Il risciò della contessa Le famiglie CRACCO e MOLINARI di Cividale Quello che sto per raccontare è accaduto oltre settanta anni fa a Cividale Mantovano, un piccolo borgo rurale, frazione del comune di Rivarolo Mantovano. E, sia pure in maniera ridotta, avvenne una specie di emigrazione di due nuclei famigliari. Una famiglia veneta e una famiglia bresciana alla fine degli anni Quaranta vennero ad abitare in provincia di Mantova, prima a San Martino d/A, poi a Cividale Mantovano, per condurre il Fondo Pasotelli, proprietario oltre al Fondo, della Cascina o Corte Madonnina, così denominata perché all’ingresso del caseggiato sorgeva un’antica cappella votiva dedicata alla Madonna Addolorata, per i cividalesi: "La Madòna di sètt dulur". Lo scopo di queste famiglie era quello di migliorare il loro stile di vita. Sicuramente provenivano da zone più povere e impervie mentre la grande fertile Pianura Padana, con i suoi fiumi, i suoi laghi, dava sicurezza a chi si apprestava a lavorare immensi terreni agricoli. Per un paesello come Cividale, all’epoca, con meno di mille abitanti, la notizia dell’arrivo delle due nuove, numerose famiglie tenne banco per parecchi mesi, ai cividalesi non rimase che commentare nei vari crocchi la novità… “Par Samartèn, a riva di venit e di barsan” (Per S. Martino arrivano dei veneti e dei bresciani), questo era l’argomento tenuto vivo in paese da alcuni giorni, nelle osterie e anche nelle stalle durante i filos invernali! “Staremo a vedere come condurranno le varie fasi della lavorazione contadina nei campi della signora Pasotelli”, con tono da sfida ripetevano i vecchi contadini cividalesi. Prima di loro, alla corte Madonnina, e a condurre il fondo c’erano state le famiglie Paternazzi e Spigaroli, di origine cremonese. A Cividale quindi, a Corte Madonnina e Fondo annesso, nel 1950 è arrivata dal veneto la numerosa famiglia Cracco. Provenienti da Sarego una piccola frazione del Comune di Lonigo in provincia di Vicenza dove coltivavano qualche campetto di loro proprietà, il capofamiglia, Marcello Cracco, classe 1898, con la moglie Regina Dalla Riva, classe 1897 e i loro sei figli traslocarono nella nuova provincia, quella mantovana. (A spostare il nuovo nucleo famigliare i coniugi Pasotelli, di Bozzolo, ricchi possidenti terrieri). ZITA del 1926, ALDO 1928, GEMMA 1931, BRUNO 1933, SANTE 1936, FRANCESCO 1939, i sei ragazzini, quattro maschi e due femmine erano una buona manodopera per babbo Marcello che li iniziò subito a lavorare. A Francesco, il più giovane gli fu sostituito il nome in maniera bizzarra e per tutti diventò Adriano. Un cugino nato nello stesso anno, nello stesso paese, con lo stesso cognome e con lo stesso nome, veniva spesso confuso specialmente nelle varie ricorrenze. Dall’oggi al domani, Babbo Marcello propose ai famigliari di cambiare il nome a suo figlio e da allora è diventato per tutti ADRIANO. La famiglia intera impiegò parecchio tempo ad inserirsi tra gli abitanti di Cividale e quando presero un po’ confidenza raccontavano della loro vita trascorsa in veneto. Certamente non era una vita lussuosa ma fatta di stenti. Abitavano in una casupola senza corrente elettrica e i lumi ad olio erano le loro lampade, di scuola se ne parlava poco, solo Adriano è riuscito a frequentare la quinta elementare a Cividale con l’insegnante Anna Rosa. Chi l’ha conosciuta e vissuta ricorda il suo carattere autoritario, da generalessa, e chi si ritrovava timido o si applicava poco nello studio doveva subire i suoi metodi forti. Qualche scapaccione o un paio di rigate sulle dita le ha assaporate pure Adriano. I loro piatti giornalieri erano sempre gli stessi, dominava la polenta, a colazione con il latte appena munto, a pranzo con l’immancabile insalata condita con un po’ di strutto, e a cena, abbrustolita