IL MIRACOLO DEL RIUSO di Giovanni Campagnoli Autore di Riusiamo l’Italia. Da spazi vuoti a start up culturali e sociali, Ilsole24ore e responsabile del project management nel Programma Hangar Regione Piemonte. 1. La situazione Il nostro paese è passato, nel giro di pochi anni, da un’Italia formata da persone senza spazi, ad una realtà di spazi senza più persone. Si costruisce con una velocità di consumo del suolo di 8 metri quadrati al secondo1, tra il Dopoguerra ed il 2000 l’urbanizzazione è cresciuta del 400%, mentre la popolazione del 27%. Dato questo incremento di offerta sul mercato (che ne provoca un calo dei prezzi), la svalutazione dei beni immobiliari ha causato una crisi di sovraproduzione, che – come negli Usa ed in Spagna – è stata l’origine di difficoltà complessive nel sistema economico, innescando crisi non solo di fine ciclo, quanto piuttosto strutturali. Non è un caso che questa fase perduri dal 2008 e che oggi il paese si ritrovi un patrimonio di oltre sei milioni di beni inutilizzati o sottoutilizzati (significa più di due volte la città di Roma vuota), tra abitazioni (5 milioni) ed altri immobili pubblici, parapubblici e privati, come ex fabbriche e capannoni industriali dismessi, ex scuole, asili, oratori e opere ecclesiastiche chiuse, cinema e teatri vuoti, monasteri abbandonati, spazi di proprietà delle società di Mutuo soccorso e delle cooperative Case del Popolo, cantine sociali, colonie, spazi comunali chiusi (sedi di quartiere, ospedali, scuole ed altri spazi di proprietà quali lasciti), stazioni impresenziate, case cantoniere non utilizzate, beni confiscati alla mafia, paesi fantasma. E la lista dell’Italia abbandonata a se stessa sarebbe ancora lunghissima. E’ infatti questo lo “skyline” dei paesaggi urbani e delle aree interne, antenne non solo del degrado, ma appunto del fallimento di modelli di sviluppo, sia pubblici che privati2. Questa crescente disponibilità di spazi è dovuta a cambiamenti e trasformazioni dei processi produttivi, con i nuovi concetti di manifattura, andando ad evidenziare che il sistema di produzione/distribuzione dei beni che ha dominato gli ultimi 60/70 anni (con la separazione netta tra produzione, distribuzione, vendita e consumo) potrebbe non essere l’unico, di certo non il più efficiente. Sono tutti segnali di una transizione da un’economia ad un’altra, che in generale indicano la fine di una società basata solo su logiche (e pensieri) industriali e statalisti, sviluppatisi grazie a politiche basate su un approccio “top down”, puntuale, assistenziale, monotematico… Questa situazione rappresenta un enorme “capitale inagito”, proprio perché l’Italia riesce solo in minima parte a mettere a valore il ricco patrimonio culturale di cui dispone (330 miliardi di euro), a cui si aggiunge, ad esempio, quello di proprietà della Chiesa con molti “vuoti” (115.000 edifici per un valore di 1.000 miliardi di euro, il 22% di quello complessivo3). Vi è poi il valore economico dei patrimoni potenzialmente oggetto di lasciti ad istituzioni di beneficenza entro il 2020, che si può stimare in circa 105 miliardi, corrispondenti ai patrimoni di circa 340 mila famiglie, che non hanno figli e parenti, conviventi al momento della morte. Tutto quanto prima descritto, non può non essere considerato anche nei termini di una grande opportunità rispetto ad una operazione di riuso / rigenerazione / valorizzazione. Una opportunità che può contribuire anche all’uscita dalla crisi del nostro Paese, a partire dalla bellezza e dai legami sociali. Anche perché il costo del non intervento (vedi Fig. 1) sarebbe considerevole, sia in termini di perdita di valore del patrimonio (causa fattori di 1
