Rivista dell’Agenzia Spaziale Italiana
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Aprile 2022
In collaborazione con
Sulla Luna per restare A 50 anni dall’ultima missione Apollo, l'umanità è pronta a tornare
SOMMARIO
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NUMERO 4, APRILE 2022
In copertina concept di un avamposto lunare. Crediti: ESA - P. Carril.
Andare sulla Luna
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Come vivremo sulla Luna di Fulvia Croci
Prove tecniche di avamposto spaziale di Redazione Asi
Missione Luna Giorgio Saccoccia e Massimo Claudio Comparini delineano gli scenari prossimi venturi di Mila Fiordalisi
10 Luna Italiana - infografica a cura di Manuela Proietti
12 Artemis 3,2,1 Go! di Giulia Bonelli
Vivere sulla Luna
19 Psicologia lunare di Giulia Bonelli e Giuseppe Nucera
22 Pianeta che vai, cibo che trovi di Giuseppe Nucera
24 Tute spaziali In orbita la moda Hi-Tech di Valeria Guarnieri
Tecnologia
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Trasferimento tecnologico Un ponte tra terra e spazio di Manuela Proietti
Terra-Luna: un pianeta doppio di Ettore Perozzi
Zoom sulle PMI
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Curiosità spaziali di Barbara Ranghelli
Qascom porta Galileo e l’Italia sulla Luna di Silvia Ciccarelli
In vetrina
Storia della conquista della Luna
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46 PhoeniX è ora di risorgere di Giulio Chimienti
Esplorazione cosmica di Giovanni Caprara
36 L’ultima volta sulla Luna La missione Apollo 17 e i suoi protagonisti di Paolo D’Angelo
Reg. Tribunale Roma 11.2017 del 02.02.2017 Stampato presso Peristegraf srl Via Giacomo Peroni 130, Roma Rivista dell'Agenzia Spaziale Italiana Supplemento di Global Science Testata giornalistica gruppo Globalist
La scienza lunare
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A cura di Unità multimedia ASI Responsabile Giuseppina Pulcrano
Direttore responsabile Gianni Cipriani Coordinamento redazionale Manuela Proietti, Unità Multimedia ASI Progetto grafico Paola Gaviraghi SPAZIO 2050 | 3
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ANDARE SULLA LUNA
Missione Luna di Mila Fiordalisi Direttore Spaceconomy360 (www.spaceconomy360.it)
Il conto alla rovescia è partito. Il programma Artemis, che punta al ritorno dell’uomo sulla Luna, è entrato ufficialmente nel vivo. A tre anni esatti dagli annunci – era marzo del 2019 quando l’allora amministratore Nasa Jim Bridenstine lanciò il nuovo progetto – a metà dello scorso mese di marzo nel Kennedy Space Center della Nasa è stato posizionato il mastodontico Space Launch System, con in testa la navicella Orion, per la grande prova generale. Una prova che scalda i motori dell’era Artemis: partirà con tutta probabilità entro l’estate la prima missione in orbita lunare che durerà fra i 25 e i 42 giorni.
L’Italia ha un ruolo di primo piano nel programma Artemis ma la partita è ancora tutta da giocare. Quali sono gli obiettivi del nostro Paese? Quali opportunità si aprono per la nostra economia? E quali impatti ci saranno a livello industriale? Determinante il ruolo dell’Agenzia Spaziale Italiana (Asi) e quello delle aziende del comparto, a partire da Thales Alenia Space – partecipata per il 67% da Thales e per il 33% da Leonardo - che ha curato per l’Agenzia Spaziale Europea (Esa) la struttura e i sottosistemi critici del modulo di servizio della navicella Orion, lo sviluppo dei moduli europei del Gateway e collabora con gli Stati Uniti alla realizzazione dell’elemento abitativo Halo. In un confronto vis-à-vis il Presidente dell’Asi Giorgio Saccoccia e l’Amministratore delegato di Thales Alenia Space Italia, Massimo Claudio Comparini delineano gli scenari prossimi venturi. La guerra russo-ucraina impatterà sulla geopolitica dello Spazio. Inevitabile partire da qui, considerato il critico momento storico. Potrebbero esserci ripercussioni sulla missione Artemis? Qual è l’aria che si respira? Saccoccia: Non c’è alcun segnale di allarme riguardo al programma Artemis per più di un motivo. Primo: la Russia non ha aderito e non ha mai manifestato di volerlo fare nel corso degli anni. Secondo: il budget Nasa approvato di recente consente la copertura completa rispetto alle richieste attuali del programma lunare e, non da ultimo, la Nasa, nel convocare 4 | SPAZIO 2050
Il confronto tra il Presidente dell’Asi Giorgio Saccoccia (foto in alto) e l’Amministratore delegato di Thales Alenia Space Italia, Massimo Claudio Comparini.
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i partner potenziali, ha delineato con chiarezza i prossimi passi ed anche un’accelerazione delle iniziative. Per quel che riguarda l’Italia nell’ultimo anno e mezzo abbiamo discusso con la Nasa alcuni progetti nell’ambito della cooperazione bilaterale e siamo in dirittura d’arrivo per le prossime finalizzazioni. Comparini: Sicuramente c’è grande attenzione riguardo all’evoluzione del conflitto e al contempo grande rammarico considerato che la cooperazione internazionale ha una storia lunga 30 anni. Il progetto Artemis non sarà impattato mentre potrebbero aprirsi problematiche nell’ambito della Stazione spaziale internazionale ma c’è da dire anche che il dominio dello Spazio sta vivendo una fase di grande fermento ed eccitazione come mai prima d’ora, con sfide crescenti che vedono coinvolte sempre più Agenzie nazionali e anche attori privati. Guardiamo al futuro con ottimismo e positività. In prospettiva quanto potrà aumentare il ruolo dell’Italia nello scacchiere internazionale della Space economy sull’onda del traino di Artemis? Saccoccia: Un programma lunare di ampio respiro come Artemis avrà ricadute che andranno ben oltre i ritorni scientifici e quelli legati agli aspetti dell’esplorazione. Non si tratta di una “semplice” missione ma di un programma dall’architettura complessa che sortirà lo sviluppo di competenze di alto profilo da un punto di vista tecnologico e sistemico. I building block che costituiranno l’architettura di Artemis coinvolgono tecnologie che riguardano diversi settori. Per fare un esempio: al di là delle aree in cui l’Italia già vanta una leadership indiscussa ci candidiamo ad un ruolo importante nel settore delle comunicazioni e della navigazione satellitare. E oltre che nell’ambito squisitamente tecnologico potremmo avere un ruolo primario anche nello sviluppo di servizi innovativi. Stiamo scrivendo solo la prima pagina di un libro complesso e ricco di opportunità, quindi è importante essere protagonisti sin da ora. Comparini: Le prospettive sono più che interessanti. Il rispetto e l’elevato apprezzamento delle capacità tecnologiche dell’Italia a livello Nasa sono dati di fatto. Contiamo su un substrato consolidato che da solo rappresenta un biglietto da visita fondamentale in una nuova fase in cui il nostro know how, sia tecnologico sia istituzionale, potrà raccogliere frutti importanti. Essere i costruttori di un primo modulo di superficie è rilevante e rappresenta un elemento fondamentale nell’ambito delle nuove sperimentazioni scientifiche: siamo arrivati a questo risultato grazie ad un ecosistema completo. Quanto il programma Artemis può contribuire allo sviluppo dell’ecosistema italiano della Space economy in termini di nascita di nuove aziende e sviluppo di servizi innovativi? Saccoccia: Per le aziende del comparto, che hanno già un ruolo riconosciuto a livello internazionale, si aprono opportunità di ulteriore crescita e posizionamento anche di tipo commerciale. In Italia vantiamo una filiera completa, dalle grandi aziende alle startup in tutti gli ambiti della space economy, quindi downstream, midstream e upstream fino ai lanciatori. Una copertura a 360 gradi, mi lasci dire rara a livello mondiale. Ci attendiamo che anche per le aziende che ad oggi contano poco nel settore spaziale ci sia l’opportunità di aumentare la propria partecipazione e il coinvolgimento. Il programma Artemis potrà essere per loro un entry point. Si pensi, ad esempio, alle attività legate all’utilizzo delle risorse lunari, e quindi alle chance che si aprono per aziende che operano nel settore del mining e del riciclaggio delle risorse terrestri. Ci sarà trasferimento tecnologico, di idee e know-how, da e verso il settore spaziale. Non dimentichiamo, poi, che il programma comporterà un’evoluzione anche di tipo regolatorio e normativo con la necessità di provvedimenti e 6 | SPAZIO 2050
Ci sarà trasferimento tecnologico, di idee e know-how, da e verso il settore spaziale.
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Rappresentazione artistica del Lunar Gateway in orbita lunare. In primo piano i moduli realizzati in Italia. (Crediti: Thales Alenia Space/ Briot).
misure ad hoc votati anche ad ampliare lo sviluppo del mercato e a consentire la discesa in campo di un numero sempre più ampio di attori: sarà necessaria anche questo tipo di competenza, insieme a molte altre. Comparini: Siamo nel contesto migliore per far nascere aziende innovative, per farle sviluppare e anche per dimostrare come la massa critica rappresentata dalla presenza di grandi aziende sul territorio nazionale faccia da traino per tutta la filiera. È una sfida di sistema di cui ci arricchiremo tutti e a tutti i livelli. L’economia lunare si svilupperà temporalmente, e senza soluzione di continuità, subito dopo quella della Leo economy, l’economia dell’orbita bassa: negli ultimi 20 anni abbiamo imparato a sperimentare e a lavorare a bordo dell’Iss. Se guardiamo ai prossimi 10 anni saranno molti i settori coinvolti nella partita: bisognerà lavorare allo sviluppo di nuovi materiali, un ruolo crescente lo avrà ad esempio il printing 3d per costruire infrastrutture direttamente in loco, e sono attesi sviluppi in ambito biotech e farmaceutico
e anche nel food. Per non parlare del fronte telecomunicazioni e connettività, basti pensare all’iniziativa Moonlight. Nell’ambiente lunare si aggiunge poi un’ulteriore sfida: capire come sfruttare le risorse per lavorare sulla sostenibilità del nostro pianeta. È molto importante, inoltre, sottolineare il ruolo delle Pmi italiane: i moduli pressurizzati che ad oggi sono utilizzati per l’Iss e che saranno utilizzati sulla Luna e le stazioni commerciali, hanno un livello di tecnologia italiana di oltre l’80%. Negli anni si è costruita una filiera di Pmi specializzate nelle componenti meccaniche, strutturali ed elettroniche che fa dell’Italia un unicum a livello mondiale e che ha un impatto notevole sia da un punto di vista economico sia di sistema industriale Paese. La convergenza fra tecnologie spaziali e tecnologie digitali si sta facendo sempre più stretta: come si sta evolvendo lo scenario? Saccoccia: Come le dicevo siamo solo all’inizio, tutto è SPAZIO 2050 | 7
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Artemis, si investe in divenire, e la rapidità con cui soluzioni figlie della digitalizzazione – in primis Intelligenza artificiale e analisi dei big data – si stanno facendo strada in ambito spaziale è il segnale inequivocabile di sviluppi inediti e inimmaginabili ad oggi. Artemis è un’iniziativa che potremmo definire “open ended”: la crescita sarà continuativa senza un termine temporale e dunque si potrà progressivamente portare a bordo il progresso generato dalla digitalizzazione. Lo Spazio peraltro è da sempre un ambiente in cui testare l’innovazione d’avanguardia, tutto ciò che è legato allo Spazio è legato a una massa enorme di dati da gestire e trasferire: per questo ci aspettiamo moltissimo su questo fronte. Nella parte iniziale del programma, inoltre, la forte presenza robotica che precederà lo sbarco umano e che lo accompagnerà nel seguito necessiterà di sistemi automatici da gestire a distanza o in maniera autonoma e quindi un elevato utilizzo delle tecnologie di elaborazione dati e dell’intelligenza artificiale. Insomma sarà un banco di prova importante. Comparini: Il connubio fra spazio e digitale sarà disruptive e creerà nuove opportunità sia a livello upstream sia nei servizi collegati. Già oggi, con il digital twin, possiamo effettuare simulazioni virtuali, una svolta se si pensa che fino a pochi anni fa avevamo bisogno di prototipi fisici. Quindi la rivoluzione della convergenza è già in atto. Tutto ciò che faremo sull’orbita bassa e sulla Luna genererà enormi quantità di dati da cui dovremmo estrarre informazioni: piattaforme cloud per l’analisi dei big data diventeranno fondamentali anche e soprattutto per operazioni in loco, attraverso ad esempio la presenza di data center sulla Luna. E anche l’intelligenza artificiale è destinata ad evolversi: l’esplorazione della Luna, e più in generale dei pianeti, comporterà una stretta collaborazione uomo-macchina con il grande tema dell’etica che dovrà essere affrontato anche dal punto di vista regolatorio.
Una riproduzione artistica di Orion sopra alla Terra. Crediti Esa.
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Artemis potrà mettere in moto anche la macchina dell’occupazione a livello nazionale? Si genereranno nuove competenze e, di conseguenza, nuovi posti di lavoro legati alla missione? Saccoccia: Siamo convinti che lo Spazio sia trainante per l’occupazione e l’economia: non a caso sono state messe in campo risorse significative sia nell’ambito del Pnrr per nuove iniziative spaziali sia nei programmi nazionali già esistenti. Investire sul programma Artemis- che andrà avanti a lungo -non solo offrirà l’occasione di generare nuova occupazione ma di renderla sostenibile nel tempo. Ci attendiamo un’onda lunga, lunghissima, attraverso la creazione di competenze che coinvolgeranno in particolare le nuove generazioni e che quindi innescheranno un circolo virtuoso a livello occupazionale. L’Italia, peraltro, vanta una capacità formativa di eccellenza riconosciuta a livello mondiale e si continua a investire affinché cresca ulteriormente. Come Agenzia Spaziale siamo molto impegnati su questo fronte per far sì che anche la ricerca fatta in ambito accademico, ad esempio, venga sostenuta con risorse crescenti e con idee e progetti in grado di rispondere al meglio alle rinnovate necessità ed esigenze, con una formazione finalizzata a generare competenze immediatamente spendibili sul mercato. Comparini: Come effetto dei programmi spaziali, abbiamo già toccato con mano una crescita importante dell’occupazione, a catena in tutta la filiera. Sicuramente il trend sarà di ulteriore crescita. Nel nostro stabilimento Thales Alenia Space a Torino, abbiamo assunto un centinaio di ingegneri ed è previsto l’innesto di nuove competenze. Le aziende avranno bisogno sempre più di esperti digitali ed è fondamentale accompagnare la nascita di nuovi percorsi formativi con competenze sul fronte della meccanica strutturale ma anche dell’elaborazione digitale. E saliranno a bordo anche figure fino ad oggi non direttamente coinvolte, come ad esempio gli architetti per la progettazione di abitazioni spaziali.
