Leggende Parmigiane libro 1

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Enrico Dall’Olio

Leggende Enrico Dall’Olio

PARMIGIANE Leggende d

PARMIGIANE d Illustrazioni

Dimitri Corradini

Grafiche Step editrice - Parma 1

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Presentazione

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e Leggende sono “piacevoli creature” della fantasia popolare, o se volete “delicati ricami” della storia di ogni paese, affidate molte di esse alla memoria dei più anziani. Per l’amore che nutro verso la mia terra, mi sono avventurato in questo af­­fa­scinante mondo dell’immaginario, ho messo piede in questo pianeta dove la fantasia sovrana suscita utili riflessioni. Sono “briciole” di sapienza antica con il sapore e la fragranza inconfondibile della nostra terra parmigiana, incamminate come del resto tante altre tradizioni verso la dispersione e l’oblio; le ho radunate in questo libro, convinto di essere di fronte ad un bene culturale quanto mai prezioso da custodire gelosamente. Sono queste le principali motivazioni a sostegno delle “LEGGENDE PARMIGIANE”, curiose “passeggiate” in un mondo popolato di diavoli e angeli, di guerrieri, di re e regine, di fate e di folletti, di streghe e di incantesimi che riconducono spesso a credenze remote, ad eventi storici, a fenomeni naturali, a fatti straordinari, ar­ricchiti ulteriormente dalla fantasia popolare. Trasmesse fino a noi con un linguaggio semplice e piano, conforme allo spirito e al modo di vivere dei tempi lontani, permeati da fatica e povertà, comunque ricche di misterioso fascino, grazie anche all’abilità di chi le annunciava da una stalla all’altra nelle lunghe serate d’inverno; infatti quasi ogni paese dell’Appennino aveva i suoi cantastorie, retribuiti per ogni seduta con un fiasco di vino ed una micca di pane. A corredare piacevolmente il testo e a favorire la ricostruzione del racconto concorrono efficacemente le significative illustrazioni di Dimitri Corradini. Ai giovani rivolti al futuro con una entusiastica e spesso affannosa ricerca delle novità e agli adulti ugualmente coinvolti nell’inarrestabile corsa verso il domani (pur sognando gli anni verdi) queste LEGGENDE offrono l’occasione per ricomporre un interessante affresco di vita parmigiana e coglierne i messaggi, annunciati con garbo, quasi sottovoce, ma sempre suggestivi, tendenti ad esaltare la giustizia, il coraggio, il perdono, l’onestà, la prudenza, la fede, la trasparenza, e a biasimare l’ingratitudine, l’orgoglio, la violenza, la presunzione, la vanità e l’invidia. Enrico Dall’Olio

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Matilde di Canossa e il serpente ( V a l d ’ En z a )

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on fa meraviglia che qualcuno avanzi dubbi sull’autore del famoso “Pontaccio” sull’Enza e, più che attribuirlo al dia­volo, come vuole la leggenda, preferisce renderne il merito a Matilde di Canossa o addirittura ad Annibale. A priori non si può scartare nessuna ipotesi, comunque, se a metterci mano fu la Contessa è presumibile che lo abbia fatto costruire in occasione del viaggio da Canossa a Sasso per le feste di Natale. Proprio in quella data e in quei paraggi, consacrati alla memoria della benefica Signora, è fiorita la leggenda dell’infernale serpente. La millenaria Pieve di Sasso, stupenda nella sua struttura basilicale a tre navate, la maggiore, centrale, divisa dalle altre due da sei arcate per parte, poggianti su robuste colonne tonde e concluse da altrettanti absidi semicircolari, con le capriate in legno e le pareti interrotte ed illuminate da strette monofore, fu teatro secondo la leggenda di un avvenimento che sbalordì il mondo d’allora. È noto che la chiesa, costruita su un’altura povera di vegetazione (da cui il toponimo “Sasso”), ebbe in passato una importanza particolare su tutta la zona, essendo “Matrice e Chiesa Battesimale”, cioè deputata all’amministrazione del Battesimo a tutti i neonati dei luoghi vicini. L’artistico Battistero, ricostruito con i pezzi dell’originale Fonte, evoca questa realtà storica. Ebbene, tra i pensieri vaganti nella mente della Contessa, oltre quello della carità verso il prossimo, si annidava un insopprimibile desiderio, alimentato dalla sua profonda religiosità, di celebrare lei stessa una messa. Un giorno dialogando con il Papa Gregorio VII, suo ospite a Canossa, gli manifestò la sua ardente aspirazione. Il Papa, sul principio, rifiutò decisamente tale possibilità, adducendo mille buone ragioni, tra l’altro che, nella storia della Chiesa, non si era mai verificato che una donna avesse celebrato il Divin Sacrificio, mansione riservata ai sacerdoti. Ma nulla valse a distogliere Matilde da quel sogno; e, data l’insistenza con cui reiterava la richiesta, il Papa, al fine di non disgustarla, a dimostrazione della sua buona volontà, le avrebbe concessa tale facoltà ­- così si dice - ad una condizione ben precisa (secondo lui impossibile da realizzarsi), cioè dopo che fosse riuscita a costruire ben

