Il giardino di rose - Bacchi Rossella

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Il giardino di rose

La distanza che c’era tra la vita che sognavo di avere e quella che già mi apparteneva continuava a fingere. I pensieri mi sedevano accanto, sedimentati così a lungo come se fossero rimasti in attesa di risposte che ancora non avevo trovato. Stavo trascorrendo la mia vita arenato in un impasto di pentole, pentolini, mestoli, cucchiai, coltelli con una brigata di chef e derivati, da far invidia a Buckingham Palace. I giorni se ne andavano via senza più salutare, lasciandomi in quel luogo, dove avevo progettato piacere e sopravvivenza ma che per qualche inspiegabile ragione non mi bastava più. Nella mia testa solo refusi che avevano minato il mio terreno sociale fino al giorno in cui, tra la solita posta di bollette e scartoffie, mi capitò di ricevere una lettera scritta a mano. Una grafia curata e insolita, su una busta gialla ben sigillata. Tutto era dissociato da ogni mio pensiero. Sentivo soltanto una gran voglia di aprirla.

“Caro Giorgio, immagino già lo stupore quando leggerai questa lettera. Ho pensato a lungo prima di scriverla, ma non avevo altra via per chiedere tempo e attenzione. Troppi anni ci hanno separato, tu con il tuo lavoro lontano ed io con i miei problemi di salute, non ho mai potuto raggiungerti. Non mi resta molto ancora e sarebbe inutile raccontarsi di una vita in così poco tempo. Abito ancora qui, nel borgo dove sei nato, dove i tuoi sogni buoni di bambino ripiegati in un cassetto, aspettavano di essere raccolti. Tutto è cambiato da allora. Provo uno strano freddo dentro per le cose che non ci sono più, nemmeno i sorrisi. Non so nulla di te, ed è inutile parlare di cose che mi mancano solo perché non ci sono mai state, ma avrei il desiderio che tu tornassi qui ancora una volta. Non sarò più io ad attenderti ma solo il dono che ti ho lasciato. Cerca il signor Giustino, tutti qui lo conoscono, lui te lo mostrerà. L’amore che ci ha separato, un giorno ci unirà di nuovo. Tua nonna Ines


Provavo tristezza e nostalgia. Mi sentivo in colpa per non essere andato al suo funerale, ma la sua morte non ero riuscito a separarla dalla vita e dall’amore. L’unica certezza che avevo era ricominciare una nuova vita e quella poteva essere l’occasione giusta. Ancora non sapevo se quel mondo là fuori era pronto ad accogliermi, ma avevo il coraggio di seguire il mio cuore. I dubbi e i rimpianti, caduti prima di venire al mondo, non avrebbero tradito il mio sogno. Senza troppe parole me ne sono andato. L’alba di quel giorno mi dava un senso di gratitudine. L’aria fresca del mattino accarezzava il primo bacio che il sole dava al lago di Lugano ancora assonnato, quasi a consolare una promessa. I profili montuosi scendevano verso la riva e le acque tranquille riflettevano le luci dei lampioni ancora accesi. Guidavo piano, mi guardavo intorno distratto dal paesaggio che man mano cambiava vestito. La strada che portava giù fino alla grande pianura padana in alcuni punti sembrava addomesticarmi. Stavo tornando nei luoghi della mia infanzia, un segreto tra me e quella terra dove avevo amato la vita e dove non abitava più nessuno della mia famiglia. Non mi sentivo un misero orfano alla ricerca delle memorie più care, perché qualcosa di me era rimasto lì. Lontano dalle strade trafficate, dove le nuvole sfioravano la linea piatta dell’orizzonte, c’era il mio paese. Costeggiavo l’argine del fiume e nel silenzio rarefatto, il polline dei pioppi oscillava nell’aria come coriandoli. Anche le rive tornavano a coprirsi di vegetazione, perché la primavera era sempre generosa. Avevo fermato l’auto. Quel mare di terra e acqua, intriso di storie vecchie come il mondo, portava con sé i gesti della propria esistenza. Non potevo azzerare il flusso corrente dei ricordi perché quelli ti rimanevano appiccicati addosso. Non tornavo lì da più di trent’anni, troppi per essere contati tutti insieme, troppo pochi per essere dimenticati. Avevo ripreso la strada che si faceva sempre più stretta, incorniciata da una lunga siepe bianca di prugnoli in fiore. In lontananza scorgevo i tetti rossi delle case che si scaldavano al sole di mezzogiorno e uno dopo l’altro si inseguivano fino alla piazza sempre pronta a consolare l’anima di chi era rimasto. Il campanile della chiesa si ergeva come una fortezza accanto a voci che tornavano a vivere di parlare quotidiano, nell’unica osteria dove sapevo di trovare Giustino. Le stagioni sempre più