e con un poco di formaggio o salame, se c’era! Ma il pollaio ben fornito e la stalla con alcune mucche, asini, qualche capra, forniva il loro fabbisogno. A Cividale però scoprirono il metodo per attingere l’acqua, molto diverso dal sistema veneto. Percorrevano a piedi diversi chilometri ogni giorno, specialmente le donne, e mamma Regina partiva al mattino presto per attingere a qualche rara fonte l’acqua per cucinare, in quanto al lavarsi, ad un minimo di pulizia personale, dovevano aspettare quella piovana raccolta in tinozze, bigonce e, quando a Cividale videro e scoprirono l’erogatore dell’acqua
potabile, e quindi bastava azionare la maniglia della pompa, l’acqua sgorgava senza difficoltà. I sei fratelli, incuriositi, legarono un pezzo di corda alla maniglia e tre ragazzi da una parte e tre dall’altra cominciarono divertiti a pompare acqua, dopo alcune ore se ne ritrovarono alcuni centimetri nel cortile tutto allagato! Mamma Regina adottò i metodi delle massaie cividalesi e per lavare i panni di tutta la famiglia imparò ad usare: “ Al paròl, al navasòl, la smuiaròla, la lisciva”, (Il paiolo, il vascone per il bucato, detersivo ottenuto con la cenere bollita), mentre i piatti li lavava su un lavatoio di marmo sbeccato “al Sc-er” (il lavapiatti). Dopo qualche anno di permanenza a Cividale il lavoro agricolo andava sempre più progredendo. Ai 4 maschi Cracco si aggiunse un certo Anastasio, figlio di Olimpio, un bifolco che curava il bestiame, che, storpiandogli il nome, chiamava: “Nastasieto marcadeto”. Apostrofandolo così, quando combinava qualche marachella. “Marcadeto”, in dialetto veneto, tradotto significa “Furbacchione”. Era il soprannome che Olimpio aveva affibbiato al figlio, anche lui a digiuno di progresso, tanto da ignorare l’invenzione della lampadina che alla vista della novità si espresse così: “Vegnì tuti, om, doni e putei, vegnì a veder che i gà imbutiglià el fogo”. (Venite tutti, uomini, donne e ragazzi, venite a vedere che hanno imbottigliato il fuoco). Nonostante la loro timidezza tutta la famiglia si amalgamò con gli abitanti di Cividale, impararono le abitudini del paese e vi rimasero per circa settanta anni. A Pavone Mella, in provincia di Brescia vicino al fiume Mella, che scorre nella bassa Pianura Padana, a ridosso del confine cremonese, negli anni successivi alla fine della Seconda Guerra, 1940/45, una numerosa famiglia patriarcale decise di sciogliere le secolari abitudini dettate dai vecchi patriarchi, di cambiare zona lavorativa, lasciando a malincuore quella d’origine. Due fratelli, Franco ed Elia Molinari con le rispettive famiglie, si trasferirono dalla provincia bresciana a quella mantovana e precisamente San Martino dall’Argine presso Corte Bugatta per coltivare quel fondo. Era l’anno 1947. A Pavone Mella la famiglia Molinari, in qualità di mezzadri, costituita da 7 fratelli, quasi tutti ammogliati, in prevalenza maschi, raggiungevano un elevato numero di persone, e presso la Cascina Fienile Nuovo si ritrovarono in oltre 50/60. Nella prima metà del secolo scorso, la vita era piuttosto grama per la maggior parte degli italiani che hanno dovuto subire due guerre, fortunate erano quelle famiglie contadine che nonostante i numerosi disagi resistevano e vivevano serenamente la loro vita. Nelle cascine non c’era ancora la corrente elettrica, l’acqua la attingevano dal pozzo, e parecchie persone dovevano percorrere diversi chilometri per procurare l’acqua necessaria per cucinare, figuriamoci chi doveva abbeverare anche il bestiame. Elia, classe 1897, era il sesto di otto fratelli: Primo, Edoardo, Franco, Giuseppe, Riccardo, ELIA, Afrina e Ottorino, il più giovane. Purtroppo Ottorino era scapolo, sordomuto dalla nascita, (come la sorella Afrina), ma che non ha ostentato ad imparare un