Finiguerra D. (2014), “8 mq al secondo. Salvare l’Italia dall’asfalto e dal cemento”, Emi Milano. Venturi P., Zandonai F. (2016), Le imprese ibride 3 Vedi: Zunino C., “Vaticano spa”, in La Repubblica, 17 maggio 2016 2
degrado, agenti atmosferici), che di oneri fiscali (in aumento nel corso degli anni). Inoltre, se si supera il punto di “non ritorno”, il valore precipita ulteriormente, mentre il riuso è un’azione che già di per sé permette una inversione di tendenza recuperando valore al bene. Non solo: il costo del non intervento, si ripercuote anche sul non realizzare opportunità creative, sociali, occupazionali per una generazione che sempre di più assume anche l’ipotesi di andare all’estero per realizzare i propri desideri. Fig.1: Scenari di rivalutazione da riuso
2. Il riuso degli spazi vuoti ed i processi di rigenerazione creativa Alla luce di quanto descritto nel Par.1, nei territori si stanno attivando interventi sempre più sistemici e integrali, a partire dal basso, grazie ad un attento lavoro sullo sviluppo di legature positive, di alleanze inter-istituzionali, di logiche di rete. Si avviano quindi processi di ricucitura – tra persone, gruppi, istituzioni – attraverso percorsi che potrebbero essere definiti di community building, là dove una comunità non esiste più o non è mai nata, ma anche, più ampiamente, in una città che rischia di perdere il suo capitale in termini di capacità di accogliere ed integrare4. Oppure anche in micro comunità di interesse, magari diffuse sul territorio, ma sempre alla ricerca di spazi capaci di “addensare” questi interessi e trasformarli in esperienze che prendono forma in questi “non luoghi”, che diventano sempre più luoghi. Ad esempio, nelle città, alcune di queste fabbriche dismesse sono state progressivamente sostituite da comunità creative, la cui materia prima è la capacità di immaginare, creare e innovare5. Questo ripensamento di modelli porta avanti anche una diversa concezione delle città e dell’abitare, dove la crescita di spazi ibridi, ora luoghi marginali o residui della storia, segnala che qui si stanno scrivendo pezzi di futuro, fatto di innovazioni, microimpresa e talenti creativi, accompagnato sempre dalla partecipazione e dal coinvolgimento delle comunità. Sono percorsi trasversali per geografia e funzione d’uso originaria degli spazi, spesso parte dei tanti scheletri di edifici ex industriali, caserme, case sfitte o invendute, oltre a strutture pubbliche vuote ed abbandonate e, sempre di più, anche spazi del terziario chiusi (quali negozi, uffici e banche in primis), ma anche cinema, palazzi d’epoca, cantieri, ecc. Quando questi edifici sono al centro di azioni di riuso, presentano una comune vocazione culturale e creativa innovativa, occasioni di nuova socialità e di 4
Cappelletti P., Martinelli M. (2015): “Appunti dalla periferia. Rigenerare la città”, in Welfare oggi, numero 1|2015 pag 65 5 Maccaferri A. (2016), La rigenerazione dei luoghi parte dai community hub, in Nova24 - Il Sole 24ore, 20 settembre 2016.
percorsi partecipativi dal basso. Con un obiettivo: riempire i vuoti di passioni, idee, talento, competenze. A partire dalle periferie delle città, dove il fenomeno del vuoto è più visibile e diffuso, ma solo perché concentrato in una area. Infatti, in realtà, il tema del riuso/valorizzazione dei luoghi riguarda anche piccoli centri, molto anche il Sud Italia, spesso anche aree interne e non solo quelle metropolitane. Questa dimensione legata all’innovazione sociale non presenta infatti aspetti di divide tra Nord e Sud, tra centro e periferie, metropoli e aree