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cento chiese. Una proposta simile avrebbe scoraggiato chiunque! Invece l’intraprendente Signora accettò la sfida e ordinò la erezione, uno dopo l’altro, nel suo territorio, di altrettanti edifici sacri. E la Pieve di Sasso compì la serie. Lì, secondo la promessa pontificia, il giorno di Natale, per dare maggiore solennità all’avvenimento, avrebbe celebrato la messa. A quei tempi le vie di comunicazione erano carenti, le zone montane in particolare erano impervie, per cui Matilde dovette provvedere all’apertura di strade e alla costruzione di ponti e, tra gli altri, forse anche del “Pontaccio” sull’Enza. In prossimità della festa, Matilde si mise in viaggio alla testa di un variopinto corteo, di cui faceva parte lo stesso Pontefice, verosimilmente turbato per la vicenda che, suo malgrado, volgeva alla conclusione. Ad accogliere gli illustri ospiti s’era riunita una gran folla, piovuta dalle montagne circostanti a rendere omaggio, secondo la consuetudine, alla sovrana ma soprattutto curiosa di assistere all’annunciata celebrazione. La chiesa era gremita fino all’inverosimile di devoti e di ammiratori, tutti con lo sguardo fisso all’altare dove la Contessa, assistita da un cerimoniere, indossando i sacri paramenti, si accingeva a consacrare il pane e il vino. Nulla di eccezionale fino a quando Matilde si chinò devotamente per pronunciare le parole di Cristo “Questo è il mio Corpo - Questo è il mio sangue”. In quell’istante accadde qualcosa di terribile: dal calice uscì un grosso serpente che si avventò contro di lei, cercando di morderla. Risuonarono nella chiesa attonita urla di terrore e la Contessa cadde a terra tramortita. Con questo epilogo drammatico si concluse la vicenda. Ma questa è solo la leggenda. La storia invece attesta la grande fede e la smisurata generosità della illustre Signora che presenziò, tra l’altro, alla consacrazione del Duomo di Parma per mano di Papa Pasquale II, di ritorno dal Concilio di Guastalla, recando personalmente all’altare molti e preziosissimi doni e accattivandosi la simpatia dei parmigiani.

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Aneta ed Arrigo pastorelli coraggiosi

