2007. NUOVA GOVERNANCE E NUOVI SCENARI PER LE POLITICHE GIOVANILI

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31.01.2007 !

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LA NUOVA GOVERNANCE E NUOVI SCENARI PER LE POLITICHE GIOVANILI Giovanni Campagnoli


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NUOVA GOVERNANCE E NUOVI SCENARI PER LE POLITICHE GIOVANILI INDICE Premessa: il futuro CAP. 1 La nuova governance delle politiche giovanili 1. L’avvio di un new deal delle politiche giovanili 2. Analisi dei contenuti giovanili della finanziaria 3. La questione di governance CAP. 2 Nuovi scenari giovanili di politiche giovanili 1. Quali giovani oggi 2. Rappresentanza e rischio di esclusione 3. Accesso al lavoro ed al reddito per i giovani 4. L’accesso alla casa per i giovani 5. L’accesso all’istruzione ed alla cultura 6. L’accesso alla conoscenza, alla ricerca ed all’innovazione attraverso lo sviluppo della creatività 7. L’accesso all’impresa ed alle professioni 8. L’accesso al credito 9. Nuovi modelli di coppie e di famiglie 10. I giovani-adulti 11. Le assenze 12. La partecipazione giovanile 13. Le politiche giovanili come progetti di comunità locale 14. Le forme di partecipazione giovanile 15. Nelle Città e nei Comuni (cosa succede in città)


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Abstract. Dopo un quinquennio di legislatura dove le politiche giovanili a livello nazionale non sono avanzate di molto rispetto al 2001, si registra una grossa novità su questo fronte, cioè la costituzione, nell’ambito del nuovo Governo (17 maggio 2006) di un Ministero alle Politiche giovanili (insieme a quello allo sport), con la costituzione di un Fondo ad hoc per i giovani. Oltre all’introduzione nella Finanziaria di alcuni temi di interesse giovanile. Anche se ciò genera problemi di competenze tra i diversi attori che possono avere potere di intervento, rispetto alla governance complessiva dei processi (V. Cap. 1). Infatti la riforma del Titolo V° della Costituzione, ancora non scioglie la questione in modo definitivo. Prima di ciò, nel 2004, c’era stato il riconoscimento (ed il finanziamento con la “finanziaria” del 2004), del Forum nazionale. Purtroppo nell’arco della legislatura 2001/2006, il nostro Parlamento non ha né approvato, né discusso una legge nazionale sui giovani, non riuscendo così a colmare il gap con la maggior parte degli altri Paesi europei (in Francia la prima legge giovani è del 1901..). Politiche giovanili relegate ad un sottosegretariato in un mix tra colontariato e servizio civile, senza riuscire, rispetto all’applicazione dei programmi europei per la gioventù, a costituire una Agenzia Agenzia nazionale. Nemmeno le Regioni (in un momento di incertezza di governance in materia di giovani) hanno attivato iniziative legislative In questo “vuoto”, ancora i Comuni si sono dimostrate le istituzioni più attive e più vicine alle istanze giovanili, cogliendone bisogni ed impegno, attivando sperimentazioni innovative (spesso con il Terzo settore) che anche in Europa risultano essere buone prassi. Eccellenze sparse per il Paese, non ancora a sistema, senza riferimenti nazionali. Superare questa situazione è la sfida che attende il nuovo Ministero.


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Premessa: il futuro1 “Il futuro non è semplicemente ciò che ci capiterà domani o dopo domani, ma ciò che ci distacca dal presente”2 . Tutti noi aspiriamo ad un futuro migliore ma questa generazione di giovani, e lo si di dice sempre più spesso, è la prima che non avrà una speranza di qualità della vita migliore di quella dei loro genitori: e ciò sta diventando una percezione collettiva di cambiamento di segno del futuro, un futuro che da “promessa” diventa “minaccia”. I giovani che hanno “incendiato” le periferie delle città francesi hanno manifestato3 il sogno “non di preservare un'appartenenza ma di divenire cittadini indipendentemente dall'identità” 4. Ma sono giovani •ai quali l’unica dignità di cittadinanza riconosciuta nei fatti è quella di partecipare ad una società del consumo, •ai quali nessuno si sogna di chiedere di quale sistema sociale ed economico si sentano pienamente cittadini Per questi giovani, come per gli adulti, immaginare che possa esistere un altro mondo capace di dare loro più felicità di quello attuale è, sostanzialmente, vietato.

L’epoca delle passioni tristi (Benasayag, Schmidt), Feltrinelli ’05

“In Italia della condizione giovanile non parla più nessuno. Era l'ossessione degli anni 60 e 70, quando i giovani avevano molte più speranze. Oggi sono disperati e non fanno notizia. Se la vitalità di un paese si misura con il ruolo delle nuove generazioni, allora l'Italia non è in declino: è in coma. Nella nostra vita pubblica le persone fra venti e quarant'anni non contano quasi nulla. Abbiamo la classe dirigente più vecchia d'Occidente e i livelli di occupazione giovanile più bassi.

1

G. Salivotti: “Sviluppare democrazia”, Venezia, 16 dicembre 2005.

2

M. Benaayag e G. Schmit: “L’epoca delle passioni tristi”, Feltrinelli, Milano, 2004.

3

4

“Manifestare: rendere noto, (mostrare apertamente la propria volontà o un desiderio), rivelarsi mostrare le proprie capacità”, Il nuovo dizionario Garzanti “Tristi Banlieue” di Barbara Spinelli, La stampa, 12 Novembre 2005


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In più, quelli che lavorano sono precari, mal pagati e depressi da un livello di mobilità sociale bassissimo. Un italiano dai venti ai trent'anni guadagna in media meno di diecimila euro all'anno, la metà di un inglese e un tedesco, mille euro meno di uno spagnolo. Non stupisce che i soldi della famiglia di origine, "la paghetta", siano la principale fonte di reddito per il 70% dei ventenni italiani, contro il 35% di tedeschi e francesi, il 15% dei britannici. E che il 70% dei maschi italiani tra i 25 e i trent'anni vivano con i genitori, quando non si arriva al 20% fra francesi e tedeschi e al 10% fra gli inglesi. In tutti i settori funziona in Italia una selezione alla rovescia, per cui se un giovane è creativo, critico e autonomo incontra mille difficoltà nel mondo del lavoro, mentre vengono più facilmente accolti quelli che accettano le regole precostituite. In definitiva, sono preferiti i giovani già vecchi, meglio se un po’ rincoglioniti. L'Italia esprime una società conservatrice dove si muore come si è nati: ricchi o poveri”5 . Nel descrivere il comportamento del mondo degli adulti nei confronti del mondo giovanile utilizzo una frase, spesso abusata, ma efficace: i giovani sono “vissuti” più come problema che non risorsa per la società. Basti pensare alle leggi che hanno finanziato interventi di politiche giovanili in tutti questi anni: la legge 45 e il “Fondo Nazionale per la Lotta alla Droga”, la legge 216 per “Primi interventi in favore dei minori soggetti a rischio di coinvolgimento in attività criminose”6, la legge 285 per la “tutela dell’infanzia e dell’adolescenza”. Leggi importanti, ma con un approccio che svela una visione del mondo giovanile come entità ammalata, che genera preoccupazione (i giovani sono solo portatori di conflitti?) o, al più, da affrontare come una generazione sotto tutela. Il fatto è che nel nostro Paese spesso affinché la politica si occupi di una questione, deve esserci una “emergenza”. Ma questa parola può essere pericolosa, perché se si è in una situazione al limite, gli interventi sono portati avanti con logiche coerenti con la situazione. Così per i giovani c’è l’emergenza droga, l’emergenza criminalità, oppure si parla delle “stragi del sabato sera”, del “branco”, del satanismo e si propongono interventi che mirano più alla ricerca di un consenso immediato dell’opinione pubblica (ad es. innalzare le pene, diminuire le dosi personali di sostanze illecite, anticipare la chiusura dei locali, ecc., ecc.). Nel nostro Paese mancano e sono mancate politiche di “normalità” che con una logica progettuale sapessero aiutare i giovani a diventare pieni titolari di diritti di cittadinanza e persone realmente autonome nella vita sociale. Per diversi motivi, non si è creato un “sistema” in grado di sostenere i giovani, orientarli ed offrire loro una serie di opportunità tra cui scegliere per il loro futuro. Non che non ci sono e non ci siano stati interventi, anzi. Ma ognuno riguardava un ambito specifico, ad esempio istruzione, prevenzione, lavoro, Università, mobilità giovanile, imprenditoria, ecc. Soggetti che agiscono da separati in casa e che danno risposte frammentate a giovani con identità frammentate. E così oggi vi sono molte fasce di giovani a forte rischio di esclusione sociale: giovani con titoli di studio “deboli”, giovani senza titolo di studio, giovani alle prese con il problema della disoccupazione, con una mancanza di una politica della casa, dell’accesso al credito, inseriti in un contesto che li vede protagonisti più nel consumo che nella partecipazione alla vita sociale. La conseguenza del mix di queste tendenze è la crescente vulnerabilità dei giovani, esposti più a lungo alla dipendenza dalla famiglia di origine e al rischio di povertà (in Europa: 19% dai 16 ai 24 anni, rispetto al 12% tra i 25 e i 64 anni). D’altronde lo stesso welfare nazionale in Italia è orientato a dare molto di più ai padri che ai figli. Esiste poi anche tra i 5 6

“Questa Italia nemica dei giovani”, di Curzio Maltese La Repubblica, lunedì, 11 luglio 2005. Ora non più finanziata.


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giovani un problema relativo alle disuguaglianze di genere, poiché le giovani donne sono più esposte dei loro coetanei al rischio di disoccupazione e di povertà, pur essendo più numerosi i giovani maschi che abbandonano precocemente gli studi. È quindi ora di occuparsi anche dei giovani “normali” prima che questi rischino seriamente di essere succubi di meccanismi di esclusione sociale e lavorativa che potrebbero metterli “out” rispetto a tutto ciò che fa inclusione. Ma nei Comuni (che tra le istituzioni sono quelle che da sempre più si sono occupate di giovani, insieme all’associazionismo ed alla Chiesa) sono carenti anche gli interventi più tradizionali rispetto alle politiche giovanili. In particolare mancano strumenti e luoghi di espressività e creatività per i giovani produttori di cultura, proprio mentre l'economia sta dando rilevanza crescente ai prodotti e ai servizi culturali rivolgendosi in particolare al consumo giovanile. Sono carenti anche gli spazi di ricerca dell’identità per esprimere e rappresentare i propri bisogni di socializzazione, di rappresentanza e di espressività e protagonismo giovanile, così come spazi di partecipazione anche individuale o di gruppi informali (la maggior parte degli interventi previsti oggi sono per associazioni ed aggregazioni giovanili formalmente costituite). Inoltre spesso non è riconosciuto proprio il protagonismo giovanile perché i progetti, i servizi e le strutture dedicate ai giovani sono in prevalenza governati da adulti. Tutto ciò si traduce in distanza tra i giovani e le istituzioni, in esclusione dai luoghi di rappresentanza: i giovani non sono ben rappresentati nel Parlamento, nei consigli regionali, in gran parte dei consigli comunali. Con un grosso problema di ricambio generazionale della classe dirigente. Gli anziani, pare ovvio, saranno sempre di più e richiederanno, giustamente, più cure e risorse, ma anche i giovani dovranno richiedere massicci investimenti. E certo non solo i giovani già emarginati o ai margini della società. Per i giovani va pensato invece un “orizzonte di normalità”. Vi sono allora tre questioni importanti da affrontare: la partecipazione per consultare i giovani nelle decisioni che li riguardano e sostenere la cittadinanza attiva; un sistema di opportunità e diritti per un inserimento reale nella società; l’inclusione nel mercato della conoscenza per assicurare informazione attiva e garantire uguaglianza nell’accesso alle opportunità7. Così come il collegamento con altre reti nazionali ed internazionali che hanno interesse verso il mondo giovanile Allora il varo di consistenti progetti a favore delle giovani generazioni va visto come una scommessa in termini di conoscenza, di educazione e di opportunità (accesso al credito, alla casa e alle nuove professioni): sia per dare nuova linfa ai nostri territori sia perché questi sono investimenti importanti per il nostro futuro e, soprattutto, per quello dei nostri figli. Azioni importanti per il futuro, ma che devono avvenire nel presente, non sono più rimandabili: i giovani richiamano inevitabilmente a questo, al qui e ora, al presente. Il futuro è dei loro figli...

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Progetto Iter 2005, “Welfare e casa” (da www.iterwelfare.org).


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CAP. 1 LA NUOVA GOVERNANCE PER LE POLITICHE GIOVANILI8 1. L’avvio di un new deal delle politiche giovanili La manovra finanziaria per il 2007 ha finanziato gli interventi attivati nei mesi scorsi dall’attuale esecutivo e introdotto nuove misure in materia di Politiche giovanili. Complessivamente, a favore dei giovani sono stati sono stati stanziati almeno 426 milioni di euro. A ciò si è arrivati con una prima attribuzione al Ministro per le Politiche giovanili e le Attività sportive (Dpcm del 15 giugno 2006) delle deleghe in merito “all’indirizzo e al coordinamento di tutte le iniziative, anche normative, nelle materie concernenti le politiche giovanili”. Tra le varie funzioni, il Ministro è delegato a coordinare le azioni del Governo volte a favorire i giovani in ogni ambito, in particolare quello economico, fiscale, del lavoro, formativo e culturale. Il Ministro, inoltre, partecipa alle attività del Forum Nazionale dei Giovani. In questo modo il Governo si è impegnato ad avviare un vero e proprio Piano Nazionale per i giovani che risponda agli obiettivi dell’accesso dei giovani alla casa, al lavoro, all’impresa, al credito e alla cultura. Il Piano Nazionale Giovani è il principale strumento per costruire un intervento trasversale, organico e coerente in materia di politiche giovanili, e mira in particolare a: • agevolare l’accesso dei giovani al mondo del lavoro; • sviluppare e valorizzare le competenze dei giovani; • favorire l’accesso alla casa e al credito dei giovani; • contrastare la disuguaglianza digitale; • promuovere la creatività e favorire i consumi culturali e “meritori”; • favorire la rappresentanza e la partecipazione alla vita pubblica; • combattere il disagio giovanile; • stilare il Rapporto annuale sui giovani; • stimolare il dialogo interreligioso e interculturale. 2. Analisi dei contenuti giovanili della finanziaria Il Ministro ha presentato le Linee Guida alla Camera (Audizione del 6 Luglio 2006 alla Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati) e ha già avviato alcune sperimentazioni (la sperimentazione di 27 Piani Giovani Locali e del Concorso Giovani Idee, e l’istituzione della Consulta interreligiosa), oltre ad aver inserito una serie di provvedimenti “trasversali” nella Finanziaria 2007, come si evince dalla tabella riportata di seguito.

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Finanziaria 2007: problemi di governance per le politiche giovanili, a cura di Francesco Montemurro , La Gazzetta degli Enti Locali (31 gennaio 2007), con intervista a Giovanni Campagnoli


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AMBITI MISURE FONDI 1. Fondo nazionale per Le finalità sono di promuovere il diritto dei giovani alla formazione 130 milioni le politiche giovanili culturale e professionale e all'inserimento nella vita sociale, anche (Legge n° 248 del 4 attraverso interventi volti ad agevolare la realizzazione del diritto agosto 2006) dei giovani all'abitazione, nonché a facilitare l'accesso al credito per l'acquisto e l'utilizzo di beni e servizi. Ambiti: 1. concorso “Giovani idee cambiano l’Italia”; 2. interventi di programmazione economica con Regioni e EELL (es. PLG); 3. partecipazione e cittadinanza attiva (associazionismo, UE, Agenzia Gioventù); 4. Informagiovani (assistenza e formazione operatori); 5. digital divide (+ punti d’accesso, sostegno all’acquisto e cultura informatica); 6. accesso alla cultura (consumi meritori e sostegno alla creatività giovanile). 2. I giovani e la casa

1. detrazione del 19% dell’affitto per studenti, per un importo max di 2.633 euro;

2. disegno Legge “Interventi per la riduzione del disagio abitativo” del 19 Dic. 06; 3. misure di favore fiscale per le Società di investimento immobiliare quotate. 3. I giovani e la crea- 1. per i redditi derivanti dalla utilizzazione economica di opere deltività l'ingegno, di brevetti, formule o informazioni relativi ad esperienze acquisite in campo industriale, commerciale o scientifico, deduzione forfetaria delle spese al 40%; 2. credito di imposta per le Etichette indipendenti, fino a 100.000 euro/anno; 3. esenzioni enpals per giovani, per retribuzioni fino a 5.000 euro/ anno. 4. I giovani e il lavoro 1. riduzione del cuneo fiscale e contributivo ed incentivi all’occu- 61 milioni pazione femminile nelle aree svantaggiate; 2. misure per la stabilizzazione dei rapporti di lavoro per favorirne la trasformazione da co.co.pro. in lavoro subordinato; 3. accordo di solidarietà tra generazioni; 4. stabilizzazione del personale, del precariato e del lavoro nel pubblico impiego; 5. istituzione agenzia per la formazione dei dirigenti e dipendenti della P.A.) 6. rilancio della Scuola pubblica, con immissione in ruolo di 150 20 milioni mila docenti e 20 mila non docenti; 7. stabilizzazione precari negli enti di ricerca; 10 milioni 8. norme in materia di TFR e previdenza complementare, previ100 milioni denza e malattia; 9. contributi ai co.co.co. per l’acquisto di personal computer; 10 milioni 10. proroga apprendistato e formazione; 11. esenzione dall’imposta di successione dell’impresa tra padri e figli;) 121. promozione dell’imprenditoria giovanile agricola. 5. I giovani, la forma- 1. estensione obbligo formativo (10 anni) ed accesso al lavoro (a 27,5 milioni zione e la ricerca 16 anni d’età); 2. assunzione di 2.000 ricercatori delle università e enti (entro il 30 giugno 2008); 3. Progetti di giovani ricercatori nel settore medico; 4. gratuità parziale, noleggio, comodato dei libri di testo a studen- 30 milioni ti, provenienti da famiglie con basso reddito, del primo e secondo anno dell’istruzione superiore;


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6. I lità

7. I 8. I tà

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5. innovazione tecnologica nella scuola pubblica; 16,5 milioni 6. piano per l’accoglienza degli alunni stranieri. giovani e la socia- 1. valorizzazione del patrimonio pubblico da destinare a funzioni di interesse sociale, culturale, sportivo, ricreativo, per l’istruzione, la promozione di attività di solidarietà ed il sostegno alle politiche per i giovani e pari opportunità; 2. piena fruizione degli ambienti e delle attrezzature scolastiche (ivi comprese le palestre), anche in orario diverso da quello delle lezioni, in favore degli alunni, dei loro genitori e, più in generale, della popolazione giovanile e degli adulti. 1. detrazione del 19% (e fino a 210 euro) per spese di pratica giovani e lo sport sportiva per 5/18enni. giovani e la legali- 1. fondo di educazione alle legalità nelle regioni a forte presenza 1 milione criminale; 2. campagne di prevenzione realizzate anche con i giovani. 20 milione

9. Altre misure

1. assegni familiari considerando studenti ed apprendisti fino a 21 anni; 2. rottamazione motocicli inquinanti.