sbadate, avevano scolorito l’insegna dipinta sul muro e della vecchia osteria era rimasto ben poco. La porta a vetri faceva filtrare l’anima cupa e soffusa della luce che a fatica illuminava l’interno. Il barista dietro al bancone, guardava tra tavolo e tavolo distratto dai commenti di disprezzo o approvazione ad ogni mano di carte che qualcuno raspava sul tavolo. Il chiacchiericcio di qualche vecchio si mescolava alle fette di salame e la crocetta del pane serviti con un buon bicchiere di lambrusco. Non conoscevo il volto di Giustino anche se un po’ me lo ero immaginato. Ero sicuro che il mio arrivo improvviso gli avrebbe fatto andare di traverso anche le briciole, ma un uomo come lui sapeva raccogliere l’imbarazzo e buttarselo alle spalle. Qualcuno me lo aveva indicato. Con fare garbato si era avvicinato e mi aveva invitato a seguirlo fuori dal locale. “Andiamo a casa, lì si sta meglio”. La vecchia bicicletta nera lo aspettava appoggiata al muro del portico. Con un balzo saltò su e prese la strada di casa. Gli stavo dietro con l’auto a passo lento e silenzioso come in processione. Aironi cinerini, spaventati dal nostro passaggio, si alzavano in volo dai fossi, maestosi e potenti. Non bastava la cornice di un quadro a farci stare dentro la dimensione nostalgica di quella grande distesa verde punteggiata di cascine, alcune abbandonate e altre abitate. Un cancello di ferro un po’ arrugginito isolava quella di Giustino dalla via principale. Una casa semplice, che abbracciava sul davanti un grande cortile e qualche pianta di ciliegio. C’era aria di Bassa, di onestà, tutto quello che avevo imparato da bambino. Mentre Giustino si affrettava ad aprire la porta d’ingresso, lo guardavo in silenzio. “Sapevo che prima o poi sarebbe arrivato. La prego si accomodi, io torno subito”. Mi aveva preparato una stanza al piano di sopra dove mi avrebbe ospitato. Non potevo che cedere alle sue insistenze perché si sa, nel cuore della gente della Bassa ci sta il sole e la luna, e una manciata di stelle. Dopo un lungo viaggio anche le parole dovevano riposare, ma i pensieri no, mi cercavano quella notte, un po’ bugiardi e un po’ ruffiani. Pensavo a lei. Sentivo le mani ossute e sottili di nonna Ines che prendevano le mie, nel caldo dell’estate, nel freddo dell’inverno. Il suo sorriso, gli sguardi complici, il profumo di ciambella appena sfornata, i racconti di fate e folletti. Andavano in giro i pensieri e facevano male. Cosa valeva quel dono che mi aveva lasciato, se il mio amore per lei non era stato abbastanza?


