LEGGE DELLE XII TAVOLE

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LA LEGGE DELLE XII TAVOLE La legge delle XII Tavole (duodecim tabularum legem) è il primo punto fermo nella storia del diritto romano, in cui gli stessi Romani videro il fondamento di tutta la loro esperienza giuridica (fons omnis publici privatique iuris, Liv. 3.34.6). La tradizione fa risalire la datazione dell’Opera legislativa intorno al 451-450 a.C., periodo in cui iniziarono le lotte sociali tra patrizi e plebei, scaturite dall’impellente esigenza di questi ultimi di sentirsi tutelati e garantiti con pari dignità. La Legge fu opera di una commissione di dieci uomini (decemviri legibus scribundis) ai quali, sospese le ordinarie magistrature, era stato trasferito ogni potere politico per tutta la durata della loro attività. Del testo originario si conservano solo frammenti in forma di citazioni della tarda Repubblica e dell’Impero, pertanto non si conosce con certezza quanto sia andato perduto e in quale ordine le singole norme si articolassero nel contesto generale. Senza dubbio l’ordine in cui oggi si è soliti citarle è del tutto ipotetico infatti, è possibile che parte delle norme tramandate come disposizioni siano in realtà di origine più recente. Il testo autentico della Legge, inciso in dodici tavole lignee, andò perduto nell’incendio del 390 a.C. ad opera dei Galli guidati da Brenno. Probabilmente, già nel tardo periodo repubblicano questo era noto in un latino più recente, ragione per la quale i frammenti pervenuti non presentano alcuna particolare difficoltà interpretativa, mentre solo a fatica si riuscirebbe a comprendere il latino del periodo. L’interpretazione giuridica, invece, risulta incerta e dibattuta come emerge dal raffronto con le altre testimonianze delle fonti o con altri ordinamenti giuridici, in particolare con l’antico diritto greco e germanico. Tuttavia, gli influssi materiali che questi potrebbero aver esercitato sono circoscritti ad aspetti particolari, che non pregiudicano l’impronta specificamente romana della Legge. Le XII Tavole erano un esteso disegno del diritto allora vigente. Esse contenevano precetti normativi sul corso del procedimento giudiziario e su quelle branche del moderno diritto privato e penale, che al Legislatore romano antico si presentavano ancora come un’unità. Egli voleva raccogliere nel modo più completo possibile, lo ius civile, cioè quelle norme che riguardavano la sfera giuridica del singolo cittadino allo scopo di proteggere l’uomo comune dall’arbitrio della nobiltà patrizia, sia nei rapporti giuridici che nell’amministrazione della giustizia. La codificazione dell’ordinamento giuridico, per la gran parte orale, rappresentava per le condizioni di quell’epoca così antica un compito immenso. Nella forma in cui si presentano i frammenti dell’Opera, si riconoscono le difficoltà sostenute dal Legislatore con la lingua ancora poco articolata per trovare l’espressione che meglio si attagliasse alle singole esigenze. Le preposizioni sono molto concise, simili nella forma e di struttura assai semplice; alla frase ipotetica, che suole descrivere i presupposti necessari all’applicazione di ogni singola norma giuridica, segue la norma stessa in forma imperativa. Il soggetto che regge il verbo molto spesso non è espresso, inoltre esso cambia frequentemente nell’ambito dello stesso periodo, tanto che, volta per volta, l’interprete deve indovinare in base al contesto a chi ci si riferisca. I termini giuridici utilizzati dai decemviri erano certamente familiari ai contemporanei, ma già ai giuristi del II secolo a.C. offrivano materia di contrasto, e tuttora rendono difficile al moderno storico del diritto l’agevole comprensione del testo. Gran parte della Legge riguardava il diritto processuale. Si distinguevano, in particolare, due procedimenti, uno in cui la fase di impostazione della controversia, rigorosamente formale, reca i segni di un’età molto remota (legis actio sacramento), ed un altro più recente e snello, applicabile solo a determinate pretese (legis actio per iudicis postulationem): all’ambito del diritto agrario, di famiglia e regolante i rapporti di vicinato che costituivano gli elementi più