Io, la Maschera. Apparati

Page 1

GIULIANO ARNALDI IO, LA MASCHERA

ME, THE MASK

02

uaderni ribaligobali


“TUTTO CIO’ CHE AMA IL PROFONDO AMA LA MASCHERA” F. Nietzsche, Al di là del bene e del male. Capitolo 1) Alcune parole chiave per parlare della maschera PERSONA Direi che è la frase di Nietzsche è un ottimo incipit per affrontare un ragionamento sulla maschera: ragionamento sorprendente e per certi versi illuminante a partire da ciò che maschera significa letteralmente. In latino si traduce “ persona”. Sono stati scritti fiumi di parole imbarazzate su questo fatto: crea disagio il fatto che un termine usato in modo qualificante per definire la consistenza ontologica stessa dell’essere umano abbia alla sua origine un oggetto “altro” dalla nobiltà d’animo e dal nostro sentirci ben più di un involucro, derivi da un termine che d’istinto evoca nel linguaggio comune falsità e ignavia. “ Dopo tutto, una bugia cos’è? Nient’altro che la verità in maschera, ” diceva Byron.. Il problema è più complesso fin dalla sua origine. “‹Persona›, in ogni caso, definiva originariamente la maschera che ricopriva il volto «personale» dell’attore e serviva a indicare agli spettatori quale fosse il suo ruolo nel dramma. Nella maschera, imposta dal dramma, c’era però una vasta apertura, più o meno all’altezza della bocca, attraverso cui la voce dell’attore poteva passare e risuonare, nella sua nuda individualità. Ed è proprio da questo «risuonare attraverso» che deriva il termine persona: iil ‹verbo per-sonare›, «risuonare attraverso», è quello dal quale deriva infatti il sostantivo ” “persona›, «maschera».” (Hannah Arendt; “Responsabilità e Giudizio”) E’ evidente quindi che chiunque si ponga seriamente il problema di riflettere su ciò che è, trovi sulla sua strada il tema/maschera, che preferisco iniziare a definire l’archetipo/ maschera. Ricostruendo a ritroso lo studio della complessa relazione tra l’essere umano e la maschera, e partendo come si fa negli scavi archeologici dagli strati più vicini alla nostra superficie temporale, è utile citare Arthur Schopenhauer. “L'uso, comune a tutte le lingue europee, della parola persona per indicare l'individuo umano è, senza saperlo, pertinente: persona significa, infatti, la maschera di un attore, e in verità nessuno si fa vedere com'è; ognuno, invece, porta una maschera e recita una parte.” Appare già la consapevolezza - o la necessità- di un supporto che consenta di governare il mistero della vita e la sua dolorosa complessità. Nel caso di Schopenhauer questo concetto è ancora più definito nella espressione “ velo di maya”, che il filosofo tedesco usa per segnalare l’illusorietà del mondo in cui viviamo : “E’ Maya, il velo ingannatore, che avvolge il volto dei mortali e fa loro vedere un “mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a terra, che egli prende per un serpente” ( Arthur Schopenhaur, Il mondo come volontà e rappresentazione ). Continuando ad “usare l’etimologia come specillo archeologico riscontriamo che con il sostantivo femminile sanscrito māyā (in devanāgarī माया) si indicano diverse dottrine filosofiche e religiose originarie dell'India nonché, come nome proprio, la madre di Gautama Buddha e la dea Lakṣmī. Il significato di māyā è originariamente quello di "creazione", successivamente quello di “illusione”, ma originariamente - mā - nell’accezione di "misurare", "distribuire", "foggiare", "ordinare", “costruire”.


Lo storico dell’Islam Alessandro Grossato aggiunge elementi illuminanti: “ La parola sànscrita māyā esprime ad un tempo le idee di produzione, arte, magia, illusione. Dunque di qualcosa o di un insieme che viene prodotto naturalmente, o mediante procedimento artistico o magico, e che comunque mantiene sempre in sé una natura essenzialmente illusoria. Illusoria, ma, si badi bene, non per questo irreale. Per gli indù, come per molti altri asiatici, anche l’arte e la magia infatti conservano a loro modo dei gradi di realtà relativa, se non proprio assoluta. Di questo dunque si tratta, d’una gerarchia di gradi di realtà, tutti comunque l’uno all’altro collegati, dal più basso al più alto e viceversa. “ http://www.multiversoweb.it/rivista/n-05-svelo/il-‘velo-di-maya’-un’invenzionedell’occidente-605/. Sempre Grosseto - ricordando che nelle Upanishad esiste il simbolo della ‘rete’ divina, jāla, nella quale sono impigliati tutti gli esseri viventi, ciascuno legato dal proprio nodo- introduce implicitamente nella riflessione un elemento profondamente innovativo proprio del concetto di rete e di relazione tra essa e le singole persone, mediante la possibilità di riconoscersi attraverso un linguaggio condivisibile il cui alfabeto è composto da immagini/archetipi che alimentano metafore. Non si tratta soltanto di una suggestiva teoria speculativa: più conosciamo il nostro cervello grazie ai progressi delle neuro scienze, più sappiamo di pensare immagini, e non parole. ARCHETIPI Non si raggiunge l’illuminazione immaginando figure di luce, ma portando alla coscienza l’oscurità interiore. Carl Gustav Jung “La parola "archetipo" significa "immagine originaria", "modello originario" (dal greco archè, origine, principio, e typos, modello, marchio, esemplare) e si contrappone a "stereotipo" (stereos in greco significa solido, rigido, tridimensionale) che significa "copia", "duplicazione", "riproduzione".” Dietro la semplicità di una definizione si cela forse uno dei misteri più profondi dell’essere umano. Che esista una sorta di impronta mnemonica immateriale, non ancora spiegata in modo scientifico, come essa si tramandi e si consolidi e’ ancora un mistero che la scoperta dei neuroni specchio e del loro funzionamento non ha chiarito, nonostante le intuizioni geniali di studiosi come Noam Chomski che fin dal 1969 parla di genetica del linguaggio. In realtà il pensiero umano ha consapevolezza di questo fenomeno e cerca di spiegarlo da sempre. Restando nell’ambito occidentale si può parlare di una sorta di “rivincita di Pangloss” “per il matematico e filosofo tedesco Leibniz, sbeffeggiato addirittura da Voltaire nel Candido . Il pensatore illuminista usa la figura immaginaria del dottor Pangloss per ridicolizzare per il pensiero leibniziano circa l’esistenza di una sorta di alfabeto universale condiviso che si manifesta attraverso la forma espressiva della metafora. Per la verità già Platone parla di Mondo delle Idee di cui noi non cogliamo che l’ombra..in qualche modo sembra che quando l’uomo riflette sul se’ più profondo intuisca un Altro che si manifesta in modo incomprensibile, tumultuoso e sopratutto impegnativo, e che questo manifestarsi avvenga attraverso il il ri/conoscimento di elementi archetipici che sedimentano in un inconscio personale e collettivo.. C’e’ quindi l’intuizione di gradi diversi di realtà, e il bisogno di comprenderli per governarli secondo le necessita’ dell’esistenza. Lo sviluppo degli studi sul pensiero magico fornisce ulteriori elementi su questo aspetto.