Il programma Artemis rappresenterà per l’Italia un booster importante in termini di crescita della space economy nazionale e sviluppo dell’ecosistema. E Thales Alenia Space – joint venture tra Thales 67% e Leonardo 33% - continua a spingere l’acceleratore sugli investimenti in innovazione. «I frutti che raccogliamo oggi sono il risultato dei tanti investimenti fatti negli anni. E da qui in avanti ne metteremo in campo altri. Vogliamo trovarci pronti per le future roadmap tecnologiche e salire subito sul treno delle prossime ondate di innovazione», sottolinea Massimo Claudio Comparini, Ad di Thales Alenia Space Italia. È un programma di lunghissimo periodo Artemis ma secondo Comparini «l’accelerazione innescata sul fronte delle progettualità si tradurrà in ritorni già nei prossimi 4-5 anni per effetto del circolo virtuoso messo in atto». Thales Alenia Space già immagina nuove opportunità di business legate all’esplorazione lunare: «Con lo sviluppo dell’economia lunare si aprirà la partita dei moduli pressurizzati e vogliamo essere protagonisti», annuncia il manager. E per l’Italia le chance sono legate anche ai fondi previsti dal Pnrr: «Si punta a stimolare l’attività di ricerca e sarà fondamentale la sinergia con il mondo dell’industria». La questione clou sarà però l’execution. «È necessario partire con i progetti operativi il prima possibile, auspico che si possa iniziare già quest’anno». E poi bisognerà spingere sulle nuove competenze: «È una sfida che non possiamo mancare. L’Italia ha tutte le carte in regola per giocare la partita nel ruolo di protagonista; copriamo tutta la catena del valore – dall’accesso allo spazio alle infrastrutture fino all’erogazione di prodotti e servizi. Solo pochi Paesi al mondo possono vantare un ecosistema del genere. Le nostre università creano skill qualificatissime e dobbiamo metterle tutte in campo». Fondamentale anche il ruolo delle Pmi: «Bisogna spingere la creazione e lo sviluppo di quelle innovative, siamo un po’ in ritardo su questo fronte ma abbiamo nel dna le caratteristiche per recuperare. La comunità economica e finanziaria sta guardando con grande interesse alle startup in ambito spaziale e dobbiamo attrarre investimenti».
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L’Asi e Artemis «Ci aspettiamo di finalizzare un accordo implementativo con la Nasa per rafforzare l’impegno dell’Italia nell’ambito del programma Artemis attraverso una collaborazione diretta con gli americani»: questo l’annuncio del Presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana, Giorgio Saccoccia. «A breve avrò un incontro con il Responsabile Artemis della Nasa per discutere della roadmap. Mi auguro che dopo l’estate sia già possibile avviare le attività contrattuali che si svilupperanno negli anni a venire con l’obiettivo di avere sulla superficie lunare progetti italiani a partire dal 2026-2027». L’Asi continua dunque a spingere l’acceleratore sulle iniziative legate alla missione e punta anche ad aprire nuovi fronti. «Alla Ministeriale dell’Esa in programma a novembre discuteremo di eventuali altri contributi europei e puntiamo a rafforzare il ruolo dell’Italia», aggiunge Saccoccia ricordando che il nostro Paese è stato pioniere nel programma. Gli obiettivi per gli anni a venire sono al rialzo: «Siamo forti nella robotica e abbiamo chance importanti di sviluppo nell’ambito della sensoristica avanzata, delle tecnologie radar e dell’ispezione dell’orbita». Saccoccia accende i riflettori anche sull’importanza dei fondi pubblici: «Negli ultimi due-tre anni c’è stato un incremento significativo. Lo Spazio è riconosciuto come motore di crescita economica e come uno dei comparti fondamentali per la ripresa post Covid. Abbiamo a disposizione risorse più che duplicate rispetto a qualche anno fa ed è fondamentale utilizzarle al meglio». Determinante sarà l’asse pubblico-privato ma va trovata una quadra: «È essenziale fornire supporto tecnico a chi gestisce fondi di investimento o disponibilità private per una valutazione tecnica e di merito. È essenziale per evitare “binari” paralleli e disallineati rispetto alle esigenze di sviluppo industriale del Paese». Last but not least la crescita della competizione innescata dalle cosiddette big tech, con i patron di Amazon e SpaceX, Jeff Bezos ed Elon Musk a fare la parte del leone. «Siamo alle porte di un cambio di paradigma e ciò comporterà per molti il ripensamento dei modelli di business. Ben vengano i nuovi attori, si innesca lo stimolo alla crescita e all’innovazione e si creano nuove opportunità».
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«Siamo già stati sulla Luna oltre 50 anni fa, perché allora è così difficile tornarci?» È una domanda che si sente spesso quando parliamo di ritorno sul nostro satellite. Nella risposta sta racchiusa tutta la complessità di un programma di esplorazione spaziale che in realtà ha poco a che vedere con i successi del passato. Vediamo dunque tutti gli elementi principali del programma Artemis, che punta a rendere la Luna il prossimo avamposto dell’umanità. Un’impresa in cui c’è anche molta Italia.
Artemis 3, 2, 1, Go! di Giulia Bonelli
Le tappe principali di Artemis, il programma internazionale di (ri)conquista del nostro satellite 12 | SPAZIO 2050
RitoRno al futuRo Nel 1972 partiva Apollo 17. Era l’undicesima missione con equipaggio del programma lunare targato Nasa. E l’ultima: da quel momento in poi, nessun essere umano ha più messo piede sul nostro satellite. Oggi la Luna è di nuovo al centro dell’esplorazione spaziale, ma si tratta più che altro di un ritorno al futuro. Il nuovo programma Artemis è profondamente diverso dal suo predecessore Apollo, per almeno tre ragioni. Prima di tutto, si tratta di un’impresa internazionale. Se il primo allunaggio è stata l’avventura di un’unica superpotenza, il ritorno sulla Luna vede una stretta collaborazione tra nazioni. Il traino resta quello degli Stati Uniti, ma il contributo dei paesi partner (tra cui l’Italia) è fondamentale. Il secondo elemento di differenza sta nel nuovo ruolo delle aziende spaziali private, SpaceX in testa, che forniranno la tecnologia per rendere sostenibile la presenza umana sul nostro satellite. Il che ci porta all’aspetto forse più cruciale: il programma Artemis intende portare la prima donna e il prossimo uomo sulla Luna con l’ambizione di restare. Non più missioni lampo, ma un programma serrato che a lungo termine dovrebbe rendere il nostro satellite abitato tutto l’anno. Esattamente lo stesso principio che ha guidato l’impresa della Stazione Spaziale Internazionale: con Artemis, dall’orbita bassa si passerà a rendere costantemente abitate l’orbita cislunare e alla superficie della Luna.
Space launch SyStem Per un programma ambizioso come Artemis serviva un razzo altrettanto potente. Per questo la Nasa ha messo a punto Sls, acronimo di Space Launch System: un colosso di 98 metri, capace di trasportare un carico di 130 tonnellate. Non solo l’equipaggio, dunque, ma anche tutto quello che servirà per attrezzare e rendere abitabili l’orbita cislunare e la superficie del nostro satellite. L’aspetto di Sls ricorda un po’ il suo predecessore Saturn V, il vettore che ha garantito il successo delle missioni lunari Apollo. Ma dal punto di vista tecnologico lo Space Launch System è più simile allo Space Shuttle, l’altrettanto storico sistema di lancio della Nasa pensionato nel 2011. Come lo Shuttle, l’Sls utilizza due booster aggiuntivi a propellente solido, oltre a
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Il razzo più potente mai realizzato, lo Space Launch System, consentirà a Orion di liberarsi dalla gravità terrestre per esplorare il nostro Sistema Solare. Foto Esa.
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quattro motori RS-25. Queste caratteristiche rendono lo Space Launch System il più potente sistema di lancio mai costruito al mondo.
oRion La punta di diamante dello Space Launch System è la navicella destinata al trasporto dell’equipaggio. Il suo nome è Orion, ha le dimensioni di una piccola casa e può ospitare fino a sei astronauti. Per realizzare la navetta la Nasa si è affidata all’azienda Lockheed Martin, che ha costruito anche il modulo abitativo. Mentre l’Agenzia Spaziale Europea, con un grande contributo dell’Italia, è responsabile del modulo di servizio, chiamato Esm (da European Service Module, appunto). Si tratta di una componente essenziale della navicella, che fornirà all’equipaggio tutti gli elementi vitali per soggiornare nel modulo abitativo di Orion: acqua, aria, propulsione, elettricità, regolazione della temperatura. Esm si estende per 4 metri di diametro e di altezza, ed è fornito di 4 pannelli solari larghi 19 metri, progettati per generare una quantità di energia corrispondente a quella che serve per alimentare due abitazioni. Il modulo abitativo e il modulo di servizio costituiscono i ‘due piani’ dell’astronave che porterà gli astronauti verso la Luna.
StaRShip Il colossale sistema di lancio messo a punto dalla Nasa e dai suoi partner internazionali è abbastanza potente da trasportare equipaggio e attrezzatura verso la Luna, e un giorno verso Marte. Ma non è adatto alla discesa sul nostro satellite: per questo c’è Starship di SpaceX. Il sistema Starship è composto dall’omonima navetta, utilizzata per il trasporto di astronauti su e giù dalla Luna (e un giorno da Marte), e dal razzo Super Heavy. Parole chiave sono riutilizzabilità e velocità, due elementi che nei progetti di Elon Musk renderanno i viaggi spaziali economicamente sostenibili. SpaceX scommette infatti sul suo già rodato sistema di lancio riutilizzabile per carichi pesanti, che permette un alto numero di lanci in breve tempo con una notevole diminuzione dei costi. Secondo i piani, i futuri equipaggi raggiungeranno l’orbita lunare con Orion, mentre scenderanno sulla superficie del nostro 14 | SPAZIO 2050
La navicella Orion ha le dimensioni di una piccola casa e può ospitare fino a sei persone. Foto Esa.
satellite con Starship. Passando, se necessario, per la futura stazione spaziale in orbita cislunare.
lunaR Gateway Il Lunar Gateway sarà la prima stazione in orbita intorno alla Luna. Sarà costituita da 7 moduli, più un braccio robotico fornito dal Canada, per un peso totale dell’intera struttura di circa 40 tonnellate. Ispirato
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alla Iss, il Gateway sarà la ‘casa’ degli astronauti che viaggeranno verso il nostro satellite. Da qui gli equipaggi potranno raggiungere con la navetta Starship la superficie lunare, che a lungo termine sarà a sua volta equipaggiata con un Base Camp permanente. Ma, proprio come è oggi per la Stazione Spaziale Internazionale, il Gateway sarà anche un laboratorio dove svolgere esperimenti in assenza di gravità.
aRtemiS i La tabella di marcia di Artemis ha subito diversi aggiustamenti nel corso degli ultimi anni. Se con l’amministrazione Trump si puntava a un (da molti già considerato irrealistico) ritorno dell’essere umano sulla Luna entro il 2024, ora la Nasa è molto più cauta. Tanto che non esistono date di lancio ufficiali al di fuori del volo inaugurale, al momento previsto per l’estate 2022. Si tratta della missione Artemis 1 (precedentemente chiamata Exploration Mission-1, o EM-1), prima delle tre tappe fondamentali del programma lunare. Artemis 1 è un volo unmanned che metterà alla prova Sls e Orion, in una spedizione che vedrà un sorvolo ravvicinato del nostro satellite. La missione prevede anche il rilascio di 10 cubesat, tra cui l’italiano ArgoMoon, unico europeo tra i progetti selezionati dalla Nasa. La conferma ufficiale del lancio di Artemis 1 entro l’estate dipende dal successo dell’ultimo test dello Space Launch System, la cosiddetta ‘prova bagnata’ (dall’inglese wet dress rehersal).
aRtemiS ii Se tutto andrà come previsto con Artemis 1, seguirà Artemis 2: il primo volo di Orion con 4 astronauti a bordo. Sarà il primo equipaggio a lasciare l’orbita terrestre bassa dai tempi della prima citata Apollo 17 del 1972. Il liftoff avverrà dal Kennedy Space Center della Nasa in Florida. La missione dura circa 10 giorni in tutto. Una volta raggiunta l’orbita lunare, Orion farà un flyby di 7.500 chilometri circa di distanza dalla superficie del nostro satellite. Per il ritorno la navicella sfrutterà il campo gravitazionale Terra-Luna, che la ‘tirerà’ indietro verso il nostro pianeta. Concluderà la missione uno splashdown nel Pacifico. 16 | SPAZIO 2050
La missione prevede anche il rilascio di 10 cubesat, tra cui l’italiano ArgoMoon, unico europeo tra i progetti selezionati dalla Nasa. ArgoMoon viene preparato al lancio presso il Kennedy Space Center della Nasa, in Florida. Il CubeSat italiano documenterà alcune fasi della missione Artemis I. Foto Nasa.
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aRtemiS iii L’allunaggio spetterà invece ad Artemis 3. La Nasa non ha ancora svelato i dettagli della missione, ma ad oggi sappiamo che 4 astronauti prenderanno parte al secondo volo con equipaggio di Orion, e due di loro (tra cui la prima donna) raggiungeranno la superficie lunare. L’allunaggio avverrà nella regione polare meridionale e prevede una permanenza sulla Luna di circa una settimana. I due astronauti condurranno alcune passeggiate spaziali sul suolo lunare, eseguendo una serie di osservazioni e campionamenti.
luna italiana Nel nuovo programma di esplorazione lunare c’è anche molta Italia. Alla fine del 2020 il nostro paese è stato uno degli 8 firmatari degli Artemis Accords, primo accordo di cooperazione internazionale per il ritorno pacifico sulla Luna. E molti sono i contributi scientifici e tecnologici italiani. L’Agenzia Spaziale Europea è il partner della Nasa di maggior peso per la realizzazione del Gateway, e in Europa il principale contributo alla stazione lunare è proprio quello italiano. Thales Alenia Space ha firmato con la statunitense Northrop Grumman un contratto per realizzare, nei suoi stabilimenti di Torino, la struttura primaria del modulo Halo del Gateway. E alla stessa azienda l’Esa ha affidato lo sviluppo dei componenti I-Hab ed Esprit. C’è poi l’ambizioso progetto Moonlight dell’agenzia europea, che punta a creare servizi lunari di comunicazione e navigazione: Thales Alenia Space Italia, insieme a Telespazio, sta lavorando a uno studio di fattibilità per mettere a punto il futuro sistema di comunicazione Terra - Luna che sarà cruciale per l’intero programma Artemis. Ancora, dal nostro paese arriva lo sviluppo di un innovativo strumento che aiuterà nel posizionamento delle future sonde lunari e dello stesso Lunar Gateway: è Lugre (Lunar Gnss Receiver Experiment), ricevitore Gnss messo a punto dall’Agenzia Spaziale italiana in partnership con la Nasa. L’Italia finanzia anche la progettazione del Multi Purpose Module, una struttura pressurizzata che potrebbe evolversi in una sorta di ‘ascensore’ dal Gateway al Base Camp lunare. Ma prima ancora di partecipare in prima linea al ri18 | SPAZIO 2050
Il montaggio dei serbatoi nel secondo modulo di servizio europeo che fornirà energia, acqua, aria ed elettricità al modulo Orion. Foto Esa.
torno dell’essere umano sul nostro satellite, l’Italia avrà un occhio privilegiato sull’inaugurazione del programma lunare. ArgoMoon, il cubesat sviluppato a Torino dall’azienda Argotec su mandato dell’Agenzia spaziale italiana, sarà il primo a tuffarsi nello spazio durante la missione senza equipaggio Artemis 1. Documentando così il distacco di Orion dal razzo, tappa che darà ufficialmente il via al conto alla rovescia per vedere il prossimo uomo e la prima donna sulla Luna.