TOTALE

426 milioni

Fonte: Rete nazionale di cooperative sociali politichegiovanili.it (www.politichegiovanili.it)

In particolare, è previsto che il Fondo nazionale per le politiche giovanili attivi interventi di programmazione economica concertati tra Stato, Regioni ed enti locali, interventi da realizzare attraverso: A) Accordi di Programma Quadro con le Regioni; B) Piani Locali giovani con i Comuni; La relativa Convenzione con l’Anci è stata firmata il 29 Dicembre 2006. Per l’Italia questo insieme di provvedimenti è sicuramente un passo importante in materia di politiche giovanili. 3. La questione di governance Di fronte a questi nuovi scenari, emergono alcune criticità in ordine al ruolo dello Stato e al problema della governance delle politiche giovanili, a partire dal ruolo del Ministero per le politiche giovanili, rispetto ad un contatto diretto o meno con il mondo giovanile. Storicamente, anche le poche azioni in materia di finanziamento ai giovani, sono state meglio gestiste attraverso le Regioni (ad esempio i progetti della 285/97, le stesse leggi e bandi regionali in materia) e oggi anche attraverso le Province e i Comuni. Quindi se da una parte il decentramento amministrativo prevede che siano le istituzioni locali più vicine ai cittadini a gestire le risorse trasferite dal Governo centrale, sembra che il Governo, come nel caso dell’attivazione del bando “Giovani idee”, tenda ad avocare a sé una funzione di interlocuzione diretta con i giovani. Inoltre, per dare concreta attuazione al Piano nazionale, occorrerà fare chiarezza sul disposto dell’articolo 117 della Costituzione, circa la suddivisione delle competenze tra Stato e Regioni in materia di politiche giovanili. Diventa infatti necessario costituire al più presto una nuova cornice per la governance delle politiche giovanili, chiarendo in particolare il ruolo dei diversi “policy makers” (Regioni, Comuni, Province) e degli attori del Terzo settore e del “No profit”. Tutto ciò passa anche attraverso il riconoscimento e la valorizzazione delle numerose azioni a favore dei giovani (per il lavoro, a favore della piena espressione della creatività, a sostegno della formazione e del tempo libero) intraprese negli ultimi anni dalle Amministrazioni comunali.


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CAP. 2 NUOVI SCENARI DI POLITICHE GIOVANILI Premessa Ad avvio di una nuova legislatura parlamentare, si prova a fare una valutazione di cosa si registra in questi ultimi cinque anni nell’ambito delle politiche giovanili. Intanto la novità principale è la costituzione, nell’ambito del nuovo Governo (17 maggio 2006) di un Ministero alle Politiche giovanili (insieme a quello allo sport). Inoltre c’è stato il riconoscimento, ed il finanziamento con la finanziaria del 2004, del Forum nazionale dei giovani e della sua presenza in quello Europeo (vedi Tab. 1). Ma anche il fatto che il Parlamento (nella legislatura 2001/’06, né in quelle precedenti) non ha approvato la tanto attesa legge nazionale non andando oltre alla presentazione di due disegni di legge (uno di maggioranza 9 ed uno di opposizione10), mai però arrivati in Aula per la discussione. Approvata invece a fine legislatura la legge sul contrasto alle dipendenze, che in qualche modo riguarda il mondo giovanile, ma che ne sottende, almeno in parte, una lettura patologica e punitiva (un po’ come il primo Dpr 309/90). In questi cinque anni non è stato attivato un Ministero o un Dipartimento per i giovani e nemmeno una Agenzia nazionale. Inoltre l’applicazione della riforma del Titolo V della Costituzione in senso federalista non ha ancora dato alle Regioni quella marcia in più ad occuparsi di politiche giovanili e così in questi anni infatti non ci sono state nuove leggi regionali in materia11. Come sempre, chi invece ha sviluppato nella prassi un processo di innovazione nelle politiche giovanili, legato alle grandi trasformazioni degli scenari e delle prospettive di sistema, sia sul piano strutturale (es. partecipazione, welfare, inclusione...) che su quelli istituzionali (tra tutti l’integrazione europea), sono stati i Comuni. Da sempre infatti queste istituzioni locali si sono occupate di giovani, pur in assenza di quadri normativi nazionali definiti, ed oggi ci sono da segnalare alcune buone prassi ottenute introducendo già nei progetti logiche del principio costituzionale della “sussidiarietà orizzontale”12. Anche se le risorse che i Comuni hanno stanziato in questi anni non sono certo aumentate, ma mediamente sono passate dallo 0,25% allo 0,15% delle uscite correnti. Tab. 1: Criticità e punti di forza delle politiche per i giovani Criticità

Elementi positivi

Ritardo nell’elaborazione di politiche per i gio- Riconoscimento del Forum nazionale vani Due disegni di legge No Agenzia nazionale Libro Bianco della CE sulle politiche giovanili No Coordinamento Nazionale degli Ig Nuova Carta europea della partecipazione No nuove leggi regionali in materia Nuova Carta europea dell’Informazione No legge nazionale Forte ruolo dei Comuni ed organizzazioni giovanili Scarsità di risorse Azioni dei Comuni a “macchia di leopardo” Passaggi di competenze in materia legislativa- Progettualità di alcune di Province e Regioni amministrativa con incertezze su attori e ruoli Forte sperimentalità ed innovazione Legge sul contrasto alle dipendenze Alcune buone prassi 9

Disegno di legge sulle politiche giovanili n. 2450, presentato alla Camera dei Deputati il 28 febbraio 2002.

10

Proposta di legge alla Camera dei Deputati n° 5682, “Disposizioni in materia di accesso al futuro”.

11

L’ultima in ordine cronologico è quella della Regione Lazio, la n. 29 del 29/11/2001 “Promozione e coordinamento delle politiche in favore dei giovani”. 12

Cioè l’attribuzione delle funzioni alle formazioni sociali che vengono chiamate a condividere le responsabilità pubbliche in un sistema integrato di interventi (F. Dalla Mura: “Appalti, concessioni e convenzioni tra enti pubblici e terzo Settore”, Ilsole24ore, Milano 2005). Ciò significa riconoscere all’associazionismo, alla Chiesa ed alla cooperazione sociale, l’altra parte dei risultati ottenuti in questi anni nell’ambito delle politiche giovanili.


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Ma, a fine 2005, Forum nazionale e Anci si sono domandati chi sia titolare dell’intervento per i giovani oggi e con quali competenze. Nel senso che la riforma del Titolo V° della Costituzione non chiarisce se la competenza in materia spetti a Stato, Enti locali o a entrambi. In queste riflessioni, ed in quelle che seguono, potrebbe aiutare riuscire a chiare cosa si intenda per “politiche giovanili”, se cioè si ritiene che esista o meno un diritto ad essere giovani (vedi più avanti), così come è riconosciuto universalmente il diritto all’infanzia. Allora si parlerebbe probabilmente di un diritto a godere di opportunità, a degli “accessi” e possibilità che oggi per i giovani sono negate o difficili, per diversi motivi (vedi Tab. 2 e più avanti). Tab. 2: Una definizione di politiche giovanili Per “politiche giovanili” si intende un sistema di interventi attuati dal Pubblico con la finalità generale di promuovere opportunità e garantire “accessi” per arrivare ad una reale autonomia e a godere di una piena titolarità dei diritti di cittadinanza, per un inserimento reale nella società, status che oggi per i giovani è in parte negato o difficile, per diversi motivi, ritenendo che esiste un diritto ad essere giovani, così come è riconosciuto universalmente il diritto all’infanzia.

In conclusione, è evidente che oggi i giovani esprimono esigenze che intersecano prepotentemente i temi dello sviluppo futuro, e che pongono almeno tre questioni importanti: • un sistema di opportunità e diritti per un inserimento reale nella società; • l’inclusione nel mercato della conoscenza per assicurare informazione attiva e garantire uguaglianza nell’accesso alle opportunità; • la partecipazione per consultare i giovani nelle decisioni che li riguardano e sostenere la cittadinanza attiva13. Principi, diritti e finalità d’azione contenuti anche nella “Nuova Carta di partecipazione dei giovani alla vita locale”, documento del 2003 elaborato dal Consiglio d’Europa 14: un principio fondamentale affermato questo documento è quello secondo cui le politiche giovanili sono politiche settoriali e che i settori non sono certo solo quelli relativi al tempo libero o al volontariato, ma sono molti altri, a partire dallo sport e dalla vita associativa, ma anche gli interventi per l’occupazione e la lotta alla disoccupazione dei giovani, l’ambiente urbano, l’habitat, l’abitazione ed i trasporti, la formazione e l’educazione, la partecipazione dei giovani, la mobilità e gli scambi, una politica sanitaria, una politica a favore dell’uguaglianza tra le donne e gli uomini, una politica specifica per le regioni rurali, una politica di accesso alla cultura, una politica di sviluppo sostenibile e di tutela ambientale, una politica di lotta alla violenza e alla delinquenza, una politica di lotta alla discriminazione, una politica in materia di sessualità, una politica di accesso ai diritti. Tutti ambiti di intervento che riguardano le giovani generazioni e che devono essere previsti dagli Enti locali, secondi quei principi citati primi e che permetto di facilitare gli “accessi” ad una serie di step che oggi ostacolano l’autonomia e quindi la piena cittadinanza, dei giovani (si tratta, come visto prima, reddito, lavoro e professioni, impresa, studio e formazione, di accesso a casa e, spesso, al credito). Mentre si riconoscono ai giovani una serie di diritti rispetto ai quali, dice sempre la Carta, i giovani devono ricevere le opportune informazioni. Pur non esistendo un vero e proprio Statuto dei diritti dei giovani, numerosi lavori sulla cittadinanza condotti con i giovani hanno portato alla esplicitazione chiara dei principali, che sono: 13 14

Progetto Iter 2005, www.iterwelfare.org

Consiglio d’Europa, Congresso dei poteri locali e regionali d’Europa: “Carta Europea riveduta della partecipazione dei giovani alla vita locale e regionale”, Strasburgo 2003.


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il diritto all’autonomia (casa, lavoro, formazione continua, ….); il diritto ad una socialità positiva; il diritto ad essere creativi ed a produrre cultura; il diritto ad esprimersi con il corpo, con gli affetti, con i sentimenti, con il gioco; il diritto ad avere relazioni significative con le altre generazioni e intragenerazione; il diritto a muoversi, scoprire, capire, conoscere in Italia ed all’estero; il diritto a costruire un proprio mondo di valori, riferimenti culturali, significati della responsabilità sociale, della cittadinanza e della partecipazione; il diritto ad accedere alle risorse della comunità.

Per garantire questi diritti occorrono sicuramente informazioni, ma non solo. È infatti necessario disporre, sul territorio, di dispositivi sociali che permettano di rendere accessibili i diritti (non è sufficiente solo enunciarli, né si può pensare esclusivamente di delegare il tutto all’Informagiovani15). Si tratta infatti di politiche integrate tra diverse competenze e non di singole azioni, eventi o Servizi. 1. Quali giovani oggi Per analizzare politiche e scenari di riferimento, bisognerebbe cominciare anche a chiedersi chi siano oggi i giovani, visto che in questi ultimi cinque anni le ricerche che hanno cercato di tratteggiarne un ritratto sono state davvero molte e le definizioni usate per descriverli tante. Così se da una parte è fondamentale che chi progetta per i giovani abbia di loro una fotografia reale, è anche vero che ognuna di questa scatena rappresentazioni diverse dei giovani. Infatti le definizioni usate in questi anni sono state: “generazione invisibile”, “Italiani mammoni”, i “lungoadolescenti”, gli individualisti, la generazione a rischio, gli “eticamente neutri”, i “globalizzati e flessibili”, i “lasciati al presente, senza più memoria e con il futuro compromesso”, la “network generation”, i “targets globali16 di multinazionali”. Così ci si chiede se sia possibile oggi usare categorie che possano, semplificando, etichettare una generazione. Volendo stare sul generale, i giovani sono una fascia di popolazione 17 che vive più a lungo in famiglia, sia per problemi economici, sia per comodità, che ha qualche difficoltà in più a trovare un’occupazione stabile, che deve ritardare sempre di più scelte definitive a partire dal formare una famiglia, acquistare una casa, dall’avviare un’impresa. Quindi un giovane mai del tutto adulto, ma invece “eterno adolescente” (la cosiddetta sindrome di Peter Pan, cioè di colui che non vuole mai crescere). Ma anche giovane invece inserito benissimo e a pieno titolo nella società dei consumi, precoce consumatore universale e target non solo di campagne pubblicitarie, ma già di stili di vita ad hoc per lui e per lei, promossi da tv, riviste e pubblicità. A questo proposito aveva fatto scalpore lo scorso anno il lancio sul mercato di una linea di cosmetici per dodicenni, da parte di una multinazionale inglese di make up. Quindi dal punto di vista dei consumi, i giovani sono dei precoci adulti e si parla allora del “complesso di Mozart”, proprio l’opposto della sindrome di Peter Pan (vedi più avanti). Dalle ricerche sulla condizione giovanile di questi ultimi anni, sembra che per capire qualcosa in più sulle attuali generazioni possa venire in aiuto un mito moderno, quello della 15

R. Maurizio. “Informagiovani e qualità del Servizio”, Ancitel Lombardia, Milano, 2006.

16

Da almeno 40 anni l’identificazione dei giovani come categoria/segmento dell’universo dei consumatori ha largamente dominato la comunicazione e il senso comune. Non poteva non influenzare profondamente le politiche giovanili. 17

di età tra i 16/19 anni ed i 30/35 (il raggiungimento della maturità affettiva, della piena autonomia, della completa indipendenza?).


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“autorealizzazione”. Se è questa la stella polare che guida i giovani d’oggi, è comprensibile indicare lo stato di perenne ricerca quale modalità di vita di queste generazioni. Di conseguenza lo stare sul presente e lo sperimentare fanno parte integrante dell’essere giovani. Così il rischio, che è insito nella sperimentazione, diventa un fattore ineliminabile (ma riducibile) e presente nelle scelte, nei comportamenti e negli atteggiamenti quotidiani (per i consumi, il tempo libero, la notte, ecc). Sperimentazione e rischio aiutano nel comprendere come oggi per i giovani sia più facilmente accettata l’incertezza, che si traduce nella flessibilità lavorativa (che permette di fare più esperienze, ma sancisce definitivamente la fine del patto fordista tra generazioni), nell’aumento dei consumi a fini autorealizzativi (e, ad esempio, il rinvio a scelte definitive di risparmio, es. casa) e l’uso conseguente del tempo libero (vacanze, viaggi, divertimento, ecc), in quanto tra l’altro oggi sono molto maggiori le possibilità di essere mobili. Ma non solo: negli affetti, la scelta di formare una coppia regge fin tanto che il benessere individuale è riconosciuto maggiore nella vita a due che in quella da single. Di nuovo si conferma l’importanza attribuita all’autorealizzazione, anche nella scelta di coppia. A sottolinearlo è anche ed il fatto che oggi un matrimonio su tre finisce18. Sembra allora che il “valore” non esiste in sé (e quindi non può essere trasferito, ad esempio tra generazioni), ma si forgia nell’esperienza e nell’appartenenza. La ricerca di senso autentico (la versione buona dell’individualismo) è quindi forte e può arrivare a mettere in discussione anche la società attuale, con conseguenti scelte coerenti, che segnalano non una crisi della politica o della partecipazione (che però sempre più prende la forma di attività di volontariato, di associazionismo e di espressioni e produzioni artistico-culturali), ma della partitica (sezioni giovanili, sindacati, ecc.). Ciò significa che la cultura dell’impegno non è morta, ma si sta spostando su altre coordinate (si pensi ad es. a quanti giovani polarizza la realtà del commercio equo e che di valori è portatrice). Quindi non si parla della fine dei valori (e le manifestazioni di questi anni per la pace e per una società più giusta sottolineano questo fermento positivo). Lo stesso per la ricerca di relazioni autentiche, che non partono più da appartenenze scontate o socializzazioni date, ma dicono che le reti relazionali debbano essere tessute giorno per giorno e questa è un’altra ricerca… Infine, da quanto fin qui detto, discende che la progettazione dei giovani non può che essere di breve termine, che ha spesso per soggetto l’individuo e non una collettività, che si parla di persone che non sono in via di trasformazione in qual cosa d’altro, ma che “sono già persone oggi” e che contengono piuttosto elementi che indicano sia come sarà il futuro, sia anche possibili soluzioni a precise problematiche 19. Proprio rispetto al futuro, nelle pagine successive si faranno alcune riflessioni, proponendo una lettura che parte dalla condivisone di alcuni dati, per capire che tipologia di interventi attivare per le giovani generazioni, visti gli scenari che si stanno delineando e le difficoltà a raggiungere una reale autonomia ed una piena titolarità di diritti di cittadinanza. 2. Rappresentanza e rischio di esclusione Se è vero che una categoria sociale ha possibilità di far contare i propri interessi in base alla sua “popolosità”, allora nel futuro per i giovani sarà più difficile “poter contare” Infatti nell’Unione Europea, nel 2020, la percentuale di persone tra i 65 e 90 anni passerà da 16 al 21% della popolazione complessiva, mentre la popolazione tra i 15 e 24 anni sarà solo dell’11% contro il 12,5 attuale20: più anziani (+5%), meno giovani (-1,5%). Questo squilibrio quantitativo comporterà anche un cambiamento qualitativo nei rapporti tra le ge18

oltre al fatto che l’età del matrimonio è sempre più alta.