PENSIERO MAGICO E PENSIERO RAZIONALE “Pensiero magico e pensiero razionale si configurano come due strutture mentali conviventi nella mente adulta , due forme di pensiero in costante interazione nella quotidiana sperimentazione della realtà, entrambe presenti nell’uomo occidentale come in quello delle popolazioni primitive, sebbene la struttura del pensiero magico resti più evidente e facile da studiare nelle civiltà “primitive e quella del pensiero razionale in quelle popolazioni che vivono nei Paesi Occidentali e più “moderni (Lévy-Bruhl L., 1966 ).” Si può dire che il pensiero razionale cerca sempre cause logiche rintracciabili nello spaziotempo, mentre il pensiero magico ravvisa una “coincidenza tra il tutto e le sue parti, anche quando essi vengono separati”( De Martino E., 1948) Ma come spiegare l’intuizione geniale della ruota, o della possibilità di costruire macchine volanti.? Una persona cara mi fece notare un errore che condividevo con molti: l’affermazione che l’uomo abbia imparato a volare. Effettivamente non e’ l’uomo a volare, ma i dispositivi che ha inventato e che gli consentono di sollevarsi da terra fin su nello spazio. L’uomo non vola... Tornando alla affermazione di Levy-Bruhl sopra citata, mettiamo nel conto che una crescita esponenziale dei saperi possa offuscare il sapere..fuor di metafora, ad esempio, quanti medici contemporanei saprebbero curare banali malanni dopo un black out elettrico anche solo di una settimana? Oppure, quante informazioni oggi digitalizzate su cd, hard disk sopravviveranno alla sfrenata evoluzione dei supporti tecnologici ( dal vhs al cd, al dvd, alla pen drive, al cloud...) e saranno trasmissibili? Difficile immaginare una sorta di adeguata Stele di Rosetta... siamo giganti con i piedi d’argilla senza la consapevolezza della necessita’ di mantenere una “una sorta di umana semplicità, e avremo sempre bisogno di una maschera che ci aiuti ... SINESTESIA E GESTALT Sono forse le definizioni strumentali più utili nella comprensione della maschera e nella relazione con essa. 1. Sinestesia. Con questo termine si definisce la fusione in un'unica sfera sensoriale delle percezioni di sensi distinti . Un approccio sinestetico è certamente utile in ogni esperienza. mettere in campo tutto ciò di cui si dispone e’ evidentemente utile, anche se nella nostra parte del mondo non siamo abituati a pensare ad olfatto, tatto e gusto come a strumenti per conoscere..siamo abituati ad affidare alla vista e all’udito il compito prevalente di assorbire stimoli conoscitivi. Questo approccio ci impoverisce. Conoscere infatti dovrebbe servire a vivere meglio più che ad accumulare nozioni ancorché utili, il fine ultimo e’ il ben/essere e non il ben/avere... e toccare, odorare, gustare non solo approfondisce la conoscenza, ma la qualifica emozionalmente. Non a caso siamo portati a conoscere per curiosità, istinto atto a soddisfare un desiderio, che può definirsi bisogno di armonia. Certamente possiamo dire che l’armonia, che considero sinonimo di bellezza, e’ il contesto nel quale risulta più facile essere bene/stante ( usando questa definizione in senso ontologico più che economico..) ma non dimentichiamo che la definizione greca di harmonia indica accordo, proporzione, implica “cioè un insieme di fattori che si possano percepire in modo equilibrato. Quando siamo chiamati a dare il meglio di noi la necessità di mettere in campo ogni senso passa in secondo piano, forse addirittura una sorta di cecità ontologica affina un senso e lo “porta ad andare oltre la compensazione del limite contingente: penso all’uomo di Vitruvio che sembra dire : so di essere questo, di agire nel limite delle misure del mio corpo ma comprendo di essere dentro ( letteralmente inscritto nel caso del disegno di Leonardo) qualcosa di più grande di me, di cui intuisco una profonda diversità