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VIVERE SULLA LUNA
Psicologia lunare di Giulia Bonelli e Giuseppe Nucera
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Le future missioni di lunga durata sulla Luna hanno intensificato gli studi qui sulla Terra per comprendere meglio le conseguenze sul corpo della permanenza prolungata nello spazio. Dal sistema muscolare a quello nervoso, dalle ossa alle cellule: a vari livelli, l’assenza di gravità influisce sulla salute degli astronauti, e questo è già stato ampiamente dimostrato grazie a diversi esperimenti sulla Stazione Spaziale Internazionale. Ecco perché, in vista di insediamenti a lungo termine sul nostro satellite, è importante prevenire il più possibile gli effetti dannosi delle radiazioni spaziali sul corpo. E la mente? Ne sentiamo parlare meno, ma la salute mentale dei futuri coloni lunari è importante quanto quella fisica. Ed esiste qualcuno che se ne sta occupando da tempo, nell’ambito di quella che viene chiamata space psychology: un ramo della psicologia che indaga appunto le conseguenze dei viaggi spaziali, e dell’ambiente cosmico, sulla mente umana. La pandemia ci ha dato un’idea di quello che significhi isolamento sociale, anche e soprattutto a livello psicologico. Immaginate di traslare questa esperienza in un luogo estremo come la Luna, con possibilità di comunicazione con la Terra limitate e fattori ambientali di per sé ostili. Per studiare e soprattutto prevenire le conseguenze di questo ‘isolamento lunare’, l’unica strada al momento è il mondo della simulazione, attraverso i cosiddetti analoghi terrestri. Non potendo (ancora) supervisionare coloni lunari in carne e ossa, gli psicologi spaziali si basano su esperimenti svolti sul nostro pianeta che simulano appunto le condizioni estreme del nostro satellite, e in generale dello spazio. È il caso di una recente ricerca realizzata da un team di psicologi dell’Università Bicocca di Milano, dell’Università di Messina e dell’Università di Surrey in Gran Bretagna basata sui risultati del progetto Lunark: la prima simulazione di una missione lunare svolta nell’Artico. Lunark ha sviluppato una capsula ermetica simile a un habitat lunare. I due architetti della stessa struttura hanno vissuto volontariamente per 61 giorni in totale segregazione nel nord della Groenlandia. Un’opportunità per studiare l’impatto psicologico dell’isolamento sociale prolungato in ambienti estremi.
La capsula del progetto Lunark che ospita la prima simulazione di una missione lunare. Particolari dell'interno Foto Saga Space Architects.
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I due architetti del modulo lunare hanno vissuto volontariamente per 61 giorni in totale segregazione nel nord della Groenlandia.
«I nostri modelli teorici - spiega Paolo Riva, psicologo sociale dell’Università Bicocca di Milano e leader dello studio - predicono un’associazione tra esperienze di isolamento prolungato e una serie di stati psicologici negativi quali depressione, aumento di ansia, senso di alienazione. Questo però viene compensato dalla consapevolezza di una data certa di fine dell’esperienza e dalla forte motivazione che si manifesta nell’ambito di una missione spaziale». Dall’esperimento Lunark, racconta il ricercatore, emerge quindi il ruolo determinante del contesto di una missione spaziale, che risulta avere una funzione protettiva, in quanto con una data di fine certa e robuste motivazioni da parte dell’equipaggio. Resta però come fattore di rischio la forte riduzione delle interazioni sociali. «Il nostro studio - dice Riva - mostra che lo stato di rassegnazione, con cui noi sintetizziamo le conseguenze negative più profonde dell’isolamento sociale, manifesta un effetto di carry over, ossia un trascinamento delle conseguenze da un giorno con l’altro. Al tempo stesso, il desiderio di contatti sociali cresce in maniera piuttosto lineare nell’esperienza dei due volontari».
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Per i futuri abitanti della Luna, sarà dunque fondamentale arrivare preparati anche sugli aspetti psicologici delle permanenze lunari di lunga durata. Missioni che dovranno prevedere anche un programma di tutela della salute mentale. «L’esercizio fisico, il tempo libero dedicato ad attività non strettamente legate alla missione, l’interazione tra l’equipaggio, compresa la condivisione emotiva e la discussione di temi di natura personale: sono tutte attività associate a una maggior salute mentale», conclude Riva. Simulazioni come Lunark, o altri esperimenti fatti in passato in ambienti terrestri estremi (ad esempio Amadee-18, che ha simulato una missione marziana nel deserto dell’Oman) sono particolarmente preziose perché raccolgono dati sperimentali complementari a quelli forniti dalla letteratura. E le teorie della psico-
I progetti di simulazione come Lunark sono particolarmente preziosi perché raccolgono dati sperimentali complementari a quelli forniti dalla letteratura.
logia classica trovano nell’ambito della space psychology un interessante banco di prova, come racconta Patrice Rusconi dell’Università di Messina, co-autore dello studio pubblicato sulla base delle osservazioni dal progetto Lunark. «Alcune dinamiche che vengono da anni studiate dalla psicologia sociale, come alcune specifiche interazioni di gruppo, - dice Rusconi - possono emergere anche durante le missioni spaziali. Un fenomeno molto indagato da questo punto di vista è quello del groupthink, ‘pensiero di gruppo’, che si verifica in gruppi altamente coesi. Questa dinamica non lascia spazio alle espressioni di dissenso o ai punti di vista individuali, ma porta a un pensiero stereotipizzato che però rende la prestazione del gruppo inferiore in momenti di crisi». Ma in che modo i futuri coloni lunari possono contrastare i possibili effetti dannosi del groupthink? Anche in questo caso, la preparazione è fondamentale: occorre lavorare sul gruppo prima di volare nello spazio, come del resto già avviene per gli equipaggi diretti alla Iss. E a tal proposito gli psicologi giocano un ruolo essenziale nel lungo training che devono affrontare gli astronauti, singolarmente e in gruppo. Anche in missione, però, la space psychology può aiutare a mettere a punto strategie per preservare la salute mentale dell’equipaggio. «Nel nostro studio - spiega Rusconi - abbiamo suggerito ad esempio un utilizzo della gamification, ovvero la possibilità di inserire elementi tipicamente legati al gioco anche durante alcune attività lavorative nel corso della missione. Questo potrebbe attivare utili leve psicologiche dell’essere umano come la cooperazione ma anche la competizione, incentivando un’interazione più efficace tra i membri dell’equipaggio. Per questo un uso del gioco nel design dell’interfaccia macchina-uomo per le future missioni lunari potrebbe avere un buon impatto sulla salute mentale, migliorando anche le dinamiche di gruppo». Ecco dunque che la psicologia spaziale sta entrando sempre più in tutte le fasi dell’esplorazione umana dello spazio. E chissà che un giorno, nelle basi lunari permanenti, non troveremo anche professionisti della salute mentale tra i lavoratori spaziali del futuro.
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Le future esplorazioni umane nello spazio profondo, con prime destinazioni Luna e Marte, vedono di fronte a sé grandi sfide tecnologiche anche per gli aspetti, per nulla banali, inerenti alla vita quotidiana degli astronauti. Primo fra tutti si pone il problema di cosa mangeranno gli equipaggi nei viaggi interplanetari e i membri di colonie extraterrestri. La sopravvivenza degli astronauti che si spingeranno molto più in là rispetto all’orbita bassa terrestre dipenderà, infatti, dalla capacità di produrre e riciclare direttamente sul posto le risorse primarie, quali acqua e cibo, svincolandosi il più possibile dai rifornimenti dalla Terra: complicati per i prossimi insediamenti lunari, praticamente impossibili per le future colonie marziane. La cucina spaziale del futuro si può, quindi, riassumere in due concetti: circolarità e autosufficienza.
Pianeta che vai, cibo che trovi di Giuseppe Nucera
I futuri esploratori prima di essere astronauti saranno degli agricoltori spaziali e sicuramente saranno vegetariani. 22 | SPAZIO 2050
Sotto questo approccio, la necessità primaria sarà quella di dare agli astronauti in missioni remote del cibo fresco: questo fornirebbe, infatti, un migliore apporto nutritivo e proteico, contenendo più sali minerali e più vitamine rispetto ai cibi liofilizzati fin qui più diffusi. Nel caso dei vegetali freschi è anche nota la loro capacità di ridurre il rischio di patologie associate alle condizioni ostili dell'ambiente spaziale. La ricerca scientifica mira quindi a sviluppare sistemi a supporto di una capacità futura di produrre in loco alimenti freschi, dati i problemi di trasporto e di conservazione di grandi quantità di cibo terrestre. «La sfida è quella di produrre cibo in tempi brevi, in spazi ridotti e attraverso tecniche di coltivazione che permettano la crescita di piante in microgravità», afferma Stefania De Pascale del Dipartimento di Agraria dell'Università degli Studi di Napoli Federico II. Particolare rilevanza assumono, da questo punto di vista, i progetti finalizzati allo sviluppo dei cosiddetti sistemi biogenerativi per il supporto alla vita: sistemi chiusi completamente auto-rigeneranti in cui le risorse disponibili si riciclano in continuazione senza esaurirsi, producendo i beni primari per la sopravvivenza umana nello spazio. Basati essenzialmente su elementi biologici, come piante, alghe, funghi e microorganismi, questi complessi ecosistemi artificiali sono in grado di generare ossigeno, acqua potabile e biomassa commestibile, come ad esempio insalate e microverdure. Questi sistemi sono al centro del programma Melissa di Esa, un consorzio che comprende università, centri di ricerca e Pmi. All’interno di questo progetto europeo, nei laboratori di Portici a Napoli è stata sviluppata la Plant Characterization Unit (Pcu), una moderna camera di crescita che consiste in un impianto di coltivazione idroponica, ovvero in assenza di terreno di coltura, all’interno di un ambiente sigillato. L’impianto è stato realizzato grazie al progetto di ricerca PaCMan, coordinato da Enginsof e finanziato dall'Agenzia Spaziale Europea. «Grazie a un sistema di luce artificiale e la capacità di recuperare l’acqua traspirata dalle piante, che di fatto è potabile, siamo in grado di verificare l’attitudine delle piante superiori a generare risorse in risposta ai cambiamenti ambientali e individuare così le colture più idonee per i futuri sistemi biogenerativi per lo spazio», afferma Stefania De Pascale, responsabile del Laboratorio per la ricerca sulle piante per lo Spazio in cui si trova la camera di crescita Pcu.
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La ricerca scientifica sui futuri cibi spaziali si diversifica, quindi, in base alle diverse condizioni ambientali e alle risorse disponibili del luogo dove il piatto spaziale verrà servito. Nel caso degli astronauti in viaggio dalla Terra, che potranno trasportare con sé su una certa quantità di cibo terrestre, il cibo fresco che produrranno i sistemi a bordo di navicelle o stazioni orbitanti consisterà essenzialmente in microverdure, in linea con le sperimentazioni fin qui realizzate sulla Stazione Spaziale Internazionale, come la serra idroponica Veggie che è operativa in orbita terrestre dal 2014. Su questa linea di ricerca si sta muovendo il progetto MicroX2 (Microgreens for Microgravity) in cui il team di De Pascale collabora con l’Agenzia Spaziale Italiana. «Stiamo studiando i piccoli ortaggi con cicli brevissimi di crescita, non più di due settimane, la cui funzione principale è fornire un complemento di cibo fresco da integrare agli alimenti trasportabili dalla Terra», continua De Pascale.
L’aggancio tra la navicella Nasa Apollo e la sovietica Soyuz. Nasa
Ben differenti, invece, le necessità alimentari delle prossime colonie extraterrestri, dove le piante dovranno rigenerare le risorse indispensabili alla missione e produrre l’alimentazione di base per i coloni. Una cucina che dovrà necessariamente utilizzare solo risorse disponibili in loco. Queste sono le condizioni a cui dovranno rispondere le tecnologie sviluppate all’interno del progetto ReBUS, coordinato e finanziato da Asi e a cui partecipano diversi enti e università italiani. Stefania De Pascale è il responsabile scientifico del progetto, che mira a produrre piante sfruttando i suoli lunari e marziani, ossia la regolite: l’insieme dei sedimenti sabbiosi sulla superficie dei pianeti rocciosi. «Partendo dalla base dell’alimentazione umana sul nostro pianeta, stiamo puntando alle colture in grado di produrre alimenti ricchi dal punto di vista energetico: cereali, grano, frumento tenero e duro; ma anche riso e patate, oltre ovviamente ai legumi, in grado di integrare la nostra dieta con numerose proteine».
Pasto italiano per l'astronauta Paolo Nespoli a bordo della stazione spaziale. Coltivare piante nello spazio si può. Foto Esa.
Tutti i progetti terrestri sono però accomunati da un'unica certezza: il menu del futuro da consumare nello spazio profondo sarà necessariamente vegetariano, prodotto dal lavoro degli astronauti in missione. «I futuri esploratori prima di essere astronauti saranno degli agricoltori spaziali e sicuramente saranno vegetariani perché nell’alimentazione delle prossime colonie spaziali arriveranno molto prima le piante degli animali» conclude De Pascale.
