e capitale era di 61,3 a 1 (pp. 64-65). L’apporto di Fannie Mae ha caratterizzato il dopoguerra degli Stati Uniti in maniera così profonda da far affermare all’autore che «i pieni diritti di cittadinanza erano riservati a chi era entrato in un rapporto debitorio di lungo termine con una banca commerciale» (ibidem), provocando così una trasformazione per la quale il diritto alla casa divenne il diritto all’accesso al credito così come il diritto all’istruzione era diventato il diritto di accedere ai prestiti studenteschi. In questa atmosfera occorre collocare l’atteggiamento per il quale la vittima doveva sentirsi in colpa per la sua situazione debitoria anche se quest’ultima era stata provocata da creditori che aggressivamente avevano commercializzato prestiti ad alto rischio. Altro evento responsabile della situazione attuale è stato l’avvento della cartolarizzazione delle carte di credito nel 1986. Spostare il debito delle carte fuori dai propri libri contabili ha permesso alle banche di capitalizzare ancora più prestiti. L’enorme potere in mano alle banche ha interagito con quello politico permettendo alle stesse privilegi impensabili: La Bank of America non ha pagato tasse federali nel 2010, ma ha avuto 1,9 miliardi di dollari di sconto dal fisco americano ed ha ricevuto 1340 miliardi di dollari dalla Federal Reserve come parte del salvataggio del 2008. Il libro è ricco di dati che dimostrano come i creditori abbiano per decenni strappato ricchezza ai debitori sino ad aver rimborsato più volte il prestito ottenuto. Tutto questo rende legittima la domanda per una rinegoziazione del prestito stesso, se non il suo totale azzeramento. Afferma infatti Ross: «La lunga lista di frodi ed inganni da parte dei banchieri delegittima il loro diritto a essere rimborsati» (p.82). Lo sfruttamento attraverso i meccanismi del debito precede e accompagna il conflitto sul salario, emerge come dominante nelle società finanziarizzate ma accompagna e


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rende efficace la subordinazione anche in quelle a predominio industriale. L’attuale sfruttamento del debito studentesco negli Stati Uniti equivale in qualche modo a quel sistema di asservimento che si produceva con una specie particolare di contratto detto “indenture”. Esso permetteva ai migranti europei di pagarsi il viaggio in cambio della loro futura prestazione d’opera, questo li asserviva totalmente per un certo numero di anni. Che lo si chiami indenture o semplicemente lavoro non pagato, gli esempi sono comunque di vario tipo. È diventato di moda l’offrirsi come volontario, lavorare gratis per rendersi visibile, in questo consisterebbe quella che il capitale chiama la giusta competizione per affermare una meritocrazia che i contratti collettivi avevano oscurato. In questa atmosfera è facile imbattersi in altre forme di lavoro non pagato che, per assurdo, innescano di nuovo il circolo vizioso del debito/credito; le riforme dei contratti di lavoro comprendono ad esempio l’obbligo di stage non retribuiti per i quali non è insolito chiedere prestiti per campare nel periodo dello stage stesso. Eppure dovrebbe essere il contrario come già faceva notare Marx: il caso del lavoro salariato che sarebbe la sola merce che si paga dopo averla utilizzata, tanto che, fare l’opposto, viene chiamato “anticipo” e si usa soltanto in questo caso. Si tratta dunque di debiti esistenziali per di più contratti contro il proprio vero essere annettendo gli individui ad un sistema che li prevarica esercitando un controllo che comprende ogni fase della loro vita tanto da poter paragonare l’attuale situazione alla condizione della servitù feudale. Il ripudio di questi debiti, la loro abolizione sono dunque oggi l’imperativo assoluto di ogni lotta per la dignità umana. Il fondamento di questo dispositivo di assoggettamento è basato su una spinta di tipo morale che determina l’ingiunzione a restituire e costituisce la spina dorsale del capitalismo finanziario contemporaneo, «così come lo era il controllo salariale per i capitalisti industriali come Ford» (p. 135). Dal punto di vista morale si assiste perciò ad una sostituzione del fannullone e del buono a nulla con quella della vergogna e della colpa connesse al sistema del debito. A questo stato di fatto ha contribuito anche la retorica della mobilità, del lavoro creativo, del capitale umano che consisterebbe in una disponibilità a investire se stessi con il rischio quasi assodato di cadere in uno stato di totale assoggettamento al sistema. L’ultimo capitolo studia le connessioni tra concetto di crescita e sistema debito/credito, dove per crescita non si intende la prosperità degli abitanti del pianeta, ma quella del PIL che invariabilmente ingrasserà le tasche dei più ricchi a scapito appunto dell’ampia maggioranza costituita dal resto. La connessione si spiega principalmente con il meccanismo per il quale la crescita esponenziale del capitale prodotto dal credito si basa anche sulla possibilità di cartolarizzazione dei debiti che è legata alle previsioni di crescita. Senza crescita non si avrebbe quel plus valore che


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alimenta l’entità e l’efficienza dell’operazione di cartolarizzazione poiché in essa si vendono delle scommesse basate sulla crescita, per cui, senza di essa, non ci sarebbe nessuna scommessa e quindi nessun guadagno finanziario. Rimane un dubbio, quello per il quale «le élite avrebbero colto il messaggio dei “limiti dello sviluppo”» al quale avrebbero «risposto accumulando tutte le risorse che potevano estrarre dal bene comune» (p.180). Per terminare occorrono ovviamente delle via di uscita. Ross cita tutta una serie di iniziative per spuntare la forza assoggettante del debito. Cita anche tutte quelle pratiche virtuose che tendono ad organizzare il sociale al di fuori del paradigma creditizio. Molte di esse si svolgono all’interno del sistema capitalistico, altre ai margini, entrambe comunque atte a coagulare comportamenti critici verso questo tipo di capitalismo con l’obbiettivo non tacito del suo superamento. Sicuramente ogni azione politica contemporanea non può prescindere dall’analisi dei meccanismi messi in atto dal sistema debito/credito. Il Libro di Ross è ricco di queste riflessioni e informazioni per di più connesse tra loro di nuovo a sottolineare la possibilità della messa in atto di un dispositivo che segna il modo di agire del capitalismo contemporaneo e gli effetti assoggettanti per le sue vittime riprendendo però le ipotesi che Lazzarato ci aveva consegnato, in maniera più blanda e non così assoluta di quella lasciataci dall’autore recensito precedentemente. Andrew Ross, “Creditocrazia e rifiuto del debito illegittimo”, Ombre corte, Verona 2015, pagine 194, € 18.00.