che per altro mi appartiene. “ Dico diversità perché non credo che in natura esista nulla di perfettamente quadrato o di perfettamente circolare..E’ il genio dell’uomo ad avere inventato forme che danno comprensibilità all’incomprensibile. Per altro l’approccio sinestetico resta fondamentale in ogni esperienza umana di cui si voglia fare tesoro, ed è fondamentale per affrontare i problemi della vita in modo resiliente. Essere consapevoli di avere cinque sensi a disposizione è sopratutto utile quando uno di questi sensi viene a mancare. Recentemente, nel preparare una serie di laboratori sonori ho scritto: “ Il nostro tempo è caratterizzato da un gigantesco bombardamento di stimoli : alcuni sensi - vista, udito, per certi versi il tatto in relazione all’uso delle tastiere di smartphone e computer sono sotto pressione giorno e notte. L’esperienza del buio e del silenzio e’ sempre più rara. In compenso l’olfatto è sempre meno stimolato da odori “naturali e più permeabile a sostanze non naturali e spesso nocive presenti nell’aria che respiriamo. Questo fenomeno crea una sorta di fastidioso rumore di fondo che può produrre una riduzione delle capacità percettive e un conseguente impoverimento del nostro stesso essere umani. Sono i sensi infatti a proporci - sotto forma di visioni, suoni, odori, gusti, relazioni tattili ciò che elaboriamo, ed è in quella elaborazione che troviamo l’opportunità di affrontare la vita in modo resiliente. 1.a. Udito . Sto riflettendo sull’udito: ho un problema di sordità all’orecchio destro, e come sempre accade ti rendi conto di ciò che hai quando rischi di perderlo. Per questo motivo ho approfondito un aspetto dei linguaggi dell’arte primaria che mi ha sempre interessato. Il linguaggio dei tamburi. La percussione , insieme al fiato, è una delle forme espressive più ancestrali . L’uomo d’istinto batte le mani da sempre, le usa per produrre suoni, e con essi comunica a se stesso e agli altri notizie ed esperienze, manifesta e governa stati d’animo. E nel fare ciò attiva un sistema che interagisce con quella complessa macchina che è l’essere umano. Un grumo di impulsi passa attraverso il nostri sistema nervoso e muscolare, viene istintivamente ordinato e genera “una tensione che si manifesta attraverso il battito delle mani. Questo insieme di attività neuromuscolare si fa memoria in noi per ciò che ci rappresenta, o meglio per ciò che ha tirato fuori dal profondo della nostra mente. E lascia una traccia, attraverso la quale noi diamo testimonianza di esistere, a noi stessi e agli altri. Oggi sappiamo che la capacità di adattamento è ciò che preserva ogni specie dall’estinzione. Anche le lumache, ad esempio hanno imparato nel tempo a “colorare” il loro guscio in modo che si mimetizzi con l’habitat nel quale vivono e consenta loro “di essere una preda meno facile. Ma si può dire che la qualità della resilienza sia ciò che veramente rende una specie più forte delle altre, e nella nostra specie, quella umana, tale qualità ha raggiunto livelli di complessità ancora incomprensibili . In poche parole, ecco il mistero della vita. Ed ecco perché questa profonda, umanissima attitudine alla resilienza ci spinge ad indagare l’ignoto, a elaborare risposte. Io chiamo questo bisogno di risposte Arte.” 1.b. Vista. Si può’ guardare, si può vedere, si puo’ osservare. Sono approcci diversi. VEDERE deriva dal latino “videre” ed indica il percepire con gli occhi, cogliere con la facoltà della vista. GUARDARE proviene dal francane “wardon” (stare in guardia). Parte sempre dalla vista ed è un soffermare lo sguardo su qualcosa. L’etimo è illuminante, guardare è una funzione di difesa. OSSERVARE ha radici latine, la parola “observare” è composta dal prefisso “ob-” e “servare” (custodire, considerare). Etimologicamente sarebbe il verbo più adatto per definire la necessita’ di uno sguardo profondo, ma nel linguaggio comune mi pare definisca un uso più asettico, distaccato . Preferisco usare l’espressione. “sapere vedere”, andando al concetto di sapienza cieca.


Sono interessanti i molteplici riferimenti alla sapienza cieca e profetica nella “nostra cultura : la tradizione Ebraica e Cristiana propongono la guarigione dalla cecità come segno rivelatore del Messia ( Isaia, 35, 5 e Giovanni 9,1-41) e una importante riflessione sulla cecità reale di chi non vuol vedere, oltre che sulla percezione dell'handicap - o meglio della diversità- come valore aggiunto oltre che come problema. Anche la tradizione islamica e più precisamente Sufi associa - ancorché in modo speculare- saggezza trascendente e cecità: si veda "L'elefante nella casa buia", che si trova nel Mathnawi , e questa versione più antica del Maestro Rumi Hakim Sanai, che si trova nel primo libro del suo classico sufi, il Giardino cintato della verità. Sanai morì nel 1150: "Al di là di Ghor si estendeva una città i cui abitanti erano tutti ciechi. Un giorno, un re arrivò da quelle parti, accompagnato dalla sua corte e da un intero esercito, e si accamparono nel deserto. Ora, questo monarca possedeva un possente elefante, che utilizzava sia in battaglia sia per accrescere la soggezione della gente. Il popolo era ansioso di sapere come fosse l'elefante, e alcuni dei membri di quella comunità di ciechi si precipitarono all'impazzata alla sua scoperta. Non conoscendo né la forma né i contorni dell'elefante, cominciarono “a testarlo alla cieca e a raccogliere informazioni toccando alcune sue parti. Ognuno di loro credette di sapere qualcosa dell'elefante per averne toccato una parte. Quando tornarono dai loro concittadini, furono presto circondati da avidi gruppi, tutti ansiosi, e a torto, di conoscere la verità per bocca di coloro che erano essi stessi in errore. Posero delle domande sulla forma e l'apparenza dell'elefante, e ascoltarono tutto ciò che veniva detto loro al riguardo. Alla domanda sulla natura dell'elefante, colui che ne aveva toccato l'orecchio rispose: "Si tratta di una cosa grande, ruvida, larga e lunga, come un tappeto". Colui che aveva toccato la proboscide “disse: "So io di che si tratta: somiglia a un tubo dritto e vuoto, orribile e distruttivo". Colui che ne aveva toccato una zampa disse: "E' possente e stabile come un pilastro". Ognuno di loro aveva toccato una della tante parti dell'elefante. La percezione di ognuno era errata. Nessuno lo conosceva nella sua totalità: la conoscenza non appartiene ai ciechi. Tutti immaginavano qualcosa, e l'immagine che ne avevano era sbagliata. La creatura non sa nulla della divinità. Le vie dell'intelletto ordinario non sono la Via della scienza divina." Ci soffermiamo però sul mito Tiresia perché è forse l'esempio più noto. E' evocato da Ovidio e Dante , la parola greca "prophetés" ( profeta) significa, "colui che parla in nome di", oppure "colui che parla davanti a"; pro significa davanti e non "prima" e phemì significa parlare: la parola profetica non è quindi una "magica" anticipazione di fatti ma una parola svelata per conto di una Entità Superiore, al fine di comprendere e governare di conseguenza la quotidianità. Inoltre il mito di Tiresia , almeno nella versione che ne danno Ovidio nelle Metamofosi ( libro terzo, 316/338) e Stazio nelle Tiberiadi, rimanda alla esperienza della transessualità connessa all'esperienza della conoscenza più che a “quella erotica: " Il mito racconta che passeggiando sul monte Cillene(o secondo un'altra versione Citerone ) vide due serpenti che copulavano, ne uccise la femmina perché quella scena lo infastidì. Nello stesso momento Tiresia fu tramutato da uomo a donna. Visse in questa condizione per sette anni provando tutti i piaceri che una donna potesse provare. Passato questo periodo venne a trovarsi di fronte alla stessa scena dei serpenti. Questa volta uccise il serpente maschio e nello stesso istante ritornò uomo.


