La battaglia delle fionde - Franco Tagliati

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La battaglia delle fionde di Franco Tagliati

Quella sera la luna ci pareva gravida di sogni. Si era alla fine di giugno, l’afa era insopportabile e ce ne stavamo tutti e sette seduti sul muretto dell’aia. Sette cugini impazienti in attesa che il filòs1 avesse inizio. La nonna aveva preparato alcuni secchi di quelle sue erbe anti zanzara e, dopo averli coperti con un sacco di canapa forato, vi aveva gettato un pezzo di carbone acceso. Il fumo protettore iniziò subito a diffondersi come una nebbiolina mentre iniziavano ad arrivare i primi vicini e con loro i nostri coetanei. Le donne iniziarono a servire agli ospiti il vino tenuto in fresco, per quella circostanza nell’albi2 mentre la nonna, sotto il portico, serviva il tradizionale gnocco con fette di polenta fritte. Un’occasione unica per noi ragazzi per abbuffarci senza dover chiedere il permesso, poiché solitamente il cibo era misurato. Con gli otto ragazzi del vicinato c’era sempre un’accesa competizione che spesso sfociava in animate baruffe, ma quando i ragazzi del centro del paese vicino venivano a provocarci trovavamo sempre in loro dei validi alleati. Ovviamente nella speciale occasione di quel filòs ogni ostilità fu messa a tacere. Il loro capo si chiamava Gabriele e aveva quattordici anni come nostro cugino Ciro e fu proprio lui che quella sera, 1 2

intrattenimento serale abbeveratoio per bovini

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proprio nel bel mezzo della festa, ci radunò tutti per darci una tremenda notizia. “Quelli del centro ci hanno dichiarato guerra”. Si fece un profondo silenzio. Ciro ruppe per primo il silenzio: “È proprio vero? Hanno dunque fatto questa affermazione?” “È vero sì!” rispose pronto Gabriele incoraggiato dall’effetto che le sue parole stavano provocando. “Così non può durare! - esclamò Filippo - Mi chiedo il perché di questa loro improvvisa decisione”. “Ho dato un pugno ad uno di loro perché mi aveva chiamato sterco di campagna e aveva dato lo stesso appellativo a tutti noi” chiarì Gabriele senza esitare. “Io lo avevo sempre detto che era ora di agire ma voi avete sempre sostenuto che ancora non era giunto il tempo! Ebbene, io penso che, se continua così, non solo quelli ci razzieranno anche i fazzoletti da naso, ma verranno a prenderci in giro pure sul nostro stesso campo” disse Giorgio indispettito. “Se dobbiamo agire contro di loro, dobbiamo prepararci” disse Gabriele evitando polemiche. “Che vengano pure. - Urlò Filippo - Li accoglieremo con il letame che si meritano”. “Come?” domandò Giorgio. “Sì! Hai capito bene, con il letame” confermò Ciro che non solo aveva compreso ciò a cui si riferiva il compagno, ma lo condivideva appieno e non tardò ad illustrare quell’idea: “faremo delle piccole palline di letame e paglia ma nell’impasto vi aggiungeremo minuscole sfere di ferro”. Pietro era il cugino di Gabriele e, non convinto, alzò timidamente la mano per manifestare la sua perplessità: “dove troveremo le sfere di ferro?” “Mio nonno ha un amico che fa il fabbro e non esiterà a rifornirci della quantità necessaria” rispose Filippo.