rilevanti per la quotidianità del contadino. Nelle parti superstiti conservate poco spazio viene riservato ai negozi di diritto commerciale e agli altri contratti costitutivi di obbligazioni. Il contratto obbligatorio nelle XII Tavole seguiva uno schema molto rigido, in cui il debitore, ricevendo il denaro, che gli veniva pesato alla presenza di testimoni, si trasferiva letteralmente nel potere del creditore (il negozio si chiamava nexum, “incatenamento”). Nel caso in cui la somma non fosse stata restituita entro i termini prefissati, egli cadeva in schiavitù per debiti, senza che ci fosse bisogno di alcuna condanna. Accanto a questo antico istituto, che fu abolito solo sul finire del IV secolo a.C., appare una promessa obbligatoria meno gravosa, la


sponsio, che si poneva in essere mediante scambio di domanda e risposta tra le parti e per la cui attuazione si poteva far ricorso al più semplice procedimento della legis actio per iudicis postulationem. Nel diritto penale è molto probabile che la Legge si fondasse ancora, sull’idea della vendetta privata dell’offeso. L’intervento punitivo dello Stato si innescava solo in caso di alto tradimento (perduellio), e per certi delitti sacrali molto gravi, ovvero per quei fatti criminosi che si rivolgevano direttamente contro la comunità. Il compito di assicurare l’assassino (parricidas) veniva lasciato ai familiari dell’ucciso: nessuna disposizione esplicita era prescritta sulla pena da infliggere. Tuttavia un’antica norma, risalente all’epoca anteriore alle XII Tavole, prescrive che, in caso di omicidio involontario (“se la lancia è sfuggita di mano più che essere scagliata”), l’autore del fatto deve consegnare agli agnati dell’ucciso un ariete. Come testimonia Labeone − uno dei giuristi più influenti del Principato − l’animale era un oggetto sostitutivo su cui esercitare la vendetta, da ciò si deduce che gli agnati potevano esercitare la vendetta di sangue su colui che aveva “ucciso coscientemente e con dolo”. Se però il reo non era né flagrante (manifestus) né confesso (confessus), essi potevano procedere solo dopo che la sua colpevolezza fosse stata dichiarata dall’Autorità giudiziaria. Colui che, pur esercitando la vendetta, uccideva senza che fosse stata pronunciata la necessaria sentenza, era a sua volta considerato un omicida. Nel caso in cui l’assassino si fosse sottratto alla vendetta con la fuga, si può supporre che la pratica più recente di proibire per decreto del magistrato, acqua e fuoco (aqua et igni interdicere) al fuggitivo reo di delitto capitale, fosse attuale. La ragione portante di questa proibizione era sottrarre al fuggiasco qualsiasi sostentamento al fine di rendergli impossibile la permanenza in territorio romano. Data la limitata estensione del territorio statale al tempo della più antica Repubblica, alcune città come quella greca di Napoli, in virtù di antichi trattati avevano la facoltà di accogliere chi fuggiva; così questi si sottraeva alla punizione, ma da quel momento non poteva mai più far ritorno sull’ager Romanus ed era quindi costretto a vivere al bando (exilium). Tranne nel caso di omicidio, in cui il diritto di esercitare la vendetta di sangue era ovvio, al punto che, risultava superfluo menzionarlo, per una serie di altri delitti le Legge prescriveva espressamente la pena di morte. L’esecuzione avveniva in maniera differente a seconda del delitto commesso: colui che rubava di notte il raccolto doveva essere sacrificato in onore di Cerere mediante impiccagione sul luogo stesso del delitto, il colpevole d’incendio doloso doveva essere bruciato, il falso testimone doveva essere precipitato da una rupe. Anche in questi casi non si trattava di una punizione pubblica del colpevole, bensì di un diritto di vendetta della parte lesa nei confronti del reo la cui colpevolezza fosse stata riconosciuta da un provvedimento giudiziario. Il carattere della pena capitale è evidente nel delitto di furto: il derubato poteva addirittura uccidere il ladro se lo catturava di notte, o anche di giorno, se questi opponeva resistenza armata; in tali casi la vittima del furto era tenuta soltanto a chiamare aiuto a gran voce (endoplorare), affinché giungessero testimoni