Un giorno Zeus ed Era si trovarono divisi da una controversia: chi potesse provare in amore più piacere: l’uomo o la donna. Non riuscendo a giungere ad una conclusione, dato che Zeus sosteneva che fosse la donna mentre Era sosteneva che fosse l’uomo, decisero di chiamare in causa Tiresia, considerato l'unico che avrebbe potuto risolvere la disputa essendo stato sia uomo che donna. Interpellato dagli dei, rispose che il piacere sessuale si compone di dieci parti: l’uomo ne prova solo una e la donna nove, quindi una donna prova un piacere nove volte più grande di quello di un uomo. La dea Era, infuriata perché l’indovino aveva svelato un tale segreto, lo fece diventare cieco, ma Zeus, per ricompensarlo “del danno subito, gli diede la facoltà di prevedere il futuro e il dono di vivere per sette generazioni. In altre versioni del mito fu la stessa madre a chiedere il dono della profezia, dopo che la dea Atena lo aveva accecato per punirlo di averla vista nuda mentre si faceva il bagno." ( Wikipedia). Concludendo, “l’essenziale e invisibile agli occhi”. 1.c. Olfatto. Renato Minore, sul Messaggero del 4 agosto 2015 ripercorre una sintetica ma efficace storia dell’olfatto nella letteratura: “ Il contadino delle “Nuvole” di Aristofane ” “passa la prima notte di nozze sentendosi addosso un che di mosto, fichi secchi e lana. Sul davanzale che si affaccia su più di otto secoli di poesia italiana, c’è «la rosa fresca aulentissima» di Cielo d’Alcamo. Don Chisciotte sente dolcissima e irresistibile la fragranza che emana dalla bella Dulcinea che però, per lo scudiero Sancho, è solo odore di pesce guasto, questione di naso e di allucinazione, di punti di vista o di olfatto. Presa dal languore, la Signora Bovary chiude le palpebre per aspirare il profumo di vaniglia e limone, essenza forte della barba e dei capelli di Rodolphe, suo prossimo amante. Quando torna a casa dai suoi viaggi fantastici, Gulliver ha rifiuto per un anno della realtà, l’odore di sua moglie. Belli ricorda certo inconfondibile “profumo d’ovatoste, “ “ avvisi sordi de scorreggia muta”, il principe Fabrizio Salina di Tomasi di Lampedusa s’inebria nelle fragranze del suo giardino di cui ricorda però un certo recente lezzo di cadavere. Caproni ha ancora nelle narici la «scia di cipria, che non finiva», lasciata nel buio da Annina, l’indimenticabile madre, così come il Törless di Musil s’inebria per quella del corsetto della sua. E c’è anche il “biscottino nel tè”, “a memoria che sa associare un profumo a un momento della vita, la "madeleine" e il recupero di un "tempo perduto" per Proust che occupa il primo posto nella hit parade del genere. 1.d. Tatto. Forse possiamo dire che e il più sensuale ed affettivo dei sensi. Quando una relazione affettiva si fisicizza attraverso il tatto c’è azione diretta , assunzione di responsabilità personale, e non solo nella relazione sessuale. Dice la Catechista Francesca Ferrazza (http://www.nostrasignoradelsacrocuore.it/public/catechesi/ francesca200518.pdf) “ Il tatto, nella vita materiale, è considerato il più rozzo dei sensi perché offre una conoscenza limitata della realtà. Rispetto agli altri sensi non ha una sede unica e precisa: è sparso sull'intera superficie corporea, permette di avvertire sensazioni diverse (caldo, freddo, ma anche paura, disagio, piacere...). È il più elettrico fra i sensi ed è il primo che si sveglia nel grembo della madre. Tra i sensi spirituali è, secondo i mistici, tra i quali S. Bonaventura, il più fine, quello che più ci avvicina a Dio è quello che permette l’incontro concreto con Lui. Tanti santi di ogni tempo hanno chiesto a Dio che toccasse la loro pelle fino a sconvolgerla e a inebriarla, così come “ Nella Bibbia, all'atto del “toccare” viene assegnata una molteplicità di significati e di funzioni. La mano è l'organo del corpo che è citato più di ogni altro, oltre millecinquecento volte. Il Dio dell’Antico Testamento, molte volte, stende la sua mano per colpire e punire. In Es 3:20 si legge: “Io stenderò la mia mano e colpirò l’Egitto”, preannunciando le dieci piaghe mandate contro il popolo che aveva reso schiavi gli Ebrei e culminate con lo sterminio di tutti i primogeniti. Nel Vangelo di Matteo, queste dieci piaghe si “trasformano” in dieci


