Enrico Dall’Olio
Leggende
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Per Natale suonano le campane sommerse nel Po ( V a l PAR M A )
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assù sulle più alte montagne della Val Parma, dove il verde degli immensi pascoli si tuffa nell’azzurro trasparente del cielo, le pinete sollecitate dal vento sussurrano incessanti voci di pace e di serenità, e gli ultimi pastori, in testa alle loro greggi, vanno pronunciando un nome, entrato nei ricordi più cari dei boscarini: Fra Ruffino. Come nella chiesa di Ognissanti a Firenze, una povera e disadorna lapide tramanda, di secolo in secolo, il ricordo dell’umile fraticello, così sui nostri monti una fresca sorgente, gorgogliando, fa buona memoria del pastorello santo a quanti lassù, ancor oggi, s’avventurano. Vuole infatti la leggenda che, ogni giorno, Domenico, questo è il nome di Battesimo, si recasse di buon mattino col suo minuscolo gregge verso gli alti pascoli, come facevano del resto i poveri ragazzi del suo paese, senza alcuna alternativa a quel medesimo destino. Erano quelli i giorni più caldi dell’anno e da troppo tempo non scendeva dal cielo una goccia d’acqua, tanto da preoccupare assai quelle miserabili popolazioni che, giorno dopo giorno, sospiravano la pioggia come gli ebrei del deserto attendevano la manna dal cielo. Intanto la terra non produceva più un filo d’erba; tutto era secco; i pascoli bruciacchiati e gli alberi rinsecchiti. Le greggi, quasi impazzite, scorrazzavano in cerca di cibo, e strappando dalla terra avara gli ultimi cespugli sfuggiti alla fame di altri armenti e contendendosi le foglie ingiallite penzolanti dai rami più bassi. Anche le sorgenti, sempre generose di acque per uomini e animali, erano mute ed esauste e non stillavano neppure una goccia. Alla condizione di povertà e spesso di miseria abituale di quelle terre alte, ora si aggiungeva una siccità mai vista a memoria d’uomo, tanto da preoccupare seriamente i montanari già costretti ad una vita di rinunce e di sacrifici e ad emigrare in cerca di una terra meno ingrata ed ostile. Ugualmente, con la tenacia propria degli uomini forti, i mandriani e gli imberbi pastorelli spingevano di buon mattino le loro greggi verso i pascoli sperando... e poi scendevano verso il torrente con la stessa fiducia in cuore di assistere ad un miracolo. Ma ogni giorno si ripeteva lo stesso spettacolo: si imbattevano negli stessi ghiaioni
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Il candido albero di Natale ( Va l to c c a na )
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n tempo, nei paesi disseminati qua e là sui monti, la neve era di casa per lunghi mesi ed occupava ogni spazio. Sulle pagine immacolate di neve fresca, di buon mattino, la gente poteva “leggere” le ultime notizie, stampate durante la notte lungo la viuzza che dalla chiesa porta alla piazza della fontana e poi al castello: si potevano individuare le orme del passo frettoloso della rezdora che aveva raggiunto la vicina di casa per chiederle in prestito un pizzico di lievito per fare il pane l’indomani; apparivano i passetti leggeri e disordinati dei monelli che si erano attardati più del solito a fare del chiasso; ben più marcate e sovrapposte balzavano fuori le impronte degli scarponi degli uomini rincasati, discutendo, dopo un’animata partita a carte o a morra all’osteria. Al limite del paese, dove l’ampia coltre bianca andava ispessendosi di mano in mano che si avvicinava ai boschi di confine, sempre la neve annunciava le notizie, per così dire, “sportive”: scorribande di cani, perlustrazioni di volpi, fughe di lepri. Gli alberi silenziosi drizzavano i loro rami al cielo, nudi, rattrappiti dal gelo, mentre dal cuore profondo della terra usciva come un pianto segreto e sottile: era