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TuTe Spaziali in orbita la moda hi-tech di Valeria Guarnieri
Sicurezza e soluzioni innovative nel guardaroba degli astronauti
Colorate o bianche, dotate di caschi e strumenti studiati appositamente in relazione al tipo di attività cui sono destinate e accomunate dallo scopo principale di proteggere chi le indossa da un ambiente ostile: sono le tute spaziali, un ingrediente fondamentale per le missioni che vedono in primo piano gli esseri umani. Il rinnovato interesse verso l’esplorazione della Luna con il programma Artemis della Nasa, cui l’Agenzia Spaziale Italiana ha aderito nel 2019, e il successivo obiettivo di portare l’uomo su Marte hanno riacceso i fari sulle tute. Tra l’altro, il contesto in cui questi particolari indumenti vengono ideati e sviluppati è diventato particolarmente variegato e competitivo: se un tempo la progettazione del guardaroba degli astronauti era appannaggio delle due nazioni protagoniste della ‘corsa allo spazio’, gli Stati Uniti e la Russia, ora hanno debuttato nel campo del volo umano anche altri soggetti, come la Cina - che sta costruendo la propria stazione orbitante - e le aziende private Blue Origin e SpaceX. Questi abiti dall’aspetto fantascientifico, che continuano a suscitare un indubbio fascino sui giovani e sul grande pubblico (basti pensare alla grande varietà di costumi per bambini e non ispirati alle tute e facilmente reperibili online), hanno conosciuto un profondo progresso tecnologico dai tempi dei primi voli umani del russo Yuri Gagarin e dello statunitense Alan Shepard (avvenuti, rispettivamente, il 12 aprile e il 5 maggio 1961). Tuttavia, non è mai venuta meno la loro caratteristica di base: essere un rivestimento protettivo - quasi una sorta di piccola astronave - nelle fasi più delicate delle missioni, come ad esempio i 24 | SPAZIO 2050
Tuta Ocss: il prototipo della tuta Ocss indossato da Dustin Gohmert, Project Manager in forze al Johnson Space Center della Nasa. La foto è stata scattata presso la sede centrale della Nasa a Washington durante l’evento di presentazione delle tute per il programma Artemis, tenutosi il 15 ottobre 2019. Foto: Nasa/Joel Kowsky.
viaggi da e per la Stazione Spaziale Internazionale e soprattutto le attività extraveicolari in cui gli astronauti si trovano a lavorare nello spazio anche per parecchie ore di seguito. La sicurezza è un elemento di primaria importanza e, nonostante gli sforzi intrapresi per garantire la massima tutela agli esploratori cosmici, gli imprevisti possono comunque presentarsi. È proprio quello
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che è successo il 16 luglio 2013 all’astronauta italiano dell’Esa Luca Parmitano che, impegnato in un’attività al di fuori della Stazione Spaziale, ha dovuto affrontare momenti drammatici quando il casco della sua tuta da esterni ha iniziato a riempirsi d’acqua a causa di una valvola difettosa. La vicenda, che si è conclusa felicemente grazie alla professionalità di Parmitano e ha ispirato il documentario Eva 23, è stata oggetto di
Tuta xEmu: il prototipo della tuta xEmu in mostra presso la sede centrale della Nasa a Washington durante l’evento di presentazione delle tute per il programma Artemis, tenutosi il 15 ottobre 2019. Foto: Nasa/Joel Kowsky.
una profonda indagine da parte della Nasa e ha costituito successivamente un momento di crescita e riflessione per evitare che un imprevisto così pericoloso potesse ripetersi. Ma a questo punto, alla luce delle innovazioni nelle tecnologie e nei materiali e delle lessons learned, come si evolverà il guardaroba degli astronauti? Cosa indosseranno, ad esempio, i protagonisti del futuro allunaggio, previsto al momento nel 2025? La ‘collezione’ di tute sviluppate dai primi voli in poi si è infatti arricchita di due unità nuove di zecca, pronte per prendere il via con le missioni del programma Artemis: sono la bianca xEmu (Exploration Extravehicular Mobility Unit) e l’arancione Ocss (Orion Crew Survival System). Progettati per scopi diversi, i nuovi completi dovranno garantire alle prossime generazioni di esploratori lunari sicurezza e maggiore agilità nei movimenti, visto che i loro compiti saranno più impegnativi rispetto a quelli dei pionieri che li hanno preceduti. La xEmu, il cui look ricorda le tute indossate dagli astronauti delle missioni Apollo, è stata ideata per le uscite sul suolo lunare: dovrà quindi resistere alle temperature estreme che caratterizzano l’ambiente del nostro satellite naturale, ma potrà essere proficuamente impiegata anche per le attività extraveicolari del Lunar Gateway, l’avamposto cislunare di appoggio per le missioni Artemis. La sgargiante Orion, invece, è stata ideata principalmente come ‘abito da viaggio’: sarà suo compito proteggere gli astronauti nelle delicate fasi di lancio e di rientro sulla Terra, ma potrà essere utilizzata anche nell’interno degli habitat spaziali e in eventuali situazioni di emergenza. Quindi, per rispondere in maniera sempre più aderente alle dinamiche della vita a gravità zero, la moda ‘astronautica’ del futuro, oltre ai fondamentali requisiti di sicurezza, dovrà coniugare stile, tecnologia e praticità. Caratteristiche non molto lontane dall’abito “universale, che veste tutta la persona, dà completo agio di movimento e senso di risparmio di energia”, ovvero quella tuta inventata nel 1919 dai fratelli Ernesto e Ruggero Michahelles, eclettici esponenti del movimento artistico futurista noti come Thayaht e Ram. I due creativi sarebbero stati sicuramente fieri nel vedere che, dai primi voli in poi, versioni sempre più all’avanguardia del loro abito - considerato ‘di rottura’ alla loro epoca - hanno avuto un ruolo così importante nell’accompagnare gli esseri umani alla scoperta dello spazio. SPAZIO 2050 | 25
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Come vIvRemo SUlla lUna di Fulvia Croci @asi_spazio
La telerobotica, l’intelligenza artificiale, il life support, l’In-Situ Resource Utilization sono gli strumenti necessari alla futura colonizzazione lunare
Il ritorno sulla Luna è uno dei principali obiettivi delle agenzie spaziali di tutto il mondo. Questa volta, a differenza di quanto è avvenuto negli anni sessanta, la riconquista del nostro satellite non sarà più il progetto individuale di una o più superpotenze, ma dovrà essere un’operazione più complessa che coinvolgerà soggetti pubblici e privati. Una volta tornati sulla superficie lunare saranno necessarie una serie di tecnologie - in parte in via di sviluppo - che aiuteranno l’uomo nella costruzione degli avamposti. Nello specifico tra gli strumenti e le tecnologie nel ‘bagaglio' dei futuri coloni non potranno mancare i rover dedicati all’esplorazione della superficie e alla raccolta dei materiali; l’intelligenza artificiale, che aiuterà a svolgere da remoto le operazioni più complesse e l'In-Situ Resource Utilization (Isru) una pratica che consiste nell’utilizzo di materiali trovati o fabbricati sulla Luna che sostituiscono quelli che dovrebbero essere portati dalla Terra. In particolare l’interesse per la Luna come luogo da cui estrarre risorse preziose per la costruzione di avamposti, non è nuovo. Già all’epoca delle missioni Apollo sono stati avviati studi sulla ricerca di elementi come elio, ferro e acqua mentre più di recente, l’interesse si è spostato verso l’individuazione di depositi di ghiaccio e la presenza di sostanze volatili. Per individuare i siti migliori per l’eventuale estrazione di risorse i coloni potranno fare affidamento sull’intelligenza artificiale che potrà scansione velocemente e in modo più efficiente le caratteristiche morfologiche 26 | SPAZIO 2050
Concept di un avamposto lunare realizzato con stampa 3D. Immagine tratta dal sito Esa. Crediti RegoLight, Liquifer Systems Group, 2018.
lunari, dalle immagini già a disposizione raccolte dai satelliti. Si tratta di un approccio che potrebbe migliorare significativamente l’efficienza della selezione dei siti per l’esplorazione del nostro satellite. «La Luna è tornata a essere l’obiettivo principale nell’ambito dell’esplorazione spaziale non solo come una tappa verso Marte, ma anche come un progetto molto più complesso, che prevederà una stazione orbitante lunare e probabilmente, in futuro, anche un insediamento permanente - afferma Barbara Negri, responsabile dell’Unità Volo Umano e Sperimentazione Scientifica dell’Agenzia Spaziale Italiana - l’esplorazione robotica e umana della Luna potrà testare la scienza e le tecnologie necessarie ad una maggiore conoscenza dell’ambiente lunare e le operazioni di lungo periodo necessarie per le missioni dirette su Marte e nello spazio profondo». La Luna è particolarmente adatta a diventare un laboratorio sperimentale dove si potrà vivere, si potranno
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preparare missioni per la colonizzazione di Marte e per l’esplorazione di zone più remote del Sistema Solare. In quest’ottica, l’Agenzia Spaziale Italiana avvierà nei prossimi mesi diverse attività finalizzate ad impiegare, valorizzare e accrescere le capacità scientifiche e tecnologiche acquisite dall’Italia in questo campo. Nel dettaglio, alcune tra le aree di interesse selezionate riguardano lo studio ambiente lunare; l'osservazione dell’Universo dalla Luna; la sostenibilità per insediamenti; le tecnologie e strumentazione necessaria; la radioprotezione per astronauti e materiali e i laboratori e gli studi di fisiologia umana in ambienti extraterrestri. Anche l’Agenzia Spaziale Europea sta portando avanti diversi studi dedicati alla progettazione dei robot e dei rover che solcheranno il suolo lunare. Uno dei più recenti è un progetto relativo al controllo dei rover da parte degli astronauti in orbita, in modo tale che que-
sti ultimi possano svolgere operazioni sulle superfici planetarie.
la luna è adatta a diventare un laboratorio sperimentale dove si potrà vivere, si potranno preparare missioni per la colonizzazione di Marte.
Questa innovativa tecnica è stata messa alla prova dall’astronauta dell’Esa Luca Parmitano nel 2019 nel corso della missione Beyond. Parmitano ha controllato dalla Iss i movimenti del rover Analog-1, situato a terra, presso il centro di Valkenburg, nei Paesi Bassi. Il test ha verificato che questa tecnologia è in grado di consentire operazioni di alta precisione, come il campionamento di rocce in assenza di gravità. Per svolgere questo genere di compiti così delicati, infatti, è essenziale una supervisione attenta degli astronauti nel corso dell’intera operazione. Non resta che attendere i prossimi mesi per il primo banco di prova di questa nuova avventura spaziale: il volo inaugurale dello Space Launch System, che porterà la capsula Orion con la missione Artemis 1 in orbita lunare, il primo passo che renderà possibile il ritorno dell’uomo sul nostro satellite. SPAZIO 2050 | 27
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TECNOLOGIA
TrasferimenTo Tecnologico Un ponte tra terra e Spazio di Manuela Proietti
Sono gli anni ’60. Siamo nel pieno della corsa allo spazio e nelle stanze del Jet Propulsion Laboratory della Nasa, a Pasadena, un ingegnere di nome Eugene Lally descrive per la prima volta l’utilizzo di sensori a mosaico per convertire la luce in impulso elettrico e produrre immagini digitali. Lally riteneva che una 28 | SPAZIO 2050
tale tecnologia potesse essere di grande utilità per gli astronauti in missione nello spazio e per la miniaturizzazione degli strumenti di imaging delle sonde spaziali. Ma i tempi non erano ancora maturi per trasformare quella straordinaria intuizione in realtà. Trent’anni dopo, Eric Fossum, di nuovo al Jpl, è l’uomo giusto al momento giusto. La Nasa aveva bisogno di ridurre quanto più possibile le dimensioni a bordo delle missioni interplanetarie. Fossum metteva così a punto un sensore di immagine basato su dispositivi semiconduttori a ossido di metallo, il sensore a pixel attivi Cmos-Aps, capace di coniugare dimensioni ridotte e altissima qualità della ripresa. È l’alternativa compatta ed economica al Ccd, che nel frattempo aveva dato il via al mercato del digitale. Fossum non immaginava che il Cmos sarebbe diventata l’invenzione della Nasa in assoluto più diffusa, rivoluzionando non solo il mondo dell’imaging spaziale, ma divenendo un elemento di consumo globale. Dapprima nel comparto delle reflex e delle videocamere digitali ad alta definizione, poi dominando senza rivali il mercato degli
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Lo sport in assenza di gravità è possibile grazie alla "progettazione dell’uso e del gesto", uno studio che permetterà agli astronauti di compiere movimenti acrobatici in assenza di peso.
L’aggancio tra la navicella Nasa Apollo e la sovietica Soyuz. Nasa
smartphone. Quella tecnologia spaziale oggi ce l’abbiamo tutti in tasca. Ci permette di girare video che un istante dopo postiamo su Instagram o TikTok o di filmarci in 8k con una action camera mentre facciamo sport estremi. Nonostante siamo ormai abituati a considerare lo spazio un qualcosa a noi sempre più vicino - conosciamo la nostra posizione in tempo reale e siamo sempre aggiornati sul meteo grazie ai satelliti - le tecnologie trasferite dallo spazio alla Terra pervadono le nostre case e le nostre città, spesso senza che ce ne rendiamo conto. Se possiamo navigare ovunque con il nostro tablet o utilizzare un aspirapolvere senza fili, lo dobbiamo anche alle missioni Apollo. La Nasa necessitava di trapani a batteria per la raccolta dei campioni lunari e si è rivolta alla Black&Decker. Da quella collaborazione sono scaturite diverse linee di oggetti cordless che oggi sono di uso quotidiano, Anche gli occhiali da sole sono una ricaduta indiretta
Le tecnologie trasferite dallo spazio alla terra pervadono le nostre case e le nostre città.
di un’esigenza di tipo spaziale. Le lenti in vetro antigraffio con filtri Uv dovevano servire a proteggere gli occhi dei lavoratori Nasa impegnati nelle saldature dei razzi. O ancora, i joystick, che oggi si sono fatti piccolissimi e maneggiamo con un dito sui gamepad di ultima generazione, sono una trasposizione terrestre del controller manuale dello Space Shuttle messa a punto dalla ThrustMaster Inc. Non è un caso, quindi, se sono così precisi e altamente sensibili ai nostri movimenti. E poi sistemi di purificazione dell’aria e dell’acqua, piattaforme cloud, scarpe e tessuti tecnici, memory foam, cibo liofilizzato, coperte isotermiche… la lista è pressoché infinita. Per non parlare delle ricadute in ambito medico-diagnostico o in agricoltura. La Nasa li chiama spin-off e li ha raccolti in un sito in cui ci si può perdere: oltre 2.000 invenzioni che dallo spazio hanno trovato applicazione sulla Terra a partire dal 1976. Ma quella del trasferimento tecnologico non è una via a senso unico. Al contrario. Potremmo definirla un’autostrada a quattro corsie e a doppio senso di marcia, con un reticolo strettissimo di rampe d’accesso. Si va dallo spazio alla Terra, ma anche viceversa. Lo spazio chiama all’appello le tecnologie, i prodotti e i processi terrestri più innovativi e performanti per svilupparne una versione declinata per le proprie esigenze. Il meglio del meglio, attentamente selezionato per andare in orbita e anche oltre. E’ il caso di alcune aziende italiane, come la Dainese. La società di Molvena impegnata nella creazione di equipaggiamento tecnico per sport dinamici ha all’attivo ben due spin-off spaziali: uno sviluppato per l’Esa, la tuta Skinsuit, che ha già volato per ben due volte sulla Stazione Spaziale Internazionale, indossata dagli astronauti Andreas Mogensen e Thomas Pesquet. La caratteristica innovativa della Skinsuit è quella di simulare un carico di gravità sul corpo dell’astronauta contrastando così il fenomeno di allungamento della colonna vertebrale, un effetto collaterale della microgravità che al ritorno da missioni spaziali di lunga durata può essere causa di ernia del disco. L’altro è un progetto in collaborazione con la Nasa e il Mit di Boston, pensato in prospettiva dello sbarco dell’uomo su Marte. La sfida lanciata alla Dainese è stata quella di realizzare un omologo spaziale delle sue iconiche tute in cui trasferire la vestibilità dei suoi modelli. La rigidità delle attuali spacesuit è infatti una note dolente per gli astronauti che effettuano le attività extraveicolari. Il risultato è la BioSuit, un prototipo di tuta spaziale che, sfruttando le cosiddette linee di non estensione, utilizza una pressurizzazione di tipo meccanico anziché pneumatico, offrendo a chi la indossa un’ampia libertà nei movimenti, garantendo, allo stesso temSPAZIO 2050 | 29
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po, elevati standard di sicurezza. Restando nel mondo dell’alta velocità su pista troviamo altre due eccellenze italiane che hanno superato la linea di Kármán: la Sabelt e la Dallara Automobili. Specializzata nella realizzazione di cinture di sicurezza ad alta prestazione per il mondo dell’automotive e della Formula Uno, la torinese Sabelt ha trasferito il proprio know-how tecnologico nella produzione di materiali resistenti ma leggerissimi al mondo aerospaziale, fornendo le reti di contenimento per il veicolo da rifornimento spaziale Cygnus, la cui struttura primaria è stata realizzata nei laboratori torinesi di Thales Alenia Space. Dallara, marchio emiliano simbolo delle supercar da competizione e dell’innovazione di frontiera nell’aerodinamica e nelle leghe ha collaborato con la SpaceX di Musk fornendo un componente – rimasto segreto - del Falcon 9, il vettore che ha portato i primi astronauti sulla Iss a bordo di una capsula privata, la Crew Dragon. Allo spazio, l’azienda di Varano de’ Melegari è arrivata tramite Amalia Ercoli Finzi, accettando la complessa sfida di sviluppare il trapano della missione dell’Esa Rosetta, impiegato per forare con successo - per la prima volta nella storia dell’esplorazione spaziale la superficie di una cometa ed estrarre campioni per l’analisi in loco. E ora pare che l’azienda si appresti a lanciarsi in una nuova avventura a fianco di Axiom Space e SpaceX per la realizzazione della prima stazione spaziale privata, progetto in cui l’Italia è già presente tramite Thales Alenia Space, a cui sono stati commissionati i primi due elementi dei quattro che andranno a comporre la struttura. SpaceX ha attinto anche all’expertise ingegneristica della Fagioli, specializzata in trasporti e movimentazioni speciali nei settori delle energie rinnovabili, oil & gas, civile e cantieristica navale. La società statunitense si è rivolta alla sede di Houston dell’azienda di Sant’Ilario d’Enza per le movimentazioni e i sollevamenti eccezionali dei motori del Falcon 9. La Fagioli ha messo a disposizione di SpaceX carrelli modulari di ultima generazione con capacità di trasporto pressoché illimitata, mentre per l’assemblaggio delle sezioni del razzo è stata utilizzata una delle gru cingolate con la maggiore capacità di sollevamento al mondo, configurata fino a 1.600 tonnellate. Come la Dallara, la Fagioli ha importanti trascorsi in ambito spaziale, che vanno dal contributo alla missione Rosetta - per cui si è occupata del coordinamento logistico per il lander Philae - ai delicati trasporti dei moduli abitativi realizzati in Italia della Stazione Spaziale Internazionale, tra cui la Cupola, la finestra dell’avamposto che offre agli astronauti la vista unica della Terra dallo spazio. 30 | SPAZIO 2050
Il primo modulo di stazione spaziale dedicato all’entertainment, in cui si introduce il concetto di ambienti sensoriali. L’uso sapiente della luce, del colore e dei materiali, l'insonorizzazione e la suddivisione flessibile degli spazi contribuiscono al benessere degli astronauti.