19

G. Campagnoli, M. Marmo: “L’esperienza di Vedogiovane”, Unicopli, Milano, 2002.

20

Fonte: Eurostat.


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nerazioni. Si tratterà di organizzare in modo soddisfacente l’avvicendamento tra generazioni in una società che attraversa profondi mutamenti. L’Italia (vedi tab. 3), in particolare, continua ad essere tra i Paesi con più alto indice di vecchiaia del mondo: al 1 gennaio 2004 c’erano circa 135 persone di 65 anni ed oltre ogni 100 giovani con meno di 15 anni. L’incremento della natalità è negativo (-0,4%) e la crescita annua è dello 0% (in Francia gli stessi indicatori sono rispettivamente del 4,3 e 0,5%, in Finlandia dell’1,9% e dello 0,2%). Gli stranieri sono in aumento, con 2,6 milioni di presenze legali nel 2004 a cui se ne aggiungono circa 800.000 di irregolari, arrivando a quasi il 5% della popolazione, un dato in aumento rispetto al 2,5% del 2001, ma ancora tra i più bassi in Europa21. Da segnalare il fatto che nella popolazione straniera la componete giovanile è molto alta. Tab. 3: Principali indicatori demografici Indice di vecchiaia

135%

Incremento della natalità

0,4%

Crescita annua

0%

Stranieri

5%

Componenti per famiglia

2,5

3. Accesso al lavoro ed al reddito per i giovani In Italia, così come anche nel resto dell’Europa, l’inserimento nel mercato del lavoro si presenta particolarmente difficile per i giovani, che registrano un tasso di disoccupazione più che doppio rispetto al tasso globale (in Europa si attesta sul 17,9% per chi ha meno di 25 anni, rispetto al 7,7% per chi ha 25 anni e più, v. Tab. 4). In termini percentuali si può sintetizzare la situazione in questo modo: Tab. 4: Giovani e rischio di povertà Proiezioni 2004

Percentuale sul totale della popolazione europea 2005-2050

giovani 15 - 24

Anziani > 65

- 2.9%

+ 13,5%. Dati 2004

Giovani disoccupati Giovani poveri

< 25 anni

> 25 anni

Differenza

17.9%

7.7%

+ 10.2%

19%

12%

+ 7%

Il lavoro precario crea ampie sacche di lavoro marginale: cambiare lavoro (e quindi qualifica) troppe volte in pochi anni (e sempre per periodi brevi) non permette l’acquisizione di alcuna professionalità e l’estrema difficoltà, per molti, di trovare impiego, di fare impresa nei settori che più conteranno in futuro. Nel 2000 il tasso di disoccupazione nei 15 Si tratta molto spesso di lavoro precario o comunque provvisorio. Negli ultimi due decenni, la quota di giovani che sono stati assunti con i cosiddetti contratti “atipici” (contratti a termine, temporanei, part-time, formazione lavoro, lavoro interinale e così via) è aumentata note21

Fonte: Calendario Atlante De Agostini 2006 (Istituto Geografico De Agostini, Novara, 2005).


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volmente. Ciò significa che il livello di garanzie goduto da chi entra per la prima volta nel mercato del lavoro è di gran lunga inferiore a quello sperimentato dalle persone che hanno iniziato a lavorare tra il 1950 e 1980. Lo stesso si verifica nel caso di lavoro “nero” o “grigio”. La percentuale di persone che si trovano nella cosiddetta “economia informale” sta crescendo di generazione in generazione. Lo stesso il rischio di povertà. Stati membri dell’Unione europea era pari all’8,4%, mentre il tasso di disoccupazione tra i giovani al di sotto dei venticinque anni era quasi il doppio, ovvero il 16,1% (+ 7.7%) 22. Non solo: il livello delle retribuzioni è minore rispetto a quello dei lavoratori più anziani. Attualmente ci vuole molto più tempo per i giovani per conseguire una stabilità nel mercato del lavoro. Avere delle buone qualifiche di preparazione non garantisce automaticamente un’occupazione, in quanto la concorrenza in questo ambito si è molto accentuata 23. Tutti questi sono meccanismi di potenziale esclusione sociale. Molto spesso i giovani non guadagnano abbastanza da essere economicamente indipendenti; devono infatti vivere con i genitori fino ai trent’anni e dipendono da loro. Esempio significativo: il 20% dei giovani con impiego dice di ricevere la maggior parte delle proprie risorse finanziarie dai genitori. Quando viene chiesto ai giovani perché vivono con i genitori più a lungo rispetto al passato, più del 70% avanza una ragione materiale: non avrebbero i mezzi per vivere da soli. Tra il 1997 e il 2001 la rilevanza dei genitori come fonte di reddito è aumentata, in alcuni casi sensibilmente, in tutti i paesi dell’Unione (ad eccezione dell’Irlanda e della Finlandia). Infatti più di un giovane su 2 dichiara di ricevere la maggior parte delle proprie risorse economiche dai genitori o dalla famiglia (+ 7% rispetto al 1997, vedi fig. 1)24. Fig. 1: Lavoro e reddito dei giovani

Fonte: G. Campagnoli, M. Miglio: “Scenari di politiche giovanili”, Monza, 2 maggio 2006

Oggi "la paghetta" è la principale fonte di reddito per il 70% dei ventenni italiani, contro il 35% di Tedeschi e Francesi, il 15% dei Britannici. Un Italiano dai venti ai trent'anni guadagna in media meno di diecimila euro all'anno, la metà di un Inglese e un Tedesco, mille eu-

22

Fonte: Eurostat.

23

“Libro bianco della Comm. Europea, un nuovo impulso per la gioventù europea”, Bruxelles, 21.11.2001.

24

“Libro bianco della Comm. Europea, un nuovo impulso per la gioventù europea”, Bruxelles, 21.11.2001.


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ro meno di uno Spagnolo. In più, come si vedrà più avanti, quelli che lavorano sono precari, mal pagati e depressi da un livello di mobilità sociale bassissimo25. Ed è per questo che da più parti si inizia a sostenere che i giovani, oggi, sono una delle fasce della popolazione a maggior rischio di povertà. Un fattore causa è senz’altro il lavoro atipico, in una società non ancora pronta ad accoglierlo veramente, visto che i lavoratori in questa situazione contrattuale sono fortemente penalizzati, con una dilatazione delle loro difficoltà di vita, una esclusione dai percorsi di crescita individuale e dall’accesso al credito, con una trasformazione delle carriere di lavoro spesso in percorsi lavorativi interrotti ed un rinvio di molte scelte come il matrimonio, il fare figli, l’accendere un mutuo o una pensione integrativa, fare altri investimenti (casa, impresa …), ecc. Alcuni dati recenti: •Il lavoro atipico è 14% del totale dei lavoratori, tra questi il 36% ha tra i 30 e 39 anni; •la durata media del lavoro interinale è di un mese; •il 40% dei co.co.co lavora per un unico committente e sono pagati solo a fine rapporto; •i lavoratori atipici devono pagarsi formazione, attrezzi o strumenti di lavoro 26. Ma come si accede al mercato del lavoro? Il lavoro atipico, per quanto detto, è senz’altro una delle porte. Anche perché in Italia il 30% di questi contratti si concludono con un’assunzione, contro la media europea del 15%. Ma per l’effetto congiunto della propensione, anche culturale, di imprese e famiglie verso il reclutamento informale, e della priorità data dal sistema pubblico alla gestione degli archivi, si ha una situazione per cui l’incontro tra domanda e offerta, che potrebbe in larga misura essere affidato a un mercato efficiente oltre che controllato (per scongiurare il diffondersi di abusi nei confronti di chi cerca lavoro), è invece curato prevalentemente dal Pubblico (su numeri limitati, attorno al 10% degli avviamenti, ma nella quasi totale assenza di strutture di collocamento privato). Il privato profit, a sua volta, trova il suo spazio da un lato nel collocamento delle fasce più alte del mercato del lavoro (ricerca e selezione), e dall’altro in quella forma, impropria e molto costosa, di reclutamento, a cui si fa ricorso in misura crescente, rappresentata dal lavoro interinale, che offre all’impresa “chiavi in mano” la selezione insieme ad un periodo di prova. Si determina così una differenza di performance tra il Centro-Nord, in cui i nuovi servizi per l’impiego intercettano circa il 20% di chi cerca lavoro e di chi cerca lavoratori, ed il Sud. La forbice tra Nord e Sud è oggi accentuata dal dato relativo alla qualità dei servizi per il lavoro, l’inclusione sociale e la formazione. In assenza di dati consolidati, sembra fondato ipotizzare che, in ogni caso, l’incrocio con la domanda dei giovani rappresenti un problema tanto al Centro Nord che al Sud27. Oltre alla realtà del lavoro atipico, c’è poi quella dei giovani cittadini che vivono in un’economia "informale", comunemente detta sommersa, sbarcano il lunario con lavori saltuari, senza alcun contratto che li tuteli o che fornisca loro garanzie: ciò comprende tutte le forme di lavoro in nero e le illegalità che ne conseguono (soprattutto per l'evasione fiscale). Su questo aspetto va fatta una precisione: sarebbe perlomeno doveroso attuare serie politiche in grado di combattere questa “economia informale”, attraverso l’emanazione leggi serie ed efficaci che permettano di ottenere successi alla lotta al lavoro sommerso. Anche perché, soprattutto in alcune zone del Sud del Paese, ciò significa permettere 25

“Questa Italia nemica dei giovani”, di Curzio Maltese, su “La Repubblica”, lunedì, 11 luglio 2005.

26

“Flessibilità del lavoro e microcredito: bisogni e strategie dei lavoratori atipici” dr.ssa Sonia Bertolini Convegno “Microcredito e microfinanza: esperienze a confronto”. Torino 3.11.2005, Università degli studi di Torino, Facoltà di economia. 27

Da: Progetto Iter 2005: “Il lavori dei giovani e le politiche pubbliche locali per il lavoro. Il contributo e le competenze dei Comuni” (www.iterwelfare.org).


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alle organizzazioni criminali di determinare o meno lo sviluppo del territorio. In queste aree allora interventi di ripristino della legalità, uniti a strumenti di microfinanza costituirebbero uno strumento utile per combattere l'economia "informale" permettendo alle piccole attività imprenditoriali di insediarsi e svilupparsi Rispetto ai contratti di lavoro atipico, l'assenza di rapporti formali impedisce (o rende più difficile) ai giovani accedere ai canali bancari tradizionali anche quando si possiede un reddito "informale" sufficiente per aprire un conto corrente bancario ed, ancora di più, non permette un accesso al credito. Questo non poter accedere diffusamente ad un mutuo per fare impresa o per mettere su casa, vuol dire per larghe fasce della popolazione giovanile restare perennemente in un circuito di esclusione: in fondo è come restare perennemente adolescenti. 4. L’accesso alla casa per i giovani Nel nostro Paese, il 70% dei maschi tra i 25 e i trent'anni vive con i genitori, quando non si arriva al 20% fra Francesi e Tedeschi e al 10% fra gli Inglesi28. Questa situazione evidenzia che da noi un altro grande tema che riguarda i giovani è quello dell’accesso alla casa perché a monte del disagio abitativo vi sono ovviamente fattori di tipo economico: un livello di prezzi tale che non ha uguali nella storia degli ultimi 25 anni ed una crescente “debolezza reddituale” di molte famiglie che si concretizza in una ampia difficoltà di accesso al bene casa. A ciò si deve aggiungere che è cresciuto il livello del loro indebitamento, comportando una vulnerabilità maggiore per quei soggetti a reddito basso e medio basso o per coloro che sono entrati nel processo di precarietà (flessibilità) lavorativa (vedi Fig. 2). Fig. 2: L’accesso alla casa per i giovani

Fonte: G. Campagnoli, M. Miglio: “Scenari di politiche giovanili”, Monza, 2 maggio 2006

Vivere in casa oltre i trent’anni certamente significa per molti giovani poter mantenere un livello di vita tale da sentirsi integrati tra gli amici e nella società, ma vuol anche dire ritardare nel tempo percorsi di autonomia, posticipare la data del matrimonio, ritardare l’età 28

“Questa Italia nemica dei giovani”, di Curzio Maltese La Repubblica, lunedì, 11 luglio 2005.


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nella quale si fanno figli. Un fenomeno, tra l’altro, che aggrava il problema demografico di cui l’Italia soffre. Solo un dato a conferma di quanto detto: gli Italiani proprietari di case sono l’81%, ma tra i giovani tra i 26 ed i 35 anni, solo il 35% vive in una casa di proprietà. Ci sono circa 2,2 milioni di giovani che pur avendo raggiunto una prima indipendenza lavorativa (seppur magari anche attraverso forme flessibili) preferiscono vivere con i genitori 29. Se al Sud questo è più facilmente spiegabile rispetto al tradizionale ruolo di ammortizzatore sociale che la famiglia ha da sempre svolto30, al Nord è più una scelta di comodità/opportunità. Infatti i giovani dichiarano di preferire un utilizzo del proprio denaro (ma anche tempo) più in funzione di una maggior capacità di consumo (es. per vacanze, tempo libero e svaghi, auto, status symbol), piuttosto che in affitti o mutui. Inoltre oggi spazi e tempi all’interno della casa e della famiglia, trovano maggiori possibilità di negoziazione che in passato. Ciò significa un rinvio ad assumersi responsabilità definitive, alimentando, come detto, quella che viene definita la “sindrome di Peter Pan31” e coniando il termine ad hoc di “giovani adulti”. C’è oggi un 13,5% di Italiani che è rimasto fuori dal giro dei proprietari di casa 32 e vive in abitazioni in affitto: secondo la Banca d’Italia sono proprietari circa l’85% delle famiglie con un reddito superiore ai circa 35.000 euro, mentre scende al di sotto del 50% presso famiglie con un reddito inferiore ai 10.000 euro, ovvero sotto la soglia di povertà relativa. Tra le persone che vivono in affitto, il 45,3% dichiara di percepire un reddito basso o medio basso, per il 34% l’affitto ha un’incidenza che supera il 30% del reddito complessivo e per il 13,4% è maggiore al 40% (è considerato sostenibile un canone che si aggira attorno al 20% degli introiti mensili). Così vi è oltre un milione di persone sotto la soglia di povertà che vive in affitto, i cui canoni incidono per il 35% sul totale del reddito contro una media nazionale del 17%. Dunque, lo scenario che abbiamo di fronte è quello di un Paese in forte rincorsa verso la proprietà ed in perdita progressiva di stock destinato all’affitto. Le politiche pubbliche rispetto all’abitazione si commentano da sole: la percentuale dei contributi statali per alloggi sociali rispetto al totale delle spese sociali in Italia nel 1999 è stato dello 0,2% contro il 3,8% della media europea, il 2% della Spagna, il 4,6% della Francia, il 5,4% dell’Irlanda e il 7% dell’Inghilterra 33. Ancora, in Italia nell’ultimo decennio il numero delle abitazioni occupate in affitto è sceso del 15% contro un aumento delle case occupate in proprietà del 6%. In Europa sopra di noi vi è soltanto la Spagna per la quale si è registrato un processo simile, ma con una ancor più forte disequilibrio tra proprietà (82%) e affitto (11%)34.Insomma, la contrazione dell’affitto nel nostro Paese appare un fenomeno preoccupante e conferma le difficoltà per i giovani, in particolare per le giovani coppie, di “mettere su casa”. 29

“Giovani, al lavoro, ma senza casa”, Censis, Roma, 2005.

30

Si pensi a “famiglie allargate” a più generazioni dove i nonni sono indicati spesso come vero pilastro al sostegno sia del reddito complessivo (soprattutto per far fronte alle spese dei figli), che di aiuto nelle incombenze quotidiane. 31

proprio per indicare chi non vorrebbe mai crescere, rimandando sempre più in là assunzioni di responsabilità adulte. 32

Sempre secondo il Censis, l’82% delle famiglie italiane dispone di un’abitazione di proprietà, di questi il 13% dispone di almeno una seconda abitazione e il 4,5% di altre tipologie di fabbricati. 33

“Non profit Housing. Il problema della casa ai nostri giorni”. di Alfredo Martini e Francesco Toso (Cresme), 24.6.2005. 34

vedi Nota precedente.