l’ultimo segno di vita per il sopraggiungere della stagione invernale. Soprattutto la foresta, con le sue incalzanti sequenze di abeti e di pini che si inseguono a perdita d’occhio fino a raggiungere gli occhi splendenti dei laghi, era sprofondata nel sonno, chiusa in un silenzio inviolabile. Sotto quella soffice trapunta di neve, si erano accasati gli abituali ospiti del bosco, dopo avere rallegrato l’estate, in attesa di uscire ai primi tepori primaverili. Solo un tenue bisbiglio di arcane parole turbava l’incanto di quella grande vigilia: erano gli abeti con indosso quello splendido look di stagione a pronosticare chi di loro avrebbe avuto l’onore di scendere a valle a dare spettacolo alla gente, nel paese già sfolgorante di luci ed animato da voci di festa. “Io sono rimasto troppo piccolo” diceva uno di essi “sono cresciuto sempre all’ombra degli altri e non posso sperare di essere scelto”. “Io sono rimasto un po’ bassotto e non potrei fare una grande figura, perché gli uomini cercano quelli di bell’aspetto” aggiungeva un altro. “Io sono invece un po’ storto: nessuno mi ha mai guardato prima e tanto meno adesso!” mugugnava un terzo. E poi tutti concordemente additarono l’albero vicino, dicendo: “Lui che è cresciuto più alto, che ha invaso coi suoi rami anche i nostri spazi, che ha beneficiato del nostro sole, che tocca il cielo con la sua
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folta chioma, piacerà più di tutti al boscaiolo!” Si rassegnarono così, dopo aver constatato la situazione e riposta ogni speranza di gloria, a restare come sempre nel bosco, anche durante la festa più grande dell’anno, il Natale. Dopo quella notte convulsa, quando ancora qualche stella sonnacchiosa si attardava nel cielo, giunse ansimante un uomo con la scure sulle spalle, che passò rapidamente in rassegna gli alberi, commentando fra sé: “Questo è troppo piccolo, quest’altro è basso, quello addirittura è storto...” e così via. Giunto davanti a quello alto, frondoso e ben formato, non ebbe dubbi: mise mano alla scure e cominciò a tagliare. Risuonarono nella foresta quei colpi ben assestati; un tonfo ed eccolo a terra. Vennero altri in aiuto per portarlo via in spalla, con delicatezza, per non sciuparlo. I suoi compagni, che erano rimasti attoniti a guardare, nel salutarlo provarono rincrescimento e anche invidia, pur sentendosi avvantaggiati per lo spazio creatosi e per il pezzetto di cielo in più da godere. Intanto il prescelto raggiunse la piazza del paese, tra l’entusiasmo della gente che si affrettò ad ornarlo di festoni, ad impreziosirlo di doni e ad avvolgerlo di sfolgoranti luci colorate. Si fermavano i passanti ad ammirarlo, i bambini a comporre un coro di grida festose, come già nel bosco facevano gli uccelli. Ma quell’incanto durò solamente per il periodo natalizio e poi il “festeggiato” venne spogliato di tutto, senza remissione, come un condannato a morte. La gloria e la felicità erano sfumate per entrare nei ricordi; addirittura la sua presenza dava fastidio, ingombrava il transito. I rami, percorsi da un brivido funesto, lasciavano cadere gli aghi, già verdi e scintillanti. Un mattino, lo stesso boscaiolo che lo aveva prescelto e trattato con tanta cura, ripresa la scure lo ridusse in pezzi destinati al forno di casa. Gli altri alberi del bosco, che avevano trascorso il Natale al buio e nel silenzio sotto una coltre di stelle, quando conobbero il triste epilogo del loro fratello, alto, bello, orgoglioso, provarono immensa tristezza; quell’invidia, che prima avevano in cuore, si mutò in compassione nel constatare come la gloria e gli onori hanno spesso una breve stagione e si tramutano talvolta in dimenticanza o in disprezzo. Capirono che nell’umiltà, nella semplicità, più che altrove, stanno la vera beatitudine e la gioia di vivere.