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ella Padania regnava ancora la malaria ed i corsi d’acqua solcavano capricciosamente la fertile campagna e le povere casupole di paglia e di fango di quegli abitanti, formando acquitrini e paduli malsani. Grande era il disagio associato alla più desolante povertà, anche se la gente traeva dalle acque e dalla caccia il nutrimento quotidiano. Viveva in una di quelle famiglie una buona e dinamica fanciulla, insofferente alla monotonia di quel paesaggio piatto e melanconico e soprattutto, dato il carattere forte ed avventuroso, delle consuetudini imposte dai vecchi genitori. Non se la sentiva di rimanere sepolta per tutta la vita in quel luogo chiuso, senza orizzonti, ed un giorno, allo spuntare dell’alba, mentre i genitori ancora riposavano, completamente estranei ai progetti della figlia, raccolse i pochi stracci e lasciò alle spalle la sua capanna, mentre il cuore le batteva forte in petto, incamminandosi verso la meta sognata. Quale direzione prendere? Non lo sapeva nemmeno lei; non era mai uscita di casa! Ma dopo aver aggirato quel labirinto di acquitrini, si trovò sul sentiero battuto dai cacciatori e dai pescatori, a lato del torrente Enza. Di mano in mano che saliva la valle, sempre più affascinante si apriva ai suoi occhi l’incanto di quelle montagne, che le venivano incontro, rivestite di alberi che parevano giganti e di fiori mai visti. Mai sazia di vedere e di ascoltare le voci, che facevano concerto nei boschi che attraversava, camminava sempre più sollecita e felice della sua libertà. A tratti si riposava per raccogliere i frutti di bosco e rifocillarsi o fiori spontanei per inebriarsi dei loro colori e del loro profumo. Di notte si riparava sotto una folta chioma oppure giaceva a cielo aperto per ammirar il tremolio delle stelle. Quel viaggio avventuroso durò tantissimi giorni e la fatica non attenuò l’ansia di giungere alla meta. Il grande sogno della fanciulla, oltre la libertà, era quello di vedere con i propri occhi, nel cuore della montagna, la nascita del fiume impertinente, che fra balzi e rapide finiva di scapricciarsi presso la capanna dov’era nata. Indimenticabile fu il giorno in cui Aneta giunse in quel luogo meravigliosamente bello, ricco di verde, ingemmato di splendidi laghetti, incorniciati da faggi e da querce. Gli animali liberi e felici scorrazzavano, gli uccelli avevano il loro nido e il loro rifugio: un piccolo paradiso, insomma! Come non fermarsi per sempre?

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Aneta non se la sentì di lasciare quel posto così invitante ed ospitale e, d’istinto, come gli uccelli, si costruì il suo nido con frasche e rami, dove ripararsi dal maltempo e riposare di notte. Di giorno esplorava i dintorni, quasi a prendere possesso del suo regno e per procurarsi da vivere. L’animo suo felice la portava a lodare Colui che le offriva tante cose belle. E il Cielo parve accondiscendere alla sua scelta di vita e le riservò una gradita sorpresa: un bel mattino alcune pecorelle si accamparono attorno alla capanna e la circondarono come per consegnarsi a lei. Da quel momento, Aneta divenne una pastorella ed ogni giorno guidava al pascolo il provvidenziale gregge, che in cambio le forniva latte ed agnelli. Ma la solitudine doveva ben presto finire: un fruscio, assai diverso da quelli che abitualmente avvertiva, la fece trepidare: si volse in quella direzione e vide giungere un giovane di bell’aspetto, segnato dalla paura e dalla stanchezza. Era fuggito precipitosamente dalla città, dove qualcuno lo perseguitava: cercava libertà e pace. Si chiamava Arrigo. Poche parole bastarono per suscitare fiducia e simpatia reciproca. Li aveva spinti fin lassù lo stesso ideale. La rudimentale capanna venne ampliata e rafforzata per resistere meglio alle intemperie e cominciò a popolarsi di voci, che col tempo divennero adulte. Si moltiplicarono le capanne attorno a quella primitiva della fanciulla ed il nucleo abitato prese il suo nome: Aneta; ma altre ne furono erette accanto a quella abitata da Arrigo prima del felice incontro, che scelsero di chiamarsi, in suo ricordo, Rigoso. Nessuno avrebbe immaginato che questo piccolo villaggio, spuntato sulle ali della leggenda ai piedi del Monte Malpasso, sarebbe divenuto la prestigiosa capitale delle Corti Vescovili, dove furon stilati gli Statuti della Valle.