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Le risposte a situazioni di questo genere, ma anche quelle rispetto al rischio di povertà dei giovani, normalmente sono di due tipi: il ricorso alle ricchezze accumulate dalle famiglie di origine e il risparmio forzato attuato nei periodi lavorativi per tutelarsi in quelli di disoccupazione. Se la criticità di questa seconda soluzione è evidente in quanto gli stipendi di un lavoro flessibile non sono in genere elevatissimi, anche ricorrere alle famiglie di origine non è sempre possibile per tutti. Infatti quanto già detto per la casa (si pensi in particolare ai “senza patrimonio”), segnala proprio una crescita dello squilibrio socio reddituale. Infatti secondo la Banca d’Italia (dati 2006), oggi il 10% delle famiglie italiane possiede il 45% della ricchezza netta nazionale e l’incremento della quota di ricchezza posseduta dal 5% delle famiglie agiate è passata dal 27% al 32%. E questo in un contesto in cui i redditi individuali da lavoro dipendente nell’ultimo anno sono cresciuti dell’1,6%, mentre quelli da lavoro autonomo sono aumentati del 10,1%. Secondo le stime del World Wealth Report, gli Italiani che hanno una ricchezza individuale superiore al milione di dollari (escluso il valore dell’abitazione di proprietà) sarebbero aumentati del 3,7% nell’ultimo anno, passando da 188 a 195 mila 35. Le famiglie italiane titolari di patrimoni in gestione superiori ai 500.000 euro sono cresciute dell’8%, arrivando a quota 702 mila (circa il 3,3,% delle famiglie italiane) ed il patrimonio in gestione è cresciuto del 10%, con un valore medio di 783 miliardi di euro. 5. L’accesso all’istruzione ed alla cultura Da quanto fin qui detto, emerge l’immagine di una società, e di riflesso una famiglia, che invece di occuparsi dell’autonomia dei figli, si attrezza piuttosto per gestire la loro dipendenza, non favorendone l’autonomia. Si parla allora di giovani adulti e di sindrome di Peter Pan, pur rimarcando, contemporaneamente, dal punto di vista dei consumi una precocità straordinaria, tanto che le industrie elaborano oggi strategie di marketing ad hoc per bambini e preadolescenti. In questo caso si parla, come già detto, di “Sindrome di Mozart”. Uno strumento che può favorire l’emancipazione è la formazione unita alla cultura. Infatti gli indirizzi del Consiglio straordinario di Lisbona dell’Unione Europea sono che le nuove politiche dovranno puntare ad “una società il cui sviluppo sarà basato sulla conoscenza e sulla coesione sociale”. Ma, come si è visto, in Italia il lavoro per i giovani significa spesso precariato che crea ampie sacche di lavoro marginale non permettendo l’acquisizione di alcuna professionalità, né l’accesso al credito. Inoltre non garantisce al sistema produttivo ed economico professionalità (anche di nuovo tipo) in grado di sostenere la competizione nel quadro dell’economia mondiale, dove i processi di cambiamento sono talmente rapidi che rendono obsolete le conoscenze apprese nel giro di poco tempo. Allora, a questo proposito, giocano un ruolo importante istruzione e formazione professionale, ma i dati della scolarizzazione (soprattutto nel Nord Italia 36) sono stati per molto tempo preoccupanti e le responsabilità sono state di tutti. Infatti37: 1. la scuola ha meccanismi selettivi e non si impegna a contenere il fenomeno della dispersione per trattenere i giovani in un circuito che non è solo culturale (e già questo basterebbe) ma anche produttivo;

35

Sempre secondo la stessa fonte, infatti in Italia nel 2004 vi erano 188 mila ricchi (quindi uno ogni 300 abitanti) ed erano già ben 22.000 in più rispetto al 2002 (oltre il 13% di crescita), con un patrimonio complessivo di 343 miliardi di Euro, in aumento rispetto ai 300 miliardi del 2002. 36 37

Non è un mistero che la dove più si lavora, meno si studia.

G. Salivotti: “Le politiche giovanili. Dalle politiche di settore alla costruzione di modelli educativi e alla prospettiva della coesione sociale”, Biella, maggio 2005.


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2. le famiglie spesso cedono facilmente all’alternativa del lavoro per i loro figli quando questi manifestano poca voglia di studiare; 3. le famiglie nella fase di “costruzione di sicurezze” per i figli privilegiano investimenti relativi all’avvio di un’attività economica (36,4% dei genitori), fondi di investimento, acquisto di una casa ed assicurazione38, ma non formazione, tanto che solo il 13% delle famiglie avverte oggi come problematica la scarsa offerta scolastica 39; 4. i giovani stessi, in molte zone, vedono nel lavoro un’alternativa possibile alla scuola: alternativa gratificante anche per l’indipendenza economica che ne deriva; 5. il finanziamento dello Stato al sistema Universitario è pari allo 0,84% del Pil, mentre quello dei Paesi sviluppati arriva all’1,33%, quindi in Italia si spende per ogni studente il 40% in meno40. Questi sono meccanismi di potenziale esclusione sociale: al contrario l’Europa, ma anche la globalizzazione, pongono continue sfide, per costruire economie mature, non solo economicamente, ma anche culturalmente e socialmente soprattutto nelle nostre piccole, ricche e chiuse province, nelle quali i dati demografici, di scolarizzazione e, perché no, in prospettiva anche economici svelano forti rischi di decadenza. Un’altra fonte di impoverimento è l’impossibilità o l’estrema difficoltà, per giovani laureati o con diplomi innovativi, di trovare lavoro, di fare impresa nei settori che più conteranno in futuro. Ciò si traduce in una fuga di cervelli da molti territori, ora anche verso l’estero (vedi par. 6), ma non solo. Infatti, da anni, vi è anche una migrazione costante di capitale umano qualificato dai territori più piccoli e provinciali - soprattutto dal Sud Italia - verso le aree del Paese che più sono impegnate nei processi dell’innovazione tecnologica e sociale (vedi Tab. 5). Questa situazione, in generale, non permette ai territori di svilupparsi in modo omogeneo. In Italia si è assistito, in questi ultimi 10 anni al trasferimento al Nord di 700.000 laureati meridionali. Ma come trattenere i laureati in settori importanti per lo sviluppo economico futuro come i servizi alla persona, l’informatica, le comunicazioni, il tempo libero, i servizi per cultura? Probabilmente costruendo sistemi sul territorio, circoli virtuosi tra Università, aziende, ricerca, formazione. Quindi reti orizzontali, composte da diverse attori con capacità progettuali e relazionali forti. Anche se oggi le Università sono spesso chiuse, con pochi scambi e molta autoreferenzialità, in un mondo dove il sapere “gira” sul web molto velocemnte e la “contaminazione” produce innovazione. Sotto questo profilo il ritardo con il resto del mondo è sconcertante: pochi studenti stranieri (a Bolzano il 10%, a Bologna poco più del 3,5%, nel resto d’Italia sotto questa percentuale, mentre alla Columbia University sono il 22%) e pochissimi docenti stranieri (alla Bocconi, il top, sono il 4%, a Copenhagen e a Vienna il 28%, alla London Business School addirittura il 60%).

38

Nella ricerca del Censis “Pochi rischi, siamo genitori – Opinioni e comportamenti delle famiglie italiane sul futuro dei figli” (Roma, 2003) emerge anche che nelle scelte relative agli investimenti famigliari, la percentuale dei mariti e delle mogli che afferma di decidere insieme passa dal 56,3% del 1986 al 71,3% nel 2003. 39

Vedi Nota precedente.

40

Fonte: Studio Regione Piemonte


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Tab. 5: Giovani ed accesso ad istruzione, formazione, conoscenza e ricerca Categorie

Dati e percentuali

Comparazioni

Solo 3a media

22,3%

Media CE: 15,7%

Diplomati

73%

quartultimi in CE; Norvegia: 95%

Laureati

10% e > 70.000/anno in ma- Corea e Giappone: 40% terie tecniche Formazione continua (25-64 anni) 6,8% CE: 10%; Danimarca: 27,6% e Svezia: 35,8% Spesa per Università 0,84% del PIL CE: 1,33%= - 40% Investimenti educativi (2002)

4,75% (nel 2001: 4,98%)

Studenti stranieri

Bolzano (max) il 10%, Bolo- Columbia University: 22% gna il 3,5%. Bocconi, il top, 4% Copenhagen e a Vienna il 28%, London Business School il 60% Nelle Università europee uno studente su 2 lavora. 1% del PIL UE: 2%, cioè - 50%

Docenti stranieri Studenti che lavorano Spesa pubblica x ricerca

CE: 5,25%; F: 5,81%; N:7,63%

Fuga di cervelli

4.000 ricercatori all’anno con borse da 1.000 €/mese Professioni e mestieri ad alto indi- 14% della popolazione Media: 30%; ITA: 34° su 39 ce creativo Uso di internet Nei gruppi di alto reddito è 3 volte superiore Divari socio-economici territoriali Aumento con fughe di lau- 40% dei laureati meridionali è al reati (vedi Fig.3) Nord, 700.000 negli ultimi 10 anni

6. L’accesso alla conoscenza, alla ricerca ed all’innovazione attraverso lo sviluppo della creatività Ma conoscenza significa anche innovazione, creatività, tanto che la storia artigiano-industriale del nostro Paese ci racconta da sempre di una diffusa capacità di sviluppare idee che si traducono in prodotti, opere, sistemi. Oggi però si avverte un perdita di questa peculiarità, che si traduce in una diminuzione di valore che ha fatto scomparire l’Italia dai settori industriali più avanzati (Informatica, tlc), ci ha fatto perdere quote di export e quote di turisti (produciamo merci vecchie e valorizziamo male il nostro patrimonio), ci ha fatto indietreggiare in modo preoccupante nei settori di fatto creati da noi (moda, design). Ciò emerge da due ricerche (di Ance/Fondazione Ambrosetti e Creativy Group Center41) che riguardano la capacità creativa degli Italiani ed il peso che essa ha attualmente negli assetti sociali e nelle dinamiche produttive del Paese, secondo la doppia equazione per cui a molta creatività corrispondono società dinamiche ed elevato tasso di competitività. Da queste analisi deriva un quadro chiaro e sconsolante: la concentrazione di professioni e mestieri ad alto indice creativo coinvolge solo il 14% della popolazione (media mondiale 30%, Italia 34esima su 39 nazioni censite) e la loro qualità prospettica non lascia prevedere nulla di bello poiché inserita in un quadro di basso dinamismo e di lentissima evoluzione. Il panorama non è esaltante: nonostante l’impegno assunto a Barcellona dai capi di Stato e di Governo, sia quello di arrivare nel 2010 ad una media del 3% del Pil investito in ricerca (con il vincolo dei 2/3 finanziati da imprese), oggi questo traguardo per noi sembra un’utopia, visto che la spesa pubblica è l’1% del Pil ed è ancora più bassa la spesa privata 41

organizzazione europea vicina a Richard Florida, il teorico delle 3T: Talento, Tecnologia, Tolleranza.


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in ricerca (0,5% del Pil), mentre le medie europee sono, rispettivamente, 2% e 1,28% 42. Ciò significa, di conseguenza, poca innovazione e basso tasso tecnologico a fronte di un tessuto imprenditoriale capillare, ma di dimensioni mediamente minime, tale da restare ancorato a settori e produzioni troppo tradizionali ed a basso valore aggiunto; un livello di istruzione limitato di chi pratica mestieri creativi (persone intelligenti e sorprendenti, ma ignoranti), aggravato da una “produzione” limitata di talenti, con università ancora piuttosto chiuse ed autoreferenziali. In Italia il livello di integrazione è ancora basso ed il multicuturalismo poco sviluppato: un Paese tollerante, ma protezionistico e tradizionalista, aspetto quest’ultimo che si riflette anche nel basso tasso di mobilità interna, nel preoccupante tasso di occupazione giovanile, nell’esiguità di posizioni di responsabilità ricoperte dai 30/40enni. L’unica via d’uscita percorribile risiede nel rivivificare la disponibilità creativa che storicamente ci appartiene, perseguendo due strade. La prima passa per interventi di radicali di riforma e crescita delle università e degli investimenti in ricerca ed in sperimentazione, con ricadute positive solo nel lungo periodo. La seconda è più veloce e pragmatica: attrarre qui nuovi patrimoni. Non denaro, ma cervelli. La vera risorsa del futuro è la qualità degli uomini 43. Oggi in Italia si “sfornano” più di 4.000 Dottori di ricerca l’anno, laureati brillanti che hanno vinto un concorso ed una borsa di studio almeno triennale, conseguendo il più alto titolo di studio conferito dallo Stato italiano, presentando una tesi di fronte ad una commissione che spesso vede presenti scienziati di livello internazionale, oltre ad aver elaborato pubblicazioni di rilievo. Ma spesso le uniche prospettive di questi giovani ricercatori sono quelle del precariato universitario, fatto da borse e borsettine di studio (circa 1.000 euro al mese). Oppure approdare in altri Stati (prevalentemente Usa, Inghilterra e Germania) e contribuire lì all’innalzamento del livello culturale, scientifico e tecnologico. Dimensioni e valori fondamentali nella nostra epoca, che l’Italia regala e per poi ripagarli 44. Vi è inoltre anche una connessione tra la povertà e il rischio di una separazione tecnologica: l’uso di Internet nei gruppi ad alto reddito è tre volte superiore rispetto ai gruppi a basso reddito. I gruppi a basso reddito infatti hanno un accesso minore alla tecnologia e quindi sono maggiormente esposti al rischio di essere esclusi dal mercato del lavoro e, più in generale, dallo sviluppo sociale e culturale45. Non godere di un lavoro continuo e professionalizzante vuol dire fare i conti con la precarietà, non solo lavorativa, per lungo tempo. Ma la condizione di precariato “quasi a vita non garantisce al sistema produttivo ed economico professionalità (anche di nuovo tipo) in grado di sostenere la competizione nel quadro dell’economia mondiale. Ciò vuol dire non generare valore economico aggiunto nel territorio in cui si opera. E questo in una Italia già segnata da forti squilibri territoriali, non solo tra Nord e Sud del Paese, i cui divari di sviluppo sono cresciuti negli ultimi anni, ma anche all’interno delle stesse aree più ricche d’Italia (v. Fig. 3). Infatti il rapporto tra valore aggiunto pro capite della prima e dell’ultima provincia italiana, che nel 1991 era pari a 2,9 volte, è salito a 3,1 nel 1999. Nel 1991 lo scarto tra province nei numeri indice della ricchezza per abitante era pari a 23 punti per-

42

La media dei Paesi Ocse è del 2,2%, in Francia si arriverà al 2,5%, mentre in Finlandia già oggi si registra un 3%, grazie alla decisione del Governo di investire in ricerca il 50% degli utili delle privatizzazioni (Fonte: www.cervelliinfuga.it). 43

Daniele Pitteri: “Creatività vs declino”, Newpolitics, n°7/05 (pag. 29).

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Fonte: www.fugadicervelli.it .

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“Libro bianco della Comm. Europea, un nuovo impulso per la gioventù europea” Bruxelles, 21.11.2001.


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centuali, saliti nel 1999 a 26. Ben venticinque province italiane, tutte localizzate nel Mezzogiorno, si collocano al di sotto del 75% del reddito medio dell’Unione Europea.

Fig. 3: Valore aggiunto pro capite nelle Regioni italiane: minimo e massimo provinciali, 1999 (numeri indice: Italia = 100) Fonte: Elaborazione Censis su dati Istituto Tagliacarne, 2001

Ma una lettura più attenta dei divari infraregionali (Fig. 3) rivela una dispersione provinciale dello sviluppo che intacca i più consueti schemi di lettura dello sviluppo socioeconomico del Paese fondati sul modello dualistico Nord-Sud. Significativo è che in molte regioni dell’Italia centro-settentrionale si verifichino situazioni piuttosto contraddittorie. Posto pari a 100 il valore aggiunto pro capite medio nazionale, in Lombardia la provincia di Milano risulta essere la prima in graduatoria con un indice pari a 158 (la provincia milanese concentra da sola oltre un decimo del prodotto nazionale), a cui corrisponde però Sondrio al 65° posto della graduatoria nazionale: un territorio che si posiziona non solo al di sotto della media del Paese, ma che si trova anche pressoché in linea con alcune delle province del Mezzogiorno. Analoga situazione per La Spezia e Imperia in Liguria (5° e 60° posto in graduatoria), Firenze e Massa Carrara in Toscana (9° e 67° posto), Bologna e Ferrara in Emilia Romagna (2° e 43° posto). 7. L’accesso all’impresa ed alle professioni Se, come si è visto, su una buona parte di giovani aleggia quella cappa opprimente chiamata “precarietà”, oggi è senz’altro più difficile per le giovani generazioni “intraprendere”, nel senso di “avviare imprese”, di seguire i propri “animal spirits” per dar vita a qual cosa di nuovo nella professione46. Ma se a poco più di trent’anni nel mondo anglossassone (e nel Nord Europa) si è ampiamente in cattedra e si fa ricerca di valore, in Italia no. Nella nostra 46

una cosa molto diversa dal “faccio cose, vedo gente” e, ancor più, da quella “guerra dei talenti” che, nel capitalismo globalizzato, muove le nazioni postindustriali avanzate ed i competitor asiatici. Da: “Do You remember Max Weber” di Massimiliano Panarari, NP, newpolitics, n°7/05 (pag. 32).