e non vi fosse alcun dubbio sulla legittimità dell’uccisione. Egli poteva comunque trascinare il colpevole colto in flagrante di fronte al magistrato, il quale lo avrebbe trasferito in suo potere. A questo punto il derubato aveva tre possibilità: poteva uccidere il ladro, venderlo come schiavo in terra straniera (trans Tiberim), o anche riceverne in cambio un riscatto. Nel caso il ladro non fosse stato colto in fragrante era fatto divieto al derubato di vendicarsi. Egli doveva limitarsi a chiedere al ladro una pena pecuniaria consistente nel doppio del valore della cosa sottratta. Tali pene erano previste dalla Legge anche per le lesioni personali leggere, in questo caso però il loro ammontare era fisso: per la rottura di un osso (os fractum, VIII 3), 300 assi. Per le lesioni gravi, che riguardavano un membro importante del corpo, erano ammesse anche rappresaglie fisiche, con l’inflizione di un danno di eguale entità a quello ricevuto (talio), questo però, solo nel caso che le parti non avessero trovato un accordo su una composizione in denaro sancendo un “patto di pace” (pactum). Le rivendicazioni aventi ad oggetto pene pecuniarie costituirono l’avvento del “diritto penale privato” dell’epoca tardorepubblicana e dell’Impero. Da questa branca del diritto, successivamente considerata parte del diritto delle obbligazioni, è derivato il moderno istituto dei “fatti illeciti”. Dal II secolo a.C. comparvero delle azioni penali che, andarono a soppiantare definitivamente le antiche azioni per omicidio o per gravi delitti finalizzate alla vendetta fisica. Queste potevano essere promosse oltre che dalla parte offesa e dai suoi congiunti anche da qualsiasi cittadino, avendo come


scopo la punizione del colpevole da parte dello Stato. Così sorsero un diritto penale e un diritto processuale penale, che non erano più una parte dello ius civile, ma venivano ricompresi nello ius publicum. Ciò che premeva al Legislatore era porre l’imputato sotto il controllo giurisdizionale, allontanando lo spettro di perniciose faide familiari e giustificando l’esercizio della vendetta ai crimini più gravi. Alcune fattispecie criminose previste, rivelano la ferma credenza dell’epoca nella forza malefica delle evocazioni magiche: il recitare formule di incantesimo verso il frutto che sta sullo stelo, affinché le spighe restino vuote (fruges excantare VIII 8a); l’attirare (pellicere) dal fondo altrui al proprio le forze misteriose che fanno germogliare le sementi (VIII 8b); il mormorare parole magiche a danno della persona di un altro (malum carmen incantare, VIII 1). Tutti questi delitti erano considerati dalla Legge passibili di pena capitale. Un influsso di credenze magiche si scorge anche in una curiosa disposizione relativa alla perquisizione di una casa altrui alla ricerca di un oggetto rubato (VIII 15): colui che eseguiva la perquisizione doveva entrare nella casa estranea nudo, con un piatto e una corda (lance licioque). Anche gli ordinamenti giuridici indogermanici e l’antico diritto ebraico conoscevano una perquisizione formale di questo genere, ma queste singolari caratteristiche, per le quali non si è in grado di fornire una spiegazione plausibile, si trovano solo nelle XII Tavole. I Romani sin da bambini venivano iniziati alla magia e alla stregoneria credendo nell’esistenza delle lamie, spaventosi spiriti di sesso femminile vaganti nella notte, che terrorizzavano i viandanti, succhiavano il sangue e si cibavano della loro carne. Credevano, inoltre, ad una serie di esseri malvagi: ai lemures, le anime inquiete dei morti, ai versipellis esseri che di notte assumevano le sembianze di lupi, a maghe che si celavano sotto le sembianze di uccelli, a spiriti che abitavano gli abissi minacciando le navi, ai vampiri ed a streghe capaci attraverso pratiche magiche di riportare in vita i morti. Non tutta la magia, però, serviva per scopi malefici, essa era utilizzata anche per scopi benefici, per riconquistare la persona amata, per allontanare un malocchio, scongiurare un male o propiziare la fertilità. La magia primitiva ed autoctona, per certi versi più criptica e violenta verrà, come testimoniato nei secoli successivi da Plinio il Vecchio, contaminata