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Le radici di una fede, di Massimo Amato Un saggio che apparentemente tratta della storia della moneta e del suo evolversi in rapporto alle funzioni da essa svolte, ma che in realtà smaschera e decostruisce uno dei fondamenti che hanno reso e rendevano la moneta stessa capace di svolgere dette funzioni. Si giunge così all’ipotesi per la quale soltanto un atto di fede permetta alla moneta di essere tale imparentandosi sia formalmente, ma anche psicologicamente, con il fenomeno del debito/credito. La tesi annunciata nell’introduzione è che il sistema monetario attuale in quanto basato su una moneta fiduciaria o moneta di credito, non sia l’espressione del superamento del sistema del Gold standard, inteso come sistema monetario fondato sull’oro e delle sue presunte inefficienze, ma la manifestazione di una natura profonda che vede il sistema monetario contemporaneo come una commistione incistata di moneta e credito. La fede del titolo corrisponderebbe dunque al fatto che «la possibilità di accantonare un mezzo di scambio con la certezza (la fede), istituzionalmente garantita, che esso conservi inalterato il suo valore nei termini dell’unità di conto; ovvero, simmetricamente, la possibilità di denominare un credito con la fede (la certezza) che l’unità di conto in cui esso è denominato corrisponda sempre, per definizione, alla medesima quantità di mezzi di pagamento necessari per onorarlo» (p.9). Visto che si sa sempre meno su che cosa abbia voluto davvero dire la convertibilità, allora l’unica cosa che resterebbe da fare sarebbe di dichiararla intoccabile, «come un articolo di fede» dice ancora Amato (p.252). E, su questa fede, sarebbe di fatto costruito anche l’attuale sistema tanto da giustificare un titolo così particolare per un trattato sulle monete in occidente. Secondo questa visione, quello che abbiamo in tasca (per chi ancora ce l’ha) sarebbe solo e soltanto un pezzo di carta e il fatto che abbia un dato valore corrisponderebbe semplicemente ad un atto di fede, un credo, che avrebbe e avrebbe avuto nel tempo più o meno delle buone ragioni per essere creduto. In tempi a noi più vicini, una volta sganciato da ogni connessione con una


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qualsiasi contropartita, l’atto di fede sarebbe addirittura una trappola nella quale sarebbe probabile cadere. Storicamente le contropartite possibili sono state la corrispondenza e la convertibilità della moneta con i metalli preziosi in cui erano coniate o la corrispondenza in oro costituita dalle riserve auree che le banche centrali dovevano avere a giustificare la loro possibilità di emettere moneta, ma questo, come vedremo, non era bastante. Per coloro che sono interessati a questioni economiche o strettamente monetarie, il saggio è ricco di documenti e considerazioni, quello che comunque emerge è che anche là dove la moneta era garantita da una sua corrispondenza con i metalli, questa era soltanto un’apparenza e che il reale funzionamento dipendeva egualmente da un atto di fede. L’analisi prende in considerazione vari stadi di questo processo che sgancia sempre di più la moneta dalle garanzie preposte alla sua autorevolezza e quindi alla sua funzione rappresentativa. L’autore traccia come una parabola che vede al culmine il sistema del Gold standard (la parità in oro delle riserve auree) e il suo declino che porta la moneta contemporanea alla valenza di cui abbiamo parlato. Anche in questo caso ci sono delle tappe piene di paradossi e incongruenze. Dietro a questi elementi c’è infatti una questione che domina il loro evolversi, la propensione dei creditori ad usare i crediti come valori, per la quale si ha che, se si dà uno sguardo alle regole del gioco, emerga immediatamente un elemento apparentemente paradossale. Ad esempio, per quanto riguarda il periodo relativo al Gold standard, la conversione sarebbe consistita nel momento del pagamento del debito contratto, ma il il debito che le banche hanno costruito (più che concesso) era, come abbiamo sospettato, fatto per non essere pagato. La conversione sarebbe allora il momento in cui il debito costruito per non essere pagato dovrà essere pagato. Questa sarebbe la fine di un sistema che viveva e vive invece di un continuo rilancio esprimendo così anche la sua potenza (capacità di agire e di riprodursi). Finale di partita è dunque lo sganciamento perseguito prima dall’Inghilterra in due fasi (prima nel 1914, poi nel 1931) e soprattutto dagli Stati Uniti (Richard Nixon il 15 agosto del 1971 dichiara la non convertibilità del dollaro con l’oro, si ha di fatto il totale sganciamento della moneta da un qualsivoglia sistema di


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garanzie). Si scopre così la connessione tra moneta e credito che è al fondamento dell’attuale sistema: «con il 1971, la sostituibilità fra moneta e oro è definitamente rimpiazzata dalla sostituibilità tra moneta e credito» (p.254). Ci piace allora far notare, aggiungeremo noi, il passaggio dalla Lira all’Euro che vede dunque e non a caso la soppressione della dizione: “pagabili a vista al portatore” presente soltanto sulle banconote precedenti. Si ha così che la relazione debito credito perda i connotati di una relazione tra i due attanti dello scambio, in un certo senso, si sia spersonalizzata. Al creditore viene fatto credere che ci sia una solvenza garantita e, nello stesso tempo, al debitore non vengono richieste più garanzie in maniera tale da poter espandere la domanda in termini infiniti spostando sempre in avanti il momento della cessazione del rapporto che in teoria doveva coincidere con il pagamento definitivo del debito. Qui Amato conferma le considerazioni sollevate da Ross (link all’articolo precedente). La storia del debito e del credito che apparentemente dovrebbe essere la stessa storia, ha come un’origine che marca in modi diversificati le due azioni e i due attori producendo un’eccedenza di senso nella relazione per la quale il ruolo del creditore e quello del debitore non sono (e non devono essere) in equilibrio. Lo scambio originario non era e non doveva essere a pareggio; occorreva un plusvalore di codice che tenesse aperta la relazione, che, in qualche modo la permettesse e l’attuasse. Questo è il punto nodale del rapporto debito/credito che, pur non essendo al centro dell’indagine del nostro autore, viene comunque anche da lui riconosciuto: «La ragione dell’eccedenza di senso della relazione debito-credito rispetto alla sua dimensione puramente economica va cercata nello strutturale squilibrio che il rapporto fra debitore e creditore porta con sé. […] [Perché] “debitore” è spesso sinonimo di “colpevole” se non di “colui che deve espiare”, “creditore” è colui che ha in suo potere il debitore» (pp. 17-18). Con il corollario per il quale il debitore era ed è di fatto assoggettato al creditore. La figura della merce che emerge da queste riflessioni non sarebbe né una cosa né un servizio intesi nella loro possibilità di essere oggetti di scambio e quindi nel valore a loro attribuito, ma il fatto che è diventato il valore di scambio stesso la merce


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da prendere in considerazione. La convertibilità non sarebbe quindi quella tra la carta e l’oro (misurata dall’aggio), ma quella tra credito e moneta, misurata dal tasso di interesse. Si chiude con una considerazione che vede questi paradossi e queste incongruenze essere in qualche modo legati con una considerazione, quella insensata della possibilità di una perpetuazione senza rischi dell’ottimismo che invece dovrebbe fare i conti con la radicale incalcolabilità del rischio. E, detto da un bocconiano, non è poca cosa.