interne. Lo dimostrano anche i dati dell’ultimo bando Culturability della Fondazione Unipolis: dei 522 progetti presentati – da quasi 3.000 under 35 – su altrettanti beni da riusare già disponibili, ben un terzo provenivano da Puglia, Sicilia e Campania. Non solo: il 62% di tutti i progetti proveniva da città al di sotto dei 100.000 abitanti, mentre, di quelli provenienti dalle città più grandi, ben il 69% era localizzato nelle periferie. Conferme a questa analisi arrivano anche dai risultati del bando ministeriale “Giovani per la valorizzazione dei beni pubblici” che puntava a sostenere il recupero di spazi comuni nelle quattro regioni del Sud a Obiettivo convergenza, al fine di restituirli al territorio, dando impulso all’imprenditoria giovanile e all’occupazione sociale. Risultati: ben 590 domande pervenute, con il finanziamento di 66 progetti per circa 200mila euro ciascuno… La rigenerazione di spazi urbani di cui qui si tratta non è quindi un intervento dell’archistar, ne una grande opera pubblica (es. il nuovo museo), ne una riqualificazione pianificata a tavolino (dall’Ente Pubblico o dalla grande società immobiliare), ne una concentrazione esclusiva sul contenitore architettonico di moda e da ri-abitare (la gentrification) e nemmeno una azione di rebranding city per la crescita dei flussi turistici di specifiche aree urbane. La rigenerazione è prima di tutto una pratica relazionale tra le persone che prima identificano e poi vivono il contesto dello spazio, attivando percorsi (che procedono per step, progressivamente), aggregazioni, flussi e condensazioni di attività e delle persone, che diventano comunità. Questi spazi diventano luoghi identitari, significativi, bene comuni, quindi capaci di esprimere un modello economico sostenibile ed una governance accettata e riconosciuta. La rigenerazione attiva anche un network tra questi luoghi che formano un ecosistema di innovazione sociale ricco di incontri, scambi e relazionalità positiva. I processi di rigenerazione partono quindi da quel capitale inagito di spazi a vocazione indecisa e ne definiscono le nuove funzioni d’uso, più contemporanee, grazie alla collaborazione attiva di (e tra) persone che desiderano ri-abitare un territorio, dar vita a processi con diversa intensità di partecipazione, ma comunque di protagonismo e cittadinanza, fino a collegarsi ai circuiti della sharing economy, dell’economia leggera, civile. Questi sono percorsi di innovazione sociale, cioè che esprimono un cambiamento del modo di soddisfare bisogni attraverso dei processi creativi, per lo più collettivi. Quindi ci si occupa (e non solo ci si “preoccupa”) dei problemi sociali delle città e dei territori, ricercando soluzioni affidandole all’impresa sociale (dove l’Ente Pubblico è partner, così come il Profit) e dove la creazione di valore avviene grazie alla relazionalità (e non alla “burocrazia”) e quindi in modo orizzontale, su iniziative bottom-up, che prevedono il coinvolgimento attivo dei protagonisti di quel contesto locale. La partenza di questi processi avviene anche con azioni collettive, pubbliche, con una operazione di pulizia (a volte con la giornata di “Puliamo il mondo” di Lega Ambiente), procede per step, con azioni di riuso temporaneo. Prende vita così un progetto di riuso, che è in realtà un “progetto di processo”, quindi è il percorso (cioè la comunicazione, la narrazione, lo story telling): la “gestione dell’attesa”, del “frattempo creativo” che parte dal “subito” e dal “qui e ora” (T.1), anche con piccole attività locali differenziate, procedendo verso una meta finale, non sempre definibile all’avvio (v. Fig. 2).