miracoli compiuti da Gesù, nuovo Mosé, che, mostrando il vero volto del “Padre che, quando stende la mano, lo fa sempre per portare guarigione e liberazione. Il Dio dell’Antico Testamento stende la sua mano, in prima persona o attraverso i suoi angeli, anche per purificare, infondere sicurezza e coraggio. Il Signore tocca la bocca del profeta Geremia, prima di affidargli la sua missione (Ger 1,9s.). Un angelo tocca Elia, ormai allo stremo delle forze, e gli ordina di mangiare (1 Re 19,4-6). Un altro angelo, un serafino, con in mano un carbone ardente, tocca la bocca di Isaia, cancellando ogni sua iniquità, poiché è stato scelto come profeta (Is 6,6). Allo stesso modo, «uno con sembianze di uomo» tocca le labbra di Daniele, prostrato da una lunga penitenza, e gli rende le forze (Dn 10,16-19). Osea è il profeta del tatto, per eccellenza, dell'infinita delicatezza di Dio: «Quando Israele era giovinetto, io l'ho amato e dall'Egitto ho chiamato mio figlio. [...] Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano... (Os 11,1.3-4). Nel Nuovo Testamento, il verbo 'toccare' ricorre più di trenta volte nei racconti di guarigione dei Vangeli Sinottici. Gesù stende la mano e tocca un lebbroso: «E subito la sua lebbra scomparve» (Mt 8,1-4). Era vietato “toccare un lebbroso, ci si contaminava, ci si rendeva impuri, ma Gesù lo fa, lo tocca, se ne prende cura, gli fa sentire il Suo Amore attraverso cui passa la guarigione Tocca la suocera di Pietro, che “giaceva a letto con la febbre”, quella che le impediva di mettersi a servizio, per rialzarla ed indicarle la via per imitarlo, con il servizio, appunto. “Tutta la folla cercava di toccarlo”, nota l'evangelista Luca (6,19), “Perché da lui usciva una forza che sanava tutti”. Nei racconti di guarigione, il tatto si fa gesto sacramentale, segno di misericordia, di benevolenza, di tenerezza: testimonianza di ciò che i Padri della chiesa d'Oriente chiamano «divina filantropia», l'amore infinito di Dio per gli uomini. E qui non possiamo non ricordare questa bellissima citazione tratta dal Vangelo di Giovanni: “Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio.”(Gv.10,28-29 )...C'è anche un toccare che, però, è segno di poca fede, di incredulità, come nella scena del dubbio di Tommaso (Gv 20,24-29) in “n cui il tatto si rivela un senso estremamente carnale e si trasforma in un bisogno di prove tangibili a supporto di una fede che non può definirsi tale se non si “mette in gioco”, a prescindere da ogni cosa e che vede e sperimenta miracoli proprio a partire dal momento in cui viene “trafficata” : “Non vi ho detto che, se crederete, vedrete la gloria di Dio?”. Questo porta alla beatitudine, alla felicità, che Tommaso non ha sperimentato. “Beati coloro che crederanno, pur non avendo visto (e toccato!)” Toccare non vuol dire “trattenere”. E’ quello che Gesù dice a Maddalena nel giardino della Resurrezione: “Non mi trattenere” (Gv.20,16-17). ...L’ imposizione delle mani non è solo un gesto che porta guarigione, ma è un segno di mandato. Si impongono le mani sul capo per “attivare” lo Spirito Santo sceso nel giorno del Battesimo, che porta a trafficare doni e Carismi che ci sono stati donati.” “Un altro gesto legato all’ accoglienza è l’ abbraccio, un gesto semplice che dona benessere a chi lo dà e a chi lo riceve,”.... “Salutatevi con il bacio santo”, dice la Scrittura. Il bacio è un contatto labiale che appartiene al simbolismo universale dell'amore e dell'adorazione. Adorare, infatti, deriva dal latino ad-os/oris (= portare alla bocca, alle labbra). ..Si usa il tatto anche per la MISTAGOGIA dell’ UNZIONE, L’olio, imbevuto in un batuffolo di cotone, e’ utilizzato per segnare con il segno della vittoria, quello della croce, la nostra fronte.” 1.d Gusto. Torniamo a Proust, che per la Ricerca del tempo perduto si affida alla memoria gustativa “ Sento in me il trasalimento di qualcosa che si sposta, che vorrebbe salire, che si è disormeggiato da una grande profondità; non so cosa sia, ma sale, lentamente;


avverto la resistenza e odo il rumore degli spazi percorsi… All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di madeleine che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio.” Se preferite, ecco l’Ode al pomodoro di “Pablo Neruda: La strada si riempì di pomodori, mezzogiorno, estate, la luce si divide in due metà di un pomodoro, scorre per le strade il succo. In dicembre senza pausa il pomodoro, invade le cucine, entra per i pranzi, si siede riposato nelle credenze, tra i bicchieri, le matequilleras la saliere azzurre. Emana una luce propria, maestà benigna. Dobbiamo, purtroppo, assassinarlo: affonda il coltello nella sua polpa vivente, è una rossa viscera, un sole fresco, profondo, “inesauribile, riempie le insalate del Cile, si sposa allegramente con la chiara cipolla, e per festeggiare si lascia cadere l'olio,


figlio essenziale dell'ulivo, sui suoi emisferi socchiusi, si aggiunge il pepe la sua fragranza, il sale il suo magnetismo: sono le nozze del giorno il prezzemolo issa la bandiera, le patate bollono vigorosamente, l'arrosto colpisce con il suo aroma la porta, è ora! andiamo! e sopra il tavolo, nel mezzo dell'estate, il pomodoro, astro della terra, stella ricorrente e feconda, ci mostra le sue circonvoluzioni, i suoi canali, l'insigne pienezza e l'abbondanza senza ossa, senza corazza, senza squame né spine, ci offre il dono del suo colore focoso” e la totalità della sua freschezza.