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“Dunque, aprite bene le orecchie. - riprese Ciro - Si prende un secchio di letame, vi si aggiunge della paglia tritata fine fine e le minuscole sfere di ferro. Il tutto va mescolato bene…” Silvano aveva nove anni e se ne stava da una parte a braccia conserte e con un muso lungo brontolò: “Che schifo! Bisognerà toccare la merda con le mani? Io non lo faccio!” Gabriele gli mollò uno scapaccione per farlo tacere e rimetterlo in riga, prima di ridare la parola a Ciro che continuò a spiegare il modo di preparare le speciali munizioni: “le palline non dovranno essere più grandi di un uovo di quaglia, una volta preparate dovranno essere messe ad asciugare al sole e, infine, pennellate con dell’albume che le renderà più compatte e pronte per essere tirate con la fionda”. Tutti annuirono condividendo, ma fu Nello a prendere la parola. “Ma ne servirà un gran quantitativo, come faremo ad essere pronti per l’attacco?” “Lavoreremo tutti insieme” rispose Gabriele. “Allora dobbiamo muoverci in fretta” aggiunse Filippo. “E soprattutto non farne parola con nessuno” aggiunse Ciro. Andrea e suo fratello Mariano chiesero ai due capi se la banda fosse in possesso di fionde, poiché, senza di quelle, la preparazione delle munizioni sarebbe stata inutile. Ma Ciro e Gabriele li rassicurarono. Si disponeva di ben tre fionde a testa. La banda sembrava convinta sull’efficacia del piano e sul da farsi, a ognuno fu assegnato uno specifico compito, la riunione sembrava terminata ma Ciro volle aggiungere un’ultima cosa prima di congedare le truppe: “consiglio a tutti di evitare di recarsi in paese da soli, se fosse necessario andate in gruppo”. Armando, cugino di Gabriele, era un tipo schivo, sopran-

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nominato Grasöl3 per via della sua corpulenta corporatura. Aveva ascoltato senza mai intervenire, non amava molto parlare, ma in quella occasione sentì che era necessario dire la sua e il suo intervento si rivelò estremamente utile, mettendo a fuoco un particolare che da molti di noi era stato sottovalutato o trascurato: “secondo me quando sferreranno l’attacco lo faranno all’improvviso perché penseranno di trovarci impreparati e sono sicuro che lo faranno dall’argine o dal canale, dove se non sbaglio la famiglia di Ciro possiede un casotto situato proprio nel mezzo dei due canali”. La palizzata, che chiudeva frontalmente il riquadro dove era situato il casotto, dava su un vecchio viottolo sterrato, ed era delimitato, ai due estremi, da due case. Dietro la palizzata, dalla parte opposta, il terreno era scosceso e su buona parte di esso si ergevano alte cataste di legna. Era insomma un labirinto dove facilmente ci si poteva nascondere. A sinistra di queste cataste sorgeva il casotto. Era una casaccia bizzarra in legno e mattoni; i muri esterni d’estate si ricoprivano di piante rampicanti: edera, glicine, vite selvatica, che lasciavano nudo, sul tetto, solo il grande fumaiolo nero. Il posto era ideale. Il suolo sostituiva meravigliosamente le praterie americane quando si giocava ai pellirosse. Quanto alle cataste di legno, con un po’ di buona volontà, con un briciolo d’immaginazione, potevano diventare ogni cosa: città, foreste, montagne rocciose, case, fortezze… a seconda delle circostanze. La notte pulsava e nell’oscurità la magica danza delle lucciole donava un tocco magico al buio. Nessuno di noi riuscì a chiudere occhio quella notte. Il giorno seguente ci alzammo prestissimo tra sbadigli e stiramenti. I nonni avevano preparato la solita scodella di latte

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cicciolo di maiale

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con due fette di polenta che consumammo velocemente per poi uscire come fulmini dal portone per essere puntuali al raduno convenuto. Ci radunammo sull’aia per dare il via al piano, talmente impegnati nel lavoro non badavamo al ronzio fastidioso dalle mosche che ci bersagliavano incessantemente. Tutti avevano assolto i compiti assegnati e disponevamo di tutto il materiale occorrente e l’aia si trasformò in un’efficiente catena di montaggio, nel frattempo, Ciro e Gabriele strapparono al nonno il consenso di usare il casotto presso il quale decidemmo di stabilire il nostro quartier generale. La notizia ci venne comunicata gioiosamente dai nostri capi i quali riuscirono ad ottenere anche la dispensa dalle nostre quotidiane mansioni, sino a che la faccenda non fosse stata risolta. Ciò voleva dire che eravamo liberi di organizzarci per stabilirci in quella sede per alcuni giorni sino a che la guerra non fosse terminata. “Giurate che osserverete quanto stabilito da me e Ciro senza obbiettare e che a nessuno venga in mente di tirarsi indietro a l’ultimo momento” disse Gabriele in tono solenne e deciso. Ma in quel momento, presi come eravamo dall’euforia, a nessuno di noi venne in mente di potersi tirare indietro o di disobbedire ai capi che ci eravamo scelti. “Sarà meglio iniziare ad allenarci se vogliamo essere davvero efficienti. - aggiunse Ciro - Direi che sarebbe meglio fare delle prove”. Rimediammo dei vecchi barattoli che, disposti a una certa distanza, fecero da bersaglio e raccolti dei ciottoli lungo lo stradello li usammo provvisoriamente come munizioni per allenarci. Alcuni di noi, nel frattempo, si davano da fare per rimediare provviste e tutto ciò che necessitava per la lunga permanenza. Era stato portato addirittura un fischietto, ci sarebbe stato utile per dare l’allarme durante i turni di guardia.