man mano da influenze esotiche. Queste, dal I secolo d.C. in avanti, influenzeranno tutti gli aspetti della vita. Il letterato nei suoi testi analizza in particolare le tre scuole ufficiali di magia in uso nella Capitale: la principale era quella persiana portata dai soldati affascinati dal culto maschile del dio Mithra, seguita dalla giudaica praticata e diffusa dalla setta degli Esseni e dalla cipriota, figlia della magia egizia, dal carattere molto pratico ed applicata alla medicina del corpo umano. Lo stesso Plinio non perdendo occasione per scagliarsi contro l’empietà di coloro che praticavano magia, giustificava unicamente quella teurgica (magia bianca contrapposta alla magia goetica). La superstizione e la magia rientravano a pieno titolo, per i Romani, nel normale contatto con le divinità che, tramite queste forze misteriose emanate da cose o persone, manifestavano la loro volontà; ergo non era la magia in sé ad essere punita, bensì le azioni malvagie, effettuate tramite questo mezzo. Per un periodo di circa due secoli dopo la legislazione decemvirale, i modi principali dello sviluppo del diritto furono l’interpretazione del testo dell’Opera e l’attività normativa dell’assemblea popolare, la quale intervenne con il passare dei decenni sempre più frequentemente. L’interpretazione delle XII Tavole, e di quel prezioso deposito di formulari processuali e negoziali che si tramandava nel tempo, rimase fino all’inizio del III secolo un monopolio del collegio sacerdotale dei pontifices (“costruttori di ponti”). La loro attività, che rappresenta l’inizio della giurisprudenza romana si svolse secondo lo spirito formalistico di questo periodo più antico, essenzialmente in una interpretazione letterale, che al contempo seppe realizzare, in singoli punti significativi, un progresso del diritto. Con una efficiente interpretazione della Legge ed escogitando complessi formulari, i pontefici crearono espedienti idonei a soddisfare le nuove esigenze della vita giuridica. La predilezione per la “formula” e la rigida fiducia nell’espressione letterale proprie dell’interpretazione giuridica più remota, concorreranno al formarsi di una lingua scientifica. Questa preziosa eredità è raccolta dalla giurisprudenza posteriore, che si apre ad una cultura più complessa, ma rimane sostanzialmente autonoma nel seguire il proprio percorso. Agli occhi dei profani, la Legge delle XII Tavole può apparire un’Opera normativa ottriata e finalizzata a consolidare le prerogative sociali


dell’epoca, ma solo in parte è così. Essa, che costituirà le fondamenta su cui si svilupperanno tutte le codificazioni posteriori, va contestualizzata nel periodo storico e nella società da cui proviene: un popolo dedito alla pastorizia e all’agricoltura, ancora chiuso alle influenze esterne, dove il livello culturale generale della comunità è mediocre. Ad oggi l’unanimità dei giuristi occidentali riconosce alla Legge delle XII Tavole il ruolo indiscusso di portatrice di luce, ed esempio concreto di uguaglianza formale e sostanziale tra i cittadini, i quali da quel momento in avanti ebbero regole certe ed applicabili indifferentemente a tutti gli uomini liberi. Altre civiltà sia anteriori che posteriori a quella romana si dedicarono alle codificazioni, ma nella storia dell’umanità non si incontrerà mai più un popolo, la cui vita sia stata così tanto dominata e scandita dal mondo concettuale della politica e del diritto. La scienza giuridica fu il prodotto più significativo della cultura romana ed il contributo più importante dato da essa allo sviluppo della civiltà europea. Si può affermare senza errore che il diritto, insieme ai templi e alle opere ingegneristiche, e all’esercito costituiva uno dei tre pilastri, che ricordano nell’ordine rispettivamente la sapienza, la bellezza e la forza, su cui si fondava il rigoglio di Roma. Proprio questi permisero che tale civiltà potesse attecchire, prosperare e crescere per più di mille anni passando dal periodo arcaico della monarchia, legato a forti influenze magiche, a quello repubblicano, simboleggiato dalle solide istituzioni democratiche (prima fra tutte il Senato), per concludersi con l’Impero ed il culto del suo vertice.