Immagini e foto del servizio sono di Annalisa Dominoni, Benedetto Quaquaro, Dipartimento di Design, Politecnico di Milano.
E a proposito di habitat spaziali, con la missione Artemis I in rampa di lancio - primo passo per riportare l’uomo sulla Luna, stavolta per restare – si apre un nuovo capitolo di opportunità e di sfide. Siamo all’alba di una nuova, straordinaria impresa dell’umanità nello spazio e c’è un mondo nuovo, una sorta di universo parallelo al nostro che va immaginato, disegnato e realizzato. Non solo razzi, astronavi, lander e rover, ma anche cibo, ambienti abitabili e qualche optional, che forse tanto opzionale non è. Perché, non dimentichiamolo, lo spazio è un ambiente ostile in cui i pionieri della nuova conquista si troveranno ad affrontare numerose privazioni. Oggi sappiamo che per realizzare il progetto di una colonia extra-terrestre il benessere fisico e mentale degli astronauti è un aspetto da tenere in conto tanto quanto quello della loro sicurezza. Ed ecco che entra in gioco il design, una disciplina caratterizzata da una forte propensione alla visione, che può fungere da ponte tra la Terra e lo spazio, attraversando, per sua natura, diverse aree di conoscenza e campi di applicazione.
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Il Wellness Space Hotel Virgin Galactic è il progetto di un modulo gonfiabile per un albergo tra le stelle dove vivere un'esperienza di benessere in totale assenza di peso.
Oggetti spaziali e forme strutturali di pasta 3d progettati per una degustazione di cibo e vino in microgravità sono stati sviluppati in collaborazione con Barilla Blue Rhapsody.
Ne sono convinti Annalisa Dominoni e Benedetto Quaquaro, entrambi PhD, ritenuti i massimi esperti in architettura e design per lo spazio e ambienti estremi, fondatori dello studio (a+b). Nel 2019 su commissione di Thales Alenia Space, Dominoni e Quaquaro hanno sviluppato un concept per una stazione spaziale cislunare che per la prima volta introduce un intero modulo abitabile per l’entertainment degli astronauti. Uno spazio pensato ad hoc per favorire lo svago e il relax, con elementi di design e stile made in Italy che concorrono a incrementare il benessere e la qualità della vita a bordo. «La sfida, per me, - afferma la Dominoni - è trasformare le condizioni ambientali estreme da un limite a un’opportunità, e quindi per esempio cercare di progettare ambienti e oggetti che traggano vantaggio dalla microgravità, e non che la subiscano». Ne sono un esempio le idee scaturite da Space4InspirAction, il primo e unico corso al mondo di design spaziale che si tiene al Politecnico di Milano, riconosciuto e supportato dall’Agenzia Spaziale Europea, creato e diretto da Dominoni e Quaquaro.
Con la missione artemis 1 in rampa di lancio si apre un nuovo capitolo di opportunità e di sfide.
Un progetto che negli anni ha dato il via a spin-in di eccellenza, provenienti da settori tradizionalmente lontani dallo spazio. Come la pasta a prova di microgravità stampata in 3D che contiene il condimento al suo interno, realizzata in collaborazione con Barilla BluRhapsody. O le declinazioni del fitness in zero-g indagate da TechnoGym. E ancora, le innovative atmosfere di luce create con Foscarini o le nuove forme dell’acqua sperimentate da Jacuzzi e Virgin Galactic per un wellness space hotel. Dalla Luna agli smartphone, dalla Formula Uno ai razzi passando per il design spaziale: questa è l’economia dello spazio, un sistema integrato di competenze che mette a fattor comune le eccellenze più eterogenee, spingendo l’acceleratore dell’innovazione in modo trasversale, rafforzando la filiera e allo stesso travalicandone i confini, attirando continuamente nuovi player. Un sistema virtuoso, che restituisce in multipli il capitale che gli viene affidato, traducendolo in ricerca, innovazione, servizi, occupazione e meraviglie hi-tech. SPAZIO 2050 | 31
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Una vetrina per le piccole e medie imprese e start-up nazionali con l’obiettivo di evidenziare percorsi unici di crescita, modelli di business in evoluzione e strategie di adattamento e anticipazione dei più avanzati trend del New Space, affinché siano di ispirazione per tutto il comparto.
ZOOM SULLE PMI
Qascom porta Galileo e l’italia sulla luna di Silvia Ciccarelli
Nata nel 2004 dall’intuizione di tre ingegneri, Qascom ha contribuito alla progettazione del segnale del sistema europeo di navigazione satellitare Galileo ed oggi sta sviluppando tecnologie che presto atterreranno sulla Luna. L’azienda ha da sempre operato nei mercati dei sistemi di navigazione satellitare e della signal intelligence, oggi componenti cruciali della space economy globale. La passione e la profonda conoscenza delle tecnologie sono due elementi che da sempre caratterizzano il team di Qascom e che gli hanno consentito di crescere e costruire una rete di relazioni internazionali nel settore aerospaziale. Negli anni Qascom è diventata un punto di riferimento Europeo per l’autenticazione del segnale Galileo ed è tra gli inventori del protocollo Osnma (Open Service Navigation Message Authentication), attualmente in fase di sperimentazione nel sistema che consente ai ricevitori Galileo di autenticare il segnale ricevuto dallo spazio. Nel tempo ha rinforzato e incrementato le collaborazioni con la Commissione Europea, l’Agenzia Spaziale Europea, l’Asi e le maggiori industrie europee del settore aerospazio e difesa, arrivando recentemente a contribuire con il suo know-how allo sviluppo dei segmenti spazio e terra dei satelliti Galileo di seconda generazione. L’azienda si è anche consolidata nel settore della Difesa.. I primi 10 anni di attività sono stati focalizzati sulla ricerca di algoritmi in grado di aumentare la sicurez32 | SPAZIO 2050
Qascom è a Bassano del Grappa (vI)
za dei ricevitori Gps. Le attività sono poi evolute aumentando la maturità degli algoritmi e la complessità delle forniture, nonché sviluppando prodotti legati alla navigazione. Tra questi Qascom sta producendo un ricevitore Gps e Galileo multifrequenza e multi-costellazione specifico per applicazioni terrestri e spaziali. La versione spaziale è stata usata con successo su varie missioni supportate da Esa, Asi e Nasa. Nella prima missione, chiamata Gariss, il ricevitore di Qascom ha consentito di sperimentare la ricezione del segnale di navigazione satellitare europeo ed americano dalla Stazione Spaziale Internazionale (Iss). Successive missioni hanno permesso di sperimentare le capacità del ricevitore Gnss su razzi sonda lanciati dalla Nasa (missioni SL14 e la futura SL15) e a bordo del satellite Bobcat-1, un cubesat lanciato dalla Iss che ha consentito di sperimentare per 6 mesi la tecnologia Qascom nello spazio. Dal successo di queste missioni è scaturita l’opportunità di giocare un ruolo chiave in una delle prossime missioni lunari commerciali della Nasa nell’ambito dei Commercial Lunar Payload Services (Clps), grazie ad un accordo tra Asi e Nasa. Il Lunar Gnss Receiver Experiment (LuGre) sperimenterà per la prima volta la ricezione di segnali Gps e Galileo durante la fase di orbita di trasferimento lunare e su suolo lunare. Con LuGre nel 2023 non solo Qascom ma anche l’Italia atterrerà per la prima volta sulla superficie lunare dopo Usa, Russia e Cina. Oggi Qascom sta ampliando il proprio footprint internazionale al di fuori dell’Europa. Con la costituzione di Qascom Australia Pty Ltd intende valorizzare i prodotti della casa madre nel mercato emergente australiano e asiatico ed anche creare opportunità di ulteriore crescita ed evoluzione offrendo servizi di ricerca legati all’utilizzo del Gnss in applicazioni safety critical. In Italia si sta inoltre affacciando su nuove linee di business , tra cui test equipment per satelliti che servono a validare specifici aspetti di sicurezza e crittografia. La nuova sede operativa è in fase avanzata di costruzione e vanta, su un terreno di circa 7.000 mq nel cuore del Veneto e alle pendici delle Alpi, spazi per laboratori di elettronica, un data center, un integration site e una mission control room. È una ulteriore evoluzione del business che ha lo scopo di rafforzare il know-how e aumentare la complessità e maturità dei servizi offerti ai clienti istituzionali. La nuova sede consentirà inoltre di attrarre nuovi talenti da unire all’attuale team, formato da circa 50 persone, la chiave del successo di Qascom.
Segui la pagina di Qascom nell’Italian Space Industry Online Catalogue, con contenuti aggiornati e link ai canali ufficiali dell’azienda: https://italianspaceindustry.it/ listing/qascom/
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STORIA DELLA CONQUISTA DELLA LUNA
Esplorazione cosmica di Giovanni Caprara
Dalla politica della guerra fredda la conquista della Luna, la nascita dello spazio italiano e il futuro sulla Luna e su Marte
Difficile immaginare la conquista della Luna e lo sbarco dei primi astronauti americani nel 1969 con l’incredibile rapidità con cui i fatti si sono allora succeduti, senza la cornice della guerra fredda che segnava quegli anni. La storia della prima esplorazione umana di un altro corpo celeste ha le sue radici nell’immediato dopoguerra quando il confronto tra Mosca e Washington era sbilanciato a vantaggio degli Stati Uniti nella possibilità di colpire militarmente, se necessario, il potenziale avversario. La logica sulla quale la politica dei due blocchi contrapposti si reggeva era quella della “mutua distruzione” facendo ricorso all’arma nucleare. Ma se l’America disponeva delle basi in Europa per ospitare i bombardieri in grado di volare su Mosca, altrettanto non erano in grado di fare i sovietici partendo dall’Urss. L’unica opportunità per Josif Stalin era affidarsi allo sviluppo dei razzi partendo dai tecnici tedeschi catturati e protagonisti della costruzione della V2/A4, il primo missile guidato della storia con cui Hitler bersagliava Londra. Ad essi si affiancava il gruppo guidato da Sergei Korolev, il pioniere dello spazio russo che con l’approvazione di Nikita Krushev succeduto al Cremlino, realizzava il primo missile balistico intercontinentale R-7. Con il potente vettore Mosca ristabiliva l’equilibro essendo in grado di portare la minaccia nei cieli americani. SPAZIO 2050 | 33
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Washington se ne accorse soltanto quando il 4 ottobre 1957 Korolev riusciva a lanciare il primo satellite della storia, lo Sputnik, il cui unico compito era far sentire al mondo intero un bip-bip proveniente dallo spazio carico di significati. Non di natura scientifica, ma politica. Il satellite veniva realizzato in fretta per battere gli americani che nel 1955 attraverso l’annuncio del presidente Dwight Eisenhower, avevano deciso di costruire un satellite artificiale a scopo scientifico. In quegli anni era stato organizzato l’Anno geofisico internazionale che si sarebbe avviato nel 1957 per conoscere meglio le condizioni della Terra, e al quale partecipavano anche gli scienziati italiani. Proprio la nascita della missilistica e di altre tecnologie come il radar durante la seconda guerra mondiale, aveva permesso di immaginare la costruzione di un satellite la cui posizione nello spazio avrebbe consentito per la prima volta una visione globale del nostro pianeta. Leonid Sedov illustre fisico sovietico, poi a capo del programma spaziale, faceva sapere quattro giorni dopo il presidente americano di perseguire lo stesso obiettivo. Il progetto già segretamente avviato era però troppo complesso e per battere in volata l’antagonista americano veniva accantonato e sostituito dallo Prosteyshiy Sputnik che anche nel nome significava “satellite elementare” (Sputnik voleva pure dire “compagno di viaggio”). Quando nel 1957 entrava in orbita aprendo l’era spaziale dimostrava la superiorità tecnologica dell’Unione Sovietica; o meglio, del sistema politico comunista. E l’America convinta di essere la superpotenza indiscussa perché aveva per prima costruito la bomba atomica e la bomba all’idrogeno veniva detronizzata dalla piccola sfera cosmica ma soprattutto dalla dimostrazione di potenza del vettore che l’aveva lanciata. Nell’ogiva, infatti, poteva trasportare un ordigno nucleare e colpire all’improvviso gli Stati Uniti privi di difesa. Il volo di Jurij Gagarin nel 1961 rafforzava il dominio spaziale sovietico e a quel punto la guerra fredda assumeva toni più accesi facendo ricorso agli strumenti missilistici e al confronto in orbita. Sulla debolezza americana John Kennedy fondava la sua campagna presidenziale accusando Eisenhower di aver sbagliato nel sottovalutare questa prospettiva, conquistando sull’onda della paura la Casa Bianca. Un’accusa fondata, perché Eisenhower sosteneva che gli americani dovevano costruire televisori non satelliti. Tuttavia nel frattempo doveva concedere una pronta risposta a Mosca. Quindi autorizzava il lancio del primo satellite americano Explorer-1 secondo il programma elaborato da tempo da Wernher von Braun utilizzando il primo vettore militare Redstone che egli stesso aveva costruito nell’arsenale di Huntsville. Proprio l’Explorer dimostrava l’importanza della ricerca spaziale scoprendo le fasce di van Allen intorno alla Terra. Generate dal campo magnetico intrappolando particelle e radiazioni cosmiche, avevano consentito la nascita della vita sulla Terra. 34 | SPAZIO 2050
L’anno successivo allo Sputnik la Nasa elaborava una strategia che includeva anche il volo umano sulla Luna.