Fig. 2: Il progetto di processo relativo al riuso di spazi vuoti
L’ipotesi che il progetto sia anche il processo di co-trasformazione (=progettazione e realizzazione) degli spazi prevede percorsi animati attivi che partono dalla fase T1 (ad esempio con delle “calls for ideas”) per coinvolgere in modo pubblico e trasparente i target interessati, garantendo flessibilità in base al “portato” delle idee degli stake holders, prevedendo riusi minimi e temporanei, spontanei, inattesi e non programmati6 (per cui è interessante garantire sempre dello “spazio vuoto”) rispettando la storia dei luoghi e con: interpretazione opposta al concetto di “grande opera” e consegna “chiavi in mano” al “momento” T.7 ricerca di con-senso ed impatti positivi locali (non un progetto sulla fattispecie dell’astronave atterrato lì per caso, ma quello desiderato e co-realizzato dalle persone, a volte anche co-costruito, anche low cost (esiste anche un design ad hoc ed alcuni riusi hanno generato impatti importanti, con un costo al metro quadro di 50 euro7); - gestione attiva dell’attesa della conclusione dei lavori, che procedono per fasi, generando esiti temporanei e “solo per” (es. “cantieri creativi, eventi”), comunicazione, coinvolgimenti (nell’attesa di… si fa qualcosa: es. da T.1 a T.3, che poi evolve e si trasforma quando arriva al momento T.5) - avvio di un cantiere animato locale, che ascolta e cerca alleanze, genera impatti, reti, comunità, individua target (es. urban makers che ricercano servizi, mobilità ed abitazioni coerenti, “low impact” e DIY, creando luoghi di prossimità ed alimentatori di trasformazione, creatività, innovazione, con processi irreversibili ed un passaggio dalla piccola alla larga scala, in quanto queste presenze cambiano i quartieri). Tutto ciò significa avere un progetto di identificazione (strategia) ed adattare la tattica ai vari momenti, rivederla, ecc. (v. Fig. 3). Questi percorsi partono sempre a livello micro, dimostrando però che la piccola scala sa generare grandi impatti, grazie ad un alto coinvolgimento di tante piccole realtà, molto site specific. Il riuso/ rigenerazione non è un progetto che porta con sé logiche speculative e/o 6
E’ il concetto di “serendipity”, un neologismo che indica il trovare una cosa non cercata e imprevista mentre se ne sta cercando un’altra, che però spesso si rivela di valore ed utilità superiore ai propri scopi, ma non se ne aveva coscienza. Sviluppare quindi nelle reti forti capacità di ascolto e coinvolgimento, moltiplica le possibilità che si rivelino queste opportunità inaspettate. 7 Convegno Remixing Cities, Reggio Emilia, 24 settembre 2016.
espansive (e questo non è scontato in Italia…), ma è invece una valorizzazione d’uso, non immobiliare, che si avvia con un presidio, per un city making development. Il successo di queste operazioni è proporzionale all’utilità percepita dal territorio rispetto a queste progettazioni (evitando il rischio della “cattedrale nel deserto”). Si parla anche di co-produzione di nuovo urbanesimo: le persone amano collaborare e cooperare, a un livello “micro”, per dare senso a ciò in cui credono; vogliono dare un senso e creare un impatto positivo negli aspetti di base della vita, come il modo di procurarsi il cibo, l’istruzione, la casa, i trasporti e i vestiti, […] il modo in cui interagiscono e lavorano, la capacità di formare una piccola comunità di 10-15 persone che condividono la stessa motivazione nel riqualificare determinate risorse e, grazie ai social media e alle nuove tecnologie (oltre che ad un network preesistente), si estende la scala dei progetti che si portano avanti, fuori dalla città, magari non grandissima, di riferimento. Quindi, moltissime opportunità possono essere colte da persone che provengono dalle periferie. […] Il fattore critico in questo senso sono i nodi del network che connettono questi percorsi con altri in città più grandi e con le capitali e che possono fornire accesso a grandi fiere e altri importanti hub di interscambio, per poterle presentare, vendere e ritornare nel luogo di provenienza con nuove idee8. In ogni caso, i percorsi di rigenerazione procedono anche con fatiche, loop, dietro front, accelerazioni e riprese (v. Fig.3). Al termine però, gli impatti rilevati sono sempre superiori rispetto alle energie investiste. Fig. 3: Il percorso di riuso e gli impatti