mestiere, anzi due, era sarto e barbiere, e per una famiglia tanto numerosa era una manna avere a disposizione un sarto e un barbiere. Ottorino, detto Rino, confezionava gli abiti per tutti: famigliari e parenti, cugini e ragazzini, persino le vestine delle bambine, vestiti che puntualmente i fratelli maggiori passavano ai più giovani per uno, due anche tre passaggi fino a quando, logori è inservibili venivano buttati. Molto apprezzato, Rino, ogni fine settimana si apprestava pure a togliere barba e capelli ai maschi del casato, ma, poteva capitare che il servizio lo facesse anche a qualche ragazzina e certamente il caschetto era più sul mascolino che sul femminile. Considerando inoltre che in cascina non c’era la corrente elettrica e le lucerne fornivano una luce fioca, bassa; se il taglio lasciava un po’ a desiderare, il tempo e la ricrescita regolava tutto. Elia invece iniziò la sua vita famigliare dopo aver conosciuto Agnese Visigalli, classe 1901, che sposò nel 1936. Elia ed Agnese si conobbero durante il periodo della vendemmia. Agnese, figlia pure lei di agricoltori, originaria di Castelleone (un importante paese della provincia cremonese, in prevalenza agricolo e in confine con la provincia bresciana), quel giorno era andata a vendemmiare presso una famiglia della zona e dove, contemporaneamente, il giovane Elia provvedeva alla pigiatura dell’uva. Un grosso recipiente chiamato “navassa” era lì, pronto per essere riempito di profumati grappoli d’uva in attesa di persone che, calpestandoli, pigiavano i succosi chicchi per ricavarne un buon vino. Vedere Agnese che dietro la “navassa” lavorava e sbirciava cercando di incrociare il suo sguardo, per Elia è stato un vero colpo di fulmine e poco
tempo dopo si sposarono. Dal loro matrimonio nacquero 7 figli: Anna nel 1936, Ettore nel 1938, Mario nel 1939, Aldo nel 1940, Maria nel 1943, Martina nel 1946, la bambina nata dopo Martina morì a soli 6 mesi. Elia aveva vissuto e combattuto la Prima Guerra Mondiale, 1915/18, che gli valse la medaglia d’oro di Cavaliere e che mostrava spesso con orgoglio, custodita gelosamente dal figlio Gigi con altrettanto orgoglio. Lui raccontava spesso la vita trascorsa durante la guerra. Una volta, assieme ai suoi commilitoni presero i pidocchi e per liberarsene, per disinfettare tutto, bollirono anche gli indumenti, per debellare i fastidiosi animaletti. Asini e muli venivano lasciati liberi nelle stalle per evitare che si soffocassero col fumo provocato per scacciare quegli insetti infestanti . Mentre un altro fatto è rimasto impresso nella mente di Martina che con grande enfasi mi ha raccontato: “Papà Elia, diceva a noi figli, che i suoi antenati provenivano dal sud Tirolo ed erano proprietari di mulini a vento da cui deriva il cognome Molinari. Alcuni nuclei si sono trasferiti in provincia di Milano, quindi si sono sparsi in tutta Italia”. Martina continua il suo racconto precisando che il suo nome all’anagrafe risulta Marta, ma che per un fatto veramente singolare non fu notificata col nome Martina, come desiderava mamma Agnese. Quando nacque Martina, nel 1946, fu uno zio ad andare in Comune a notificarla al posto del padre Elia, in quei giorni assente da casa e impegnato a comprare cavalli. Completamente euforico lo zio aveva passato più tempo all’osteria che negli uffici comunali e distrattamente notificò la nipote col nome Marta anziché Martina, anche perché essendo nata il 12 novembre, il giorno dopo S. Martino, mamma Agnese volle onorare il Santo, cui era devota. Elia ed Agnese si davano del voi tra loro e anche i figli erano molto rispettosi, e ascoltavan0 i genitori con tanta ammirazione. Di sera, durante l’inverno, faceva buio presto, più nessuno usciva di casa, e se era un’emergenza, rischiavano di inzaccherasi in qualche pozzanghera