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Il sole era alto, la calura faceva ondeggiare la polvere sul viottolo e dall’alto del tetto del casotto dei passeri osservavano indifferenti i movimenti delle truppe. Fu stabilito di togliere scarpe e sandali per evitare rumori. Matteo fu l’unico ad essere felice di quella decisione, portava sempre scarpe più grandi e spesso inciampava, veniva da una famiglia povera che non poteva permettersi il lusso di comprare scarpe adatte, si doveva arrangiare con quelle rimediate. Sua madre sempre malata, il padre quasi assente, avevano contribuito alla formazione di un carattere chiuso nel fanciullo che sembrava non sapesse sorridere e privo d’amore non conosceva che il volto amaro della rassegnazione. Una lancia di sole penetrò dal soffitto e sfiorò l’angolo dove erano state ammucchiate le scarpe e i sandali. Intorno al casotto ondeggiarono alti pioppi e olmi e la leggera brezza sparse il profumo dei cespugli di lauro, rosmarino e salvia che crescevano sotto di loro. Pronti a fare del nostro meglio, iniziammo le prove di abilità, Silvano e Piero sbagliarono alcuni tiri, ma nel complesso, l’allenamento risultò promettente. Fu durante la pausa che, dopo essersi denudati completamente, ad Antonio, Piero, Matteo e Silvano balzò in testa l’idea di tuffarsi nel canale per cercare refrigerio. Gli schiamazzi dei quattro anatroccoli cessarono con l’intervento autorevole di Ciro che infuriato ordinò che uscissero immediatamente dall’acqua e li apostrofò con dure parole: “che non vi venga più in mente di fare una cosa simile senza permesso, perché vi cospargerò di miele e dopo avervi legato ad un palo vi darò in pasto alle formiche”. “Non si può fare niente, avete sempre ragione voi”. Si lamentarono piagnucolando Antonio e Matteo, mentre Silvano e Piero a testa china dicevano che non era giusto,

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ma Ciro volle chiarire il motivo del suo rimprovero: “questo non è un gioco, se fossero giunti i nostri nemici mentre eravate intenti a fare gli stupidi nel canale dove vi sareste nascosti sott’acqua? Nessuno di noi può dire se non ci stessero già spiando. Dobbiamo fare attenzione”. La parola gioco per noi era una parola poco usata. La nostra vita in casa di contadini era già adulta. Il nostro corpo, così come l’anima, maturava velocemente e l’infanzia terminava con altrettanta rapidità senza che noi ne fossimo consapevoli. Non so dire se i lavori che presto venivamo chiamati a svolgere ci rendessero più forti o forse più maturi. Nel tardo pomeriggio Ciro si arrampicò su un prunus carico di frutti che sembrò un ottimo punto d’osservazione. Noi al di sotto attendevamo impazienti l’esito della sua esplorazione, ma per il momento tutto sembrava tranquillo e decidemmo di osservare dei turni di guardia per la notte. Alle prime stelle la lucerna venne accesa ed essa diede alla stanza del casotto l’aspetto di una prigione. Le zanzare iniziarono a colpire il bersaglio come frecce infallibili mentre al frinire delle cicale rispondeva il gracidio delle rane. Seduti in cerchio sui nostri improvvisati giacigli di paglia ci rifocillammo con pane e formaggio. Ciro e Pietro affrontarono il loro primo turno di guardia, il fischietto ci avrebbe dato il segnale nel caso in cui il nemico avesse osato attaccarci. Le zanzare stavano creando un bel po’ di disagio all’interno del casotto. Gabriele aprì la sacca e ne estrasse un barattolo contenente un unguento appositamente preparato da sua nonna e ci ordinò di denudarci. Ci cospargemmo con quel provvidenziale preparato che risultò davvero efficace contro quelle bestiacce e finalmente riuscimmo a riposare meglio sui giacigli di paglia che pizzicavano la schiena. Qualcuno all’improvviso bussò energicamente sull’uscio del casotto. Ci svegliammo e in men che non si dica erava-