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vita pubblica le persone fra venti e quarant'anni non contano quasi nulla (vedi Fig. 4). Abbiamo la classe dirigente più vecchia d'Occidente e i livelli di occupazione giovanile più bassi. In più, quelli che lavorano sono precari, mal pagati e depressi da un livello di mobilità sociale bassissimo. In tutti i settori sembra funzioni in Italia una selezione alla rovescia, per cui se un giovane è creativo, critico e autonomo incontra mille difficoltà nel mondo del lavoro, mentre vengono più facilmente accolti quelli che accettano le regole precostituite. In definitiva, sono preferiti i giovani già vecchi e “yes man”. L'Italia esprime una società conservatrice dove si muore come si è nati: ricchi o poveri47. Fig. 4: L’accesso al lavoro ed all’impresa

Fonte: G. Campagnoli, M. Miglio: “Scenari di politiche giovanili”, Monza, 2 maggio 2006

La particolarità della realtà produttiva italiana è che si fonda sui distretti industriali48 e su un capitalismo familiare che vede la presenza di oltre 5 milioni di “Family Business”, corrispondenti a circa il 90% delle imprese nazionali 49. Guardando questo dato da un altro punto di vista, significa che nel nostro Paese almeno una famiglia su quattro è alle prese con vicende e vicissitudini familiari-imprenditoriali, tra cui quelle legate alla successione, in un 47

“Questa Italia nemica dei giovani”, di Curzio Maltese La Repubblica, lunedì, 11 luglio 2005

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I distretti industriali sono sistemi produttivi locali caratterizzati da un’alta concentrazione di imprese con un’elevata specializzazione produttiva, i cui ambiti territoriali di riferimento sono zone circoscritte comprensive, in genere, di uno o più comuni contigui. Beccattini definisce il distretto industriale come “un’entità socio-territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un’area territorialmente circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di persone e di una popolazione di imprese industriali. […] Il distretto , insomma, è un caso di realizzazione localizzata di un processo di divisione del lavoro che non si diluisce nel mercato generale, né si concentra in una o poche imprese. La parola localizzazione sta qui per qualcosa di diverso dall’accidentale concentrarsi in un luogo di processi produttivi attratti da fattori localizzativi formatisi indipendentemente; qui si tratta di un radicamento nel territorio che non può essere separato concettualmente dal suo processo di formazione”. (Beccattini G., 1991). 49

W. Zocchi: “Family Business”, Il Sole24ore, Milano 2004.


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sistema dove c’è classe dirigente e proprietaria anziana (il 53% ha oltre 60 anni) che dice di una necessità rispetto ai passaggi generazionali (vedi Tab. 6). Tab. 6: L’età degli imprenditori Tra i 30 e 40 anni

5,2%

Tra i 40 ed i 50 anni

15,3%

Tra i 50 ed i 60 anni

26,8%

Tra i 60 ed i 70 anni

32,0%

Oltre i 70 anni

20,7%

Fonte: Il sole24ore, 26 luglio ’05

Passaggi generazionali che si traducono anche in un affiancamento padre figlio molto lungo, anche 20 anni, e questo può diventare sfibrante per i giovani, ma sembra un elemento fisiologico ed in linea con le altre tendenze sociali delle nuove generazioni. La criticità di questo aspetto è ben presente anche nelle valutazioni sulle imprese italiane dell’Agenzia di rating inglese Standard&Poor’s, che inserisce tra i fattori che possono essere dei potenziali problemi di oggi delle aziende nazionali, proprio il fatto che l’organizzazione aziendale sia centrata prevalentemente su un singolo individuo, spesso anziano e prossimo al pensionamento. Quindi il rapporto giovani adulti nel 25% delle famiglie italiane riguarda anche il tema del passaggio generazionale dell’impresa: va ricordato infatti che solo il 15% delle imprese di famiglia arriva alla terza generazione50 e che in Italia ogni anno circa 66.000 imprese (il 2% del totale) è esposto alle situazioni di forte criticità relative al ricambio generazionale51. Quindi se è vero che imprenditori si nasce, è anche vero che si può anche diventarlo. Anche perché oggi più che mai è evidente che la vera ricchezza non sta tanto nel possesso di beni materiali, quanto piuttosto nell’accesso alla “conoscenza”, nel senso che il sapere costituisce il reale valore dell’azienda. La “marcia in più” è sempre meno contraddistinta dalla disponibilità di capitale, di risorse naturali, di lavoro e di immobili e sempre più condizionata dalle conoscenze, dalle capacità, dalle abilità che consentono di creare nuovi prodotti e gestire nuovi processi. Se negli anni del Dopoguerra, della ricostruzione industriale del Paese e del boom economico, la strategia più redditizia era quella dell’investimento in strutture fisiche, oggi il valore aggiunto è dato dall’accumularsi di intuizioni e miglioramenti e da investimenti in know how. Ormai le strutture fisiche sono relativamente sempre meno importanti nell’assicurare un vantaggio competitivo e duraturo che dipende invece sempre più dalle conoscenze di base, dalle competenze professionali, da sistemi logistici flessibili e da processi produttivi rapidi, in grado di realizzare prodotti (beni e servizi) di un maggiore

50

Questo tema dovrebbe essere anche una preoccupazione del Paese visto che la chiusura di un’impresa è una perdita di valore per lo Stato, per il territorio e per i cittadini, oltre che per l’imprenditore (si riprende qui il concetto di impresa come ricchezza delle nazioni, tema oggi evidente anche quando si è messi di fronte alle scelte di delocalizzazione delle imprese) 51

Secondo Il sole-24ore del 26 luglio ’06 le Pmi che affrontano il ricambio generazionale sono il 68% e dal 2001 al 2004 l’aumento della tendenza a chiudere le imprese è del 16%, l’aumento delle aziende a cedere è del 13% e l’incremento di cessioni di quote di controllo al private equity è dell’8%.


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e più evidente valore per il consumatore finale52. Con la rivoluzione tecnologica, poi, i tempi si sono ridotti all’essenza. Il vantaggio per un’azienda, allora, non è dato solo dall’accumularsi della conoscenza, ma anche dalla capacità di utilizzare la stessa in un modo che sia il più rapido possibile. Le aziende si trovano a fare i conti con un mondo che si muove sempre più velocemente, caratterizzato com’è dalla riduzione del ciclo di vita dei prodotti, dalla incalzante offerta di beni innovativi, dalla Net Economy, dalla globalizzazione. Nel mondo economico ed aziendale, in particolare, l’ottimizzazione del tempo rappresenta un nodo cruciale perché significa la possibilità o meno di raggiungere obiettivi e di riuscire a competere nei mercati nazionali ed internazionali. Non è sufficiente conoscere perfettamente le procedure dell’impresa, né circondarsi di personale preparato se manca una organizzazione, una strategia di gestione capace di armonizzare processi e risorse. Diventa indispensabile allora l’adozione di sistemi informatici che supportino la gestione delle attività, riducendo i tempi. Il grado di “acculturazione tecnologica” dei decisori aziendali rappresenta, poi, (insieme al loro background culturale ed all’istruzione ricevuta) un potente driver rispetto all’adozione ed alla selezione di una nuova tecnologia all’interno del sistema produttivo dell’azienda53. L’evoluzione tecnologica, quindi, eleva l’importanza del sapere in ambito aziendale, ne trasforma in parte il contenuto e, per questa via, incide anche sui meccanismi di produzione. La conoscenza delle tecnologie informatiche detenuta dai manager risulta, infatti, una variabile determinante gli investimenti in tecnologie ed anche il grado di accelerazione dei processi decisionali volti all’adozione di esse in azienda. La situazione può essere riassunta riprendendo il testo promozionale della Fiera Mondiale dell’Industria, che si è tenuta a Chicago nel 1933. Si leggeva: “La scienza scopre, l’industria applica, l’uomo si adegua”. Chiediamoci se oggi si potrebbe dire: “L’uomo propone, la scienza studia, la tecnologia si adegua”. Tutto questo per arrivare a dire che in un ambiente competitivo nuovo, non è solo l’accesso ai capitali che può impedire o meno il diventare imprenditori. Oggi l’assett delle imprese non più solo economico patrimoniale, ma anche molto lelato alle nuove conoscenze, alle idee, ai progetti (v. Fig. 5). Si dice infatti che oggi siamo entrati nell’era della conoscenza, il che significa - rispetto ai valori produttivi tradizionali quali Terra, Lavoro e Capitale - che c’è appunto una nuova dimensione. Data questa nuova situazione, per i giovani (tradizionalmente con meno patrimonio da investire) lo scenario attuale può essere un’ottima opportunità per fare impresa, ben più che nel Dopoguerra... Anche se, in Italia, il mercato dei prestiti è ancora essenzialmente garantito: chi non ha beni immobili da ipotecare o non ha un reddito certo ha ancora molte difficoltà ad accedere ad un prestito personale. Diventa impossibile ad esempio avviare una nuova impresa, ottenere credito per studiare all’estero o per realizzare un progetto di sviluppo professionale personale. Per ovviare a tutto ciò è fondamentale che si creino le condizioni per costruire dei prodotti finanziari accessibili a tutti coloro che ne possano avere diritto, possibilmente a tassi agevolati. Nonostante tutte queste difficoltà, il saldo delle nuove imprese è stato positivo, di 100.000 unità nello scorso anno.

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Si pensi alle aziende nate nell’era della “new economy”, aziende spesso virtuali, prive di una sede di lavoro, compravendute a valori altissimi, in cui ciò che si acquistava erano idee, competenze, progetti, capacità di realizzare e di risolvere i problemi. Il sistema software delle aziende ha acquisito un’importanza crescente, però, anche per le aziende della “old economy”, cioè per quelle imprese che producono beni che soddisfano vecchi bisogni: se l’imprenditore vuole espandere la sua attività deve necessariamente circondarsi di giusti collaboratori, perché, si sa, le risorse umane rappresentano spesso il costo più elevato, ma anche il fattore determinante il successo o l’insuccesso dell’azienda. 53

Massaroni, E., Ricotta, F., Cozzolino, A.: “L’e-business per le piccole e medie imprese: un modello concettuale per la declinazione dei bisogni ICT.”, in Atti XVII Convegno AIDEA, Giappichelli, Torino, 2005.


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Fig. 5: Il valore della conoscenza

8. L’accesso al credito In Italia il mercato dei prestiti è essenzialmente garantito: chi non ha beni immobili da ipotecare o non ha un reddito certo ha molte difficoltà ad accedere ad un prestito personale. Diventa impossibile ad esempio avviare una nuova impresa, ottenere credito per studiare all’estero o per realizzare un progetto di sviluppo professionale personale. Va però ricordato che la lotta all’esclusione finanziaria rappresenta una delle forme attraverso la quale si possono sviluppare politiche di inclusione sociale. Inoltre la concessione di prestiti, necessari per far crescere nuove attività regolari e formali permette, di conseguenza, lo sviluppo di un'economia "formale" con evidenti vantaggi per tutti, e tra questi, il generare risorse nuove ed aggiuntive rispetto a quelle esistenti. Per ovviare a tutto ciò è fondamentale che si creino le condizioni per costruire dei prodotti finanziari accessibili a tutti coloro che ne possano avere diritto, possibilmente a tassi agevolati. Anche perché è del tutto evidente che per avviare una politica di accesso al credito a favore dei i giovani in modo che ottenga buoni risultati occorrono molte risorse in un momento nel quale la spesa pubblica è in grande affanno. Per cui occorrono strumenti innovativi di finanziamento per non pesare sui bilanci dello Stato e del sistema delle Autonomie Locali in modo puramente assistenziale. Sono necessarie allora serie riflessioni sugli strumenti adottati fin’ora e sulle diverse sperimentazioni, per avviare politiche di larga scala di accesso al credito, in modo che diventi uno strumento consistente in grado di aiutare una larga fascia di cittadini. Fino ad oggi i vari strumenti sperimentati sono stati:


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• i prestiti d’onore a favore di giovani disoccupati e maggiorenni con finanziamenti per avviare iniziative in qualsiasi settore (es. produzione di beni, fornitura di servizi e commercio); • il Fondo di Rotazione che, una volta avviato, è in grado di autoalimentarsi (reinvestire risorse che incamerarle è una buona modalità per finanziare il prosieguo del Fondo stesso). Questi progetti sono stati attivati anche a livello locale grazie ad accordi tra Enti Locali, Fondazioni e altri soggetti disponibili a erogare contributi “una tantum” o grazie ad accordi di carattere più generale “di solidarietà, oppure i Fondi sono stati costituiti dalle Diocesi; • il micro-credito: sia nelle diocesi italiane (esperienze nate dal basso, con forte radicamento territoriale, tra loro eterogenee e con forte carattere caritativo: in molti casi i micro-prestiti non sono serviti per avviare imprese o fare piccoli investimenti, ma a soddisfare le più impellenti necessità quotidiane), che all’interno del sistema finanziario tradizionale (qui assume le forme del prestito per il consumo individuale, per l’emersione o il consolidamento di un progetto di vita, oppure per favorire la nascita di piccole imprese. 9. Nuovi modelli di coppie e di famiglie Prima di descrivere i nuovi modelli di coppie e famiglie, è interessante partire da qualche dato di realtà. Così, ad esempio nel 2003, a Torino 54 risultavano 105.889 coppie con figli, ma anche 31.112 madri con figli e 6.203 padri con figli. Significa cioè che a Torino il 26% delle famiglie (una su quattro) è composta da un solo genitore. E questo è un dato che da Torino, come si vedrà, è trasferibile a livello generale. Infatti dal rapporto annuale dell’Istat relativo al 2003 emerge che oltre cinque milioni di famiglie, cioè il 23% del totale, non replica il modello tradizionale, quello cioè della coppia sposata con figli. Così ci sono coppie “adulte” (tra i 35 e i 44 anni), sposate e non, che non hanno figli per scelta55 e si assiste ad una diminuzione del numero delle coppie con figli (tra il 1993 e il 2003 si è passati dal 48% al 41,9%, vedi Tab. 7). Questo fenomeno è riconducibile a più fattori, tra cui le difficoltà economiche, la scarsità di servizi di conciliazione tra le responsabilità familiari e quelle lavorative (i posti messi a disposizione dagli asili nidi pubblici sono insufficienti, mentre le rette di quelli privati sono esorbitanti)56 , ai cambiamenti culturali e nel mondo del lavoro che hanno fatto sì che le donne desiderino la maternità sempre più tardi 57; si aggiunge poi quel fenomeno che allarma da tempo psicologi e sociologi per cui la procreazione viene sempre meno vissuta come il completamento dell’amore coniugale e sempre

54

indicata nel Rapporto 2005 del Censis come quella in cui tradizione ed innovazione si coniugano al meglio, avendo saputo cogliere in pieno le opportunità di sviluppo legate alle Olimpiadi invernali “Torino 2006”, superando il modello della “One town company”. 55

Negli Usa le hanno battezzate i Dink (Double income no kids), cioè coppie benestanti, con lavori gratificanti e doppi redditi, abituati a vacanze, gadget e ad una vita senza troppi legami. 56

Solo un bambino su cinque frequenta l’asilo nido, che nel 43% dei casi è una struttura privata, con una retta media di 273 € al mese, contro i 145 € dei nidi pubblici. 57

Elaborazioni Vision su dati Istat , contenuti nel rapporto annuale 2005, evidenziano che la percentuale di donne che diventa madre tra i 18 e i 24 anni si è dimezzata rispetto agli anni ’70, passando dal 30 al 15%, quella delle madri di età compresa tra i 25 e i 29 anni si è mantenuta relativamente stabile, con un calo negli anni ’90; è aumentato, invece, il numero delle nascite da donne di età compresa tra i 36 e i 40 anni (+3,5 % rispetto agli anni ’60), ma soprattutto quello da donne di età compresa tra i 30 e i 35 anni, con un incremento di quasi il 15% rispetto agli anni ’70.


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più come l’oggetto di un diritto individuale (il diritto di avere un figlio), al di fuori di qualsiasi relazione di coppia. Tab. 7: Nuovi modelli di coppie e di famiglie Scenari Situazione attuale Famiglie monoge- Torino (anno 2003): 105.889 coppie con figli, ma anche 31.112 madri con figli e 6.203 nitoriali padri con figli (il 26% delle famiglie,una su quattro, è composta da un solo genitore). Nuovi modelli di Oltre cinque milioni di famiglie, cioè il 23% del totale, non replica il modello tradizionale, famiglia quello cioè della coppia sposata con figli. Così ci sono coppie “adulte” (tra i 35 e i 44 anni), sposate e non, che non hanno figli per scelta (DINK) e si assiste ad una diminuzione del numero delle coppie con figli (tra il 1993 e il 2003 si è passati dal 48% al 41,9%). Aumento delle se- Negli ultimi dieci anni le separazioni legali sono aumentate del 56,9% ed i divorzi del parazioni 59,4%. Non solo: oggi un matrimonio su tre si conclude con una separazione Coppie di fatto

PACS Rinvio della maternità Mobilità di medio termine Giovani donne

Nell’ultimo decennio sono triplicate passando dall’1,3% al 3,8 % del totale delle coppie italiane (convivenza prematrimoniale, forma di prima unione senza figli e di durata limitata scelta soprattutto dai giovani, anche se nel 44,7% si tratta di famiglie ricostituite in cui almeno uno dei partner ha alle spalle una separazione o un divorzio) 500.000 unioni in Italia nel 2005 Difficoltà economiche, scarsità di servizi di conciliazione tra le responsabilità familiari e quelle lavorative, cambiamenti culturali e nel mondo del lavoro hanno fatto sì che le donne desiderino la maternità sempre più tardi e sempre più come un diritto Chi per la sua attività economica si sposta da un luogo all’altro (in Usa è prassi da tempo), con uno stile di vita che non consente di mettere radici e che incide sulla sfera affettiva e sulla possibilità di formare una famiglia Occupate in percentuali più elevate rispetto alle loro madri, sono più istruite rispetto ai loro coetanei ed anche i rapporti di coppia diventano per loro più paritari, più negoziabili, più suscettibili di essere messi in discussione.

Molti sono i casi in cui la maternità s’inserisce piuttosto tardi nei progetti di vita, di lavoro, di carriera, ma quando il desiderio fa capolino è appunto spesso troppo tardi 58; la procreazione assistita diventa allora per un numero sempre crescente di donne l’unica via per diventare mamme. Capita che la mancanza di figli unisca la coppia, la renda più fragile, in ogni caso è vissuta come un fallimento personale. Il rapporto Istat relativo al 2003, riporta dati preoccupanti relativi al fallimento delle unioni coniugali in Italia: negli ultimi dieci anni le separazioni legali sono aumentate del 56,9% ed i divorzi del 59,4%. Non solo: oggi un matrimonio su tre si conclude con una separazione59. Questo trend viene associato al mutamento dei comportamenti femminili: se da un lato è vero che le donne rimangono ai margini dei circuiti decisionali che contano e che sul mercato del lavoro sono penalizzate dal fatto di continuare a portare la responsabilità della cura del focolare, è anche innegabile che le giovani donne di oggi sono occupate in percentuali più elevate rispetto alle loro madri, sono più istruite rispetto ai loro coetanei ed anche i rapporti di coppia diventano per loro più paritari, più negoziabili, più suscettibili di essere messi in discussione, rispetto alle forme più tradizionali. Aumentano, di conseguenza, anche le famiglie monogenitoriali costituite dalla madre (in casi più rari dal padre) e dal figlio o dai figli minori a lei affidati in seguito alla separazione o al divorzio. Da sole diventa senza dubbio più difficile gestire famiglia e lavoro, soprattutto 58

Si pensi che il tasso di fertilità relativa della donna, che è del 100% tra i 20 e i 24 anni, si riduce all’80% dopo i 25 anni, al 50% dopo i 30, al 18-25% dopo i 35 ed al 5-7% dopo i 40 anni. 59

Sul piano relazionale la vita delle famiglie sembra essere sempre più fragile e caratterizzata da scelte di coppia che hanno come presupposto l’autonomia e l’autoaffermazione dei singoli membri, piuttosto che un progetto condiviso.