La missione Apollo 15. L'astronauta James Irwin sulla Luna.
Il primo compito, dunque, per Kennedy una volta insediato sarebbe stato il ripristino della supremazia perduta della nazione. La sfida diventava ardua perché si doveva giocare nello spazio. La Nasa dopo la sua costituzione l’anno successivo allo Sputnik, elaborava una strategia che includeva anche il volo umano sulla Luna. Era in questo contesto della guerra fredda che le attività spaziali americane e sovietiche trovavano terreno fertile per svilupparsi. Gli investimenti nelle forze armate sia negli Usa che in Urss per la costruzione di nuovi missili sempre più capaci consentivano di disporre con un loro adattamento, dei vettori necessari per il lancio di satelliti, sonde interplanetarie e navicelle abitate. Negli Stati Uniti si costituiva l’Arpa, l’agenzia di ricerca del Pentagono, e tra i suoi primi impegni c’era la costruzione di un super propulsore a razzo da 450 tonnellate di spinta (poi ulteriormente aumentata) per un futuro potente lanciatore. E quando von Braun disegnerà al Centro Marshall della Nasa il vettore Saturn V sarà questo il motore che gli consentirà di portare le capsule Apollo con gli astronauti per sbarcare sulla Luna nel 1969. Altrettanto cercheranno di fare in Unione Sovietica realizzando potenti nuovi vettori come N1, ma proprio le rivalità tra i due pretendenti alla conquista della Luna, Sergei Korolev e Vladimir Chelomey e le conseguenti dispersioni di risorse economiche ed umane, vanificavano lo sforzo e Mosca non raggiungerà mai l’obiettivo. Da quei momenti il confronto nello spazio della guerra fredda si indebolirà a favore degli Stati Uniti dove gli imponenti investimenti tra militare e civile producevano un avanzamento tec-
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europei. Lo scopo era favorire iniziative spaziali dalle quali la scienza e la tecnologia del Vecchio Continente avrebbe tratto vantaggi nella scienza e nell’economia, oltre ad arginare l’influenza che il sistema comunista sovietico cercava di esercitare in vari modi. Nascevano così le prime manifestazioni di interesse di Edoardo Amaldi in chiave europea che porteranno in seguito alla nascita dell’Esa. In Italia Luigi Broglio, erede di Gaetano Arturo Crocco all’Università La Sapienza di Roma e alto ufficiale del Genio Aeronautico collaborava con l’Aviazione americana nelle ricerche aerodinamiche e poi coglieva la disponibilità del governo di Washington a sostenere progetti nazionali. In questa ottica proponeva il Progetto San Marco con un doppio scopo: realizzare satelliti per rilevare la densità dell’atmosfera e altri dati correlati facendo ricorso ad uno strumento da lui stesso ideato e diventato noto come “bilancia Broglio”; allestire un poligono di lancio all’Equatore davanti alle coste del Kenya. La Nasa e il Dipartimento di Stato americano approvavano il piano e garantivano la fornitura del vettore Scout per lanciare i satelliti. Inoltre addestravano tutti gli specialisti dell’Aeronautica Militare che avrebbero poi provveduto ad eseguire le missioni. E dopo il primo lancio dalla base americana di Wallops Island sulla costa Est del San Marco-1 altri quattro San Marco partivano dalle piattaforme equatoriali. Non solo. La Nasa affidava anche il lancio di cinque satelliti astronomici; unico caso in cui l’ente spaziale statunitense acconsentiva ad altri di spedire in orbita propri satelliti. Broglio creava intorno a sé un gruppo di esperti, generava una scuola i cui protagonisti alimenteranno poi la crescita delle attività spaziali italiane. Tra questi ci sarà il professor Carlo Buongiorno che diventerà anche il primo direttore generale dell’Asi.
nologico su diversi fronti prontamente assorbiti sia dal mondo della Difesa che da quello civile-industriale. Un esempio per tutti è rappresentato dallo sviluppo dei chip e dei computer diventati l’anima di ogni innovazione. Da questa evoluzione nascevano le capacità per costruire sonde con cui esplorare il sistema solare riscrivendone storia e caratteristiche, riuscendo a compiere incontri ravvicinati con tutti i pianeti e numerose lune sino ai confini di Nettuno e Plutone. Se i sovietici concentravano l’esplorazione su Venere, gli americani intensificavano le indagini su Marte. E la ricerca della vita nell’aridità del pianeta rosso diventava un’appassionante avventura che trascinava l’ideazione di strumenti sempre più sofisticati. Anche l’Europa alzerà gli occhi al Pianeta Rosso condividendo la meta con i programmi dell’Esa e dell’Asi italiana. Guardando alla Terra la tecnologia dallo spazio consentiva di decifrare i complessi meccanismi dell’atmosfera, la sua interazione con gli oceani o i movimenti delle placche continentali da cui nascevano i terremoti o manifestazioni vulcaniche. Ma soprattutto consentiva di controllare lo stato di salute del “globo azzurro”, le sue alterazioni indotte dall’uomo sulle terre, nelle acque o nell’aria, consentendo di affrontare e comprendere il riscaldamento climatico, perenne minaccia per il futuro della vita sulla Terra. Proprio su questa frontiera della conoscenza legata al nostro pianeta nasceva anche lo spazio italiano. Infatti, era ancora nel vento della guerra fredda che il Dipartimento di Stato americano si apriva verso i paesi
Il satellite italiano San Marco. L'astronauta russo Jurij Gagarin primo uomo nello spazio.
In Europa la costante apertura a collaborare ai piani americani sempre favorita dalla guerra fredda offrirà, tra l’altro, l’opportunità di partecipare al programma shuttle con la costruzione del laboratorio Spacelab per ricerche scientifiche e tecnologiche. Era un passo importante dal quale poi discenderà la condivisione alla stazione spaziale internazionale Iss. L’Italia, attraverso questa esperienza, sviluppava una nicchia di competenza nella fabbricazione dei moduli abitati tanto che la metà di quelli installati sulla Iss nascevano nell’industria nazionale e altrettanto i moduli logistici per i rifornimenti della casa cosmica, diventando in seguito un business privato. Nella cornice della guerra fredda, dunque, lo spazio è nato e cresciuto maturando la coscienza di una realtà che unisce sempre più strettamente tecnologie per la difesa e la vita civile. Ora nella nuova guerra fredda (con valenze anche economiche) ed estesa fra i continenti in una contrapposizione sempre più intensa tra Oriente e Occidente, si sta costruendo, comunque, il nuovo futuro nello spazio proiettato alle colonie sulla Luna e allo sbarco dell’uomo su Marte. SPAZIO 2050 | 35
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L’uLtima voLta suLLa Luna La missione apoLLo 17 e i suoi protagonisti di Paolo D’Angelo
L'astronauta Harrison Schmitt, pilota dell'Apollo 17, durante la terza passeggiata lunare della missione presso il sito di atterraggio Taurus-Littrow. Foto Nasa. 36 | SPAZIO 2050
Il prossimo dicembre saranno trascorsi esattamente 50 anni dall’ultima volta che due esseri umani hanno camminato sulla superficie del nostro satellite naturale. Era la missione Apollo 17, la sesta ed ultima della Nasa perché in quegli anni i fondi per il programma Apollo, che comprendeva altre tre esplorazioni lunari, erano stati tagliati. La Luna era stata conquistata nell’estate del 1969 e la promessa fatta dal compianto presidente americano John Kennedy nel maggio del 1961 era stata mantenuta: i sovietici erano stati battuti e sul suolo lunare era stata piantata la bandiera a stelle e strisce. In quegli anni, come detto, i soldi dati dal Governo alla Nasa erano pochi e l‘opinione pubblica americana si era oramai annoiata di quelle costose passeggiate esplorative fatte fuori dal nostro mondo. La Nasa decise quindi, proprio nel 1972, di dirottare gli stanziamenti verso il nuovo programma che prevedeva di lanciare, nel giro di pochi anni, una navetta riutilizzabile per fornire un accesso facile ed economico all’orbita bassa terrestre. La Luna, oramai conquistata, non interessava più. Lo avevano capito anche gli stessi astronauti dell’Apollo 17, il comandante Eugene Cernan ed il geologo Harrison Schmitt, unico scienziato ad andare sulla Luna, che poco prima di rientrare nel Modulo Lunare per far rotta verso la Terra, avevano fatto discorsi di addio, anche se, illudendosi, per tempi non così lunghi. In particolare Cernan disse: «Sono sulla superficie e, mentre compio gli ultimi passi dell’uomo sulla superficie, di ritorno verso casa per un po’ di tempo – che non crediamo poi così lungo nel futuro – penso che quello che dico sarà ricordato dalla storia. Cioè che la sfida di oggi per l’America ha forgiato il destino dell’uomo di domani. E mentre lasciamo la Luna dalla zona di Taurus-Littrow, ce ne andiamo come siamo venuti e se Dio vuole, ritorneremo con pace e speranza per tutto il genere umano. Buona fortuna all’equipaggio dell’Apollo 17». L’esplorazione della Luna compiuta tra il 1969 ed il 1972 da sei diversi equipaggi per un totale di soli 12 uomini ad aver camminato sulla sua superficie, ha permesso di riportare a terra circa 382 chilogrammi di polvere chiamata regolite e rocce di varie dimensioni. È notizia di poche settimane fa che gli scienziati della Nasa hanno aperto uno degli ultimi contenitori di rocce lunari riportate sulla Terra proprio dagli astronauti dell’Apollo 17. La Nasa a quel tempo era stata lungimirante nel considerare che il progresso in tutti questi anni avrebbe portato metodologie più accurate per esaminare i campioni lunari. Lo studio di queste rocce ha confermato l’ipotesi che il nostro satellite è nato circa 4.5 miliardi di anni fa quando un planetoide ribattezzato Theia della grandezza di Marte ossia circa un terzo del nostro pianeta, si è scontrato con la Terra che era allora un protopianeta ovvero una sfera incandescente. I detriti schizzati via dall’impatto nel corso di miliardi di anni si sono compattati dando origine a quella che noi oggi chiamiamo Luna. Esplorarla ci ha dato la possibilità di fare un viaggio indietro nel tempo fino ad arrivare a quando si è formato il Sistema Solare. Oggi la Nasa, in collaborazione con altre agenzie spaziali tra le quali l’Asi, si propone di tornare sulla Luna nel giro di pochi anni. Se le prime missioni a cavallo degli anni ’60 e ’70 sono state il frutto di una competizione, o meglio, di una guerra che si era accesa nel 1957 con il lancio da parte dell’Unione Sovietica dello Sputnik, primo satellite artificiale della storia, oggi tornare sulla Luna ha un significato molto più scientifico e di proiezione verso il futuro. Lo dicono spesso i protagonisti: tornare per restarci. All’inizio missioni di qualche giorno (l’Apollo 17 la più lunga, rimase sulla Luna per circa tre giorni) per svolgere poi “soste” sulla superficie o meglio sotto la superficie, di mesi. Per fare questo passo però serve una tecnologia che oggi abbiamo da poco imparato ad usare e qui il confronto con il programma Apollo è chiaro. Al tempo della promessa fatta dal presidente Kennedy, otto anni prima dello sbarco sulla Luna, la
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un complesso programma di esplorazione lunare ed oggi, con una tecnologia molto più avanzata, abbiamo dei tempi decisamente dilatati. Manca di certo una spinta politica come c’era allora e molta della tecnologia del programma Apollo non potrà essere utilizzata perché sorpassata e quindi va riprogettata. Sono stati ridisegnati quindi tutti i sistemi dal vettore alla capsula, dal modulo lunare alle tute da utilizzare. Il vettore odierno chiamato ancora con un acronimo SLS (Space Launch System) nelle sue 6 diverse versioni è ben lontano se non per l’altezza pressoché simile, da quello che era il Saturno V composto allora da circa 5 milioni di parti. SLS oggi è più semplice e utilizza in parte la tecnologia del collaudato sistema shuttle per i due booster laterali a propellente solido. Anche la capsula Orion ricorda nelle fattezze quella che era l’Apollo ma è di dimensioni maggiori tanto da portare in caso di necessità fino a sette persone. Ovviamente poi anche i sistemi interni, ricorrendo alla digitalizzazione come era per la navetta shuttle, sono quindi più semplici e meno pesanti.
tecnologia necessaria era tutta da inventare ed il lavoro degli ingegneri americani fu enorme, ma diede modo di vincere la sfida. Con il programma Artemis, oggi, la sfida non sarà solo tecnologica ma soprattutto di collaborazione ed economica. Per il Gateway, ad esempio, il progetto della stazione spaziale cislunare, passata la parte degli accordi si è giunti ora alla costruzione dei primi moduli sui quali stanno iniziando a collaborare molte agenzie spaziali di dimensioni e capacità diverse. Una collaborazione globale, come è stata per la realizzazione della Stazione Spaziale Internazionale (ISS) in orbita terrestre dal 1998, rappresenterebbe un notevole successo per i rapporti internazionali. Anche l’Agenzia Spaziale Italiana è stata capace di ritagliarsi una propria nicchia in base agli accordi diretti con la Nasa per realizzare diversi moduli pressurizzati della ISS. La nostra capacità di Agenzia e industriale ha portato non solo lavoro al nostro Paese ma anche un grande prestigio riconosciuto a livello mondiale. E anche sulla Gateway intorno alla Luna ci sarà disegnato il nostro Tricolore su alcuni moduli e su sistemi già in fase di realizzazione. Molti si chiedono perché negli anni ’60 nel volgere di meno di due lustri, siamo stati in grado di realizzare
L'astronauta dell'Apollo 17 Eugene Cernan si prepara a raccogliere campioni sulla Luna nel 1972. Foto Nasa.
soli 12 uomini hanno camminato sulla Luna. sulla terra sono stati riportati circa 382 kg. di polvere chiamata regolite e rocce.