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mo ammucchiati e tesi in un angolo della stanza. Il silenzio era totale. Gabriele con passo furtivo, come un felino in agguato, si avvicinò alla porta quando dall’esterno giunse la voce conosciuta del nonno: “truppa siete svegli?” domandò con quella sua voce un po’ rauca. Gabriele rasserenato aprì la porta e il nonno gli porse un salame, mentre Ciro e Pietro abbandonata la postazione ci raggiunsero. “Sono venuto per constatare che tutto fosse sotto controllo” disse il nonno mentre depositava sul pavimento ciò che aveva portato: una bottiglietta di petrolio, del pane, alcune bottiglie d’acqua e una scatola di fiammiferi. Lo ringraziammo per la premura, sentendoci sollevati e lui sorridendo alzò la mano in segno di saluto e rapido scomparve nel buio. Quella notte, però, sembrava non volesse affatto trascorrere tranquilla, fuori all’improvviso iniziò ad imperversare un vento insistente che non prometteva nulla di buono, bagliori di lampi squarciavano il cielo e la tempesta si stava annunciando con il rumore degli scuri delle finestre. La fiamma della lanterna creava ombre danzanti sulle pareti, mentre puntuale giunse il rumore della pioggia sul tetto. “Usciamo!” gridò Filippo ad un tratto lasciando tutti stupefatti. “Sì usciamo, danzeremo sotto la pioggia proprio come fanno gli indiani prima di ogni battaglia”. Fu incredibile come quella proposta che in un primo momento sembrò assurda suscitasse, invece, l’entusiasmo di tutti. Con i tuoni che rombavano furiosi ci ritrovammo sotto l’acqua scrosciante a danzare abbracciati a ciò che rimaneva della fantasia che rendeva magico ogni movimento di quella spensierata follia giovanile, e ci sentimmo ebbri ed appagati come se il mondo stesse per chinarsi ai nostri piedi. Eravamo liberi dalle paure, dall’ansia, da ogni vincolo

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che ci serrava nella morsa quotidiana e quelli che udivamo non erano tuoni, ma rombare di tamburi. Le nostre grida sfidavano la tempesta facendoci sentire invincibili. Il sole del mattino si specchiava nelle numerose pozzanghere. Per la prima volta guardammo l’alba con occhi diversi. Allineati facemmo pipì lungo il canale e percepimmo il rumore degli insetti tra l’erba e il nuovo respiro della natura. Ciro si avventurò nuovamente sul grande prunus ma anche stavolta non vi era segno del nemico. Raccogliemmo alcune prugne riempendoci le tasche. Pietro che s’era addentrato tra i cespugli per impellenti bisogni, ad un tratto urlò: “correte! Venite!” Ci precipitammo verso di lui e guardammo nella direzione che ci indicava. Sotto un olmo c’era un bidone del latte, lo riconobbi subito era del nonno. Lo aprimmo e all’interno c’erano quattro bottiglie di latte e un bel po’ di fette di polenta abbrustolite e numerose uova sode. Il nonno ci aveva fatto un’altra delle sue gradite sorprese. Qualcuno esagerò nel trangugiare troppe prugne con il latte e gli effetti non tardarono a farsi sentire. Ciro e Gabriele si alternarono più volte sul prunus ma stranamente tutto appariva calmo. L’attesa iniziava a farsi stressante e i due capi si guardarono perplessi. Fu Ciro che, accortosi della tensione che si andava accumulando, propose ai più giovani di andare a pesca nel canale: “abbiamo la polenta rimasta, non ci resta che pescare qualche buon pesce e avremmo messo a punto il nostro pranzo”. L’entusiasmo che si scatenò a quella proposta aveva spinto già molti di noi a denudarsi completamente per tuffarsi in acqua, ma Gabriele intervenne a placare l’euforia: “non tuffatevi subito, il pesce a quest’ora sta pascolando vicino alla

