Enrico Dall’Olio
Leggende
PARMIGIANE d 1
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sommario 22222222 Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag. Pag.
04. Il paese ingoiato dalla terra 09. Oro e argento nella Loggia del Diavolo 11. L’elefante bonaccione di Annibale 15. Il faggio della Madonna 17. I sassolini della vedova diventati fagioli 23. Il cielo contro la spavalderia dei pastori 26. I pastori e la Madonna del Sassone 30. Il mago del Castellaro 34. Gli infuocati salti del Diavolo 38. Cacciatori senza scrupoli 41. Il boscaiolo, la vipera, l’asino, il cane, il gatto e la volpe 46. Il sangue del Pomello 51. Il Diavolo e le 7777 monete infuocate 55. La volpe, il lupo e le cornacchie 63. Spaccamonti e il pastorello Cenerino 67. Il maiale nel pozzo 72. I cani contro gli uomini spavaldi 77. Rimase il villaggio ma lui se ne andò
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Il paese ingoiato dalla terra ( Val l e c o r a )
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icino al Vergastrello, nel versante del Lecora, poco sopra il Piano di Burano, esiste un avvallamento paludoso, a circa 1350 m.s.m., infestato da canne palustri e vegetazione spontanea. Sembra che un tempo fosse un laghetto. La leggenda vuole che questa depressione si sia formata quando l’intero paesino montano esistente fu ingoiato dalla terra per castigo divino. Le case facevano corona alla bella chiesetta; gli abitanti vivevano felici senza odio, invidia, gelosia, amandosi ed aiutandosi a vicenda in ogni necessità, contenti degli scarsi prodotti del suolo e del bosco e di quelli offerti dai loro greggi. Purtroppo il maligno, che aveva nelle vicine caverne il suo incontrastato alloggio, un brutto giorno seminò la discordia e la diffidenza reciproca. La gente ben presto divenne egoista, crudele e insensibile, al punto da negare l’ospitalità ad un viandante smarritosi in una tempesta di neve, nella quale poi il malcapitato trovò la morte. Per questo e per altre gravissime colpe, la Giustizia Divina si scatenò sul paese facendolo sprofondare e sparire. A distanza di anni, nei dintorni del luogo maledetto fu ritrovato il batacchio di una campana della chiesetta, unico ricordo dell’immane disastro. Ed ancor oggi si tramanda la credenza e, in certi periodi, passando di notte da quelle parti, si ode il suono delle campane a morto, per compiangere e ricordare ai posteri quelle povere anime sventurate.
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Oro e argento
nella Loggia del Diavolo
( Val l e c o r a )
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pochi passi dalla vetta del Monte Vergastrello (m. 1369) si trova una roccia di forma strana, quasi una coppa, con antistante uno spazioso pianoro con un collo sottile proteso verso la valle a guisa di terrazza alta una decina di metri. È chiamata da sempre: “La Loggia del Diavolo”. Loggia (“lozza” in dialetto) significa terrazza, e questa serviva, secondo la leggenda, al demonio per stendere al sole, di tanto in tanto, specie nei mesi estivi, grandi quantità di monete d’oro e d’argento che restando al chiuso nelle caverne infernali si sarebbero ossidate: monete destinate all’acquisto delle anime che, in vita, scendevano a patti col diavolo. In tempi ormai lontani, una povera vedova di Albareto con numerosi figli giunse senza saperlo in quel luogo maledetto, mentre pascolava il gregge, e s’imbatté proprio nel diavolo che era intento alla sua operazione... bancaria. L’infernale creatura non esitò a mostrare alla meschina quell’immensa ricchezza, dicendole che sarebbe stata tutta sua, in cambio dell’anima, alla di lei morte. L’eroica donna, benché vivesse in una squallida miseria, rifiutò sdegnosamente l’offerta, per risparmiare la sua anima alla vera felicità riservata ai vittoriosi e, fattosi il segno della Croce, mise in fuga precipitosa il tentatore. Nei tempi passati nessuno di coloro che salivano in quei monti metteva in dubbio la veridicità del curioso episodio, e la denominazione “Loggia del Diavolo”, uscita dalla fantasia di un bello spirito, continuerà a designare quel luogo strano e leggendario, chissà mai per quanti secoli ancora.