perché le strade erano piene di buche. Martina continua con i suoi ricordi: “ Non ricordo di averli sentiti una sola volta uscire con qualche parola sgradevole, o infuriarsi per qualche questione! Si mangiava in silenzio e qualche volta alla fine della minestra, mio padre, rivolgendosi a lei chiedeva: Cosa avete messo nella minestra questa sera? Mi pare che ci sia troppo lardo! Lei rispondeva: non fate troppo lo spilorcio che ne abbiamo due mezzene. Sapete che l’anno è lungo e non possiamo scialare”. Queste erano le uniche diatribe che potevo sentire dai miei genitori”. Nel 1947 Elia e Franco, con prole e mogli, quindi, vennero ad abitare a San Martino d/A. Partirono a piedi da Pavone Mella, con carri trainati da asini e muli, dove avevano caricato le loro suppellettili. Durante il trasloco fecero sosta in un paese e qui disgraziatamente subirono il furto di un letto, a quei tempi era una cosa grave considerando che oltre ad essere povera gente e con tanti figli il letto era molto importante per loro. Le due famiglie si sistemarono a San Martino d/A a Corte Bugatta, per alcuni anni lavorarono assieme, come ai vecchi tempi, ma le necessità prorompenti “costrinsero” il padre Elia ad un nuovo trasferimento e nel 1953 venne con la sua famiglia a condurre il fondo Pasotelli, abitando nella stessa corte Madonnina assieme alla famiglia Cracco. Anna la figlia maggiore, nei primi tempi aveva il compito di portare il pranzo al padre che lavorava nei campi e viveva ancora da solo a Cividale. Arrivava in bicicletta percorrendo la strada da S. Martino a Cividale e durante il percorso attraverso strade di campagna trovava sempre qualcuno che la importunava perché era una bella e prorompente ragazza, molto corteggiata dai giovanotti del luogo. E c’era anche Ettore, chiamato Gigi, dal carattere un po’ burbero e brontolone, con poca voglia di studiare, tanto che finita le terza elementare fu bocciato, quando tornò a casa la prima cosa che fece bruciò la pagella e non andò più a scuola. Mario al contrario era un ragazzo mite, studioso, buono e gran lavoratore, sempre disponibile; papà Elia lo portava spesso con lui, ai mercati zonali, perché sapeva far di conto. Aldo invece era impaziente ma andava molto d’accordo con Mario specialmente durante i lavori dei campi. Spesso faceva da balia alla piccola Martina mentre mamma Agnese era a zappare nei campi; quando la bambina piangeva lui la zittiva a suon di pugni sulla testa, aspettando il ritorno della madre che preoccupata rincuorava la bambina così lui poteva tornare a giocare. Maria invece scelse un lavoro più femminile e finite le scuole andò ad imparare il mestiere di sarta presso Giovanni Pinardi a Cividale dove lui svolgeva la professione di sarto da
uomo. Mamma Agnese era una persona buona, rispettosa e molto “di Chiesa”, come si diceva a quei tempi. Lei era sempre presente alla recita del rosario quando in paese moriva qualcuno. In quegli anni il rosario si recitava ancora in latino e Agnese oltre ad avere la cadenza parlata del dialetto cremonese, mescolava i termini e le parole del rosario in latino, alla fine la gente sorrideva perchè percepiva una lingua strana e spesso capitava di vedere sorridere le persone presenti invece di piangere il defunto! Stessa cosa succedeva nelle lunghe serate d’inverno quando, dopocena le due famiglie si riunivano nelle stalle a fare “filos”, e mentre le donne, giovani e anziane sferruzzavano, gli uomini sonnecchiavano sdraiati sulla paglia in mezzo alle mucche, Agnese e Regina si alternavano coi Misteri del Rosario, ripetendo ad alta voce in vari dialetti: cremonese, bresciano, veneto e cividalese ed usciva fuori un miscuglio di parole indecifrabili che scaturivano risate spontanee, soffocate nel rispetto della preghiera che stavano recitando. Giovanotti