Massimo Amato, Le radici di una fede – Per una storia del rapporto fra moneta e credito in Occidente, Bruno Mondadori, Milano 2008. Pagine 274. € 23.00


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David Graeber, Debito. I primi 5.000 anni Tra i sei testi che vi stiamo proponendo a proposito del concetto di debito, questo è il più voluminoso proprio perché tenta di raccontarne la storia lunga ben 5000 anni. L’autore è un antropologo già insegnante a Yale ora alla Goldsmiths University of London, attivo nei movimenti americani da Seattle a Occupy. La chiave di lettura antropologica apporta a questi studi storici un contributo che serve principalmente a smascherare la gratuità delle affermazioni che economisti di varia scuola hanno detto in rapporto alla storia che riguarda il mercato, la moneta e il baratto. Ne consegue una indagine e una riflessione sui ruoli della coppia concettuale di stato e mercato rapportati a quello di debito. In discussione è l’attuale problematica connessa con l’indebitamento degli stati. O, meglio, è la ricetta proposta da alcuni stati e da organizzazioni sovranazionali per ottemperare alla restituzione dei debiti contratti. Essa, in termini semplicistici, consisterebbe in una forma di austerità accompagnata con l’obbligo del pareggio di bilancio. Il risultato di questa politica è una contrazione del welfare e l’apertura a pseudo riforme che incidono sui rapporti di lavoro contraendo salari, contributi e diritti acquisiti. Questa situazione di per sé da considerarsi un’assurdità, è però giustificata da un concetto profondamente radicato nel senso comune che afferma che i debiti devono essere pagati. Si entra perciò in un circolo vizioso per il quale, comunque e al di là degli evidenti effetti collaterali negativi dell’applicazione della ricetta, essa ci appare incontestabile. Il carattere morale e non strettamente economico di questi presupposti, conducono anche ad ampliare le ragioni originarie del problema. Siamo cioè in questa situazione perché abbiamo fatto il passo più lungo della gamba e altre congetture e giudizi morali che sono poi per esempio sfociati in una descrizione che tende a considerare i paesi del sud Europa esser stati immeritevoli e scialacquoni con anche una presupposta bassa efficienza lavorativa e di aver goduto così di privilegi che i laboriosi abitanti del centro nord Europa non si sono potuti permettere (per altro questa affermazione è, come abbiamo visto in altra recensione, smentita dai dati oggettivi).


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A smontare l’affermazione che i debiti devono essere saldati, è l’osservazione che, se così fosse, e se tutti i crediti dovessero essere garantiti eliminando ogni carattere di rischio, non ci sarebbe nessuna ragione per non concedere un prestito stupido (p. 11). Nasce quindi, fin dalle prime pagine, un’ipotesi che vede il debito essere uno dei caratteri fondanti dell’esperienza sociale che anticipa e poi accompagna gli altri elementi che compongono l’insieme dei caratteri precipui del comparto economico con la notazione – da cui consegue il suo ridimensionamento – che quest’ultimo non abbia avuto i caratteri tali per poter da solo rendere conto di tutti gli aspetti sociali e psicologici delle relazioni tra gli umani. Per questo si amplia il campo semantico del debito fino a fargli comprendere anche le obbligazioni morali, con l’unica differenza che quest’ultime non possono essere esattamente quantificabili. Primo risultato di questo approccio è la “scoperta” che il baratto non ha preceduto lo scambio monetizzato e che la propensione umana agli scambi affermata da Smith (ma accettata da tutti gli economisti classici) è semplicemente un altro mito duro a morire. Si scopre invece che tutti i documenti etnografici escludono di fatto l’esistenza di società costruite intorno al sistema del baratto, ma anche – contrariamente appunto a quel che pensava Smith – che le istituzioni “politiche” (le organizzazioni sociali) precedono e non seguono la proprietà, il denaro e i mercati e non sono il modo di organizzarli e garantirli. Nasce da questo ambito di riflessioni il concetto che fa del denaro soltanto un metro di valutazione del quale inizialmente è difficile capire che cosa misura se non un qualcosa di particolare che non è altro che il debito. «In questo senso, il valore di un’unità di una data moneta non è la misura del valore di un oggetto, ma la misura della fiducia che si ha negli altri individui» (p. 50). Proseguendo sullo stesso terreno di indagine di stampo storico antropologico, di nuovo si smentisce il presupposto dell’economia classica che vede stato e mercato in opposizione, constatando invece che le società senza stato tendono a essere anche società senza mercati e che fondamentalmente sono stati gli stati a creare i mercati i quali hanno poi bisogno degli stati stessi per esistere. (p. 73) Presso alcune popolazioni si ha come una pervasività del debito che fa percepire la sensazione che le intere vite siano un prestito temporaneo concesso dalla morte. Sarebbe questo un debito che per essere ripagato prevedrebbe l’annichilimento che viene invece sostituito soltanto con dei pagamenti parziali, una sorta di interessi sborsati tramite il sacrificio animale. Questa originaria visione con aspetti fondativi, permea nel sottofondo ogni tipo di organizzazione sociale costruendo intorno al debito i suoi caratteri moraleggianti, costituendo così il riferimento organizzante di una specie di inconscio collettivo che si dipana tutto intorno al debito, alla colpa e alla redenzione.


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Il significato originario di redenzione è infatti riacquistare, riottenere, saldare un debito. L’idea utilitarista dell’agire umano che permea i ragionamenti del pensiero moderno, viene smentita da altre forme di pensiero quale quello ad esempio che si può attribuire a popolazioni di cacciatori raccoglitori per i quali la dimensione pienamente umana rifiuta i calcoli economicistici rifiutandosi di misurare e voler ricordare chi ha dato cosa a chi, riducendo così l’umano, tramite il debito contratto, a schiavo del suo creditore. Là dove invece il debito creava schiavitù, si inventò il dispositivo del Giubileo attraverso il quale ogni debito veniva cancellato, le terre ridistribuite e gli schiavi per debiti liberati, consci che altrimenti i sistemi sociali e le relazioni tra individui, sarebbero collassate. D’altra parte la relazione in forma di debito, rimane un modo della responsabilizzazione reciproca. Ciò che rende la relazione di debito diversa da altre forme di scambio è che essa si presuppone avvenga tra uguali e non tra soggetti gerarchicamente determinati. Il credito presuppone un rapporto di fiducia che soltanto tra uguali può essere veritiero, a differenza dello scambio commerciale che è invece caratterizzato dal fatto di essere totalmente impersonale.