Per approfondire la bibliografia sui sensi si veda http://www.comune.torino.it/cultura/biblioteche/ricerche_cataloghi/pdf/bibliografie/ sensi_lettura.pdf La maschera e’ più di ciò che appare. Un approccio sinestetico al concetto di archetipo/ maschera così come alle maschere stesse - e possibile grazie alla sua Gestalt. 2. Gestalt. Dal tedesco, letteralmente “forma”. L'idea portante dei fondatori della psicologia della Gestalt, e’ che l'insieme sia differente e altro [e non maggiore


quantitativamente né migliore qualitativamente] rispetto alla somma delle singole parti. Aggiungerei che esiste un potere della forma, come del segno, della materia, del colore. Non a caso usiamo espressioni come umore nero, carattere spigoloso, solida affidabilità etc. e non abbiamo bisogno di macchinari per rendere evidente il nostro pensiero e comunicarlo.” Capitolo 2 ). Il contesto della maschera. Per agire la maschera ha bisogno di un contesto adeguato, di elementi favorevoli. Il primo e fondamentale elemento e’ l’essere umano, sia quello che indossa la maschera che quelli che con essa sono chiamati ad interagire. Ma di cosa e’ fatto l’elemento uomo? Cosa c’e nella carne, nel sangue, nel materiale organico che ci distingue da altri esseri viventi? Sogno/ trance/ transfert. 1. Sogno. Approfondiamo il metaforico scavo che stiamo compiendo . Prospero, ci ricorda che “Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita” (W. Shakespeare, La tempesta, atto IV, scena I). Resto sempre affascinato e stupito davanti alla potenza illuminante di questo pensiero che trovo letteralmente profetico. Sembra dimostrare che la mente umana può com/ prendere con un lampo del cuore la complessità del mistero della vita, e financo rappresentarla e trasmetterla. Questo è il nodo: intuiamo il trascendente e cerchiamo di fermarlo nell’immanente con tutto ciò che siamo. Quando siamo chiamati a dare il meglio di noi la necessità di mettere in campo ogni senso passa in secondo piano, forse addirittura una sorta di cecità ontologica affina un “senso e lo porta ad andare oltre la compensazione del limite contingente: penso all’uomo di Vitruvio che sembra dire : so di essere questo, di agire nel limite delle misure del mio corpo ma comprendo di essere dentro ( letteralmente inscritto nel caso del disegno di Leonardo) qualcosa di più grande di me, di cui intuisco una profonda diversità che per altro mi appartiene. “ Dico “diversità perché non credo che in natura esista nulla di perfettamente quadrato o di perfettamente circolare..E’ il genio dell’uomo ad avere inventato forme che danno comprensibilità all’incomprensibile. 2. Trance. “ La trance è uno stato psicofisiologico caratterizzato da fenomeni quali insensibilità agli stimoli esterni, perdita o attenuazione della coscienza, dissociazione psichica, che può essere indotto mediante ipnosi o autoipnosi. Alcune persone – sensitivi, sciamani, medium ecc. – riuscirebbero ad ottenerlo spontaneamente.” ( Wikipedia). Non dimentichiamo pero’ l’origine della parola: dal latino transire, cioè attraversare, passare Nella accezione comune e’ uno stato d’animo, una specie di sogno ad occhi aperti. Cambia la percezione della realtà, qualcosa ci porta in un mondo parallelo che si interfaccia con quello reale, dove il peso specifico degli elementi concreti cambia in relazione alla potenza di una specifica sensazione, che può essere subita o indotta. E’ uno stato fondamentale per chi interagisce con la maschera, a cominciare da chi la indossa, che diviene altro da se, o meglio approfondisce e potenzia un se interiore che emerge. Non c’e schizofrenia, e forse nemmeno dualità’ : ci vuole attitudine per indossare una maschera, che lo si faccia per una festa di Carnevale, in una danza balinese o dentro un rito ancestrale “nella foresta congolese.. 3. Transfert. “ Il transfert (o traslazione) è un meccanismo mentale per il quale l'individuo tende a spostare schemi di sentimenti, emozioni e pensieri da una relazione significante passata a una persona coinvolta in una relazione interpersonale attuale.” ( wikipedia). Non e’ solo un processo terapeutico usato nella psicanalisi. A ben vedere qualunque azione artistica slatentizza, sposta schemi emozionali interiorizzati in un nuovo contesto, ed agisce sempre sulla singola persona. Anche il pubblico di un concerto, pur interagendo in


modo collettivo allo stimolo della musica, sente quella comunicazione emozionale in se e per se, cosi come ogni dipinto, ogni scultura che l’artista fa per se e’ comunque destinato e goduto singolarmente da ciascun osservatore. A maggior ragione la maschera “trasferisce” contenuti emotivi evocati da chi la indossa, per se e per il suo pubblico.” Capitolo 3 ). La sua funzione Ma torniamo all’archetipo/maschera e a Nietzsche. Con gli strumenti del pensiero filosofico egli rappresenta il problema tra essere e apparire, l'impossibilità di giungere ad uno stato di coincidenza assoluta tra essenza e coscienza, tra la natura e lo spirito. Individua nel mondo classico il bisogno di ordine e serenità che in qualche modo la maschera incarnerebbe, pur evidenziandone la frustrazione derivante dalla impossibilità di giungere ad una armonia reale tra due impulsi dell’anima, insomma di quadrare il cerchio… “ Nella “Nascita della tragedia” Nietzsche attribuisce alla maschera la rappresentazione del dolore e alla sofferenza stessa dell'uno primordiale, e della sua volontà. In seguito egli riformulerà questo concetto non pensando più al travestimento come ad una esigenza naturale ma come deliberata risposta ad un bisogno, al raggiungimento di uno scopo. Nell'uomo moderno il travestimento è funzionale a superare uno stato di paura e di debolezza perché davanti al divenire, l’uomo risulta incapace di creare la storia. E ragionando su ciò che le maschere in genere comunicano, non mi vengono in mente maschere allegre ..alcune, come le maschere dei Punu del Gabon trasmettono una profonda serenità, ma anche le maschere pensate per esprimere gioia sembrano evocare “ più un ghigno che una espressione gioiosa. Parafrasando il poeta contemporaneo Miguel Ángel Arcas si potrebbe dire che una maschera non nasconde un volto, nasconde una ferita. Capitolo 4.) Conclusioni L’UOMO E’ MENO SE STESSO QUANDO PARLA IN PRIMA PERSONA. DATEGLI UNA MASCHERA, E VI DIRA’ LA VERITA’. ( Oscar Wilde) Mi sembra il modo più elegante per affermare una semplice verità. Come usiamo abiti per difenderci dal freddo, la maschera diventa indumento (1) che protegge dalla spietata e tumultuosa potenza degli elementi fisici e mentali nei quali siamo chiamati a vivere. Dove la maschera è patrimonio culturale ancestrale profondo ( e quindi prevalentemente in paesi extraeuropei (2) ciò è più evidente: non è la maschera in sé ad avere potenza, bensì la sua interazione con chi l’ha fatta ( in molte culture lo sciamano stesso che la userà, in altre un soggetto comunque portatore di saperi ancestrali ) e con chi la porterà, anch’egli investito quantomeno della energia che deriva dal volere usare la maschera stessa. In fondo è tutto qui: in un mondo più grande di noi cerchiamo di darci un metodo interattivo per non perderci e lo facciamo dando corpo mentale anche ad oggetti che diventano elementi per vedere l’invisibile e provare a governarlo. 1) Voce dotta, dal latino tardo indumentum 'vestito, involucro', derivato del verbo indùere 'indossare, avvolgere', ipoteticamente composto del verbo non attestato uere ‘mettere’. 2) In realtà esistono sotto traccia esempi significativi anche nel nostro mondo: i riti legati ai Mamutones in Sardegna ne sono un esempio.