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se prima, grazie anche al sostegno del marito, sono riuscite a guadagnare un “pezzetto di carriera” ed il lavoro, quindi, assorbe molte energie. In crescita è poi quella forma diversa di vivere l’amore e le responsabilità familiari che è l’unione libera, cioè non sancita dal matrimonio, ossia la convivenza o unione di fatto. Le coppie di fatto sono, infatti, triplicate nell’ultimo decennio passando dall’1,3% al 3,8 % del totale delle coppie italiane. Il modello di convivenza nostrano resta fondamentalmente prematrimoniale, una sorta di prova generale prima del grande passo, una forma di prima unione senza figli e di durata limitata scelta soprattutto dai giovani, anche se nel 44,7% si tratta di famiglie ricostituite in cui almeno uno dei partner ha alle spalle una separazione o un divorzio. Non mancano, verosimilmente, le istanze volte ad un riconoscimento legale delle unioni di fatto (sia eterosessuali che omosessuali, mentre fino a pochi anni fa la questione della regolarizzazione delle relazioni gay era assolutamente lontana dalla vita quotidiana) che sono state recepite in alcune proposte di legge sui Pacs (Patti civili di solidarietà) ancora in discussione in sede parlamentare. La strada in questo senso è decisamente lunga ed esposta a molte critiche, in particolare da parte di coloro che vedono nei Pacs una opzione che garantisce ai conviventi pressoché gli stessi diritti spettanti ai coniugi, ma meno rigida laddove le procedure burocratiche per sciogliere il vincolo del matrimonio sono particolarmente onerose. Il fenomeno delle coppie di fatto60 apre quindi nuove questioni che non si potranno rimandare per molto, visto che si parla ben di 500.000 unioni in Italia nel 2005. Ci sono poi le famiglie unipersonali, composte da anziani, che vivono da soli in numero sempre maggiore e dai single, per scelta o per necessità, che, in Italia, si stimano oggi attorno ai tre milioni. Nell’immaginario comune i single sono ormai quelli descritti dalle sitcom americane di successo (quali Sex and the city, Friends, Will & Grace per intenderci), cioè trentenni di ceto medio-alto, che vivono nelle grandi città, godendo di una certa autonomia economica, ma non di stabilità affettiva, per i quali la famiglia sono gli amici, i parenti, i vicini di pianerottolo (etero o omosessuali) il più delle volte anch’essi single. Questa tendenza sociale e culturale non è solo americana, ma anche italiana. Lo status di single suggerisce uno stile di vita dispendioso e le statistiche confermano che queste persone spendono molto di più delle coppie sposate tra viaggi, cene, palestra, prodotti che sono considerati uno status symbol appunto, fatto questo di massima libertà ed indipendenza. I single nostrani, però, sono forse meno invidiabili, uomini e donne in carriera che non sono pronti a grandi sacrifici in nome dei sentimenti, per i quali il lavoro spesso è vissuto come una forma di auto-compensazione, un palliativo alla solitudine, ma altrettanto spesso costituisce proprio il maggiore impedimento alla formazione di una famiglia, in tutte quelle situazioni in cui esso ad esempio richiede spostamenti geografici, per cui la famiglia rappresenterebbe un vincolo che non si è disposti o non è opportuno avere. La mobilità di medio termine (quella che gli Usa conoscono da tempo, ma che, in seguito all’affermazione del principio della libera circolazione della forza lavoro, caratterizza sempre più anche il mercato del lavoro europeo) cioè quella di chi, per inseguire l’attività economica si sposta da un luogo all’altro, è all’origine certamente di uno stile di vita che non consente di mettere radici e che incide sulla sfera affettiva; diventa difficile, infatti, crearsi un network di amicizie stabili e soprattutto trovare un compagno disposto ad organizzare la propria vita in modo altrettanto dinamico, figuriamoci se poi si tratta di esporre anche i figli allo stesso nomadismo. Ed è prevalentemente per motivi di lavoro che oggi in Italia ci sono - dati Istat - quasi due milioni e mezzo di persone che vivono con regolarità in un luogo diverso dalla loro abitazione, quindi lontani dal coniuge e dai figli: si tratta dei cosiddetti “pendolari della famiglia”. 60

Balzato agli onori della cronaca in modo plateale con le manifestazioni romane del 14 gennaio 2006, che poco hanno a che vedere con i gay pride.


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10. I giovani-adulti Come già visto in precedenza, rispetto alle famiglie si è aggravato, dal 2001 al 2005, il loro livello di “tenuta economica”, anche in riferimento all’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità verificatosi con l’avvento dell’euro. La situazione infatti è peggiorata a tal punto che sempre più difficilmente le famiglie riescono ad assolvere a quel compito di “garanzia economica” richiesto frequentemente e per un tempo indefinibile, dai propri figli. Ma anche la “tenuta sociale” delle famiglie si è acuita. Ad esempio in ordine alla concorrenza di inserimento e reinserimento nel mercato del lavoro tra generazioni aumenta con rapidità la conflittualità tra giovani e adulti. La famiglia oggi riesce sempre con maggiori difficoltà a coniugare le variegate esigenze dei componenti e il costo socio-economico che paga il sistema paese e sempre più alto. (crescente “debolezza reddituale”, “necessità di spesa primaria” che rispetti le varie esigenze dei componenti il nucleo familiare ed assottigliamento del “paniere di beni di prima necessità” cui la famiglia media fa riferimento per gli acquisti). Ma nonostante tutto ciò, spetta ancora una volta alla famiglia affrontare il fenomeno, oggi in espansione, dei giovani-adulti. Si tratta di una categoria sociale e di una condizione esistenziale, quasi una nuova fase della vita, che vede la compresenza di aspetti di vita giovanile (dipendenza affettiva dai genitori, indefinitezza e dilazione dei propri progetti) e di sfere di vita adulta (autogoverno del proprio tempo e delle proprie relazioni extrafamiliari, eventuale indipendenza economica e stabilità affettiva, ecc.). La protratta permanenza dei giovani in famiglia è ormai considerato uno dei principali mutamenti della struttura familiare. L’Istat rileva che nel 2003 le nubili ed i celibi di età compresa tra i 25 e i 34 anni che ancora abitavano nella famiglia di origine erano rispettivamente il 28,3% e il 41,3% (contro rispettivamente il 18,5 e il 33,1% del 1993): complessivamente i figli adulti ancora in famiglia sono passati in dieci anni dal 28,8 % al 34,9%, sorpassando la percentuale dei coetanei che vivono in coppia con figli (scesa dal 41,9% al 27,9%, vedi Tab. 8). Il fenomeno della permanenza prolungata in casa è spesso etichettato attraverso lo stereotipo del trentenne mammone o della sindrome di Peter pan. In parte è così. Pensiamo al film francese “Tanguy”, sottotitolato “A 28 ans, il habit toujours chez ses parents”: mentre agli spettatori d’oltralpe la storia doveva sembrare senz’altro ridicola, gli italiani probabilmente hanno trovato molto strano solo il comportamento dei genitori che fanno di tutto per indurre il figlio a lasciare il focolare. Tab. 8: Chi abita in famiglia oggi Scenari Situazione attuale Nuovi equilibri famigliari e - 2,2 milioni di giovani con indipendenza lavorativa vivono con i genitori (70% per giovani-adulti motivi economici, 30% per scelta); - il 70% dei maschi tra i 25 e i trent'anni vive con i genitori (20% in Francia e Germania e 10% in GB); - nel 2003 le nubili ed i celibi tra i 25 e i 34 anni che ancora abitavano nella famiglia di origine erano rispettivamente il 28,3% e il 41,3% (contro il 18,5% e il 33,1% del 1993). Sono passati in dieci anni dal 28,8 % al 34,9%, sorpassando la percentuale dei coetanei che vivono in coppia con figli (scesa dal 41,9% al 27,9%).

Per una parte di essi, però, si tratta purtroppo di mammismo involontario dovuto al disagio lavorativo (i giovani sono precari o precarissimi, sottoccupati, con un reddito discontinuo), alle difficoltà di raggiungere l’indipendenza economica, di far fronte al mercato immobiliare, di accedere ad un mutuo. La famiglia è disposta a farsene carico molto a lungo, dando loro appoggio materiale ed affettivo, per garantire una base sicura da cui partire (con modalità diverse a seconda della classe sociale), ma fino a quando le famiglie saranno in


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grado di fare da ammortizzatore sociale?61 Non andiamo, forse, incontro a giovani deboli in famiglie anch’esse sempre più deboli? A preoccupare non è solo una debolezza di tipo economico. Numerosi studi sociologici riconducono il fenomeno della dilazione dell’uscita dalla famiglia d’origine non solo a fattori macro sociali strutturali, ma anche alle trasformazioni familiari verificatesi a partire dagli anni ’70 ed ai mutati rapporti generazionali in senso più paritario: da un lato i figli godono di maggiori spazi di libertà, dall’altro i genitori ricoprono un ruolo sempre meno autoritario e non vivono in modo problematico la permanenza in famiglia di figli “quasi adulti”. Gli psicologi collegano queste trasformazioni alle due tendenze più diffuse nello stile educativo dei genitori italiani moderni - la iperprotezione e l’amicizia tra genitori e figli - avvertendo che entrambi gli approcci sono dannosi perché, comportando un eccesso di amore profuso dai genitori in modo incondizionato (senza alcuna pretesa che i figli se lo meritino), possono diventare d’ostacolo al distacco dei giovani dalla famiglia d’origine, sfavorendo l’assunzione di responsabilità, il passaggio dalla dipendenza all’autonomia e la realizzazione di progetti di vita personali 62 (si parla di libertà senza responsabilità). Una relazione più orizzontale è considerata sintomo della crisi del principio di autorità, in luogo del dogma del rispetto della libertà individuale dei figli; relazione che, da un lato rende difficile a genitori (e insegnanti) tener fede al proprio ruolo, in quanto si sentono di dover continuamente giustificare e negoziare le proprie scelte nei confronti dei giovani, dall’altro lascia i figli privi di punti di riferimento. L’autorità, o meglio l’autorevolezza di genitori ed insegnanti non è un concetto inutile e superato, garantisce piuttosto una funzione normativa, di guida, genera senso di sicurezza e protezione. 11. Le assenze Se fino ad ora le situazioni descritte possono essere valutate anche in ottica individuale (nel senso che riguardano i percorsi dei singoli), diventa strategico per una democrazia rilanciare e promuovere la partecipazione dei giovani alla vita pubblica, per affrontare sfide che invece sono collettive. Ma i luoghi considerati fino ad oggi come quelli deputati alla partecipazione giovanile sono sempre più disertati dai giovani e vissuti spesso come poco motivanti, salvo poche eccezioni. Non solo: quella della partecipazione è una criticità che riguarda sicuramente i giovani, ma non vede certo immuni gli adulti. La prima considerazione è che le giovani generazioni non vengono educate alla partecipazione. In effetti c’è stato in Italia un ritiro da parte dello Stato nel promuovere azioni educative, sia rispetto alla vita democratica, sia rispetto ad azioni politico - formative rivolte ai giovani. Lo Stato istruisce, forma, garantisce tutele, opportunità, diritti, ma non educa. Questo pensiero dominante (originato dopo la caduta del fascismo) ha fatto sì che vi sia stata una sorta di rigetto 61

Anche la Corte di Cassazione si è pronunciata più volte sulla questione del mantenimento da parte dei genitori dei figli maggiori d’età, che vivono ancora nella famiglia di origine e non hanno raggiunto l’indipendenza economica. Se per lungo tempo l’orientamento della Suprema Corte è stato per lo più nel senso della persistenza del dovere del mantenimento in capo ai genitori ancorché i figli fossero maggiorenni, più di recente si avvertono segnali di cambiamento anche nella giurisprudenza. Si pensi alla recente sentenza che ha svincolato un padre dal dovere di aiutare economicamente la figlia trentenne riconosciuta in colpa, avendo rifiutato ripetute volte occasioni di lavoro, adducendo scuse legate al voler stare vicino alla madre malata (ma guarita da tempo) e residente in un’altra regione. 62

Gli studi di matrice psicologica hanno indagato gli elementi che ritardano il processo di responsabilizzazione, riconducendo le dinamiche di cambiamento individuali a quelle familiari: l’idea di fondo è che ogni evento significativo, nello sviluppo dell’individuo e della famiglia, va considerato parte del ciclo di vita familiare, più che di quello individuale, in quanto prodotto dei processi evolutivi dei sistemi di relazione intra-familiari e intergenerazionali, che a loro volta vengono influenzati dagli esiti dell’evento che li coinvolge.


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dello Stato nei confronti di interventi educativi ”forti”. Di conseguenza il passaggio alla vita adulta e professionale, l’educazione alla democrazia, alla cittadinanza ed alla partecipazione sociale, sono state affidate alla famiglia ed alla scuola, da un lato e, dall’altro, ai soggetti “associativi” (partiti, associazioni, sindacati, Chiesa) operanti nella società civile. Lo Stato centrale quindi non si è mai assunto l’onere di occuparsi della “questione giovanile”, ritenuto invece, all’estero, tra i compiti istituzionali fondamentali dello Stato. Ciò è testimoniato dall’assenza di una legge nazionale, così come di organismi nazionali 63. Questo non si significa che lo Stato non si sia occupato di giovani, ma l’ha fatto frammentando le competenze tra diversi Ministeri, che hanno agito più con logiche da “separati in casa”, che non con quelle di una integrazione in grado di fornire risposte coerenti. Oppure ha investito sui giovani più con logiche di emergenza sociale (prevenzione da situazioni criminose o da tossicodipendenze). Solo nel 1997 c’è stata una legge (la 285, la cosiddetta “Legge Turco”) che ha saputo guardare ad infanzia ed adolescenza con logiche di promozione di opportunità e di diritti, limitando però gli interventi prevalentemente alla fascia “under 15”. La storia delle politiche giovanili raccoglie comunque molti i progetti, iniziative, sperimentazioni che in questi anni gli Enti locali hanno portato avanti, in ordine rigorosamente sparso e navigando a vista, in assenza di un quadro normativo nazionale con riferimenti certi. Infatti i Comuni (ed oggi anche le Province e le Regioni) sono stati gli attori protagonisti delle politiche giovanili, spesso in collaborazione con le organizzazioni giovanili locali. In concreto i Progetti sono state le tante e diverse esperienze (cominciate con Torino64 nel 1977) che, semplificando, si sono orientate in questi settori: • informazione; • socializzazione e cultura; • formazione e lavoro; • emarginazione e disagio. Si tratta di ambiti nei quali le competenze sono degli Enti locali ed i principali “prodotti” sono stati: • il “Centro di aggregazione giovanile”; • le rassegne di espressività giovanile; • l’Informagiovani; • la Consulta o Forum giovanile. Un grossa criticità di questi interventi è stata la carenza di fondi, l’essere considerate optionali rispetto ad una serie di compiti ritenuti invece fondamentali e propri della Pubblica Amministrazione, uno sviluppo a “macchia di leopardo” (in quanto legato quasi esclusivamente a sensibilità personali), il non essere riusciti a creare un “sistema” (nemmeno dal basso, in realtà compito forse spropositato viste le forze in campo). Rispetto alle risorse infatti, se è pur vero che gli Enti locali sono da sempre l’istituzione più vicina ai giovani, le risorse che effettivamente destinano loro sono ridicole: la media dei Comuni italiani è dello 0,17%! Quella Europea va dall’1,5% al 2,25%! Detto in un altro modo: il costo che un Comune italiano di medie dimensioni spende per una rotonda stradale equivale alla cifra che stanzia per dieci anni per le politiche giovanili! Se non c’è un minimo di quantità di risorse, non si può pretendere che ci sia qualità di intervento, che ha finito per connotarsi come attività di semplice intrattenimento o nell’offerta di una partecipazione a qualche attività, anche se nella maggioranza dei casi vi è stata una sorta di “as63

almeno fino al 2004 quando è stato riconosciuto il Forum Nazionale e nel 2006 con l’istituzione di un Ministero. 64

I primi 10 progetti giovani in Italia sono stati a Torino, Bologna, Forlì, Modena, Reggio Emilia, Livorno, Voghera, Ravenna, Perugia, Terni.