Muovendosi in questo ambito, Graeber, racconta anche una storia della moneta che ci si mostra da un lato non preso in considerazione nemmeno da M. Amato (qui), quello usato per organizzare i matrimoni nei quali esso rappresenta non tanto un


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pagamento, ma la testimonianza di un debito contratto nel passaggio di un soggetto da un clan all’altro, memoria di un debito e non una sua quantizzazione: denaro come pegno e non come misura. Parallelo al matrimonio c’è l’istituto del guidrigildo dove egualmente il denaro ha funzioni simboliche e non di valore perché le vite umane possono essere scambiate soltanto con altre vite umane e mai con oggetti fisici (p. 142) proprio per questo gli schiavi essendo privati dalle reti di mutua obbligazione che permettevano di dare loro identità pubblica, si potevano vendere e comprare. Questi esempi immettono nelle considerazioni sullo scambio elementi non mercantili quali l’onore che comunque, in alcuni casi, poteva esso stesso prezzato. Il termine τιμή può infatti essere tradotto ora con “prezzo”, ora con “onore”. A questo proposito l’autore conia la locuzione “economie umane” nelle quali i beni più importanti di una persona non si possono vendere o comprare, essendo oggetti caratterizzati dall’essere coinvolti in una rete di relazioni con gli esseri umani i quali non possono essere oggetto anch’essi di nessuna compravendita. Qui, una persona strappata dal proprio contesto, di fatto scompare. Se si prendono in considerazione i concetti di moneta, mercato, debito, guerra e schiavitù si possono distinguere età diverse nelle quali il loro rapporto è indicativo dei caratteri stessi dell’epoca relativa. L’età assiale (termine preso in prestito da Jasper ed esteso sino all’ 800 d.C.) vede la nascita della coniazione e l’uso della moneta metallica per pagare i mercenari che usati in guerra producono schiavi che possono essere utilizzati nelle miniere di oro e argento che serviranno per la produzione delle monete stesse. In età assiale videro anche la luce le merci e i mercati in contemporanea con la nascita delle religioni universali. Sempre secondo Graeber, nell’età successiva – nel Medioevo – queste due istituzioni iniziarono a fondersi. Anche in questo caso l’analisi spazia dall’India, alla Cina, all’Europa. In India, ad esempio, si trova l’istituto del prestito ad interesse che riesce a comprendere anche “l’interesse corporeo” del lavoro cioè di quello da rendere fisicamente nella casa o nei campi del creditore sino all’esaurimento del debito stesso. In Cina si mostra altresì il connubio tra burocrazia statale e promozione dei mercati che smentisce una volta di più l’ipotesi che esista una conflittualità di fatto naturale tra i due comparti. Quello che è anche da sfatare è il matrimonio consensuale tra mercato e capitale che – come dimostra Braudel citato da Graeber – vede quest’ultimo alla ricerca di situazioni monopolistiche che di fatto limitano la competizione del mercato. Sempre in Cina, in questo periodo, si manifesta il concetto della vita come un debito infinito spesso proveniente da vite precedenti, ma comunque mitigato dalle periodiche amnistie. Un altro aspetto ancora che caratterizza il Medioevo asiatico è l’influsso del Buddismo che permise l’accumulo di veri e propri


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capitali in forma dei tesori che i monasteri e i templi accumularono in seguito ai lasciti e alle donazioni che detta dottrina praticamente imponeva. Il Medioevo è dunque l’età che vede la scomparsa degli stati centralizzati con l’oro e l’argento che prendono la strada verso i luoghi sacri determinando una situazione nella quale l’accettazione del prestito a interesse oscilla tra l’equiparazione dell’interesse stesso con il rischio e il suo rifiuto in toto, con la posizione intermedia che condanna soltanto l’interesse predefinito che, in quanto tale, elimina il rischio. Eccoci all’età dei grandi imperi capitalistici che per Graeber andrebbe dal 1450 al 1971 (l’ultima data l’avevamo già incontrata e segna il momento in cui Richard Nixon scollega il dollaro dalla copertura costituita dalla riserva aurea). Si ha un inizio nel quale la moneta si rarefà in Europa, mentre si espande in Cina tanto da poter assorbire la nuova disponibilità dei metalli preziosi provenienti dal nuovo mondo determinando anche la possibilità di un florido mercato tra Europa e Cina. Verso il Capitalismo. I prodromi del capitalismo si possono manifestare a seguito di una serie di eventi concatenati. Una delle cause fu la promozione della moneta metallica a scapito del sistema di fiducia locale che si basava invece su cambiali o semplicemente sulla registrazione di chi era in debito con chi. L’imposizione forzata della moneta metallica provocò un aumento dei prezzi che si accompagnò alle recinzioni delle terre comuni (vedi anche M. Bloch, La fine della comunità e la nascita dell’individualismo agrario, Jaka Book, Milano 1978), fenomeni che produssero quella massa di disoccupati che fornirono la manodopera e costituirono l’esercito di riserva per la nascente industria. «Quasi tutto questo fu compiuto attraverso una manipolazione del debito» (p. 304) dichiara Graeber e confronta questa situazione con quella dei villaggi inglesi prima della rivoluzione industriale nei quali il credito rimaneva una questione di onore e reputazione e dove ogni sei mesi o una volta all’anno, le comunità organizzavano una giornata pubblica di “resa dei conti” nella quale, compensati i debiti tra loro, si pagava in moneta o in merce soltanto il debito residuo. Le cose funzionavano perché immerse in un quadro morale di massa che ne costituiva la costola economica,


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ma che era figlio di quella convivialità che si ritrovava e si definiva all’interno di relazioni costruite anche dentro le feste popolari quali il Natale e le Calende di maggio. Ad illustrare i cambiamenti dell’etica pubblica figlia di queste trasformazioni sociali è l’accoglimento di un termine quale il ”self-interest” (interesse personale) che voleva descrivere la pulsione dominante dell’uomo di Hobbes. Concetto che fu accolto come cinico e machiavellico, ma che non tardò a diventare senso comune, con il risultato per il quale si pensò che la maggior parte delle decisioni importanti fosse basata su un calcolo razionale di vantaggio materiale. Curioso che tutto questo venisse descritto con un termine che riguardava la penale per il ritardato pagamento di un prestito. Si passa così da un’economia di credito a un’economia di interesse. Le radici di questa forma di pensiero hanno però un carattere teologico. L’uso del termine “interesse individuale” risale a Francesco Guicciardini che l’usò quale sinonimo o eufemismo per il concetto agostiniano di “amor proprio” opposto ad “amore di Dio”. Quest’ultimo ci porterebbe alla benevolenza verso gli altri, mentre quello proprio testimonierebbe la presenza di un desiderio insaziabile di autogratificazione. Ma desiderio infinito in un mondo finito significano competizione senza fine. Concetto teologico chi si secolarizza, diventando ricerca infinita di profitto per soddisfare un interesse personale. La precedente rete di relazioni basate sulla reputazione si scardina e l’affermazione di Smith – per la quale possiamo accedere all’acquisto di carne o di birra non in relazione ad un atto di benevolenza dei negozianti, ma al tornaconto che essi troveranno per soddisfare il loro egoismo – diventa plausibile. Affermazione questa che non corrispondeva ancora allo stato dei fatti e che invece diventerà veritiera soltanto poco dopo, quando la nozione di credito fu separata dalle relazioni di fiducia tra individui e si poteva produrre moneta con un tratto di penna. Questo poteva però portare a situazioni di grande oscillazioni dei prezzi; il sistema, in Inghilterra, si stabilizzò quando si adottò il gold standard (1717). Da allora in poi i meccanismi di assoggettamento del debito si faranno sempre più efficaci, è questo il caso di aziende locate lontano dalle abitazioni dei loro dipendenti che affiancano alla loro linea di produzione negozi e servizi ai quali è possibile accedere a credito con la possibilità di estinzione del debito contratto attraverso il lavoro prestato. Il dipendente «è completamente alla mercé del suo signore» (p. 339). Alla schiavitù per debiti si sostituì la servitù per gli stessi. Il matrimonio sbandierato tra capitalismo e libertà non può che liquidare come incidenti di percorso «tutti quei milioni di schiavi, servi, coolies e debitori schiavizzati» (pp. 340-341). Il meccanismo del debito rende conto di più tipi di condizione, il rapporto di subordinazione tra operaio e padrone non ne esaurisce le possibilità. Graeber fa notare