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Il Ponte del Diavolo ( V a l d ’ En z a )

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ei secoli ormai lontani, il diavolo, a quanto pare, secondo la sapienza del popolo, non disdegnava di fare le sue comparse nel territorio parmigiano, ora sui monti, ora nei fiumi e nei luoghi più impensati, talvolta divertito, qualche altra scornato: in ogni caso cercando sempre il suo tornaconto a danno della povera gente. Tormentava qualche sperduto eremita in contemplazione e in penitenza, s’intrufolava nelle vicende di qualche paese con i suoi furbi espedienti, ma poi, alla fine, la peggio toccava sempre a lui. Di questi suoi vagabondaggi, in tempi lontanissimi, ha lasciato segni vistosi un po’ ovunque: un enorme macigno nero lambito dalle fiamme con le impronte ferrate del suo infernale cavallo, le tracce dei suoi stivali o l’orma del suo trono. Aggirandosi, un giorno, in quel di Cassio, si trovò improvvisamente in difficoltà, non si sa bene per quale disavventura, tanto che fu obbligato a darsi precipitosamente alla fuga; senonché le sue zampe infuocate, ogni volta che toccavano il suolo, incidevano la roccia così da originare quella catena di caratteristici spuntoni, estesa parecchi chilometri, chiamati da quel momento “Salti del Diavolo”. Un lavoro duro, un mestieraccio irto di sorprese quello del diavolo, dovendo affrontare situazioni difficili, talvolta umanamente impossibili, e adattarsi a fare di tutto pur di guadagnarsi un’anima, addirittura faticare come... un dannato per costruire, in una sola notte, un ponte, come è accaduto per il Pontaccio sul torrente Enza, a Ceretolo, in quel di Neviano degli Arduini. Gli abitanti del paese, a quei dì, si trovavano senza mezzi di comunicazione, isolati dal mondo, impossibilitati a raggiungere l’altra sponda del fiume, se non a guado o con i “scavarté” (o “scavalchèt” = trampoli), per la mancanza di un ponte. È facile immaginare il grave disagio della gente che più volte aveva tentato di gettare una passerella, inutilmente: la prima piena se la portava via come un fuscello. Del malumore generale pensò bene di approfittare il “maligno” con una proposta solleticante rivolta al deputato del paese: “Io sono in grado di costruirvi un magnifico ponte, comodo e resistente, che vi permetterà di andare dove e quando vorrete, con qualunque tempo. Ma come contropartita vi chiedo di appropriarmi dell’anima di colui che l’attraverserà per primo”. Così parlò il diavolo! L’idea non parve malvagia del tutto al popolo radunato per l’occasione, anche se

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nessuno sapeva rassegnarsi al pensiero che uno di loro dovesse pagare per tutti. Dopo aver discusso a lungo se fosse lecito venire a patti col demonio, finalmente la risposta fu positiva. Appena scesa la notte, mentre i montanari dormivano sognando quello strano affare, il diavolo mise mano all’ardua impresa: il tratto corrente da superare era molto ampio; calcolò quante pietre e quanta calce occorrevano e si fece in quattro per completare l’opera prima che spuntasse il sole. Ed ecco, alle prime luci dell’alba, apparire la sagoma del manufatto, eseguito a “regola d’arte”, come era negli accordi. Visibilmente soddisfatto del magnifico lavoro compiuto, ma “a pezzi” per la massacrante fatica, si appoggiò sul parapetto, pregustando la gioia di portare con sé un’anima nel ritorno all’inferno. Non durò a lungo l’attesa: d’un tratto, drizzò le orecchie, aguzzò lo sguardo perché dall’altra parte stava arrivando qualcuno. Non fece in tempo a rallegrarsi, infatti chi gli veniva incontro, stentando il passo, la testa a ciondoloni, non era nè uomo, né donna, né bambino, come lui sperava, bensì un decrepito cane randagio, affamato. Stravolto per la beffa ideata da quei montanari intelligenti, che avevano ottenuto ciò che era loro indispensabile senza far nulla di illecito, scornato e convinto ancor più che gli uomini, quando vogliono, sono più furbi di lui, maledicendo, da par suo, ciò che aveva fatto, si gettò a capofitto negli abissi infernali. Del leggendario ponte sull’Enza, che vanta altre attribuzioni discordi, non resta che un’arcata, quasi completamente sommersa dal letto del fiume, ed ora non fa più paura a nessuno anche se evoca il ricordo di questa leggenda. Quando i pastori, con le loro greggi, si aggiravano in quei paraggi, si facevano il segno della croce, benedicendo gli astuti antenati, e per scongiurare, non si sa mai, la vendetta del diavolo, qualora la sua rabbia, dopo tanti secoli, non si fosse ancora del tutto sopita.