MASCHERE CHE SI CHIAMANO MASCHERE Mi hanno incuriosito due casi di maschere che si chiamano letteralmente maschere, sia nel senso che la traduzione dalle antiche lingue originali coincide con la funzione dell’oggetto, sia in quanto oggetti rituali che parlano innanzitutto a loro stessi, cioè si chiamano. IL CASO DEI SONGYE Questo antico popolo che vive in quella che oggi si chiama Repubblica democratica del Congo vede nei propri vasti apparati rituali l’uso delle Kifwebe, termine che nella lingua Songye significa letteralmente maschere. La visone del mondo di questo popolo, come quasi sempre avviene nelle culture extraeuropee di origine animista, viene regolata da organizzazioni comunitarie chiamate società segrete. In occidente questo termine ha un significato diverso. Per quelle popolazioni sono strutture di amministrazione e controllo sociale, fondate sul sistema di credenze e di valori su cui si fonda la comunità, su una base che potremmo definire religiosa. Non sono necessariamente l’espressione della gerarchia politica, ma anzi ne legittimano il potere. La società maschile Songye Bwadi Bwa svolge funzioni di controllo e di ordine attraverso l’uso della magia ( buchi) e della stregoneria ( masende). I poteri della buchi e del masende si manifestano attraverso la danza delle Kifwebe ( che come già detto significa letteralmente maschera ) “La differenza tra Buchi e Masende consiste nel fatto che la prima e’ tendenzialmente innata o ereditata e non e’ necessariamente rivolta al male, la seconda e’ una tecnica accessibile a tutti attraverso l'iniziazione (forzata o volontaria) e attivata attraverso sostanze materiali e tecniche che coinvolgono gli spiriti maligni dei morti, potendo quindi essere usata con finalità malvagie. Si ritiene che il potere delle maschere fornisca ricchezza e abilità soprannaturali ai membri di Bwadi Bwa Kifwebe. Le fonti indicano anche il loro uso durante riti di iniziazione e cerimonie funebri dei capi, riti di iniziazione dei giovani ragazzi e anche nelle riunioni segrete della società. Nelle maschere Kifwebe forma, segno e colore sono particolarmente significativi . Le maschere femminili kikashi sono più morbide nelle forme, sprovviste di cresta, Solo la bocca e’ vistosamente pronunciata, secondo alcuni studiosi per ricordare la necessita del silenzio iniziatico, secondo altri per evocare elementi zoomorfi riferibili ad animali totemici. Il tratto ricorda il labirinto iniziatico, il colore bianco la serenità del mondo degli spiriti. Le maschere maschili kilume si distinguono per un motivo striato di tre colori. La dimensione della cresta determina il potere magico della maschera. Le maschere maschili sono famose per le loro “forme esagerate distintive. Formata in modo aggressivo con occhi sporgenti, bocche sporgenti e potenti creste, e le maschere degli anziani incarnano il massimo potenziale e forza e sono chiamate Ndoshi. Le forme dinamiche simboleggiano il livello di potenza, o grado della figura mascherata. Si tratta di un sorprendente esempio di linguaggio metaforico, semplice nella potenza evocativa data alla esasperazione delle forme e dalla essenzialità dei colori. L’evidenza archetipica di queste maschere ha istintivamente portato gli storici dell’arte a definirle non a caso cubiste. DUNJA HERSAK , professore associato di storia dell'arte africana all'università Libera de Bruxelles ha scritto molto su Kifwebe “C'erano maschere maschili e femminili e diverse gerarchie di potere. Le maschere maschili si distinguevano per le loro striature tricolore, in particolare la presenza di pigmentazione rossa e l'altezza delle loro creste. La cresta più prominente era propria della maschera dell'anziano, un grado che segna un risultato superiore nella manipolazione e nell'esperienza magiche, specialmente nella masende (stregoneria), e quelle minori costituivano la serie di maschere giovanili, tutte con poteri variabili. “ l’iconografia delle maschere e il loro modo di presentarsi determinava sicuramente il