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che nella Londra dei tempi di Marx – come lui certamente sapeva – «c’erano più lustrascarpe, prostitute, soldati, maggiordomi, venditori ambulanti, spazzacamini, fioraie, musicisti di strada, galeotti, nutrici e tassisti (…) che non operai (p. 344). Ma eccoci ai giorni d’oggi, a quei giorni successivi all’operazione di Nixon che dichiara la non convertibilità del dollaro. La prima conseguenza fu di far schizzare alle stelle il prezzo dell’oro con la conseguenza simmetrica della svalutazione relativa del dollaro con l’ulteriore conseguenza di un enorme trasferimento di ricchezza dai paesi poveri, che non avevano riserve auree, ai paesi ricchi quali ad esempio Stati Uniti ed Inghilterra che mantenevano riserve in oro. L’indebitamento successivo porterà ad una nuova forma di colonialismo e di subalternità per gran parte dei paesi cosiddetti in via di sviluppo. Il dollaro diventa la moneta di riserva globale. Qui entra in gioco un ulteriore meccanismo. Attraverso spese per armamenti superiori ad ogni altro paese e per i consumi largamente promossi, gli Stati Uniti hanno un enorme deficit di bilancia commerciale, per questo una grande quantità di dollari circola all’estero e, con questi, le banche centrali estere possono soltanto comprare titoli del tesoro americano. Ma questi pagherò del tesoro americano sono parte integrante della base monetaria mondiale e quindi non saranno mai rimborsati, ma saranno continuamente rifinanziati. Il resto del mondo invece doveva osservare politiche monetarie restrittive e ripagare scrupolosamente i propri debiti. «Quando Saddam prese la decisione unilaterale di passare dal dollaro all’euro nel 2000, seguito dall’Iran nel 2001, presto il suo paese fu bombardato e occupato dalle forze statunitensi» (p.356). Graeber racconta anche i modi dello sviluppo delle relazioni debitorie e delle loro conseguenze sociali. Lo stop al finanziamento del welfare fu giustificato con la possibilità di potersi tutti permettere una casa di proprietà attraverso una richiesta di prestiti incoraggiata dai governi liberisti che, nello stesso tempo, non solo non arginavano le avventatezze finanziarie, ma incoraggiavano tutti a giocare in borsa. Nei soli Stati Uniti ci sono oltre 401.000 fondi pensione usati spesso per fare scommesse finanziarie. L’indebitamento è ormai universale e non determinato da persone che giocano ai cavalli o che scialacquano in cianfrusaglie e questo avviene perché si è messo in atto un dispositivo culturale per il quale «le relazioni umane non possono essere messe in stand-by nello stesso modo delle immaginarie “spese discrezionali”: una figlia compie cinque anni una sola volta» e cose così. (p. 454, nota 31). La macchina della speranza è stata sabotata e molti non si possono immaginare un futuro al di fuori del capitalismo e del “libero mercato”.


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Ma proprio sulla speranza che si dipanano alcune tra le ultime pagine. Ad esempio sul ripristino dei codici di onore, sulla fiducia, sulle comunità e sul mutuo supporto sui quali si erano basate le cosiddette economie umane. Sullo smascheramento dei meccanismi di assoggettamento che svelano che la differenza tra dovere a qualcuno un favore e dovergli un debito, sia che l’ammontare del debito può essere precisamente calcolato. Ma questo calcolo richiede un’equivalenza tra esseri umani del tutto particolare. Un’equivalenza che li estrapola dal proprio contesto così tanto da poter essere trattati come identici a qualcosa d’altro. Anche i mercati hanno una loro fisionomia. I primi mercati nascevano intorno alla possibilità di scambiarsi le merci preziose. Preziose perché saccheggiate e rese anonime. Anonime perché non avevano una storia e quindi potevano essere accettate dappertutto senza fare domande. Ma poi il mercato, allontanato dalla violenza originaria che l’aveva fondato, si sviluppa in qualcosa di completamente diverso, in reti di onore, fiducia e relazioni, dimensione questa da dover forse recuperare. Con una impellenza lasciata sullo sfondo si conclude questa storia del debito, con una aspettativa, una richiesta, forse un programma al quale ci piacerebbe associarsi: «c’è da tempo bisogno di un giubileo del debito in stile biblico, che riguardi tanto i debiti internazionali quanto quelli dei consumatori» (p. 378). Un giubileo laico che torni all’origine della sua istituzione nella quale venivano rimessi i debiti e non i peccati (ma anche ridistribuite le terre), da usare come parola d’ordine che cresca sull’onda di quello mediatico che si scatenerà tra poco in relazione a quello “santo” proclamato per il 2016, per infine comunicare e pretendere, oltre e non solo la misericordia* annunciata, ma i diritti e gli interessi degli ultimi. *La misericordia è il tema del prossimo giubileo straordinario che Francesco ha proclamato per il 2016. David Graeber, Debito. I primi 5.000 anni, il Saggiatore, Milano 2012. Pagine 455 note comprese, escluso indici e bibliografia. Euro 23.00.