IL DIRITTO DELLE XII TAVOLE: TABVLA I (Procedura civile) Se qualcuno è chiamato in giudizio, vada. Se non va, deve essere chiamato un testimone. Quindi lo si catturi. Se si sottrae o tenta di fuggire, si imponga la mano. Se la malattia o l'età avanzata sono un impedimento, gli sia dato un mulo. Se non lo vuole, non gli sia data alcuna lettiga. TABVLA II (Procedura civile) Grave malattia. . . o un giorno stabilito contro il nemico . . . se qualcuno di questi è un impedimento per il giudice o qualsiasi partito, quel giorno i procedimenti devono essere sospesi Uno che cerca testimonianza da un assente deve urlare davanti alla sua porta ogni terzo giorno. TABVLA III (Procedure esecutive) Per un debito riconosciuto, una volta emessa sentenza regolare, il termine di legge sarà di trenta giorni. Dopo ciò, ci sia l' imposizione della mano (rivendicazione) e il debitore sia trascinato in giudizio. Se il debitore non paga la condanna e nessuno garantisce per lui, il creditore può portare via con sé il convenuto in catene. Lo può legare con pesi di almeno 15 libbre. Il debitore può sfamarsi come desidera. Se egli non riesce a sfamarsi da solo, il creditore deve dargli una libbra di grano al giorno. Se vuole può dargliene di più. Al terzo giorno di mercato, (i creditori) possono tagliare i pezzi. Se prendono più di quanto gli spetti, non sarà un illecito Nei confronti dello straniero, è perpetuo l'obbligo di garantire la proprietà della merce. TABULA IV (Diritto privato: filiazione) Un bambino chiaramente deformato deve essere ucciso. Se un padre vende il figlio tre volte, il figlio sia libero dal padre. TABVLA V (Diritto privato: eredità) 4 Si intestato moritur, cui suus heres nec escit, adgnatus proximus familiam habeto. Se una persona muore senza aver fatto testamento, il parente maschio prossimo erediterà il patrimonio. 5 Si adgnatus nec escit, gentiles familiam habento. Se questo non c'è erediteranno gli uomini della sua gens. 7 Si furiosus escit, adgnatum gentiliumque in eo pecuniaque eius potestas esto. Se qualcuno impazzisce, il suo parente più prossimo maschio e i gentili avranno autorità su di lui e sulla sua proprietà. TABVLA VI (Diritto privato: proprietà)


Cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto. Quando qualcuno fa un accordo o un trasferimento lo annuncia oralmente, gli sarà data ragione. Tignum iunctum ædibus vineave sei concapit ne solvito. Nessuno deve spostare travi da edifici o vigne. TABVLA VII (Diritto privato: proprietà) 7 Viam muniunto: ni sam delapidassint, qua volet iumento agito. Mantengano le strade: se cadono in rovina, i passanti possono guidare le loro bestie ovunque vogliono. 8 Si aqua pluvia nocet [...] iubetur ex arbitrio coerceri. Se la pioggia fa danni [...] la questione sarà risolta da un giudice. TABVLA VIII (Diritto privato e penale: illeciti) 1 Qui malum carmen incantassit . . . Coloro che hanno cantato un maleficio. . . 2 Si membrum rupsit, ni cum eo pacit, talio esto. Se una persona mutila un'altra e non raggiunge un accordo con essa, sia applicata la legge del taglione. 3 Manu fustive si os fregit libero, CCC, si servo, CL poenam subit sestertiorum; si iniuriam [alteri] faxsit, viginti quinque poenae sunto. Chiunque rompa l'osso di un altro, a mano o con un bastone, deve pagare trecento sesterzi se è un libero; centocinquanta se è uno schiavo; se abbia commesso altrimenti offesa la pena sia di venticinque. 8 Qui fruges excantassit [...] neve alienam segetem pellexeris Chi si appropriasse con la magia del raccolto o il grano di un altro [...] 12 Si nox furtum faxit, si im occisit, iure caesus esto. Se avrà tentato di rubare nottetempo e fu ucciso, l'omicidio sia considerato legittimo. 13 Luci [...] si se telo defendit [...] endoque plorato Se di giorno [l'omicidio è legittimo] se [il ladro] si sarà difeso con un'arma [e se il derubato avrà prima tentato] di gridare aiuto. 