potere e il conseguente effetto di controllo. Liza Bakewell parla di atti immaginati, "attività di istanze immaginate che hanno un effetto su di noi.” C’e evidentemente una sorta di potere visivo, che genera impatto e quindi strumentalizza “incantando”. Uso questo verbo proprio per il suo significano ambivalente sul piano etico. Infatti si può godere di una esperienza artistica incantevole, ma essere sotto l’effetto di un incantesimo non e’ necessariamente positivo. Di certo c’e il riconoscimento di ciò Walter Benjamin chiama aura.“L’esperienza dell’aura riposa sul trasferimento di una forma di reazione normale nella società al rapporto della natura con l’uomo. Chi è guardato o si crede guardato leva lo sguardo, risponde con uno sguardo. Fare esperienza dell’aura di un fenomeno o di un essere significa accorgersi della sua capacità di levare, rispondere con lo sguardo. Questa capacità è piena di poesia. Quando un uomo, un animale o un essere inanimato leva il suo sguardo sotto il nostro, per prima cosa ci “attrae lontano; il suo sguardo sogna, ci trascina nel suo sogno.” Ciò conferma che ciò che gli oggetti o le esperienze artistiche “fanno” è senza dubbio più importante di ciò che “sono”, un messaggio che molti hanno sottolineato da tempo. Restituendo la parola a DUNJA HERSAK “Le maschere maschili assumevano principalmente ruoli di polizia e, in linea con la loro missione, affermavano il loro potere dimostrando un comportamento selvaggio e irregolare, correndo freneticamente attraverso la distesa del villaggio e dimostrando trucchi apparentemente sovrumani e miracolosi. I loro movimenti potrebbero essere descritti come angolari, rapidi ed esagerati, un po 'come l'estetica generale delle maschere maschili con la loro schiacciante resa geometrica. Al contrario, le maschere femminili, con le loro caratteristiche contenute, sono impegnate nella danza con movimenti fluidi, più lenti, più arrotondati, spesso con enfasi sul gioco di gambe, e confinati in aree di villaggio di dimensioni sceniche. In tali spettacoli le maschere maschili generavano forze magiche minacciose, sebbene generative, affini al disordine e al cambiamento, mentre le maschere femminili mantenevano una sorta di equilibrio sociale, evocare la buona volontà degli spiriti ancestrali attraverso il loro linguaggio danzante e assicurando così la continuità comunitaria. In questo scenario, la maschera femminile embra aver funzionato come modello o prototipo di base . Mi è stato detto che nella maggior parte dei gruppi di bwadi era essenziale una maschera femminile, sebbene fossero possibili numerosi tipi di sesso maschile con diversi gradi di potenza. Molte persone hanno anche affermato che la maschera femminile era la prima ad essere scolpita in un nuovo gruppo di bwadi in aderenza a una tipologia morfologica prescritta. Le sue caratteristiche generali sono state replicate nel tempo e nello spazio come se tali connessioni fossero un aspetto indispensabile dell'identità e dell'appartenenza ai bwadi. A loro volta, la forma e le permutazioni stilistiche delle maschere maschili sembrano essersi evolute da quel modello femminile di base e, come possiamo vedere dagli esempi disponibili nelle collezioni pubbliche e private, si sono sviluppate in variazioni dinamiche che attestano i bisogni, le espressioni e l'immaginazione di intagliatori locali. La diversità di queste maschere maschili è una straordinaria dimostrazione di inventiva culturale, al punto che è impossibile determinarne la provenienza, lo stato gerarchico o l'affiliazione di gruppo senza dati precisi sul campo. Mi domando da cosa dipenda il fatto che la maschera femminile resti immutata a differenza di quella maschile. Può dipendere dalla universalità dell’archetipo della Grande Madre, forse “anche dalla potenza suggestiva del colore bianco, non a caso associato in molte culture al mondo ultraterreno e alla purezza.


TOPENG , LA FORMA FORMANTE Bali, e l’Indonesia in generale, pagano con la notorietà turistica il prezzo della sottovalutazione di una storia millenaria e suggestiva. Una delle forme più banalizzate ma profonde della tradizione di quei popoli è la danza tradizionale. I turisti frettolosi che fotografano quella fantasmagorica performace fatta di suono, colore, immagine probabilmente non sanno che ogni volta viene messa in scena la creazione del mondo, lo scontro tra forze primordiali incarnate nella lotta eterna tra il bene e il male. E la maschera e’ protagonista. In realtà Topeng non definisce esattamente il termine maschera, ma più in generale una precisa forma di teatro drammatico che è insieme una cerimonia liturgica spettacolarizzata. Significa pero’ letteralmente “qualcosa premuto contro il viso” ad implicita dichiarazione della relazione intima tra la maschera, chi la indossa e ciò che insieme evocheranno. L’oggetto in sé ovvero il legno scolpito e dipinto, si chiama Tapal. E’ realizzata con il pule, legno pregiato forte ma di facile lavorazione, tagliato e scolpito secondo un preciso rituale dettato dai tempi del calendario religioso balinese. Cosi il pezzo di legno caricato energia divina diventa il tenget, e può interagire con taksu, l’energia creatrice. C’e un solo attore in “in scena, e cambia maschera con il mutare del rito narrante. E’ sua la responsabilità di dare corpo ai personaggi che le maschere evocheranno, dopo un rito offertorio e benedicente eseguito all’inizio della performance. Le maschere non rappresentano personaggi ma archetipi: il re, ad esempio, nel suo stesso muoversi incarna la purezza e l’equilibrio, e cosi le altre figure che introducono il dramma, anzi il drama, - dal termine tardo latino a sua volta mutuato dal greco e che significa fare, agire..Anche nelle diverse rappresentazioni profane, dove come nella Commedia dell’arte irrompono in scena anche storie e personaggi della vita quotidiana, resta quest’aura potente. Per dirla con Elémire Zolla, la forma formante della maschera aiuta l’uomo nel difficile cammino della vita.

La selezione di maschere qui pubblicate costituisce il fondo della collezione Tribaleglobale. Alcune hanno un importante “pedigree” come richiede il mercato dell’arte, altre arrivano dal quel grande suk che e’ ebay. Mi sembra abbiano tutte il potere evocativo che rende una maschera ciò chee’. Sul piano della autenticità’, riconosco un unico criterio: un manufatto di arte tradizionale e autentico se fatto nel luogo dove e stato concepito, da una persona del posto e li usato in riti della tradizione. Il resto e’ mercato occidentale, bisogno di quantificare la qualita’. Quanto alla necessita di aderire ad un prototipo codificato, e bene ricordare ciò che dice l’antropologo Alfred Gell : “tutti i manufatti sembrano essere prototipi: non esiste origine o punto finale convenzionali...ogni creazione o performance attinge dal passato e dal futuro, ognuna è un'originale e una deviazione, e ciascuna è in qualche modo imperfetta. È proprio questo aspetto dell'imperfezione che le conferisce la "capacità di generare variazioni"” Insomma, arte viva... Giuliano Arnaldi, Onzo


GIULIANO ARNALDI


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.