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L’elefante
bonaccione di Annibale ( Va l ta ro )
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econdo la leggenda sarebbe stato un elefante a dar il nome al paese di Bardi; quegli abitanti vollero così ricordare un animale amico e tramandare nei secoli un avvenimento curioso e commovente. Non appena concluse le battaglie del Ticino e della Trebbia (dic. 218 a.C.) Annibale, valoroso condottiero cartaginese, si mise in cammino verso il sud d’Italia ma, non potendo seguitare la sua marcia a causa della stagione che duramente colpiva soldati ed elefanti, dovette svernare in un territorio di confine tra Parma e Piacenza, adattandosi a quel clima insolito e alle scarse risorse alimentari del posto. Un giorno un reparto dell’esercito approdò nel paese (quello che poi sarà chiamato Bardi, dal latino “bardus”, elefante) affiancato da un grosso elefante, uno dei pochi superstiti che avevano superato le Alpi. Alla vista dell’enorme pachiderma molti ebbero paura e fuggirono, solo i bambini (strano ma vero), spinti dalla curiosità e dalla simpatia che attrae i piccoli verso la natura, lo avvicinarono per accarezzarlo e magari per giocare con la proboscide e gli portarono qualche nocciolina, privandosene loro. Sembrava che l’animale gradisse veramente la loro amicizia e la gaia compagnia che gli faceva dimenticare le fatiche di un difficile camminare e l’asprezza di una lunga guerra. Mentre la cerchia degli amichetti andava progressivamente allargandosi, anche la gente, dapprima un po’ diffidente, alla fine gli tributò profonda stima. Pur così imponente per la sua mole, era tanto sensibile, al punto che metteva la sua forza a disposizione di chi aveva bisogno, specie nei boschi per manovrare e trasportare grossi tronchi. In paese era divenuto l’amico di tutti. Però le traversie incontrate in guerra avevano lasciate profonde lacerazioni nella salute dell’animale, tali che col tempo si rivelarono irreparabili. Quando venne a morire, gli abitanti, che non sapevano rassegnarsi al distacco, vollero dedicargli il loro paese. Pur essendo ben più remote le sue origini (sappiamo infatti di anteriori insediamenti dei liguri e poi dei romani), questa è la leggenda fiorita attorno al nome di Bardi.
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Il mago del Castellaro ( va l l e de i c ava l i e r i )
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el Castellaro, luogo forte e punto di collegamento di un ampio complesso difensivo della Valle dei Cavalieri, restano ben pochi ruderi a narrare la storia di lotte e di soprusi e, perché no, di leggende. Quelle tracce, sfuggite al Capitano Boccia nel suo “Viaggio ai Monti” (1804), furono individuate nell’agosto 1962, a quota 1175, in prossimità del Passo del Lupo, sull’antica mulattiera Vairo-Rigoso. Il Micheli indicava l’ubicazione del Castellaro nella cima più alta delle montagne che da Rimagna portano a Vairo. Quei ruderi, fatti di spesse mura di circa un metro e mezzo con grossi blocchi di arenaria squadrata, oggi regno dei rovi, evocano la struttura di due locali angusti ma collegati, mediante una scala esterna, ad uno più ampio, in posizione più elevata. Sarebbe stato il Capitano Antonello Vonzago, dell’esercito della magnifica comunità, a distruggere verso la metà del quattrocento, il “Fortilium qui dicitur castelarium” (Fortilizio detto Castellaro), posto a nord-ovest della Villa di Valcieca. La leggenda non tardò ad avvolgere nel suo misterioso complesso quelle macerie e gli spiriti vaganti ad occupare quelle stanze, abbandonate da temibili guerrieri, mentre la fantasia popolare vi collocò, secondo il Cignolini, anche un mago o stregone, che rapiva le donne e i beni dei valligiani, identificato con Jacopo Vallisneri, per essere stato un castellano terribile. Fu lui ad affidare al suo cane “Pelo Moro”, dotato di poteri magici, il compito di custodire il suo grande tesoro, sepolto sotto il castello, compito che l’animale ha svolto, si direbbe, con molta fedeltà dato che nessuno fino ad oggi è riuscito a ricuperarlo! Camminando sempre sul filo della leggenda, sappiamo che Jacopo Vallisneri, dopo aver subito la sconfitta, si recò a dissetarsi alla sorgente, chiamata tuttora “Pidocchiosa”, e in quel mentre venne trapassato dalle armi di due Cavalieri: un certo Cortesi di Rigoso ed un Cavalli di Lugagnano. Nonostante ciò, i due non riuscirono a portare a termine la loro impresa, quella cioè di impadronirsi del tesoro, atterriti e respinti dalla aggressività di Pelo Moro. A titolo di consolazione ebbero comunque un beneficio dal Vescovo, che era Signore del luogo, cioè la perpetua esenzione, per sé e per i propri discendenti, dal pagamento di ogni tributo. Il fatto curioso è che il giudicante vescovile Giuseppe Cignolini, agli inizi del secolo scorso, proponeva la leggenda come l’unica spiegazione possibile alla strana esenzione di cui fruivano i Cortesi e i Cavalli, ancora ai suoi giorni.