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La bella castellana ribelle ( V a l d ’ En z a )

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ull’Appennino in tempi lontani vivevano due ricche e potenti castellane che esercitavano il loro dominio su territori sconfinati, avevano numerosi sudditi ed agguerriti eserciti a difesa delle loro fortezze senza nulla temere. Erano tuttavia diverse nei sentimenti e nel modo di comportarsi: infatti una, già avanti negli anni e ricca di esperienza, era munifica verso i poveri, per quanti erano nel bisogno ed assai religiosa e timorata di Dio. Spavalda e sprezzante di tutti, quella più giovane, rapace ed astuta. Un bel giorno bussò al castello di quest’ultima un vecchio eremita, consunto nel volto e negli abiti per le lunghe privazioni e penitenze sofferte; un tempo era un valoroso guerriero; staccatosi da un esercito di passaggio da queste montagne, si fermò per trascorrere il restante di sua vita alloggiando in una grotta e cibandosi di erbe e frutti selvatici e così pensare all’anima sua, contemplare la natura e lodare il Creatore. Si era mosso dal suo rifugio ispirato dal Cielo, venuto a conoscenza delle dissolutezze di quella sovrana. Ci volevano tutta la sua fede e la sua forza d’animo per affrontare l’arroganza di quella donna ribelle, ma si sentiva profeta e nel petto gli ardeva un grande coraggio. Infatti la sua insistenza dirompente prevalse sui ripetuti rifiuti della dispotica signora. Una volta entrato nella reggia ed ammesso alla sua presenza, l’uomo di Dio tuonò, minacciando i castighi del Cielo. Le parole di fuoco colpirono nel segno e quel gelido cuore fu ravvivato dalla grazia di Dio e indotto a cambiar vita. Di lì a poco, convertita, abbandonò il castello per ritirarsi in un luogo solitario in riva ad un lago, dove, sottoponendosi a mortificazioni e digiuni, trascorse santamente il resto dei suoi giorni. La leggenda tramandata fin qui oralmente dalla gente di montagna vorrebbe identificare in questa singolare figura femminile la stessa Maria Maddalena, la peccatrice del Vangelo che, ripudiando il suo passato, sarebbe venuta a vivere in una grotta presso il Lago Ventasso, dove ogni anno, il 26 luglio, nel tempietto a lei dedicato, si celebra la festa. Se la vicenda può aver avuto riscontro, purtroppo non convalidato da documenti d’epoca, in qualche sovrana dei tempi bui della nostra storia, non c’è dubbio che

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nella castellana, sapiente e generosa, contrapposta alla prima, poteva ravvisarsi la grande Matilde di Canossa, alla quale si attribuisce il merito di tante opere caritative e soprattutto la costruzione di molte chiese tra Reggio e Parma, come la Pieve di S. Vincenzo e di Sasso, Toano, Marola ecc. Fin qui la leggenda ricalca la storia, ma esorbita nella pura fantasia quando pretende di accreditare che essa si sia ritirata dal mondo in un convento costruito su un alto monte (poteva essere la Pietra di Bismantova) cosĂŹ da abbracciare con lo sguardo, senza piĂš sete di potere, i suoi sconfinati possedimenti.

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Armi e preghiere nel castello di Pietra Gemella

( V a l C ENO )

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