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sistenzialismo”. Si è trattato quindi di una doppia “valenza debole” (quanti e qualitativa) piuttosto che di una proposta politica su ricerca e promozione di valori forti o temi generatori attuali (es. globalizzazione, lotta al razzismo, prevenzione, pace, aids, Nord Sud del mondo, ecc.). Quindi temi deboli e poche risorse: è stato questo il circolo vizioso delle politiche giovanili italiane (vedi Fig. 6). Ma non solo: oggi gli interventi per i giovani sono spesso deboli anche perché monotematici (si concentrano cioè su una cosa sola, es. Informagiovani, Centri di Aggregazione, ecc.), mentre queste azioni devono diventare “plurime”, con l’aiuto degli altri soggetti (es. associazionismo, scuole, famiglie, ecc.) e di altri assessorati (es. al lavoro, all’urbanistica, alla cultura). Allora è importante “la strategia delle connessioni” (sia all’interno dell’Ente, sia nella comunità), in quanto aumenta l’incidenza (e l’efficacia) dei progetti. A questo fine è centrale la questione della partecipazione giovanile, promovendo interventi che partano dagli interessi dei giovani, per poi impostare percorsi di ricerca e formazione di senso, ricercando ed attribuendo insieme a loro significati nuovi a quelle esperienze ed a quei vissuti. Fig. 6: Il circolo vizioso delle politiche giovanili italiane

La ricerca delle connessioni all’interno dell’ente deve sfociare nell’elaborazione di ”Piani giovani integrati”, Un Piano Giovani Integrato65 è uno strumento di pianificazione delle politiche locali per i giovani, cioè un documento in cui sono definiti finalità, attori, obiettivi, azioni, tempi, risorse delle politiche giovanili di un territorio. Di solito il Piano si occupa di un periodo di tempo ampio, almeno triennale. La parola “Giovani” richiama il fatto che il Piano si occupa di una particolare fascia d’età, quella giovanile appunto. Riconoscere la specificità di questa “fetta” di popolazione significa presupporre che la gioventù sia un’età da vivere pienamente e non rimpiangendo qualcosa che non è più o in attesa di un futuro che ancora non è. Indicativamente è possibile definire “giovani” i cittadini di età compresa tra i 16 i 30 anni. Integrato indica la necessità, perché il Piano Giovani sia efficace, di pianificare gli interventi per i giovani cercando due livelli di connessione: - intraistituzionale: dentro l’amministrazione comunale, evitando che Assessorati diversi compiano interventi che si sovrappongono o per i quali, se si progettasse in maniera integrata, sarebbero necessarie meno risorse e si otterrebbero risultati migliori; 65

G. Campagnoli, N. Trabucchi: “Giovani & idee”, Provincia di Novara, 2002


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- intersitituzionale: gli attori delle politiche giovanili sono molti, Amministrazione Comunale, Associazioni, Scuole, Asl, ecc. . Il Piano deve riconoscere l’esistenza di questi attori e facilitare l’integrazione fra obiettivi che ciascuno persegue e azioni che pone in essere66. Da quanto detto, risulta evidente che il Piano Giovani Integrato non indica solo un documento finale, ma un processo attraverso il quale una comunità definisce le priorità d’azione per le giovani generazioni. Un processo che vede coinvolti tutti coloro che si occupano a vario titolo di giovani e i giovani stessi. Si tratta di creare contesti nei quali i soggetti, che hanno culture organizzative diverse e visioni diverse dei problemi e delle soluzioni, possono confrontarsi, ridefinire il loro punto di vista, originare soluzioni che non potrebbero mai nascere da un singolo. È un percorso lungo, la cui durata dipende dal numero dei soggetti coinvolti, dalle dimensioni dell’Amministrazione Comunale. Nei Comuni sotto i 5.000 abitanti può durare mesi, nei Comuni maggiori anche anni. 12. La partecipazione giovanile Come detto, oggi sono in crisi le tradizionali forme di partecipazione sia tra gli adulti che tra i giovani. Si assiste da una parte ad una privatizzazione degli affetti e dei problemi, dall’altra quasi ad una fine delle “sfide collettive”. Di conseguenza la partecipazione alla vita pubblica è scarsa, i Forum e le Consulte sono pochi e, molti, in crisi. Infatti oggi non possiamo certo dire che la partecipazione sia un bisogno chiaramente espresso dai giovani o “sentito” come importante. Non solo: partecipazione oggi non coincide più con militanza, appartenenza o rappresentanza, ma gli assetti sono più “user” e legati al "sentirsi parte", allo "stare bene", a ricercare occasioni di espressione di sé o di protagonismo. Quindi questo dato (piaccia o no) va assunto nel pensare a creare luoghi in cui si promuove una partecipazione, nel senso di incontro tra giovani ed istituzioni67. Aver investito così poco sulla dimensione dell’educazione alla partecipazione da parte dello Stato, unita alla perdita di “appeal” che hanno registrato i soggetti cui era stata delegata questa funzione (partiti, sindacati, oratori, associazioni), ha fatto emergere questa criticità legata al futuro. A questo proposito è interessante leggere i risultati del progetto di ricerca Euyoupart68 sui giovani, la politica e il futuro della democrazia in Europa69. Tra i principali risultati emersi dall’indagine (vedi Tab. 9) spicca il diffuso disinteresse dei giovani europei nei confronti della politica (63%), che tuttavia sembra attenuarsi col crescere del66

Ciò pur sapendo della difficoltà di lavorare in ottica integrata: si pensi ad esempio alla Scuola: difficilmente si sono mai sviluppate politiche di integrazione con l’Extrascuola, le poche circolari che andavano in tal senso sono rimaste lettera morta, mentre in alcuni Paese del Nord Europa, addirittura durante le vacanze le Scuole sono Ostelli per la gioventù gestiti direttamente da giovani che accolgono altri giovani… Oppure, in altri Paesi europei (es. Francia) le politiche giovanili prevedono anche misure di carattere commerciale (es. iva agevolata e quindi prezzi più bassi per abiti per i ragazzi, attrezzature informatiche, “pillola del giorno dopo”, ecc.) o, addirittura (Finlandia) un reddito di cittadinanza per sperimentare forme di autonomia. 67

così afferma anche la “Nuova Carta Europea di partecipazione”, Consiglio d’Europa, Congresso dei poteri locali e regionali d’Europa: “Nuova Carta Europea di partecipazione dei giovani alla vita locale e regionale”, Strasburgo 2003. 68

EUYOUPART (Political participation of young people in Europe 2003-2005) è un progetto di ricerca transnazionale finanziato dal V Programma Quadro della Commissione Europea. 69

condotto in 8 paesi (Austria, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Slovacchia e Regno Unito) su un campione di circa 8.000 giovani tra i 15 e i 25 anni. Obiettivo principale del progetto è stato rilevare i comportamenti e gli atteggiamenti della partecipazione politica dei giovani in Europa. In Italia il progetto è stato realizzato da Fondazione IARD.


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l’età. I risultati mostrano che la famiglia influisce maggiormente sugli atteggiamenti e sugli orientamenti ideologici dei ragazzi, mentre il gruppo dei pari svolge la propria azione di influenza sopratutto sui comportamenti di partecipazione politica. Tab. 9: I principali risultati Europa   

 

 

I giovani risultano in prevalenza idealisti verso la politica, ma disillusi dalla sua realizzazione Scarsa la fiducia nelle istituzioni tradizionali, in primis nei politici e nei partiti politici. Maggiore invece la fiducia nelle organizzazioni non governative e nei nuovi movimenti politici rispetto a quelli tradizionali Maggiore la fiducia nelle istituzioni europee rispetto a quelle nazionali I giovani risultano sempre più critici verso il sistema politico in generale, ma resiste la loro partecipazione nel quadro della democrazia rappresentativa Il voto è lo strumento di partecipazione più utilizzato Le azioni di protesta sociale sono considerate importanti canali di espressione delle proprie opinioni, ma solo una minoranza ne è coinvolta direttamente

Italia Il 43% dei giovani italiani è interessato alla politica: la percentuale è tra le più alte in Europa  L’Italia è risultato uno dei paesi nei quali la politica viene seguita più spesso tutti i giorni (nel 38,4% dei giovani) tramite mass-media, ma anche il paese in cui questo avviene più di frequente tramite la televisione (80,4%)  Primato italiano anche per la vicinanza ai partiti politici. Nonostante una generale sfiducia, ben il 71% dei giovani si dichiara vicino ad un determinato partito 

Sempre dalla ricerca, emerge che tre fattori possono motivare i giovani alla partecipazione politica: 1. La scuola. I giovani che utilizzano la partecipazione scolastica, tendono a divenire politicamente attivi anche fuori dalla scuola: più si dimostrano attivi e partecipativi durante il percorso scolastico, più è probabile che diventino politicamente e socialmente attivi da adulti. 2. I media. L’Italia è uno dei paesi nei quali la politica viene seguita più frequentemente e tutti i giorni tramite mass-media: nel 38,4% dei giovani. Al polo opposto si colloca il Regno Unito con solo l’11,3% dei giovani che segue la politica quotidianamente: chi si informa attraverso un mezzo d’informazione che prevede una modalità di fruizione attiva (come i giornali ed internet) tende ad essere più attivo politicamente rispetto a chi segue la politica passivamente attraverso la televisione o la radio. 3. i genitori e gli amici. Solo il 20% dei giovani intervistati ha genitori fortemente politicizzati e solo il 16% frequenta amici impegnati politicamente. L’indagine ha mostrato come nei giovani europei la famiglia eserciti, per la maggioranza, una considerevole influenza sulle opinioni e sui comportamenti politici e maggiore è il livello di politicizzazione dei genitori, maggiore è quella dei figli. Preso atto di tutto quanto detto sopra, la progettualità pubblica deve essere volta a includere realmente i giovani nei processi decisionali delle città (va ricordato che è a livello locale che si partecipa), in percorsi che vengono definiti di “cittadinanza attiva”: non solo consultazione, ma valorizzazione di tutti i tipi di impegno, della partecipazione ai meccanismi decisionali (seppur flessibili e accessibili ai giovani). La “Nuova Carta Europea di par-


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tecipazione dei giovani alla vita locale”70 afferma proprio che, perché la partecipazione abbia un vero senso, è indispensabile che i giovani possano esercitare fin da ora un’influenza sulle decisioni e sulle attività, e non unicamente ad uno stadio ulteriore della loro vita. È quindi necessaria una “cessione di potere” (o almeno una rinegoziazione) da parte dell’istituzione locale. Ma non solo: sempre secondo la Carta71 il concetto di partecipazione ha una doppia dimensione: quella del “prendere parte” e quella del “sentirsi parte”, come se ci fosse un modo razionale legato al campo del diritto-fondamento, unito però ad uno più emotivo del “sentirsi dentro” a processi, alla comunità, a varie forme di appartenenze per la ricerca di un “bene comune”. Questo “sentire comune” fonda e mantiene vivi i legami, le passioni, il piacere di incontrare le persone (che quindi non è solo un diritto/dovere) e forma quello che viene chiamato koinè, termine greco che significa appunto “senso di comunità condiviso”. Il “sentirsi dentro” a questi processi di partecipazione giovanile passa per la costruzione di un “clima” buono, dove c’è anche una dimensione di svago e di piacere perché in questi contesti possono emergere potenzialità, idee e risorse di chi vi partecipa. Pensare a questi percorsi di partecipazione come a catalizzatori necessari alla produzione di maggior fiducia tra gli attori (e quindi di capitale sociale) è certo un nuovo modo di intenderne la mission ed il ruolo72. Inoltre significa avere in ogni Comune una “produzione” di piccoli (ma importanti) “beni pubblici”. Questi sono oggi i tratti di un “new deal” della partecipazione giovanile73 che si può ricercare e promuovere “uscendo” dalle istituzioni con dei “mediatori” che possono creare ponti tra parti oggi separate. Per fare questo gli strumenti sono molti e vanno scelti sulla base delle situazioni locali, sempre diverse tra loro. Spazi giovanili, percorsi formativi, Informagiovani, eventi, servizi, peer education, cag, percorsi nelle Scuole e Università di Educazione civile, forum, consulte, nuovi media, ecc. Quindi un concetto più allargato di partecipazione alla vita della città e del Comune (che magari parte da forme più vicine al protagonismo ed alle espressioni giovanili, prevedendo un percorso) per promuoverne comunque possibili nuove modalità di partecipazione. Questo favorendo in una comunità la creazione di legami sociali tra giovani e tra questi e le istituzioni ed il mondo adulto. Fare politiche per i giovani vuol dire questo: ricostruire legami sociali, creare nuova fiducia tra giovani e tra giovani ed adulti ed istituzioni, rigenerare “cittadinanza”. Fare loro spazio. 13. Le politiche giovanili come progetti di comunità locale Se quanto descritto nei primi dieci paragrafi riguardava più aspetti generali e di sistema, qui ci stiamo addentrando nelle dimensioni locali delle politiche giovanili. Città, Comuni, quartieri, piuttosto che Province, Comunità montane, Unioni o Consorzi di Comuni, comunque là dove poi ci sono i giovani e ci sono (o meno) servizi, progetti, azioni per i giovani. Si tratta di cominciare a pensare a città più a misura di giovani, con spazi di aggregazione e di produzione culturale giovanile come qualcosa di “normale”, città dove la gente si possa incontrare, in un momento segnato da frammentazione, individualismo, intolleranza. Questa, pur in ritardo di decenni, potrà essere una nuova sfida per amministratori locali e nazionali. Infatti, come detto, favorire in una comunità locale la creazione di legami sociali tra giovani, istituzioni ed adulti, significa promuovere percorsi di partecipazione alla 70

Consiglio d’Europa, Congresso dei poteri locali e regionali d’Europa: “Nuova Carta Europea di partecipazione dei giovani alla vita locale e regionale”, Strasburgo 2003. 71

Vedi nota precedente.

72

G. Campagnoli, “Là dove si rigenera cittadinanza”, in “Animazione Sociale” n°5, maggio 2005.

73

Uniti alla considerazione, sempre esplicitata nella Carta, che la partecipazione è un percorso (quindi richiede tempi e prevede tappe e fasi) a cardine della democrazia.


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vita della città e del Comune. L’avvio è quello di mettere in campo dei “facilitatori”, dei “mediatori” che sono possono essere percepiti dai giovani come adulti credibili, autorevoli, persone autentiche, che “ci sono e ci stanno” e che ai loro occhi assumono il ruolo di adulto significativo (quasi un modello74). Queste persone possono essere sia professionalità specifiche (es. animatori socioculturali, educatori), sia persone che vogliono svolgere questa funzione e ricoprire questo ruolo (es. assessori, funzionari, sacerdoti, insegnanti, allenatori, ecc.). I giovani infatti, quando incontrano un “adulto colorato” lo sentono, si fermano, costruiscono, ragionano, crescono. L’importante, ed è una condizione fondamentale, è che si costruiscano/garantiscano anche spazi di riflessione con queste persone che lavorano con i giovani, momenti di condivisone, scambio, formazione. Detto tutto ciò, rimane una questione da affrontare: quale potere reale è possibile delegare all’interno di un meccanismo partecipativo del quale i giovani sono protagonisti? La Tab. 10 fornisce una possibile interpretazione delle realtà esistenti. Tab. 10: Potere ed integrazione dal punto di vista delle partecipazione giovanile a RISERVA INDIANA Potere decisionale

CO-MANAGEMENT SUSSIDIARIETA’ ORIZZONTALE

NESSUN CONFRONTO/NESSUNO SOVRANITA’ LIMITATA b SCONTRO b

Partecipazione/integrazioni EELL ed organizzazioni giovanili

a

Interrogandosi sulle diverse modalità di svolgimento dei rapporti tra Enti locali ed organizzazioni giovanili, emerge infatti che oggi ci si trova di fronte a quattro fotografie distinte. Si parte da realtà in cui non c’è nessun incontro (e quindi nessuno scontro, proprio perché non si dialoga) ed ognuno se esiste e se fa, va per la sua strada. Ci può essere un modello invece in cui i progetti, i servizi o le strutture per i giovani siano finanziate dal Comune, ma totalmente delegate nella gestione alle organizzazioni stesse. Queste ultime assumono quindi un forte ruolo decisionale rispetto a quegli oggetti, ma non cioè condivisione e coprogettazione con il committente. È una situazione che può originarsi dopo gare di appalto, solitamente di breve periodo, dovuta o alla limitata durata del progetto o a situazioni di negoziazione difficile (piuttosto che conflittuali) tra le parti, che comunque sono destinate a terminare. La situazione opposta è quella invece dove c’è un dialogo tra Ente locale ed organizzazioni giovanili, ma il potere decisionale è limitato ad oggetti specifici. Questa situazione si manifesta in situazioni di budget limitati o quando l’Amministrazione ritiene non opportuno co-decidere, ma avoca a sé le decisioni più importanti. La situazione ottimale è quella in cui le parti dialogano, si conoscono e riconoscono, applicano i principi di sussidiarietà orizzontale o di co-management rispetto alle scelte di politiche giovanili locali. In questi casi si arriva addirittura a forme di bilancio partecipato. Questa è la fattispecie migliore, ma anche meno diffusa. Infatti occorre essere pragmatici: quando si offre partecipazione, occorre cedere potere (o parti di esso). Il centro della questione, che più si avvicina al tema della partecipazione, è come cedere potere (riconoscere potere, promuove-

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“Si insegna molto di più con l’esempio che con le parole”, ricordiamocelo. Ed una criticità di oggi è che se si chiede ad un giovane di contare quanti adulti significativi ha incontrato nella sua vita, vi dirà che per contarli bastano le dita di una mano! Eppure c’è bisogno per crescere di modelli di riferimento, di persone coerenti, molto più che di eroi, sempre presentati come irraggiungibili ed inarrivabili.


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re potere) ai giovani e nelle forme liberamente elaborate da loro 75. Alcune questioni, che spesso non si affrontano, possono declinare più in concreto il problema della “ cessione di potere “:  quale “pezzo di democrazia”, quale potere reale, senza ideologismi e senza demagogia si può delegare ai giovani in una città, in una scuola, in un quartiere….?  Quali sfide verso la globalizzazione, come affrontare il tema degli squilibri demografici, come costruire una società multietnica, quali indirizzi per i nuovi saperi e per lo sviluppo futuro …..?  Come sperimentare attività sociali inclusive e protettive in modo innovativo, per una nuova società solidale, come costruire nuove ipotesi di comunità ….?  Come liberare, valorizzare e sfruttare la loro creatività e la loro capacità d’innovazione a tutto vantaggio di un sistema vecchio e chiuso al rinnovamento (anche nella classe dirigente)?  Come utilizzare le risorse della gioventù in un quadro di costruzione di nuovi percorsi di cittadinanza, come un grande esercizio di democrazia?  In ultimo: quale è il “luogo” dove far sperimentare ai giovani tutte queste attività? Le Politiche Giovanili sono innovative se avviano un processo entro il quale i giovani possano acquisire maggiore potere, spazi e competenze in città dove le loro capacità progettuali possano emergere e trovare idonei terreni di confronto con quelle di altri attori istituzionali e sociali. Le Politiche giovanili possono segnare un’innovazione nel passaggio da una logica burocratica amministrativa ad una logica associativa (politiche giovanili come impresa sociale). Le Politiche Giovanili hanno rappresentato uno strumento di “mobilitazione” della comunità locale nelle sue diverse espressioni. È sempre più evidente che il raccordo tra Politiche Giovanili e sviluppo di comunità è la chiave di volta per il futuro del welfare locale. Non è più sufficiente e adeguato un intervento destinato ad adolescenti e giovani se contemporaneamente non si progetta per i cittadini delle comunità locali. Un primo punto fermo nell’analisi delle possibilità innovative delle Politiche Giovanili sta allora in questo:  le Politiche Giovanili possono essere “infrastrutture” delle promozione sociale;  anzi sono una vera e proprio “impresa sociale” (da fare insieme ad altri), l’impresa di convocare la società a prendere parte ed essere parte sulle questioni sociali, culturali, economiche che riguardano un territorio76. Per fare ciò, le “politiche giovanili” devono saper dialogare con il resto della comunità locale, devono saper quindi in grado di fare rete con tutte le parti della città, ricercando alleanze come già detto. Da parte della comunità adulta, sembra che ancora prevalere alcuni stereotipi nei confronti delle giovani generazioni, in particolare questi tre atteggiamenti: • quello di parlare di giovani (come di calcio), ma poi lasciare ad altri la partita; • quello di preoccuparsi, senza occuparsi;

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Con la legge 285 nel ’97 si è avviato un decisivo processo di innovazione del welfare, a partire dai diritti dei bambini e dei ragazzi. Ora si potrebbe ipotizzare (e sperimentare localmente) una seconda tappa in questo percorso di innovazione: quella del coinvolgimento dei giovani. La 328/00 non è semplicemente una legge di “riordino” dei servizi. Essa introduce una vera e propria riforma del welfare, con una nuova cultura, un modo “altro” di pensare e organizzare i servizi e gli interventi sociali, un sistema inedito, diverso. O la 328 la si interpreta e applica insieme ai giovani (certo, non solo loro), oppure non decolla. 76

G. Salivotti: “Le politiche giovanili. Dalle politiche di settore alla costruzione di modelli educativi e alla prospettiva della coesione sociale”, Biella, maggio 2005.