Il modulo di discesa lunare è ancora in fase di realizzazione. La Nasa si è affidata alla società privata SpaceX di Elon Musk ma di recente ha emanato un ulteriore bando per avere un alternativo modulo lunare. E poi, in ultimo, ci sono le tute spaziali di nuova generazione che verranno adoperate dagli astronauti nel corso delle loro attività extraveicolari che sono ancora da “inventare” e questo potrebbe richiedere del tempo. Di certo poi in un futuro prossimo ci saranno da sviluppare i sistemi abitativi per una base permanente sulla Luna anche se proprio il nostro Paese rappresenta un’eccellenza industriale specializzata in questo settore ed è già al lavoro. Ma questi sistemi abitativi dovranno essere, almeno in parte, ricoperti dalla regolite lunare per attutire al massimo i danni derivanti dalle radiazioni solari e cosmiche. Per interrarle quindi avremo bisogno di mezzi automatici o pilotati di “movimento terra” come vengono definiti, mai realizzati e ovviamente mai provati in ambienti a gravità ridotta. Bisogna anche riprogettare dei Lunar Rover per gli spostamenti degli astronauti di certo più evoluti, capienti e con più autonomia di quelli usati tra il 1971 e 1972 nelle ultime tre missioni Apollo. Questi solo per fare dei banali esempi. Tutto questo dovrà essere comunque pronto intorno al 2025 per effettuare dei test per poi lanciare nell’anno seguente o negli anni ancora a venire la missione che riporterà degli esseri umani sulla superficie della Luna. A seguire poi missioni sempre più complesse che al momento esistono solo sulla carta. La conquista e la colonizzazione dello spazio o di altri mondi, è ancora alle fasi iniziali nonostante siano trascorsi molti decenni dal lancio del primo satellite artificiale. Molta strada è ancora da percorrere ma l’evoluzione della capacità tecnologica dell’uomo, richiesta per questa avventura, non ha mai conosciuto soste. SPAZIO 2050 | 37
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Prove tecniche di avamPosto sPaziale di Redazione Asi
Finita la corsa alla Luna, Stati Uniti e Unione Sovietica presero due vie molto diverse relativamente alla conquista umana dello spazio. Se infatti la Nasa puntò verso il modello Shuttle, se escludiamo il singolo programma SkyLab, per compiere attività sperimentali in microgravità, l’Unione Sovietica puntò decisamente sulla realizzazione di stazioni spaziali orbitanti con il programma Saljut. Le due vie erano in realtà destinate ad incontrarsi, non solo, ma a fare un lungo percorso insieme. Un incontro che sembrò essere profetizzato il 17 luglio del 1975 con l’aggancio tra la navicella Nasa Apollo e la sovietica Soyuz e l’incontro in orbita dei rispettivi equipaggi che pose fine alla Guerra Fredda, almeno nello spazio. L’esperienza che l’agenzia spaziale russa fece con le missioni Saljut e poi con la Mir, fu fondamentale, infatti, per lo sviluppo della tecnologia necessaria per una permanenza prolungata nello spazio, come poi si ebbe nel progetto internazionale della Iss. La Saljut 1, lanciata il 19 aprile 1971, fu la prima stazione spaziale in assoluto. Il programma Saljut, che comprendeva attività in ambito sia civile che militare, durò 15 anni, con la messa in orbita di sette stazioni Saljut, l’ultima multi-modulare. La Saljut 7 venne lanciata il 19 aprile 1982. Negli anni dal 1982 al 1986 prestarono servizio a bordo di questa stazione spaziale ben 10 equipaggi diversi. La permanenza più lunga di un equipaggio fu di 237 giorni. Dopo il lancio del primo modulo per la nuova stazione spaziale Mir, avvenuto il 19 febbraio 1986, non vennero più effettuati lanci di cosmonauti verso la Saljut 7. Questa fu l'ultima stazione spaziale del tipo Saljut e rientrò in atmosfera il 5 febbraio 1991 dopo un lento decadimento dell'orbita. Lo Skylab fu l’unico programma di una stazione spaziale, prima della Iss, da parte degli Stati Uniti. 38 | SPAZIO 2050
Il laboratorio orbitante venne lanciato il 14 maggio 1973. Sebbene raggiunse la quota orbitale programmata, una serie di problemi avvenuti subito dopo il lancio non lo resero funzionante. Se non fosse stato possibile riparare i danni che si erano verificati al lancio entro pochi giorni, la stazione spaziale sarebbe stata inutilizzabile. Fortunatamente gli equipaggi delle missioni Skylab 2 e Skylab 3 furono in grado di riparare questi danni. Ma come abbiamo detto non era quello il primo obiettivo degli Stati Uniti, che puntarono al veicolo spa-
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L’aggancio tra la navicella Nasa Apollo e la sovietica Soyuz. Credito Nasa.
ziale recuperabile shuttle come orbiter per vivere e sperimentare nello spazio, grazie ai moduli Spacelab e Spacehab che venivano inseriti nella stiva (cargo bay ndr) della navetta. Il programma, la cui prima missione prese il via il 12 dicembre del 1981, ipotizzava una maggiore efficienza tecnologica ed economica ed era così ambizioso che anche i russi cercarono di emularlo con la navetta Buran. In realtà lo shuttle era una macchina incredibilmente evoluta, tanto da essere anche estremamente delicata. Ogni lancio aveva un costo di 500 milioni di dollari e la manutenzione degli shuttle, dopo ogni volo, era lunga e complessa. Fattori che unitamente agli incidenti del Challenger e del Co-
lumbia spinsero il presidente statunitense Obama ad un cambio di rotta radicale molti anni a venire dopo. Più o meno negli stessi anni l'Unione Sovietica, grazie all’esperienza della Saljut e alla immarcescibile Soyuz, diede vita alla Stazione Spaziale Mir. E se Saljut significava saluto in russo, Mir poteva significare sia mondo che pace. La Mir era una stazione spaziale, composta da diversi moduli lanciati separatamente e successivamente assemblati nello spazio, prima sovietica e poi russa. L'assemblaggio, infatti, iniziato il 20 febbraio 1986, fu completato oltre un decennio dopo, quando ormai l’Unione Sovietica si era sciolta. Le problematiche interne all’Urss e poi alla Russia, in particolare dal punto di vista economico, fecero raggiungere altri record al programma spaziale russo, come la più lunga permanenza nello spazio da parte del cosmonauta Valery Poliakov, che rimase a bordo della Mir per ben 437 giorni e 18 ore. Ispirò anche una famosa pubblicità, con un cosmonauta che rientrando sulla Terra si trovava a Bratislava, non più in Cecoslovacchia, ma capitale della singola Slovacchia. Nei suoi 14 anni di vita, la Mir ebbe ben 96 ospiti, non tutti russi o comunque dell’est, ma diversi europei, come il francese Michel Tognini, il tedesco Thomas Reiter, l’austriaco Franz Viecboch per citarne alcuni. Anche diversi americani, tra i quali John Blaha che rimase in orbita ben 118 giorni. Il record di permanenza americano nello spazio in una singola missione è stato raggiunto recentemente da Vande Hey con 355 giorni sulla Stazione Spaziale Internazionale. Sulla Mir soggiornò anche la britannica Helen Sharman prima astronauta donna europea nello spazio. Mediante il montaggio di un apposito congegno d'aggancio, alla Mir poterono approdare, a partire dal 1995, anche gli Space Shuttle statunitensi anche se questo era stato originariamente progettato per il SPAZIO 2050 | 39
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Buran, lo shuttle sovietico, che non fu mai operativo. Erano gli anni della cooperazione per la realizzazione della Stazione Spaziale Internazionale. Un’idea lanciata agli alleati europei da Ronald Reagan: la stazione doveva chiamarsi Freedom ed escludeva la partecipazione dell’allora ancora esistente blocco sovietico. Quel progetto rimase nel cassetto, o meglio, venne commutato nella costruzione, a partire dal 1998, della Stazione Spaziale Internazionale che vede il coinvolgimento russo e di altri 10 paesi, Europa compresa. La Iss avrebbe dovuto essere completata nel 2003, in realtà il suo assemblaggio fu concluso nel 2011, complici anche i diversi problemi che aveva avuto il programma Shuttle che fu dismesso proprio quell’anno. Oggi è dichiarata operativa fino al 2030, ben oltre il suo iniziale impegno fissato per il 2024. È permanentemente abitata dal 2000. L’Italia, attraverso la sua agenzia spaziale e le sue industrie, ha svolto un ruolo rilevante nella realizzazione della Iss. Grazie all’esperienza acquisita partecipando alla costruzione dello Spacelab, per il quale la Nasa aveva chiesto la collaborazione europea ottenendola grazie ad un forte contributo tedesco e italiano, l’industria italiana fu chiamata a realizzare il modulo dell’Esa, Columbus, i Nodi 2 e 3, l’Atv per la fornitura della stazione con la chiusura del programma Shuttle e, in accordo diretto con la Nasa tramite l’Asi, dei moduli logistici Mplm, Leonardo, Raffaello e Donatello. Inizialmente previsti per la cargo bay dello shuttle, uno di loro, il modulo Leonardo, fu trasformato per restare fisso in orbita ed oggi è il Pmm (Permanent Multipurpose Module), unico elemento, di un singolo paese europeo, permanente sulla Stazione Spaziale Internazionale. L’emblema di questa capacità tecnologica e industriale è rappresentato dalla Cupola, una finestra sul mondo, nel senso più vero del suo significato, che dal 2008 allieta gli astronauti. Tutto ciò ha fatto sì che l’Italia, come avete letto nelle prime pagine di questa rivista, abbia un ruolo rilevante anche nel futuro progetto dell’uomo in orbita lunare, Artemis. Nel 2011 anche la Cina ha avviato un programma per una stazione spaziale orbitante, il quarto nella storia dello spazio. Alla Tiangong 1 ha fatto seguito, nel 2016, la Tiangong 2. Si trattava in entrambi i casi di laboratori orbitanti costituiti da un singolo modulo. La Tiangong 3, il cui programma è iniziato nel 2021 con il lancio del primo modulo, Tianhe, a cui seguiranno Wentian e Mengtian. La stazione dovrebbe essere completata nel 2023. Tornando alla Stazione Spaziale Internazionale, la sua gestione a livello governativo internazionale ha 40 | SPAZIO 2050
samantha cristoforetti È iniziata il 27 aprile a bordo della Crew Dragon di SpaceX la seconda missione dell’astronauta Samantha Cristoforetti. Minerva è dedicata alla saggezza ed è un omaggio agli uomini e alle donne che rendono possibili i voli spaziali. La missione comprende diversi esperimenti che Samantha effettuerà nel corso dei 5 mesi di permanenza a bordo della Stazione Spaziale Internazionale. Questi ultimi coprono diversi settori della medicina e della nutrizione e preparano il terreno per l’esplorazione spaziale del futuro. Samantha si occuperà anche di altri test già avviati dal collega Luca Parmitano nel corso della missione Esa Beyond nel 2019.
Uno scatto di Skylab fatto dagli astronauti di Skylab-2 mentre lasciavano la stazione spaziale per tornare sulla Terra il 22 giugno 1973. Credito Nasa.
una data di fine: il 2030. Ma non sarà, con tutta probabilità, la fine della Iss. A febbraio del 2020 la Nasa ha, infatti, firmato un contratto con la società Axiom Space per l'installazione di 3 nuovi moduli sulla Iss, con il primo previsto per il 2024. Questi moduli costituiranno il "porto" commerciale per la stazione. La ricerca e l’esplorazione umana degli Stati si spostano sulla Luna, mentre la space economy avrà un nuovo caposaldo spaziale in orbita bassa.
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LA SCIENZA LUNARE
Terra-Luna: un pianeta doppio di Ettore Perozzi
La Luna gira attorno alla Terra, ma cosa gira attorno alla Luna? Innumerevoli credenze, miti, canzoni, romanzi, poesie, film, immagini, ma soprattutto scienza, tanta scienza. Perché un oggetto così ingombrante nel cielo non poteva essere ignorato e la fenomenologia lunare, dal gioco delle fasi al mistero delle eclissi, ha attratto irresistibilmente le migliori menti di ogni epoca. Prendiamo ad esempio la sua superficie butterata – che la nostra pareidolia galoppante ha subito identificato con il volto di una dea in perenne contemplazione del nostro pianeta. Dopo la scioccante
rivelazione di Galileo che al telescopio aveva visto che quella illusione era dovuta al succedersi di montagne e altipiani, ci si chiese come si fossero formati. Una domanda che dovette aspettare più di tre secoli per trovare una risposta adeguata: a formularla fu quello stesso Alfred Wegener cui dobbiamo la teoria della deriva dei continenti – una delle scoperte fondanti della moderna geofisica. Fu lui a capire che i crateri lunari non avevano una origine vulcanica (si invocava l’esplosione di “bolle” risalite da un magma incandescente sottostante) ma si erano formati a seguito
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dell’impatto di altri corpi celesti. Wegener avanza la sua teoria nel 1921 nell’articolo Die Entstehung der Mondkrater (L’origine dei crateri lunari) la cui traduzione inglese viene però pubblicata solo nel 1975: per questo ha fatto fatica a farsi strada nei libri scolastici fino a tempi abbastanza recenti. Da allora la spiegazione collisionale non ha trovato che conferme, anzi lo studio dei crateri lunari è diventato un mezzo potentissimo per investigare il passato del nostro sistema solare, una finestra aperta sui 5 miliardi di anni della sua storia. Dall’età, forma e dimensione dei crateri lunari possiamo risalire al flusso dei corpi celesti che transitavano nelle vicinanze della Terra e la colpivano incessantemente. Tracce ormai cancellate sul nostro pianeta dall’azione erosiva di vento, pioggia, terremoti, vulcani, inondazioni e la presenza invasiva degli ecosistemi. Gli astronauti, riportando sulla terra campioni di roccia lunare ne hanno permesso una datazione precisa grazie al metodo degli isotopi radioattivi, mettendo a posto definitivamente la cronologia lunare e quindi, per traslato, la nostra. L’ultimo capitolo di questa saga potrebbe essere scritto dal ritrovamento di grandi depositi di ghiaccio di origine cometaria all’interno di crateri permanentemente in ombra – una scoperta che cambierebbe completamente lo scenario futuro dell’esplorazione lunare. Dobbiamo dunque alla Luna molto di quello che sappiamo sulla Terra, eppure la sua origine è ancora incerta: corpo celeste errante catturato, satellite naturale formatasi insieme al nostro pianeta oppure a seguito di un megaimpatto cosmico? La differenza non è banale perché ha implicazioni addirittura sull’annosa questione della vita nell’universo. Perché a vederla brillare così pacificamente nel cielo non si 42 | SPAZIO 2050
"Dobbiamo alla Luna molto di quello che sappiamo sulla Terra, eppure la sua origine è ancora incerta".