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Gli infuocati salti del Diavolo ( V a l BAG AN Z A )
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È
sempre carica di fascino la Valle del Baganza, derivante dai frequenti contrasti tra la vellutata dolcezza dei suoi pascoli che qua e là fanno capolino tra le selvagge boscaglie e il crudo precipitare degli spuntoni di roccia che un’invadente vegetazione tenta, invano, di occultare. Lassù, in quel di Cassio, ci si arriva dopo aver guadagnato 40 chilometri a partire da Parma e subito si è di fronte a quello spettacolo inconsueto offerto dalla natura che la leggenda ha circondato di profondo mistero e che la gente chiama: “Salti del Diavolo”. Si tratta di una catena rocciosa di color cenerognolo, ben nota anche lontano da noi, perché in passato ha fornito buona pietra da lavoro, ed assai più ricordata per la precipitosa fuga del diavolo, dopo un’impresa non riuscita. Ed è proprio il diavolo, ancora una volta, protagonista di questa spettacolare incursione sull’Appennino in tempi remotissimi quando anche lui aveva più tempo da dedicare, rischiando tutto, anche per un’anima sola. Immancabilmente lasciava tracce ben visibili del suo passaggio, come avvenne quella volta in Val Baganza. Uscito dalla sua bolgia infernale, una notte che la storia ha cancellato dalla memoria, il terribile avventuriero, cacciatore di anime, raggiunse Cassio, un minuscolo paese del bercetese a 815 metri sul mare, là dove un giovane eremita, stanco della vita mondana, aveva fissato la sua residenza nel più fitto dei boschi, accolto cordialmente dagli animali. Lassù, lontano da ogni trambusto, nel silenzio profondo, rotto solo dal canto degli uccelli e dal mormorio delle sorgenti, quel giovane poteva librare il suo spirito verso il cielo e gustare le meraviglie del creato. Per ripararsi dalle intemperie e dal solleone, aveva intrecciato una capanna di frasche e per vivere raccoglieva erbe, radici e frutti del bosco e sorseggiava qualche ciotola di latte, offertagli dai pastori di passaggio su quelle alture; la sua giornata era impreziosita dalle preghiere per tutti gli abitanti del mondo e da penitenze per espiare i peccati e le cattiverie degli uomini. Era un’anima bella, di quelle che piacciono a Dio, ma che sono prese di mira dal diavolo.
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E fu proprio così anche per il nostro giovane: infatti il diavolo mise in opera ogni genere di tentazione per farlo cadere nel peccato ed umiliarlo. Ma quando il maligno alla fine impegnò tutta la sua malizia, il giovane si ricordò del dono che la mamma, prima di morire, gli fece, accompagnandolo a una sapiente raccomandazione: “Prendi questa croce miracolosa, ti salverà da ogni pericolo e dal più feroce nemico, tienla sempre con te”. Corse a prenderla, la strinse fortemente a due mani e poi la innalzò davanti al tentatore. Nel vederla, il diavolo impazzito si diede alla fuga precipitosa, sollevando odor di zolfo e scintille di fuoco, mentre il giovane, restando in ginocchio, contemplava il cielo fattosi improvvisamente di luce, in quella notte buia. Il giorno seguente i pastori transitando, com’erano soliti da quel luogo, con le loro greggi, rimasero sbalorditi ed increduli nonché spaventati, trovandosi di fronte ad uno scenario del tutto nuovo ed inspiegabile: montagne completamente spoglie del loro abituale manto verdeggiante, solcate da profonde fenditure. Alla vista di quello squallido spettacolo non poterono trattenere alte grida di terrore e ne avevano ragione: infatti il diavolo, fuggendo, aveva lasciato le incancellabili orme dei suoi salti. Tuttora quella sequenza di dentelli grigiastri, accartocciati da verdi cespugli, che si distende per chilometri e chilometri da Cassio alle Chiastre di Ravarano e ricompare di nuovo nei pressi di Graiana, in Val Parma, continua a rinverdire il ricordo di questa ammaliante avventura.
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