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Debito e colpa. Il vocabolo tedesco Schuld al singolare vuol dire “colpa”, al plurale, Schulden, “debito”. Etimologicamente proviene dall’antico gotico skulan, da cui derivano anche il tedesco sollen e l’inglese to shall, tutti verbi che indicano un’obbligazione materiale e morale, un “dovere”. Originariamente la parola indica “qualcosa che si deve”, “un obbligo a cui si è legati”. Solo successivamente interviene, nella lingua tedesca, il suo utilizzo in contesti legati al denaro. Emile Benveniste, nel Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, osserva che il gotico skulan «traduce contemporaneamente opheilo nel senso di “essere debitore”» e lo stesso verbo opheilo del greco dei vangeli. Il complesso contesto semantico a cui il vocabolo tedesco fa riferimento rimanda dunque a un’origine più antica. Ne è testimonianza l’uso neotestamentario della parola opheilema (da ophelio, a cui fa riferimento Benveniste nel passo precedentemente citato), che nel greco antico ha il significato economico di “debito”, ma che nel Nuovo Testamento acquista anche, ad un tempo, la valenza morale della “colpa” e del “peccato” (p. 147). Il quinto testo che vi proponiamo sul debito è di Elettra Stimilli che ne indaga i rapporti con il concetto di colpa e gli effetti conseguenti al loro operare reciproco. La prima connessione tra debito e colpa, come abbiamo già detto in altra recensione, si può far risalire alla seconda dissertazione della “Genealogia della morale” di Nietzsche, ma l’approccio che ne fa Stimilli è di una sua problematizzazione alla ricerca dei modi di funzionamento del sistema creditizio in quanto veste attuale del sistema capitalistico, ma anche quale dispositivo assoggettante che determina e spiega quella forma di impotenza manifestata da coloro che invece avrebbero tutte le ragioni per attivarsi e ribellarsi alla sua esistenza. La commistione tra debito e senso di colpa diviene quindi, per l’autrice, il probabile paradigma attraverso il quale il dispositivo del consenso mette in atto le sue capacità operative. Non ci sono però volontà esegetiche, si tratta invece come di un percorso problematico a scandagliare ipotesi provenienti da più terreni di ricerca quali i concetti di appropriazione, divisione e produzione secondo C. Schmitt; quello psicologico di pulsione di morte da Freud e Melanie Klein; la rilettura che Judith Butler dà di questo elemento pulsionale reinserito


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nel contesto politico attraverso quella che lei chiama “la vita psichica del potere”; la teologia politica e quella economica del terzo e quarto capitolo che fanno riferimento principalmente al lavoro di Agamben, Esposito e Cacciari (aggiungerei il Mario Tronti di “Il nano e il manichino/La teologia come lingua della politica”) nonché di Benjamin, Weber e Foucault. Stimilli fa una prima operazione di sistematizzazione dei concetti intorno ai quali si può muovere il concetto di debito, così si parla preliminarmente di appropriazione, scambio, e dono. L’appropriazione, come abbiamo detto è ripreso da Schmitt, il concetto di scambio si arricchisce invece delle riflessioni foucaultiane sulla governamentalità. Secondo Foucault, infatti, l’aspetto governamentale caratteristico delle società di mercato contemporanee corrisponde ad una razionalità che mira a dirigere dall’interno le vite individuali attraverso l’istituzione di norme in sé non repressive, né violente ma incentrate sui desideri, sulle passioni e anche sulle modalità di valutazione e di scelta degli esseri umani (p. 38). Questa posizione sposta la centralità marxiana dal modo di produzione al mercato. È il mercato in quanto istituzione normativa a determinare il fatto che l’economia divenga una forma di governo politica. Il mercato dunque come luogo di veridizione, perché connette produzione, bisogno, offerta e domanda, valore e prezzo. Si apre così una prospettiva, un nuovo punto di vista attraverso il quale «il dispositivo alla base del fenomeno dell’indebitamento non risulti tanto dalla degenerazione dell’autoregolazione del mercato, quanto piuttosto come sua stessa conseguenza intrinseca» (p. 39). Si prosegue con i dati antropologici che smentiscono ancora una volta le convinzioni dell’economia classica che leggeva i comportamenti a partire da un presupposto egoismo quale propensione naturale dell’uomo, questa volta facendo riferimento agli studi di Polanyi per i quali l’uomo non agisce in modo da salvaguardare il suo interesse individuale, ma in modo da salvaguardare la sua posizione sociale, la sua rete relazionale, il suo prestigio sociale, il suo stesso onore. Sarebbe dunque una peculiarità della società capitalistica il fatto di aver perso il senso della comunità sociale avendolo sostituito con un utilitarismo individualistico, proiettando poi questa idea nell’interpretazione degli altri sistemi sociali. Ecco fare la sua comparsa al concetto di dono che poi ha articolazioni in certo qual modo simili ai meccanismi che sottostanno a quelli del debito. Il dono crea un’obbligazione, come un debito contratto


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con il proprio donatore. Anche il dono prevede un differimento (un dono immediatamente restituito è un dono non avvenuto). Poi la moneta, anch’essa dipendente da una forma di credito «ogni moneta è in effetti moneta di credito, dato che il suo valore si basa sulla fiducia del ricevente di ottenere una certa quantità di merce in cambio» (citazione da Simmel, Filosofia del denaro, Utet, Torino 1984, p.263). Una domanda regolarmente esplicitata rimane comunque sul sottofondo del lavoro della Stimilli ed è se l’attuale forma di potere incentrata sul debito, somigli o meno a quelle perpetuate in altri sistemi sociali. La differenza è comunque in relazione alla pervasività attuale del debito stesso. Elemento già preso in considerazione in alcuni degli ultimi lavori di R. Esposito che sollevano ulteriori quesiti: «è in atto un mutamento profondo delle forme di potere, che implica anche un ripensamento delle modalità di resistenza o di antagonismo» (p. 69). Si paventa così il bisogno di un lavoro politico che consenta la possibilità di articolare forme di contropotere altrettanto «compatte e capillari» delle attuali modalità di dominio. Ma forse, aggiungeremo noi, le forme di capillarità sono già in atto, e quello che occorre è il riuscire a compattarle. Viene da sospettare che il tempo attuale non sia espressione di una crisi del capitale, ma si tratti invece di una sua ristrutturazione. La cappa obnubilante del debito giustifica infatti i tagli allo stato sociale, lo smantellamento dei diritti e l’appropriazione di tutte quelle funzioni che adesso lo stato vuole esternalizzare. Il testo della Stimilli tocca e cita anche i temi svolti da Graeber e da Lazzarato che abbiamo già raccontato per poi addentrarsi su quel terreno che l’autrice aveva già affrontato in alcuni precedenti lavori (Il debito del vivente – Ascesi e capitalismo, Quodlibet, Macerata 2011 e sempre per la stessa casa editrice: Il culto del capitale – Walter Benjamin: capitalismo e religione, curato insieme a M. Ponzi e D. Gentili). Si riaffaccia qui l’ipotesi accennata anche da Graeber su un debito primordiale profondamente inserito nell’ambito religioso di società arcaiche che influenzava le relazioni tra gli individui. C’era come un debito di vita da riconoscere agli antenati che condizionava tutti i rapporti a partire dalle costruzioni parentali e che inglobava sia la sfera economica, sia quelle giuridica e politica. Questo debito originario d’ordine religioso condizionerebbe a tutt’oggi le relazione umane. Questo comporta che il legame finanziario (il rapporto credito/debito) fosse in qualche modo anteriore allo scambio. In ambito giudaico-cristiano il cosiddetto peccato originale ha una funzione abbastanza simile e in particolare l’assume attraverso un meccanismo particolare:


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Bisogna prendere in considerazione il processo attraverso il quale il peccato, concepito inizialmente come un fardello che grava sulle spalle di chi ha commesso una colpa, si modifica sino ad assumere nel Nuovo Testamento il senso di un debito che deve essere ripagato. (cfr. G. A. Anderson, Il peccato, Liberilibri, Macerata 2012). L’efficacia del dispositivo di assoggettamento dipende dunque dalla possibilità di far coincidere la colpa con il peccato mettendo in atto un ordinamento che conserva il suo dominio attraverso lo stato di soggezione che il peccato produce e che il debito contratto provoca. Qui di nuovo agisce il senso dello spostamento dell’istituzione del Giubileo, da anno di liberazione dalla schiavitù per debiti ad anno di perdono dei peccati. Se così fosse un ritorno alle origini smonterebbe l’efficacia del meccanismo e il pensiero da esso derivato. In questo contesto il sacrificio sarebbe la transazione originaria, una donazione come ricompensa per il dono di vita che dèi o antenati avrebbero concesso. Riprendendo una tesi di Aglietta e Orlean (due economisti francesi facenti parte della scuola dei regolazionisti) proprio dalla prassi sacrificale sarebbero nate le prime monete usate quali “oggetti simbolici” per la remunerazione di colui – un terzo tra le parti – che si prendeva il carico dell’esecuzione materiale del sacrificio. Il rito permetteva così il trasferimento del potere dal mondo degli dèi a quello degli uomini favorendo l’istituzione della sovranità. In definitiva e sinteticamente Stimilli dice: «Il problema del debito generalizzato per molti versi è l’espressione di un potere coercitivo, in cui il dispositivo teologico-giuridico della “colpa” si identifica con quello economico del “debito”» (p. 106). La colpa che equivarrebbe all’essere in debito (al sentirsi in debito) Stimilli la ritrova in Esposito e Agamben, di quest’ultimo una citazione che dà la chiave dell’approccio biopolitico alla questione: la cifra [della] cattura della vita nel diritto non è la sanzione […], ma la colpa (non nel senso tecnico che questo concetto ha nel diritto penale, ma in quello


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originario che indica uno stato, un essere in-debito: in culpa esse) (p. 111 in “Homo sacer” p. 32) Debito e colpa intersecano anche il campo religioso non soltanto come derivazioni secolarizzate di concetti teologici, ma anche aprendo una discussione o una riflessione sugli influssi che le religioni hanno su elementi del capitalismo neoliberista sia dal punto della genealogia, sia da quello degli sviluppi, mettendo in primo piano la questione dei rapporti più o meno strutturali tra i due ambiti, proponendo approfondimenti che comprendano – all’interno delle riflessioni weberiane e a quelle suscitate dalla ripresa del frammento benjaminiano sul capitalismo come religione – un’analisi dei rapporti tra capitale e religioni comprendendo dunque anche quelle non cristiane, per una lettura della globalizzazione che renda conto dell’emergere di economie come quelle asiatiche o dell’influenza dell’Islam nel settore del credito e quindi della finanza. L’ultimo capitolo è quello che riprende il lavoro della Butler in relazione alla “vita psichica del potere” attraverso la quale ci troviamo di fronte a «nuove forme di istituzioni normative in grado di amministrare l’economia libidica a fondamento della vita umana con modalità non esclusivamente repressive, ma attraverso la riproduzione continua di condizioni indebitanti» (p. 187). In conclusione diremo che il saggio di Elettra Stimilli mettendo in relazione i concetti di debito e colpa, coglie forse uno dei nodi più importanti di riflessionediscussione nell’attuale contesto delle pratiche antagoniste. Ricerca anche l’insieme delle possibilità che illustrino il più possibile i modi di operare del neoliberismo per riuscire a mettere in atto adeguate contromisure tutte comunque ancora da definire, mettendo a disposizione una grande quantità di materiale pressoché indispensabile.

Elettra Stimilli, Debito e colpa, Ediesse, Roma 2015, pag. 238, € 12.00


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Il governo dell’uomo indebitato Il debito appartiene a una mnemotecnica che contribuisce alla costruzione di una (cattiva) coscienza e di una colpevolezza, condizioni soggettive per mantenere la promessa collettiva del rimborso che i debiti contratti dallo stato implicitamente contengono. Così, lo stato, i governi tecnici e i media devono investire un’energia considerevole per colpevolizzare le popolazioni europee di un debito che non hanno mai contratto e di errori che non hanno mai commesso. L’imperversare di leggi, discorsi, testi, parole è direttamente proporzionale all’estensione di questa impostura. (p. 33) Avevamo iniziato con un testo di Lazzarato e terminiamo lo “scaffale del debito” con un altro suo lavoro, questa volta invece della “Fabbrica dell’uomo indebitato” (qui la recensione) abbiamo “Il governo dell’uomo indebitato” entrambi con il medesimo sottotitolo e cioè: “Saggio sulla condizione neoliberista”. Se nel primo testo Lazzarato metteva a punto un’interpretazione del debito quale apparato di assoggettamento e espressione del capitalismo neoliberista, qui riesce ad affinare i suoi strumenti interpretativi mettendo a punto un recupero del pensiero di Deleuze e Guattari e dei loro strumenti sintattici applicandoli ai tempi attuali riletti secondo le intuizioni del Foucault dei seminari sulla biopolitica. Di quest’ultimo viene ripresa la distinzione tra società disciplinari e società securitarie o di controllo. Le prime sono quelle che fanno riferimento a luoghi di ritenzione (famiglia, scuola, caserma, fabbrica, manicomio, carcere), delle quali potremmo dire che generano forme di asservimento, le seconde operano interagendo con il soggetto usando anche le nostre rappresentazioni, la nostra psicologia, la nostra coscienza, l’interiorità stessa. Esse generano dunque forme di assoggettamento, un loro tipico prodotto è l’uomo imprenditore di se stesso che non è altro che uno zombie essendo ormai calato completamente nella parte dell’uomo indebitato. La società di controllo subentra a quella disciplinare alle fine degli anni 70 del secolo scorso. I concetti ripresi da Deleuze e Guattari sono quelli di apparato di cattura, territorializzazione e suo contrario (deterritorializzazione), macchinico, flusso, che permettono di leggere una serie di eventi come concatenazioni riferibili a macchine dalle più semplici alle più complesse come quelle programmabili che generano risposte


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automaticamente. Una di queste è la macchina finanziaria che macina dati in input e, tramite algoritmi sempre più complicati dà risposte in uscita nella totale assenza di qualsiasi controllo umano se non quello della programmazione iniziale. Ci troviamo di fronte semplicemente ad algoritmi dettati da un credo neoliberista che predica la capacità di autoregolamentazione del mercato e che eseguono migliaia di transazioni in frazioni di tempo non percepibili dagli esseri umani.