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riva, è bene entrare adagio”. La pesca fu abbondante. Fu acceso un fuoco per cuocere le prede e la polenta fu lasciata scaldare al sole, ma negli occhi dei due capi vi si scorgeva la cupa ombra dell’apprensione. Quella calma non era naturale e con tacito accordo decisero di esplorare l’argine che sino a quel momento era rimasto inesplorato. I due si sparsero della mota su tutto il corpo per meglio mimetizzarsi e si avventurarono verso l’argine, risalendo sino alla prima banchina ai piedi di un grosso salice attenti a non fare il minimo rumore e vigili come leopardi a caccia. Noi alternandoci sul prunus tentavamo di seguire i loro movimenti tenendoci pronti ad ogni evenienza. In quegli attimi di febbrile attesa ci accorgemmo quanto i legami tra i due gruppi, una volta rivali, si fossero in quell’occasione rinsaldati e trasformati in una grande amicizia. L’afa non dava tregua e il tormentoso frinire delle cicale sembrava di bronzo. Dopo circa un’ora le sagome dei due esploratori si stagliarono sotto il sole cocente e noi tirammo un sospiro di sollievo. Sui loro volti leggemmo la fatica dello sforzo ma anche la preoccupazione. I due non dissero nulla, silenziosi si diressero al canale per ripulirsi dalla mota che si era seccata sui loro corpi. “Vi si legge in faccia che siete preoccupati. - disse Pietro Abbiamo il diritto di sapere che succede”. “C’erano quattro di loro sull’argine con le bici coricate ai margini della riva, intenti a spiarci” rispose Gabriele mentre si asciugava la faccia. “Quel branco di stupidi bovari li attacchiamo quando vogliamo, proprio dall’argine senza che se ne rendano conto. Prima di sera invieremo alcuni dei nostri sul lato opposto per trarli in inganno e sarà facile farli fuori una volta per tutte e se vorranno tornare in paese dovranno stare sotto la nostra cappella”. Così aggiunse Ciro riportando esattamente le parole udite

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dai nemici. Ci guardammo spaventati e confusi e per un attimo ci sentimmo smarriti, ma un capo capisce al volo lo stato d’animo dei suoi uomini e Ciro era un ottimo capo, gli era difficile perdersi d’animo e non avrebbe permesso che ciò accadesse ai suoi. “Non vi nascondo che tra i nemici vi sono cinque quattordicenni e un quindicenne e sotto un certo punto di vista loro sono più forti di noi, ma c’è una cosa che il nemico ha sottovalutato: noi siamo più concreti, più svelti, e uniti. Siamo imbattibili ad arrampicarci sugli alberi, abbiamo la pelle dura perché siamo abituati alla fatica e abbiamo l’occhio e la misura delle cose…” Parole sagge, pronunciate da un capo che sa infondere coraggio, non possono che far esplodere l’entusiasmo e incendiare gli animi dei suoi uomini, e fu ciò che avvenne in quei momenti. “Prendete i sacchi che usiamo come giacigli, riempiamoli di paglia e indossiamoli, che ci coprano avanti e dietro come corazze attutiranno i colpi e ci proteggeranno”. Scattammo come molle e ci gettammo nei preparativi, mentre il piano di battaglia veniva approntato velocemente. “Adesso ascoltate bene: sto per dirvi la cosa più importante. Seguitemi bene sulla carta. Il gruppo più nutrito arriverà dall’argine, i più grandi di noi resteranno giù disposti a freccia verso l’argine a destra del casotto, i più piccoli sugli alberi a cerchio. Tre di noi verso l’argine a sinistra due più piccoli sul tetto, uno verso l’argine e l’altro verso la campagna. Gli altri due si disporranno sui rispettivi canali ben nascosti dalle canne. Mirate giusto e buona fortuna a tutti”. Erano poco più delle cinque quando la banda nemica irruppe nel nostro territorio. Non appena furono a tiro, il fi-