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La“Traversagna� e il sindaco contrabbandiere ( Val l e c o r a )
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pesso anche le pietre raccontano le vicende degli uomini con il loro linguaggio misterioso ed incisivo, fatto di segni, di tracce e di parole. Ad esse si è sempre guardato con curiosità e rispetto. Una di queste pietre è la cosiddetta “Traversagna”, che dall’alto della montagna ha spiccato il volo, per trovare una più comoda sistemazione nel greto del Rio Finale, nelle vicinanze delle case Bosini di Albareto. Non a caso la chiamano “Traversagna”, ma perché si è messa di traverso, laggiù, dopo l’abbandono del nativo Monte Scheggia (m. 882); staccatasi nel cuore di una notte d’agosto, testimoni solo le stelle, precipitò rumorosamente a valle e nella sua rovinosa corsa abbattè e trascinò impietosamente castagni secolari ed altre annose querce come se fossero teneri fuscelli; nulla risparmiò e per di più nell’immane impatto col greto del torrente quel grande masso si spezzò in due. A quell’improvviso tonfo, si svegliò tutta quella gente dei Bosini pensando, terrorizzata, ad un terremoto e solo dopo aver visto quella strage di alberi divelti ed il macigno messo di traverso nel loro torrentello si resero conto del pericolo scampato. L’accaduto, di bocca in bocca, si divulgò rapidamente in tutta la montagna e il luogo divenne meta di curiosi, tanto più che a completarne il fascino intervengono alcune righe di storia vera. È risaputo che Albareto, come tanti altri paesi dell’Appennino in posizione strategica, fu, per così dire, la Mecca dei contrabbandieri, grazie alla sua posizione a circa cinque ore di cammino sia da Pontremoli come da Varese Ligure; era insomma un luogo ideale per chi aveva grinta e passione per tale genere di traffici che in fin dei conti rendevano abbastanza. A quei dì, specie in montagna, la vita era assai dura per tutti: il lavoro dei campi, dei boschi e dei pascoli non ripagava certamente le estenuanti fatiche di quei montanari e pertanto non fa meraviglia che i paesani ed anche il sindaco escogitassero qualche espediente per sfamare la famiglia. Così, anche il primo cittadino di Albareto si avventurò lungo i sentieri dei monti per tali rischiose trasferte. Tanto fece, che finì nella rete dei “Preposés ”. Non parve vero a quelle guardie di aver pescato un pesce di tali dimensioni e già si apprestavano ad infliggergli un’ammenda adeguata, ma non ebbero neppure il tempo di mettergli le mani addosso che ad un cenno del primo cittadino si misero in azione i suoi compagni di viaggio, i
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Quando i merli erano bianchi col becco rosso ( Va l pa da na )
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uole la leggenda che i merli un tempo assai lontano fossero bianchi, vestiti di piume candide come la neve, ma un brutto giorno tre di essi caddero in disgrazia del terribile vecchio che è Gennaio; umiliati e stremati di forze da quel momento portarono nel piumaggio il segno della loro tracotanza. Era quello un inverno veramente da fiaba con tanta neve, e le giornate buie, melanconiche ed uggiose non finivano più: stanchi di ciò, tre merli, padre, madre e figlio, che avevano svernato in un grosso pagliaio, decisero di lasciare il loro indisturbato rifugio per stabilirsi finalmente nel bosco, sfidando la stagione, desiderosi di iniziare una nuova vita. Dimentichi però che la primavera era tanto lontana, trovarono con loro sorpresa che il bosco, in altri tempi rallegrato da tante voci, era assolutamente muto ed inospitale; la neve aveva cancellato ogni sentiero, nascondendo le siepi a loro familiari e i rami delle piante su cui erano soliti saltellare, indossavano un abito candido, ingemmato