Il mattino dopo la vita mi parlava ancora. Giustino aveva aspettato il mio risveglio giù in cucina, dove coperchi socchiusi, liberavano un caldo miscuglio di appetitosi profumi. Il suo sorriso sincero allietava il buongiorno. “Ha riposato bene stanotte?” Non potevo certo dire che ero stato colto da una strana agitazione, così lo avevo assecondato. “ Si grazie, benissimo.” La moka aveva smesso di borbottare sul fornello e l’aroma intenso del caffè mi rendeva di buon umore. Ingoiato al primo sorso, rimandava a cercare le cose che facevano stare più vicine al cuore. Dalla finestra della cucina che si affacciava sul retro della casa, qualcosa mi aveva distratto. Giustino sapeva incarnare le parole e liberarle nell’attesa di qualcosa che ancora non conoscevo. “Venga, le voglio mostrare ciò che mi è rimasto di più caro.” Lungo un ampio perimetro, un’alta recinzione in pietra, impenetrabile alla vista, custodiva al suo interno il ritmo lento della natura. Al di là del muro, un giardino di rose. Un mondo geloso del proprio tesoro, appartato e silenzioso. Le verità di Giustino, rivelate senza prezzo, si mescolavano alla rugiada del mattino. “Ines l’amavo, come si ama qualcuno a vent’anni. Le avevo regalato un pezzo di terra per coltivare i suoi fiori. Le piacevano le rose più di ogni altro fiore. Se ne prendeva cura, le incoraggiava e loro fiorivano rigogliose. Il giardino era dentro di noi, dentro le nostre giornate. Per Ines era difficile staccarsi dal mondo e lasciare quelle creature che le avevano vissuto accanto. Così un giorno decise di scriverle quella lettera. Dopo la sua morte voleva che lei tornasse qui, perché continuasse ad amare le sue rose.” Quel dono era davanti ai miei occhi e anche se provavo un senso di disagio, le rose non si accorgevano di nulla. Non potevo immaginare quanta bellezza potesse abitare in quel luogo. Le aiuole appena fiorite si alternavano a grandi cespugli di salvia e lavanda. Le basse siepi di bosso lasciavano il posto a bellissime macchie di colore.


Un groviglio di sentieri portava all’interno del roseto e tra tanto verde i boccioli appuntiti cominciavano a schiudersi in un tripudio festoso di rosso e fucsia. Tutt’intorno una fitta ombra, che alti rami dalle spine aspre, regalavano al muro di cinta. In quel mondo di scoperta e di memoria ero sospeso come il funambolo che cammina sul filo per raggiungere confini sconosciuti. L’essenza di un viaggio per oltrepassare le leggi dell’universo, per raggiungere il cuore e cercare il profumo d’amore, un viaggio di preghiera per ritrovare Dio che di lì c’era passato. Ma io ero un’altra cosa nella vita. Mi guardavo intorno. La mia anima in disordine poteva compiacersi o rifiutare, poteva arrendersi ai pensieri confusi, ma dopo tanto tempo, mi importava di qualcuno. Non era gratitudine, nemmeno pietà o ipocrisia. Era solo il coraggio che faceva rumore. Non sapevo quante vite avevano le rose, ma bastavano per farmi restare. Da quel giorno qualcosa era cambiato. La casa di Giustino era anche la mia. Mi aveva accolto come un padre e la sua presenza sempre discreta, mi confortava nei lavori della casa e del giardino. Con l’aiuto di Giustino avevo ampliato una parte del giardino con nuove piante di rose. Non sapevo fare granché, ma non potevo commettere alcun peccato se non quello di stupirmi, come facevo da piccolo, quando guardavo le cose per la prima volta. La nostra convivenza, fatta di cose semplici, mi aveva insegnato a respirare il profumo delle stagioni, l’odore dell’erba, della terra selvatica, l’odore della nebbia che d’inverno copriva d’immenso ogni cosa. Nel cuore umido della Bassa godevo di gusti e sapori che solo la tavola apparecchiata sapeva restituire. Avevo ripreso a cucinare ed ero felice. Sapevo coltivare i desideri per guarire le ferite di quei giorni in cui ero sordo alla magia di storie e saperi, in cui avevo allontanato gli affetti e avevo cercato la mia libertà senza trovarla. Quel posto mi apparteneva più di ogni altra cosa. Oggi come allora, la mia storia non vive di poche righe scritte su un foglio di carta, ma continua ad abitare in quella casa e in quel giardino, in una pianta, in un tratto di bosco, nei petali di una rosa un po’ spettinata dagli angeli. Ora so chi sono e ne sono finalmente fiero.

A nonna Ines


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