21 Patronus si clienti fraudem fecerit, sacer esto. Se un patrono froda il cliente sia sacrificato alla divinità. 22 Qui se sierit testarier libripensve fuerit, ni testimonium fatiatur, inprobus intestabilisque esto. Chi sia stato chiamato a testimoniare o a pesare con una bilancia, se non testimonia, sia disonorato e reso incapace di ulteriore testimonianza. 24 Si telum manu fugit magis quam iecit, arietem subicito. Se una lancia sfugge dalla mano o viene lanciata per sbaglio (uccidendo qualcuno ndt), si sacrifichi un ariete. TABVLA IX (Diritto costituzionale) Privilegia ne irroganto. Non devono essere proposte leggi private (privilegi). TABVLA X (Regolamento per la sepoltura) Hominem mortuum in urbe ne sepelito neve urito. Nessun morto può essere cremato né sepolto in città. Qui coronam parit ipse pecuniave eius honoris virtutisve ergo arduitur ei . . . Quando un uomo vince una corona, o il suo schiavo o bestiame vince una corona per lui, . . . Neve aurum addito. at cui auro dentes iuncti escunt. Ast in cum illo sepeliet uretve, se fraude esto. Nessuno deve aggiungere oro (a una pira funebre). Ma se i suoi denti sono tenuti insieme dall'oro e sono seppelliti o bruciati con lui, l'azione sia impunita.


TABVLA XI (Diritto privato: matrimonio) Conubia plebi cum patribus sanxerunt. è vietato il matrimonio fra plebei e patrizi. TABVLA XII (Diritto penale: crimini) Si servo furtum faxit noxiamve noxit. Se uno schiavo ha commesso furto o un male . . . Si vindiciam falsam tulit, si velit is . . . (prae?)tor arbitros tris dato, eorum arbitrio . . .(rei et?) fructus duplione damnum decidito. Se qualcuno abbia portato in giudizio una falsa vindicia (il pretore?) dia tre arbitri, e paghi il doppio (del bene?) e dei frutti. Nelle XII Tavole si prevedeva una sanzione speciale per i casi di lesione patrimoniale come il Furtum e i pauperies (danneggiamento derivante da comportamenti animali). Esempi: Colui che bruciò una casa e fatto morire nelle fiamme, la pena per aver bruciato la casa sarà: risarcire il danno; se no, castigato con una pena più lieve. Subiscono la pena incendiale chi appicca un incendio all'interno delle mura della città, mentre verrà applicata una pena più lieve per chi appicca un incendio a una casa. Bisogna valutare se la volontà del soggetto era: Dolosa: l'autore veniva legato, fustigato e messo a morte con il fuoco; Colposa: l'autore veniva condannato a risarcire il danno arrecato (noxiam sarcire). Caso costituito dal pascolo e dal danneggiamento notturni, dove viene usato il pascolo e portato nel fondo altrui danneggiando i frutti. Il colpevole verrà condannato, se: era pubere: condannato alla pena di morte attraverso l'impiccagione e sacrificato alla dea Cerere; era impubere: condannato al risarcimento del danno.

Bibliografia: • F.C. Von Savigny, Geschichte des römischen Rechts im Mittelalter, Leipzig 1834 • M. Voight, Die XII Tafeln. Geschichte und System des Civil - und Criminal-Rechtes, wie -Processes der XII Tafeln nebst deren Fragmenten, Leipzig 1883 • O. Diliberto, Materiali per la palingenesi delle XII Tavole, Cagliari 1992 • M. Crawford, Roman Statutes, London 1996 • Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, Einaudi 1997 • P. Ziliotto, L’imputazione del danno aquiliano, CEDAM 2000 • O. Diliberto, Bibliografia ragionata delle edizioni a stampa della Legge delle XII Tavole, Roma 2001 • U. Agnati, Leges Duodecim Tabularum. Le tradizioni letteraria e giuridica, Cagliari 2002 • M. Humbert, Le Dodici Tavole. Dai Decemviri agli Umanisti, Pavia 2005 • Riccobono-Baviera, Fontes iuris Romani Anteiustiniani, Giunti 2007

A cura del Fr.: G.S., R.:L.: Guido Monina n. 1238 all’Oriente d’Ancona Tornata rituale del 12/05/2009


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