di tante stelline d’argento che formavano curiosi arabeschi di pizzo. Soltanto il ruscello, seguitando la sua inarrestabile corsa verso la valle, andava cantando la sua solita canzone ispirata ai più vari motivi di speranza e di dolore. Sembrava che tutto fosse congiurato contro di loro, poveri uccelli desiderosi di libertà e di vita allegra! Nonostante ciò, diedero coraggiosamente inizio all’ardua impresa di costruirsi un nido. Non trascorse molto tempo e passò di lì un uomo tutto ricurvo su se stesso, freddoloso e triste, incamminato verso i limiti del bosco: era il vecchio Gennaio ormai sfinito e rassegnato. Riconosciutolo, i tre spavaldi uccelli bianchi si allinearono per insultarlo: “Vattene brutto vecchiaccio, sei ormai con i piedi nella fossa, di te non abbiamo più paura!” Il vecchio che in verità era ormai al termine del suo cammino, si sentì ferito nel suo intimo per quelle insolenze, ma non proferì parola e, continuando i suoi passi, andava rimuginando quanto aveva udito, deciso di dare una buona lezione a quegli sprovveduti, nonché impertinenti ospiti del bosco. Passata la notte si alzò l’alba del giorno 29, assai melanconica e accompagnata da un freddo pungente, tanto che il giovane rampollo non resistette più e, per non morire assiderato, decise di abbandonare il bosco, lasciando papà merlo e mamma merla soli a continuare la spregiudicata
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impresa, per rifugiarsi al tepore del camino di una casa vicina. I due sopportarono a mala pena il rigore di quella giornata eccezionale, sperando qualcosa di meglio l’indomani, ma invece nel giorno seguente il freddo divenne ancor più intenso, tanto che anche la merla, pur a malincuore, decise di raggiungere il camino dove si era rifugiato il figlioletto. Rimase solo il capofamiglia, abbandonato da tutti, ma rincuorato dal pensiero che ormai gennaio era finito e ce l’avrebbe fatta, non disponendo il “brutto vecchiaccio” di alcun giorno per scatenare le sue ire. Ma non fu proprio così! Venne il tramonto anche di quella maledetta giornata di gelo, si accesero le stelle nel cielo e dalla chiara luna piovevano sugli alberi scapigliati e ricurvi filamenti d’argento, a ricamare sul candido lenzuolo di neve arcane e sinistre figure di malaugurio. Infatti, proprio in quella notte, l’astuto Gennaio, che voleva vincere a tutti i costi, si era recato dal vicino Febbraio a farsi prestare un giorno e così scatenare con l’aggiunta del 31 le sue ultime e più potenti riserve di freddo. E il freddo fu veramente eccezionale al punto di far scoppiare le piante. Il povero uccello, spaventato e sconfitto, per non rimetterci le penne dovette per forza raggiungere in fretta il camino, dove già erano i suoi. Dopo tale disavventura i tre, divenuti prudenti più che mai, attesero pazientemente l’arrivo del bel tempo prima di lasciare il loro rifugio, però, quando uscirono, con grande sorpresa e disgusto si accorsero che le loro penne già candide erano diventate nere e il loro becco già rosso si era tinto di giallo. Portarono con sé il segno di tale disavventura, trasmettendo la tragica eredità ai loro discendenti. La piacevole leggenda, che assegna agli ultimi giorni di Gennaio il freddo più intenso, mette in guardia (in questo sta appunto la sapienza antica) dalle facili illusioni, che potrebbero nascere alla vista di qualche bella giornata anche in pieno inverno ed invita in modo simpatico alla prudenza, riguardandosi dal freddo, col risparmiare, secondo l’antico proverbio, un buon pezzo di legna per quei giorni che potrebbero riservare, oggi come allora, amare sorprese.
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Quei trenta denari ai piedi del Bambino ( Pa r m a )
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