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Rigenerazione urbana, socialità e innovazione: Co-produrre urbanesimo, di Bastian Lange in conversazione con Lorenzo Mizzau (pag. 113), in Mizzau L., Montanari F. (2015), Laboratori Urbani. Organizzare la rigenerazione urbana attraverso la cultura e l’innovazione sociale, Fondazione Brodolini, Roma
3. L’impatto della rigenerazione dei luoghi Si stima che questi processi di riuso di spazi siano circa 5.000 in Italia, capaci di genere un fatturato complessivo annuo di circa 1 miliardo di euro e di coinvolgere circa 100.000 persone, il 53% volontari ed il resto lavoratori (di cui 13% continuativi e 34% temporanei). La dimensione di occupabilità di questi progetti è particolarmente interessante: con una disoccupazione al 40%, interventi di contrasto ancora poco efficaci e budget pubblici in riduzione, le istituzioni sempre meno gestori di spazi e sempre più attivatori, facilitatori, ispiratori, garanti di processi di riuso, legislazioni facilitanti questi percorsi, sono necessari nuovi paradigmi per l’azione, più orientate ai low budget, ad un approccio creativo “meno mattoni, più neuroni9” e ad un metodo di lavoro che sappia “far funzionare le cose” (getting things done) nonostante vincoli burocratici ed amministrativi. Così le nuove generazioni imparano, prima di altre, l’innovazione sociale. Il riuso anche solo del 2% di questo stock di edifici vuoti, permetterebbe di occupare oltre 73.000 giovani, con una media di circa 3 persone a spazio10 (sono state 24.000 le assunzioni record di giovani da McDonald nel 2014). Queste nuove sperimentazioni necessitano di nuovi luoghi, dove si sviluppano nuove economie, vengono rimesse in circolo energie, idee, passioni, talenti, si creano nuove connessioni, si generano ibridazioni tra enti pubblici, che si fanno facilitatori di cambiamento, comunità (anche grazie a nuove leggi), start up culturali e sociali ed aziende private, sempre più sensibili alle responsabilità sociali di impresa. In questi percorsi di riuso, dagli spazi vuoti si sviluppa occupazione reale e vengono messi in campo piani di sostenibilità economica con start up sociali e culturali composte molto spesso da under 35, che puntano alla diversificazione delle entrate, dipendono sempre meno da enti pubblici e sono più autonomi, grazie alla raccolta fondi, alle fondazioni bancarie, alla partecipazione a bandi, alla ricerca e coinvolgimento di nuovi pubblici. Non solo: in queste esperienze emerge la capacità di questi progetti di fungere da moltiplicatore di contributi pubblici, là dove vengono erogati, generando da tre a cinque volte tanto, a partire dal terzo anno di attività. La sostenibilità è un elemento importante in questi percorsi: le organizzazioni devono essere efficienti, costare il meno possibile e fare il meglio in modo efficace. Se non stanno in piedi gli economics, le belle operazioni inciampano e spesso non si rialzano. Il riuso/rigenerazione di spazi vuoti è dunque un fenomeno che si attiva sempre più spontaneamente, sempre più a partire da cittadini che spesso sono gruppi di giovani pionieri o di innovatori culturali e sociali. Sono comunità di persone giovani (non solo nel senso anagrafico), che svolgono professioni creative, sempre labour intensive (es. microlavori creativi, dell’intrattenimento), fondatori di “Botteghe neo rinascimentali” per l’apprendimento di competenze per i nuovi lavori, ricerca, sperimentatori di nuove pratiche di reciprocità /inclusione/ cittadinanza (es. orti sociali, running, pic nic), free lance o start uppers che trasferiscono le proprie attività nell’area. L’innovazione infatti può rappresentare oggi un nuovo ascensore (sociale o tecnologico) per chi vuole emanciparsi salendo dal basso verso l’alto (Fig. 4) nell’affinamento delle competenze o per chi, viceversa, muovendosi dall’alto verso il basso vuole riscoprire o recuperare dimensioni più umane, conviviali e operative. L’avvio di un percorso, a partire da un cantiere (evocativamente anche agenzia di sviluppo), genera anche lavoro, competenze, innovazione. Il cantiere diventa allora “progetto” che agisce nel tempo, o 9
Less bricks, more brains reinterpretando il less bricks, more clicks. Campagnoli G. (2014), Riusiamo l’Italia. Da spazi vuoti a start up culturali e sociali, Ilsole24ore, Milano.
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meglio, nel frattempo, tra il non più ed il non ancora, con un approccio innovativo, ricercando forti impatti sociali e culturali locali, agendo per lo sviluppo del percorso, il coinvolgimento del territorio.