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schietto di Gabriele suonò e la battaglia ebbe inizio. Decine di palle sibilarono tagliando l’aria e piombando sul nemico che frastornato non riusciva a scorgerci mentre noi li vedevamo benissimo. Ben cinque di loro vennero subito messi fuori combattimento e quando si avvidero del fallimento subito dai loro piani se la diedero a gambe. Caddero due dei nostri sugli alberi: Mariano e Gianni, fortunatamente senza gravi conseguenze. In compenso il secondo gruppo degli avversari ben presto cedette e malconcio battè in ritirata con la coda tra le gambe. Piero era caduto dall’albero e riportò molti graffi e contusioni. Dopo mezzora la battaglia era cessata e il nemico fuggiva sconfitto vergognosamente. Radunati davanti al casotto, esultammo vittoriosi e mai provammo gioia più grande. Non solo avevamo sconfitto un nemico più forte, ma avevamo dimostrato a noi stessi quanto fosse preziosa l’amicizia, l’unità e la fratellanza. Avevamo scoperto una cosa preziosa, un tesoro che ci avrebbe accompagnato per sempre nella vita. Ma le grida di esultanza furono interrotte da un lamento proveniente dal fossato dietro il casotto. Un ragazzo giaceva con la faccia sull’erba. Gabriele lo riconobbe immediatamente mentre lo girava e notò che aveva una profonda ferita vicino all’occhio. “È Enrico il loro capo”. Ciro portò dell’acqua per lavare la ferita e dissetare il nemico caduto. “Allora beccamorto chi è lo sterco di letame ora? - lo beffeggiò Gabriele in tono trionfante - Non fai più il gradasso ora? Non azzardatevi mai più a trattarci in quel modo” queste ultime parole suonarono alte, chiare e minacciose. “Andate a cagare!” ghignò Enrico dopo aver bevuto ed essersi sciacquato la faccia, ma un pugno di Ciro lo fece ruzzolare in terra.

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“Spogliatelo completamente e legatelo a quel palo!” ordinò Gabriele. Il prigioniero cercò di difendersi e mollò un pugno in faccia a Filippo, ma per quanto grugnisse come un maiale al macello ogni tentativo di fuga fu vano: fu denudato e legato al palo per ricevere gli sputi di tutti, poi gli fu lanciata addosso della mota. Gli tirarono il pisello e i più piccoli gli strapparono dei peli mentre ridevano e ridevano. Armando il Grasöl afferrò l’occasione per vendicarsi per tutte le volte che aveva dovuto subire l’umiliazione di essere preso in giro da quei delinquenti quando si recava in paese per comprare le sigarette per suo padre. Non poteva dimenticare la filastrocca che quei porci cantavano in coro per prenderlo in giro: “Ciccio bombolo cannoniere con tre buchi nel sedere con tre buchi nella pancia ciccio bombolo vola in Francia. Brött grasöl spüsulént 4”. Strappò dal prato una manciata di ortiche e le strofinò sul basso ventre (davanti e dietro) del prigioniero. “Basta! - urlò Enrico scoppiando a piangere - Giuro che da oggi non accadrà più che vi si manchi di rispetto. Se mi lasciate andare torneremo ad essere amici”. “Avete una strana concezione dell’amicizia voi bastardi, guarda come ti hanno abbandonato in fretta i tuoi amici” fece notare Gabriele, ma Enrico piangeva disperato e Ciro ordinò di slegarlo, aiutarlo a ripulirsi e liberarlo. Aiutammo Enrico a rimettersi in sesto e lo accompagnammo sino sopra l’argine dove la sua bici giaceva abbandonata ai margini della strada ghiaiata tra l’erba. Davanti al casotto ci raccogliemmo festanti mentre le zanzare avevano ripreso le loro scorrerie sui nostri corpi sudici e sudati. Poi raccattate le nostre cose, ci congedammo fraternamente e mestamente. L’avventura era giunta alla fine,

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brutto cicciolo puzzolente

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ora c’era da rientrare nelle nostre case e la quotidianità ci avrebbe risucchiato ma questa volta non avrebbe potuto toglierci quello che avevamo così duramente conquistato. Ognuno riprese la sua strada, ma mentre la compagnia si scioglieva fu accompagnata dalla preghiera dell’acqua che scorreva placida nel canale e la sera ornava il suo cielo con un filo rosso, la terra spossata dalla calura attendeva avidamente l’ombra della notte e i fabbri del tempo avevano soffiato dentro le nostre fucine modellando i ricordi più belli.

Franco Tagliati è nato a Guastalla (RE) dove vive e lavora. Commediografo, poeta, pittore. Ha ottenuto meriti e premi per poesie e racconti in vari concorsi ed è presente in numerose antologie italiane. Con la pittura ha esposto in diverse città italiane e anche straniere. È membro dell’Associazione Culturale “Un poco di noi” di Reggio Emilia e dell’Associazione Culturale “Argine Maestro” di Guastalla. Ha pubblicato Terra Amata con l’editore E. Lui di Reggiolo (RE) e Racconti di vita e d’amore con l’editrice Montedit di Milano.

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