Gli apparati di cattura corrispondono invece a paradigmi attraverso i quali è possibile interpretare il funzionamento e l’interazione di istituzioni caratteristiche e specifiche. Alla triade proposta da Carl Schmitt (appropriazione, divisione e produzione) l’autore fa corrispondere quest’altra: profitto, rendita e imposta, operazione che consente di svelare e ripensare i ruoli reciproci e nuove correlazioni tra politica, stato e mercato. Dove la politica che il pensiero “borghese” vorrebbe descriverci come il luogo caratteristico di un “vivere insieme” o come un “mondo comune” si mostra essere segnata da una appropriazione e una divisione originali e fondamentali, ma che hanno – secondo noi – un effetto particolarmente iniquo a partire dalla rivoluzione industriale. In questo ambito è così possibile leggere lo stato sociale come un elemento di redistribuzione e pacificazione, mentre in realtà esso è stato espressione di una specie di “guerra civile” che il dispositivo del debito (la scusa della


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sua esistenza) ha aggravato permettendo ad esempio, se non la semplice distruzione del welfare, la sua quasi completa privatizzazione. Lo stato sociale dovrebbe essere il luogo precipuo della distribuzione, della redistribuzione, ma è diventato il terreno del conflitto tra le varie classi sociali dove si determina a «chi prendere e a chi dare» (p. 44). Il terzo capitolo mostra le dinamiche del debito in USA dove ci si indebita per studiare e si usa una carta di credito per pagare il debito fatto con un’altra. Qui, più che il senso di colpa, funziona un meccanismo di iscrizione al debito che sembra essere ineluttabile e che circuisce ogni abitante di quella nazione partendo dall’istruzione per proseguire tramite la sanità e la casa. Ora, indagando i meccanismi, i passaggi e le interazioni tra funzioni e elementi caratteristici dell’ambito economico o ad esso limitrofi, si possono evidenziare o mettere in discussione le chiavi di lettura dei rapporti che si instaurano tra i vari contesti vedendo che la chiave neoliberista che pensa il mercato come agente autosufficiente e auto regolante è quella che meno regge a questo tipo di verifiche. Positivo comunque nell’autore l’atteggiamento a tenere aperto e attento lo sguardo nel poter intravedere soluzioni o possibilità per strutturazioni con effetti più egualitari. Se una forma di pensiero non ha visto spesso le relazioni possibili tra i vari contesti o ne ha travisato l’ordine e le gerarchie reciproche, questo diviene spesso il terreno dove il pensiero di Lazzarato trova la sua dimensione più utile. Riporto a questo proposito un solo esempio, quello relativo alla problematizzazione del rapporto tra capitale e società che soltanto tra gli anni sessanta e i settanta riesce ad essere preso in considerazione da una parte minoritaria dell’operaismo italiano, ma che costituisce ad oggi una delle riflessioni e analisi tra le più utilizzabili.


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L’attenzione agli aspetti della governamentalità, che è il modo dell’organizzazione sociale del capitalismo attuale, svela la mancanza di riferimenti e la volatilità del concetto stesso di moneta, che è sempre più riconoscibile soltanto come moneta capitale, ovvero come moneta credito, come moneta debito. Se la moneta intesa come strumento di pagamento esprime un semplice potere d’acquisto, la moneta credito esercita un potere di comando sul lavoro e sulla società. L’ultima parte – prima delle conclusioni – riprende con efficacia la terminologia biopolitica compendiata da quella di Deleuze e Guattari, mettendo anche al centro dell’attenzione gli aspetti semiotici dell’operare capitalistico. Interessante capire come il capitale nel muovere e determinare i flussi finanziari opera su sistemi a-significanti. Un algoritmo non è significante, non rimanda né ad un’idea né a una cosa, ma ha comunque un potere di operare che provoca “traduzioni” con esiti rilevanti e non imparziali. Un ulteriore contributo per l’interpretazione e lo svelamento dei modi di controllo e di assoggettamento che sta mettendo in atto il capitale e che permette realmente un controllo sui corpi al di là e non solo dell’ambito genetico, è quello che proviene dalle riflessioni di Beatriz Preciado: Il capitalismo farmaco-pornografico è una buona immagine di cosa sia una macchina sociale di valorizzazione e di produzione di soggettività. Beatriz Preciado delinea “un’economia tossico-pornografica complessiva all’interno della quale circolano organi, pillole, città, connessioni in comunicazione, immagini, testi, seghe, litri di silicone, composti chimici, dollari”, nella quale umani e non umani, macchine tecniche e oggetti, individui e reti si concatenano al di là del paradigma soggetto/oggetto. (p. 165, nota 29) Beatriz Preciado ha individuato i meccanismi che creano il genere, ma questi meccanismi sono gli stessi o sono parenti di quelli che creano il soggetto o, dell’essere il soggetto, oggetto di manipolazione da parte dei modi di essere attuali del capitale. Le conclusioni che ancora una volta tentano di essere anche delle vie di uscita, ruotano intorno al concetto di “rifiuto del lavoro” a partire cioè da una possibilità che è quella nella quale gli operai si confrontano e si riconoscono non nel tempo lavorato che li ruolizza ed isola, ma nel tempo liberato, il tempo stesso dello sciopero che ha valore di lotta la cui efficacia non sta dunque e non solo nella capacità di bloccare la valorizzazione del capitale, ma anche di renderli “uguali” (p. 206). Soltanto all’interno del modo di produzione capitalista ogni aumento di produttività viene convogliata nell’aumento dell’accumulo e mai utilizzata per liberare del tempo. Si ha così che


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soltanto le generazioni che hanno avuto la sfortuna di nascere sotto il capitale abbiano sacrificato più tempo al lavoro di qualunque altra. Quasi si volesse mettere al centro il soggetto per liberarsi dall’assoggettamento che il capitale – tramite il dispositivo del debito – ha messo in atto. Maurizio Lazzarato, Il governo dell’uomo indebitato – Saggio sulla condizione neoliberista, Derive Approdi, Roma 2013, Pag. 216, € 13.00.


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Indice Per una bibliografia ragionata sul tema del “debito”

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La fabbrica dell’uomo indebitato (Maurizio Lazzarato) Saggio sulla condizione neoliberista

4

Creditocrazia e rifiuto del debito illegittimo (Andrew Ross)

9

Le radici di una fede (Massimo Amato) Per una storia del rapporto fra moneta e credito in Occidente

15

Debito. I primi 5.000 anni (David Graeber)

19

Debito e colpa (Elettra Stimilli)

27

Il governo dell’uomo indebitato (Maurizio Lazzarato) Saggio sulla condizione neoliberista

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