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quello di aver paura dei giovani o per i giovani (in ogni caso il risultato è quello di un atteggiamento sociale repressivo e familiare altamente comprensivo, vedi tab. sotto).

Quali sono le nuove paure degli adulti per i giovani? Per il futuro dei figli 1. il timore degli incidenti stradali (43,5%); 2. l’uso di droga (41,1%); 3. la frequentazione di cattive compagnie (32,2%); 4. il timore di malattie (32%); 5. vittime di pedofili (27%).

Sul fronte economico 1. non trovare lavoro (65%), 2. difficoltà economiche della famiglia (o in conseguenza della morte di un genitore), 3. la scarsa offerta scolastica e formativa (12,8%)

Fonte: Censis, 2005 Non devono però essere le paure a guidare le scelta, ma oggi è necessario un coraggio nuovo con cui guardare alle giovani generazioni, considerando strategico e prioritario un investimento su loro in quanto etico, ma anche necessario per lo sviluppo del Paese. 14. Le forme di partecipazione giovanile Anni fa, parlando di partecipazione, sia sarebbero usati anche altri tre vocaboli il cui senso oggi va ridefinito. Si tratta di appartenenza, militanza e rappresentanza77. Vediamo meglio: appartenenza oggi significa più una ricerca di luoghi di espressione di sé, che non invece l’indossare una “casacca” definitiva. Militanza: oggi è legata al cogliere opportunità (di tipo “user”, dice lo Iard), dove i grandi movimenti e le grandi adunanze massmediatiche (le “Notti bianche”, ma non solo 78), poi producono poco sul territorio in termini di impegno concreto. Rappresentanza: non sono certo le tradizionali forme di rappresentanza ad avere oggi il favore dei giovani, a partire da sindacati e partiti. In particolare questi ultimi sono messi agli ultimi posti anche dagli Assessori alle politiche giovanili quando devono ricercare soggetti del territorio con cui coprogettare 79. Così quei pochi giovani nei partiti o i movimenti giovanili dei partiti non sono risorsa progettuale nemmeno per gli Amministratori locali. E questo la dice lunga… Se oggi, come detto, la partecipazione alla vita della città non è un bisogno/esigenza portata dai giovani, ciò non significa che non si debba promuovere progetti che abbiamo come finalità la partecipazione attiva alla vita locale. Nel senso che non bisogna cadere nel rischio del “giovanilismo” che porterebbe ad accettare solo istante provenienti dai giovani. È allora interessante provare a tracciare una panoramica (che certo non ha la presunzione di essere esaustiva) sulle esperienze sperimentali ed innovative in tema di partecipazione giovanile. Chi infatti si è posto il problema di educare alla “cittadinanza attiva” le generazioni più giovani, ha cominciato chiedendo chi avesse trasmesso loro i valori dell’impegno e della partecipazione. Come visto, le risposte sono: a) docenti; b) genitori; c) adulti significativi. E poi la Scuola e l’Università che, spesso indirettamente, svolgono comunque funzione di “palestra di democrazia”, attraverso strumenti, azioni e momenti di riflessione propri di queste istituzioni. Alle quali, in primis, si richiede un aumento di progetti legati al-

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G. Campagnoli, in: “Atti del secondo convegno nazionale delle leve giovanili”, Scandicci, giugno 2005.

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Es. per i funerali del Papa, piuttosto che per il concerto del 1 maggio a Roma o le grandi manifestazioni sindacali sul lavoro, o il Global Forum a Firenze, o il giubileo dei giovani o il G8 a Genova. 79

R. Pocaterra, Iard, Conferenza nazionale degli Informagiovani, Castellammare di Stabia, 25 febbraio ‘05.


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l’Educazione civile 80 (accompagnamento al primo voto, a partire da quanto a 14 anni si eleggono i rappresentanti di classe, ecc.). Se nella scuola la sperimentazione riguarda l’Educazione civile, nell’extra scuola le altre sperimentazioni in corso riguardano sei ambiti: • programmi di peer education e peer information, i cui peer sono i leaders naturali dei gruppi e che sono formati alla partecipazione attiva; • percorsi di formazione per “orientatori alla cittadinanza” rivolti agli operatori che lavorano con i giovani (a partire da docenti ed animatori); • sostenere il potenziale delle associazioni, cooperative ed organizzazioni giovanili, dei gruppi informali, dei Cag come “agenzie di educazione non formale alla cittadinanza”. Come? Ad esempio promovendo all’interno percorsi sulla legalità o su temi che possono fungere da stimolanti ed attuali motori di ricerca per i giovani (es. globalizzazione, lotta al razzismo, prevenzione, pace, aids, Nord Sud del mondo, ecc.); • prevedere nuove forme di rappresentanza all’interno degli attuali modelli di governance territoriale, a partire dai piani di zona elaborati nei Tavoli della legge 328. Come possono i giovani prendere parte a questi percorsi di progettazione partecipata? Una buona prassi è stata quella delle Province campane che hanno voluto rappresentanze di giovani che frequentano i Centri di Aggregazione (Cag) all’interno dei Tavoli tematici sugli adolescenti. Ciò permette di avere in quelle sedi i portavoce dei bisogni e delle esigenze dei giovani, con richieste di maggior attenzione; • avviare esperienze di bilancio partecipato nell’ambito delle politiche giovanili, che finiscono per avere una forte valenza culturale per tutta l’amministrazione. Il punto di partenza di queste esperienze è la definizione di un Tavolo (oggi Forum e Consulte sono un po’ in crisi), spesso ad “assetto variabile” (anche in base a quanto è stato detto al primo punto sui nuovi significati di appartenenza, militanza e rappresentanza), in cui si discute l’allocazione delle risorse (che per il primo anno sono “date”). Successivamente il Tavolo può richiedere maggiori risorse (anche per progetti in partnership con altri enti) e promuovere azioni che coinvolgono anche altri assessorati, oltre a quello sulle politiche giovanili. Dotarsi di un regolamento di funzionamento del Tavolo, accompagnandolo con una figura di raccordo e sostegno, e trovare il giusto equilibrio tra formalizzazione e spontaneità giovanile, sono le due criticità maggiori di queste esperienze, peraltro sempre molto significative (i giovani prendono da subito parte alle scelte che li riguardano) e generatrici (quando il clima relazionale è buono, è molto alto l’effetto moltiplicatore); • saper cogliere forme allargate di partecipazione giovanile alla vita della città, a partire dal volontariato, ma anche altre modalità quali l’associazionismo giovanile in senso stretto, le leve civiche, il partecipare ad attività sportive, il fare musica insieme agli amici, suonare in una band, frequentare i centri di aggregazione giovanile (oratori, centri sociali, Cag), fino alle forme di espressione giovanile (graffiti e stikers ad esempio), all’allestire piste di skate, ma anche e semplicemente frequentare il gruppo informale di amici ed oggi, probabilmente, il creare con le nuove tecnologie siti internet, il chattare, l’uso di sms ed mms, il prendere parte ed eventi o movimenti, essere coinvolti in progetti ed azioni locali, ecc. Se queste sono le forme, bisogna corrispondere con strumenti ed interventi che favoriscano la partecipazione e l’associazionismo giovanile ed il suo rapportarsi con l’ente pubblico perché così si permette l’incontro tra giovani ed istituzioni, primo passo per conoscersi e co-costruire insieme un “pezzo di città”.

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Progetto nazionale Giovani Rappresentanze (Gio Rap, Il decalogo)


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Quindi il rapporto giovani-istituzioni è un tema, forse il tema, centrale da affrontare quando si dibatte di politiche giovanili. Già il termine “politica” richiama la “polis”, la città, il luogo in cui avviene la partecipazione. È qui che prende forma il concetto di “cittadinanza”, intesa come piena titolarità di diritti ed opportunità. In particolare oggi quando è evidente che i giovani godano complessivamente di meno diritti di cittadinanza rispetto ad altre categorie e dove solo l’aiuto della famiglia compensa questa situazione, con il sostegno allo studio, con la “paghetta” (che significa poter fruire di maggior opportunità e consumi nel tempo libero 81, es. mobilità e studio all’estero), con lo spendersi nella ricerca di un lavoro82, con l’integrazione dei primi redditi (insufficienti per uscire di casa e/o formare una famiglia) e prosegue anche nelle fasi successive di vita (il ricorso ai nonni visti gli scarsi servizi per l’infanzia e le carenti politiche di conciliazione tra famiglia e lavoro). Situazione davvero iniqua perché conta molto la famiglia in cui nascere e poi il tenersi buoni i genitori il più a lungo possibile… Altro dato evidente è come il mondo giovanile si senta lontano e consideri distante ed astratte le istituzioni e spesso le ritenga anche con poco appeal, incapaci di sviluppare comunicazione con loro. Relazione poi… Allora ecco la sfida: coinvolgere ed appassionare i giovani in un percorso di elaborazione di un Piano per loro, che ne sancisca diritti ed opportunità, considerandoli cittadini dell’oggi e non soggetti in una fase di vita in perenne attesa di diventarlo. Ciò partendo dai presupposti contenuti nella “Nuova Carta di partecipazione dei giovani alla vita locale”, documento del 2003 elaborato dal Consiglio d’Europa83 e che può essere adottato dai Consigli Comunali, Provinciali, Regionali, così come auspicato dal CoE. Una legge dunque che si guarda ai giovani come risorsa in quanto portatori di saperi, innovazioni ed intuizioni moderne, perché contagiati senz’altro dai “virus” dei mali del mondo di oggi, ma anche in grado di sviluppare “anticorpi” per superarli. 15. Nelle Città e nei Comuni (cosa succede in città) Detto tutto ciò, cosa si può fare? Intanto se è vero che in Italia l’avvio dei progetti giovani è dovuto alla presenza di un Assessore illuminato o di una organizzazione giovanile lungimirante, piuttosto che agli stimoli di un adulto autorevole, la prima cosa è assumersi le responsabilità per giocare uno di questi ruoli. Poi dare un primo segnale: come Amministratore fare in modo che il Consiglio comunale adotti la Carta europea di partecipazione dei giovani. Da qui in poi istituire una delega ad un Assessore o un Consigliere, con un capitolo di bilancio ad hoc. Oppure, come adulto o come organizzazione giovanile, chiamare a raccolta i giovani (con il passaparola, una cartolina, un avviso, ecc.) e cominciare a lavorare con questo gruppo di giovani, interrogandosi sulla propria comunità. Va ricordato infatti che lavorare in un territorio con un gruppo di giovani, non è una scelta povera, ma potente. Un gruppo di ragazzi motivato, cambia la città, genera altre risorse, innesca meccanismi virtuosi di coinvolgimento, produce cambiamento, diventa risorsa per la città, costruisce legami con altri attori sociali, innesca riflessioni e mette in circolo valori positivi. I progetti quindi possono essere molti e variegati, le modalità che più di altre assicurano questo tipo di successo sono: 81

la “paghetta” è la principale fonte di reddito per il 70% dei ventenni italiani, contro il 35% di tedeschi e francesi, il 15% dei britannici. 82

un giovane su tre lo trova grazie ad aiuti informali, il 60% dei quali consistono in segnalazioni e raccomandazioni, a cui va aggiunto il 20% di chi trova lavoro nella propria azienda familiare 83

Consiglio d’Europa, Congresso dei poteri locali e regionali d’Europa: “Carta Europea riveduta della partecipazione dei giovani alla vita locale e regionale”, Strasburgo 2003.


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prevedere un ruolo di mediatore/facilitarore (l’adulto significativo); garantire spazi di riflessione e formazione sul loro lavoro; scommettere sulla dimensione del fare (i ragazzi hanno bisogno di sperimentarsi nel fare qualcosa, nel “rimboccarsi le maniche”); lavorare con istituzioni e organizzazioni/aggregazioni giovanili; garantire orizzonti temporali di ampio respiro e risorse sufficienti (non progetti di breve durata e/o a basso costo, i cosiddetti “low cost” delle politiche giovanili); ricercare alleanze con altri soggetti della comunità locale (la “strategia delle connessioni”); comunicare in modo adeguato (con modalità e strumenti dei nostri tempi e con prodotti di qualità, belli)84; infine, ma non certo per ultimo, puntare sulla professionalità di operatori, consulenti, formatori, coordinatori: bisogna infatti ricordare che di giovani parlano tutti (come nel calcio), ma poi chi lavora con loro sono davvero pochi.

Uno studio di Vedogiovane 85 sulle politiche per i giovani attivate da otto grosse città italiane (Milano, Napoli, Bari, Roma, Verona, Perugia, Torino, Palermo) evidenzia nuovi punti di forza dei relativi Assessorati. In primis il fatto che hanno saputo definire una mission più chiara ed un loro ruolo più certo all’interno Comuni e contemporaneamente anche rispetto alle linee d’azione su cui investono. Le città privilegiano infatti le dimensioni legate all’informazione (servizi Informagiovani), alle espressioni artistico-culturali giovanili, un rinnovato interesse per gli spazi (anche grossi e nuovi, che provengono dal recupero di arre urbane dimesse) gestiti in convenzione con le organizzazioni giovanili ed una sperimentazione di progetti che valorizzano le capacità imprenditive e lo sviluppo di un attitudine al lavoro da parte dei giovani. Ma non è tutto: la mobilità internazionale, il volontariato, l’orientamento al lavoro e la ricerca di nuove forme di partecipazione alla vita della città. Permangono una serie di criticità legate alla scarsità di risorse (0,9% del totale delle uscite correnti dei bilanci comunali, contro una media europea di 15 – 25 volte superiore), molti interventi frammentati e quindi “low cost”, poca capacità di fare rete e costruire alleanze e sinergie sia all’interno che all’esterno della macchina comunale. Ciò in un quadro generale dove non c’è un disegno complessivo nazionale sulle politiche giovanili e solo poche Regioni hanno assunto un ruolo importante in materia (diventata, con la riforma federalista dello Stato, di loro competenza). Il livello europeo è poco conosciuto e non sono colte tutte le opportunità comunitarie in materia, né adottate le Carte dei diritti che questi organismi hanno approvato con l’intento di una diffusione capillare in tutti gli Stati membri. Detto ciò, è possibile elaborare una matrice sintetica che mette in luce di minacce, opportunità, punti di forza e di debolezza.

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G. Campagnoli, N. Trabucchi: “Giovani & idee”, Provincia di Novara, 2002

G. Campagnoli: “Città e Comuni: quali azioni per i giovani?” (Rete Politichegiovanili.it 2004), v.http://issuu.com/giovannicampagnoli/docs/citta__e_comuni_ok_ok


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Un’analisi delle politiche giovanili comunali PUNTI DI FORZA • Aver superato le logiche che avevano origina- • to le Politiche giovanili (legate cioè alle emer- • genze, come ad esempio tossicodipendenze, devianze, ecc.). Lo stesso rispetto alle Politi- • che del Lavoro. • Disporre di capitoli ad hoc, quindi annualmen• te rifinanziabili. • Esiste oggi una mission ad hoc per l’assessorato ai giovani, con una specificità riconosciu- • ta. • Essere riconosciuto come un “policy maker” molto vicino alla realtà dei giovani ed alle loro • istanze e per questo potenzialmente apprezzato. OPPORTUNITA’ • Forte sperimentazione come forma di ricerca • di nuove soluzioni. • Maggiore libertà d’azione. • • Maggiore capacità di comunicazione e relazione con i giovani e con l’esterno che facilita • il fare rete (territoriale/locale) • Sperimentare progetti (imprenditoriali) che generano risorse. • Innovare anche rispetto ad interventi che facilitino l’accesso al credito ed alla abitazione per i giovani.

PUNTI DI DEBOLEZZA Scarsità di risorse e poche sinergie. Mancanza di una legislazione (nazionale e regionale) di riferimento. Non sviluppo di Piani integrati ed organici tra Assessorati all’interno del Comune (si agisce con logiche da separati in casa). Poca capacità di fare sistema con le altre agenzie educative cittadine. Carenza di un sistema nazionale o regionale di riferimento (si naviga a vista dando vita ad una artigianalità degli interventi). Difficoltà nell’individuare e riconoscere “lo specifico” delle politiche giovanili e nell’individuare un preciso target di età di riferimento. MINACCE Esclusione dalle opportunità e dall’adozione di riferimenti normativi europei. Esclusione da “grandi opere” di interesse per i giovani, in quanto di competenza di altri assessorati. Possibili tagli di interventi troppo frammentati e low-cost, se non vengono ricompresi in linee tematiche più ampie o in un Piano Giovani Integrato. Fonte: politichegiovanili.it


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