direbbe che dal punto di vista astronomico la Luna rappresenta una grossa anomalia. Le sue dimensioni e la sua massa sono infatti del tutto sproporzionate rispetto alle coppie pianeta-satellite che si incontrano nel sistema solare. Anche se Ganimede, con i suoi 5270 di km diametro supera largamente la Luna, che a stento raggiunge i 3500 km, la situazione si inverte se si guarda alla massa: solo 81 volte più piccola di quella terrestre nel caso della Luna mentre per Ganimede si va ben oltre il decimillesimo se paragonata a quella di Giove. Vuol dire che Terra e Luna sono talmente legate l'un l'altra dal punto di vista gravitazionale da poter essere considerate una sorta di pianeta doppio. L’alternarsi delle maree sulla terra ne è la prova più evidente tanto da ritenere che proprio il conseguente andirivieni di acque basse e calde abbia favorito la nascita della vita. Una sostanziale stabilità climatica è poi necessaria per avviare l’evoluzione sulla strada maestra - una condizione che solo la Luna, con il suo incessante orbitare, ha potuto garantire “bloccando” l’inclinazione dell’asse terrestre – responsabile dell’alternarsi delle stagioni. Marte e Venere, i pianeti più simili al nostro, non hanno invece satelliti (Phobos e Deimos sono probabilmente piccoli asteroidi catturati) e i loro assi di rotazione in passato hanno oscillato paurosamente e in maniera caotica. Ciò potrebbe aver causato per Marte la perdita dell’acqua che un tempo scorreva copiosa in superficie, per Venere un completo ribaltamento, che spiegherebbe perché sia l’unico pianeta del sistema solare che gira su sé stesso in senso orario. Dobbiamo allora dire due volte grazie alla Luna, anche se per la ricerca di Terre lontane ciò significa ammettere che non basta trovare un pianeta roccioso nella cosiddetta “zona abitabile” attorno a un’altra stella: bisogna anche che abbia una luna grande come la nostra, nata forse da un incidente cosmico. E questo complica non poco le cose dal punto di vista probabilistico… Torniamo alla Luna, la nostra luna: vivere su un pianeta doppio per una specie tecnologicamente avanzata ha degli indubbi vantaggi. Innanzitutto per la scienza. Comprendere non solo la natura ma anche il moto del nostro satellite ha sfidato gli scienziati sin dall’antichità. Tra le scoperte più famose, i cosiddetti “cicli” lunari: il Saros assicura che una determinata sequenza di eclissi si ripeta dopo un intervallo di 18 anni e 11 giorni (il merito va ai Caldei, vissuti in Mesopotamia circa 3000 anni fa)
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mentre il greco Metone (V secolo a.C.) osservò che perché la Luna torni nella stessa fase il medesimo giorno dell’anno bisogna aspettare che ne trascorrano 19. Regole numerologiche, ma che soddisfacevano uno degli scopi principali della scienza: predire i fenomeni naturali. Una volta gettate le basi della moderna visione del nostro sistema planetario per opera di Copernico, Keplero, e Newton, fu il marchese Pierre Simon del Laplace che all’inizio del XIX° secolo tenne a battesimo una nuova scienza, la Meccanica Celeste, di cui la Luna divenne subito la regina incontrastata. Contesa gravitazionalmente da Terra e Sole che ne cambiano continuamente la traiettoria, il calcolo accurato dell’orbita della Luna rappresentava un vero rompicapo. Tra i suoi maggiori studiosi, Charles Delaunay (1816-1872), il cui ritratto, che si può ammirare nella Salle du Conseil dell’Osservatorio di Parigi, lo immortala con la mano destra poggiata sopra i due tomi della sua “Teoria dei movimenti della Luna”, frutto di vent’anni di lavoro. Oggi le effemeridi della Luna sono facilmente disponibili, anche in rete, mentre grazie alla tecnica del Lunar Laser Ranging (far rimbalzare un raggio laser sui riflettori installati sulla superficie del nostro satellite) cui l’ASI contribuisce dal Centro di Geodesia Spaziale di Matera, conosciamo la sua distanza con una precisione stupefacente. Eppure proprio quando sembra di essere riusciti finalmente a svelarne i misteri, la Luna torna a stupirci. Tutto è (ri)cominciato quando l’uomo si è messo in testa non solo di osservare a Luna ma di camminare sulla sua superficie. Si è trattato di uno sforzo
Gli studi commissionati dalla Nasa avevano portato alla scoperta di traiettorie inedite in grado di connettere Terra e Luna in maniera più efficiente.
“Autostrade dello Spazio” che funzionano al contrario rispetto agli omologhi terrestri perché allungando il tragitto fanno risparmiare carburante. Si sono viste in azione per la prima volta nel 1991 quando hanno permesso alla sonda giapponese Hiten di entrare in orbita attorno alla Luna nonostante non fosse stata progettata per questo e avesse quindi carburante insufficiente per un trasferimento tradizionale. Oggi conosciamo intere famiglie di orbite di questo tipo che giocano un ruolo fondamentale nel nuovo scenario dell’esplorazione lunare, a partire dall’avamposto orbitante – il Lunar Gateway – che sarà posizionato proprio in un loro punto di snodo così da facilitare gli arrivi e le ripartenze. Tutte le esplorazioni hanno i loro eroi: celebriamo allora in chiusura il matematico americano Charles Conway (1933-1984), che nell’articolo del 1968 in cui delinea il nuovo modo di viaggiare nello spazio appena descritto, usa parole profetiche: “Non si può prevedere come la conoscenza troverà applicazione, si sa solo che accade spesso”.
intellettivo e tecnologico di portata fenomenale su cui sono stati versati fiumi di inchiostro, ma c’è un aspetto particolare di quell’impresa spaziale su cui vale la pena soffermarsi. Anche se per portare gli astronauti sulla Luna si sono usate le buone vecchie orbite ellittiche, gli innumerevoli studi commissionati dalla Nasa avevano portato alla scoperta di traiettorie inedite che con strane giravolte erano in grado di connettere Terra e Luna in maniera più efficiente. Una sorta di SPAZIO 2050 | 43
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Le missioni Apollo Uno dei massimi traguardi della specie umana è quello di essere riusciti, dopo aver esplorato la Terra per millenni, a lasciare il pianeta e camminare su un altro corpo celeste. Questo fu il Programma Apollo: sette missioni e dodici uomini partiti dalla Terra per viaggiare nello spazio fino a raggiungere la Luna, atterrare e tornare a casa sani e salvi. In questa breve descrizione c’è tutto: secoli di scienza, tecnologia, sfida, sforzo, collaborazione, passione, sacrifici e un grande coraggio. Oltre 400mila persone hanno collaborato al Programma a vario titolo, culminato nel primo sbarco del luglio 1969, Apollo11 e concluso con Apollo17, nel dicembre del 1972. Gli astronauti lassù hanno condotto esperimenti, misurazioni, raccolto campioni, esplorato, fornendo una mole di dati che stiamo analizzando tuttora. Non andò tutto bene, ci furono imprevisti, guasti ed errori con profondi momenti di tensione culminati con Apollo13, in cui gli astronauti - gli unici del programma a non aver toccato il suolo lunare - furono a un passo dalla morte. Dopo Apollo la Nasa usò sonde robotiche per studiare la Luna, ma siamo quasi pronti per un ritorno in grande stile. Stavolta costruiremo una stazione in orbita lunare e un campo base sul satellite. E da lì, guarderemo al prossimo obiettivo: Marte.
Rocco Petrone Rocco Petrone non è solo un pioniere del programma spaziale statunitense ma un simbolo del “sogno americano”, dove chiunque dal nulla può raggiungere il successo. È infatti figlio di emigrati italiani. Rimasto orfano molto presto, è costretto a lavorare per mantenere la famiglia, ma non abbandona gli studi perché ha un sogno: entrare nell’esercito americano. Ci riesce e diventa esperto di missili balistici tanto che Wernher Von Braun lo nota e nel 1960 lo chiama alla Nasa per dirigere lo sviluppo del Saturn V, il più potente razzo mai costruito. Il lavoro è sfiancante ma Petrone rispetta rigorosamente i tempi e viene promosso a Direttore delle Operazioni di Lancio. La voce del conto alla rovescia che sentiamo nel video della partenza dell’Apollo11 è la sua. Poi è direttore dell’intero programma Apollo e nel 1975 anche del rendez-vouz tra la navicella statunitense Apollo e la capsula russa Soyuz. Petrone è stato un protagonista della conquista più grande dell’esplorazione umana: la Luna. Senza il suo contributo questa storia non sarebbe stata la stessa.
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Curiosità Spaziali di Barbara Ranghelli
Sls Vs Saturn V: lanciatori a confronto Una navetta spaziale con astronauti a bordo pesa varie tonnellate, soprattutto se deve ospitare anche carburante, acqua, sistemi e attrezzatura per compiere una missione lunare. Vincere la gravità terrestre con un oggetto così pesante richiede un razzo molto potente. Ai tempi del programma Apollo, Wernher Von Braun progettò il Saturn V, che ha servito egregiamente, ma oggi la Nasa è più ambiziosa. Per il programma Artemis è stato concepito un lanciatore ancora più potente: lo Space Launch System (Sls), pensato per la Luna, ma anche per Marte e oltre. L’Sls è più versatile del predecessore e si presenta in tre varianti con diverse capacità di carico. In una versione c’è persino un vano che può contenere una mini base da montare sulla Luna. Il nuovo razzo ha una maggiore spinta ed è progettato per portare fino a 46 tonnellate di carico in direzione della Luna. Oltre ai booster a carburante solido l’Sls monta quattro motori RS-25, quelli dello Space Shuttle, rielaborati per adattarsi alla nuova configurazione. Come fu il mitico Saturn V, il nuovo lanciatore è un vanto dell’ingegneria umana, pronto per scrivere la storia dell’esplorazione spaziale.
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Turisti spaziali Nel 2001 l’imprenditore Dennis Tito comprò un volo di andata e ritorno più soggiorno sulla Stazione Spaziale Internazionale, diventando il primo turista spaziale della storia. Oggi, varie aziende private offrono voli suborbitali a turisti facoltosi, tra questi c’è chi non si accontenta più e vuole spingersi oltre. E’ il caso di Yusako Maezawa fondatore del più grande sito di abbigliamento su misura, che dopo aver visitato la stazione orbitante, ora punta alla Luna. L’imprenditore giapponese ha già selezionato i suoi compagni di viaggio e il prossimo anno, dopo una lunga preparazione a terra, partiranno alla volta della Luna a bordo di un’astronave Starship della SpaceX. Se un’esperienza nello spazio rientra anche nei vostri sogni (e nel vostro budget) potreste considerare i pacchetti della Space Adventures, un’agenzia di turismo spaziale. Basta scriver loro per accordarsi sul tipo di viaggio: ammirare l’alba della Terra vista dalla Luna, essere il primo cittadino privato a compiere una passeggiata spaziale o visitare la Iss. A questo punto manca solo un albergo. L’azienda americana Orbital Assembly Corporation ha già pronto il progetto: una ruota panoramica in orbita bassa, che ricorda la stazione spaziale di 2001: Odissea nello spazio. Atteso per il 2027, l’albergo, alimentato da pannelli solari, ospiterà fino a 280 turisti e 122 membri del personale; si chiamerà Voyager e sarà fornito di ristorante, bar, sala concerto, palestra e cinema. Sono già in vendita pacchetti da 5 milioni di dollari per tre giorni vacanza!
La gravità lunare
La nave spaziale di Elon Musk Una rivoluzione importante nel sistema di lancio dei razzi in questi anni è senza dubbio il recupero dei booster di SpaceX. Già routine per la flotta Falcon, si esprimerà al massimo per Starship, la navetta prototipo in grado di portare un carico di ben 100 tonnellate sulla Luna. Il suo booster Super Heavy, un cilindro di acciaio alto 70 metri e dal peso di 120 tonnellate, una volta scarico ricadrà sulla Terra, ma invece di atterrare da solo verrà afferrato al volo, a pochi metri dal suolo, da un braccio meccanico! Fino a pochi anni fa sembrava fantascienza, come in effetti molti altri progetti ambiziosi e futuristici su cui lavora Elon Musk. La sua SpaceX è la prima azienda privata che si pone traguardi simili a quelli di agenzie spaziali del calibro di Nasa, Esa, Cnsa e Roscosmos. La sua città su Marte, ad esempio, supera ogni progetto finora concepito. Starship è il mezzo con cui s’intende raggiungere questi traguardi. Oltre al recupero del booster, che abbatte i costi dei lanci fino al 60%, potrà trasportare 100 passeggeri ogni viaggio, offrendo una versatilità che ha spinto la Nasa ad avviare una proficua collaborazione.
Meno male che c’è la Luna, senza di lei chissà se esisteremmo! Una fortuna, perché la Terra è l’unico tra i pianeti del Sistema Solare ad avere un satellite così grande, una questione fondamentale per la nostra esistenza. La sua forte gravità, ad esempio, stabilizza il nostro asse di rotazione e impedisce che l’obliquità, ovvero l’inclinazione dell’asse terrestre rispetto all’orbita, cominci a oscillare paurosamente tanto da far arrivare i poli… all’equatore! I cambiamenti climatici sarebbero così rapidi da impedire persino lo sviluppo della vita. Invece grazie alla Luna e alla stabilità delle stagioni, è favorita l’esistenza di moltissime specie animali e vegetali. La gravità lunare, col suo effetto simile a una calamita, genera inoltre imponenti maree, capaci di innalzare il livello del mare fino a 20 metri e la dura crosta terrestre anche oltre i 30 centimetri! Gli attriti delle maree hanno rallentato la rotazione del pianeta fino alle 24 ore di oggi, consentendo l’evoluzione di cicli biologici - come la sintesi clorofilliana - e garantendoci una vita meno frenetica! Ma le cose in futuro cambieranno, anche se lentamente. Attualmente la Luna si allontana dalla Terra alla velocità di 3,8 centimetri all’anno. Tra miliardi di anni la Luna sarà così lontana che la sua gravità non avrà più effetti? Secondo alcuni scienziati il suo comportamento non è così scontato …Staremo a vedere!
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IN VETRINA
Il lIbro PhoeniX è ora di risorgere di Giulio Chimienti
in un mondo che fatica a risorgere dalle proprie rovine, auberon Young non rinuncia all'amore e alle sue ambizioni
Nell’immaginario collettivo e nella tradizione folkloristica dei popoli, la fenice è il simbolo universale della rinascita dopo la morte. Creatura mitologica avvolta dalle fiamme che, terminato il suo ciclo di vita, arde un’ultima volta per poi risorgere dalle proprie ceneri. Allegoria della resurrezione del corpo e dell’anima, o semplicemente un monito a resistere dinnanzi alle avversità che ci attendono durante il corso della vita. Il romanzo di Dario Vergari narra l’incredibile e accidentata storia di Auberon Young, un ricercatore newyorkese che nemmeno per un istante esita a rinunciare al proprio sogno: la Luna. La narrazione di sviluppa lungo una linea temporale in cui si intrecciano passato, presente e futuro. L’utilizzo della prima persona rende i lettori spettatori e, al tempo stesso, protagonisti di una società distopica e teocratica sorta dall’orrore di una guerra di proporzioni globali. Avvincente e romantico, in ogni capitolo si conciliano sapientemente sentimenti ed emozioni diametralmente opposti: amore e odio, paure e speranza, libertà e oppressione. L’autore, esordendo con il nefasto 11 settembre 2001 evento che all’inizio del nuovo millennio ha profondamente scosso le sicurezze di una nazione e dell’intero Occidente - costruisce una tremenda evoluzione del nostro mondo. Non è un caso se quella data coincide con la nascita di Auberon Young. Alla morte si contrappone la nascita. Dalle ceneri di New York si assiste alla resurrezione dell’Uomo che non cede al dolore e che non rinuncia al sogno di un avvenire migliore. 46 | SPAZIO 2050
Titolo: Phoenix autore: Dario Vergari editore: Bré edizioni anno edizione: 2019 Pagine: 345
La storia di Auberon Young è la storia di un’umanità che prosegue in costante bilico tra eros e thanatos, tra vita e morte, fino all’inevitabile. PhoeniX non è solo una stazione permanente sulla Luna, metaforicamente un trionfo dell’ingegno sulla superstizione; il trionfo dell’uomo su Dio: «Avevamo trovato Dio, eravamo noi». PhoeniX è il compimento dell’immortalità, ma ciò ha un prezzo. Può dirsi ancora uomo chi rinuncia alla sua mortalità? Può dirsi vita la contemplazione eterna di un ricordo, o muovere il passo verso un viaggio senza destinazione? Dario Vergari ci offre non soltanto un romanzo di fantascienza, bensì una riflessione sull’esistenza e come poterla vivere appieno, senza obbedire alle costrizioni di chi manipola il nostro agire e il nostro pensiero e, soprattutto, senza temere la nostra natura mortale.
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