Fig. 4 Innovazione come nuovo ascensore sociale
Tutto ciò rimane ancora sotto traccia, ma – cominciando a guardare anche ai contenuti che prendono vita in questi contenitori – sempre più si ha la sensazione di essere di fronte a segnali di un modello socio economico basato su nuovi paradigmi e valori, che cominciano a delinearsi. Così si assiste alla nascita di fabbriche della conoscenza, di coworking, incubatori ed acceleratori, green building, agricoltura verticale, nuovi luoghi di arte e cultura, di welfare e nuovi sport, spazi per start up, arrivando a forme sempre più spinte di sharing economy (dove l’uso prevale sulla proprietà), di valorizzazione di intangible asset (a partire da conoscenza e formazione), di fonti rinnovabili, di rigenerazione urbana e riuso anche temporaneo, di azioni di social and cultural innnovation. Tutto ciò esprime le direzioni verso le quali si sta andando, senza dimenticare un fatto fondamentale: le esperienze di riuso attivate hanno visto questi luoghi trasformarsi in beni comuni, pubblici, mai privati o per pochi. Prevalgono il cooperare, il condividere (che traspare nei termini co-working, sharing, wiki, crowdfunding) e un approccio interdisciplinare alla soluzione di problemi complessi, dove le conoscenze sono uno strumento e non la soluzione stessa. Tutte queste nuove sperimentazioni sono capaci di originare luoghi che oggi rappresentano vere e proprie botteghe di mestieri e professioni, paragonabili alle botteghe rinascimentali che hanno contribuito all’uscita dalla crisi dell’era precedente (il Medioevo) e formato una classe di innovatori, artisti ed inventori di cui ancora oggi si parla. Botteghe ed artisti nati generalmente in periferia e trasferitisi nelle
città (Leonardo da Vinci, Michelangelo da Caprese). In epoca più recente, una bottega è stata sicuramente anche il mitico garage di Palo Alto di Steve Jobs, con i dischi di Bach e Janis Joplin, i libri di cultura hippie e zen, luogo condiviso con altri colleghi e da cui partì la sua grande avventura. E prima ancora la factory di Andy Warhol, le sale prova dei Beatles, eccetera. In quegli anni la corsa da parte di molti attori era a cercare luoghi esclusivi. Oggi questi progetti innovativi che rigenerano e danno nuova vita a spazi, propongono un mix di più dimensioni, in quanto hanno a che fare con questioni legate a cultura, arte e creatività, innovazione, misurazione dell’impatto sociale, welfare, sviluppo di collaborazione e reti, sostenibilità economica, occupazione giovanile. Oggi le forme e le tipologie del riuso assumono diverse dimensioni: la vocazione dipende molto dalla comunità di progetto che se ne prende cura, dalla mission originaria del luogo, dai vincoli strutturali/ ambientali, dalle forze in campo, dal livello di innovazione introdotta, dal territorio e dai suoi influencer, eccetera. Come detto, la rigenerazione non sviluppa logiche da “opere pubbliche” e “consegna chiavi in mano” del spazio, ma dà vita ad un “cantiere animato”, dove il progetto è anche il processo, creando così - nello spazio e nel tempo - un “ecosistema vivente” tra persone e comunità ed altri spazi. La contaminazione tra il lavoro e la bellezza diventa la caratteristica distintiva di tutte le realtà attive in percorsi di riuso / rigenerazione / valorizzazione. Si sviluppa, in questi percorsi, una cittadinanza creativa / culturale che aspira ad avere uno spazio “affettivo” di lavoro: che sia un castello o una vigna, che sia una villa o un territorio …, deve essere un luogo che mette insieme fatica, bellezza e condivisione e che, a partire da questi temi, ne sia generativo dando senso, costruendo reti e comunità di lavoro creativo che nessun algoritmo e/o tecnologia potrà rendere conveniente sostituire. La centralità del “cantiere” (del processo che si sviluppa grazie alla rigenerazione degli spazi) può anche diventare volutamente “inefficiente”, ma non per questo inefficace, anzi: generare consenso sociale sul progetto, promuovere “scambi” con il territorio, comunicare costantemente con la comunità locale, riduce da subito l’effetto dell’astronave atterrato per caso in un luogo ed in futuro il rischio “cattedrale nel deserto” costruita su una vision di pochi, ma non ritenuta utile dal territorio, che si aspettava altro, ad esempio per le sue necessità. È nell’attivazione di pratiche con le caratteristiche qui descritte (approccio processuale, provvisorio, a steps) che lavoro creativo, rigenerazione urbana, cultura e innovazione sociale, reti sociali, diventano assets che possono contribuire allo sviluppo del Paese.