e signorine si appartavano e seduti su balle di paglia si scambiavano effusioni amorose mentre ragazzini e ragazzine ascoltavano il fabulatore ti turno che raccontava storie a volte belle e dal finale positivo, spesso paurose e, ascoltandole, costringevano ad un forzato silenzio i giovani ascoltatori, fermi, immobili in attesa del finale della storia e con gli occhi sgranati dalla paura. A tenere sull’attenti i ragazzini un altro fatto indusse i genitori a raccontare quel che si diceva in paese. Da alcuni giorni si era sparsa la voce che sopra una pianta di gelso viveva un uomo nudo. Qualcuno lo aveva visto gesticolare e come un pazzo gironzolare per la campagna circostante. Per un po’ di giorni i ragazzini spaventati non uscivano di casa, rinunciando al loro gioco preferito. Durante l’estate si dilettavano a costruire piccole statue, pupazzetti e altro, col mastice che si trovava nei campi. Qualche anno dopo vennero a sapere che questo strano personaggio non era altri che un esibizionista reduce da un manicomio, che poi scomparve dal paese per parecchi anni. A Cividale intanto la famiglia Molinari era ben voluta e rispettata, l’azienda si allargava sempre più e ai quattro fratelli maschi si aggregarono: bergamini, stallieri, bifolchi e famigli. Nei contratti d’ affitto, tra proprietari e mezzadri, salariati ecc., era compresa la clausola degli “appendizi” che ogni anno gli affittuari dovevano corrispondere ai proprietari. Negli ultimi mesi dell’anno tra la ricorrenza di S. Martino e Natale, Anna Molinari e Gemma Cracco partivano per Bozzolo in bicicletta cariche come muli, con capponi, galline (spennati e puliti), salumi vari e uova e li portavano alla signora Cristina Pasotelli. E questo avveniva ogni anno. Dopo alcuni anni di permanenza a Cividale tutta la famiglia si è inserita bene tra i cividalesi, il “vecchio” patriarca Elia godeva la stima degli agricoltori del paese. Alla fine degli anni Cinquanta, durante la sagra d’ottobre, che cade la terza domenica del mese, alcuni componenti il comitato organizzatore delle feste, di forte tendenza politica di sinistra tra i quali: Pasquali, Maioli, Franceschetti… chiesero ad Elia dietro compenso, un pezzo di terreno adiacente il paese per poter impiantare una balera per alcuni giorni. Un innocuo divertimento che però non andava assolutamente al prete di allora: don Sante Brighenti. Elia accettò e prese una caparra come acconto per l’accordo fatto. Contento di intascare senza fatica alcuna, un buon gruzzoletto era per lui gratificante ma. “Apriti cielo”! Don Sante mandò a chiamare l’incredulo Elia e gli diede una “lavata di capo”, esortandolo a desistere, definendo luogo di perdizione il locale da ballo e quindi col suo comportamento era ad un passo dall’infermo! Elia, da buon cristiano cattolico restituì la caparra al gestore Rovati. Ma gli organizzatori non si dettero per vinti e rimediarono impiantando la balera nel grande cortile di Corte Ercole di proprietà Morselli Giuseppe, così denominata perché anticamente il proprietario era il conte Ercole Cristiani, parente della contessa Castiglioni di Casatico. Per poco meno di 20 anni tutta la famiglia rimase unita, i sei fratelli si sposarono tutti e nel frattempo divennero proprietari del fondo, che alla morte dei Pasotelli fu prima donato al Vaticano, ma con l’intervento di un prelato parente di un familiare, i fratelli Molinari divennero i proprietari terrieri più grandi del paese. Nel 1971 a 74 anni il vecchio patriarca Elia muore per un’embolia polmonare provocata da una caduta avvenuta in una stalla del cremonese. La ferita non si rimarginò e altre concause lo portarono alla morte. Mamma Agnese visse ancora dieci anni e la morte la colse a 84 anni. Molto orgogliosa di essere vissuta a Cividale nella corte Madonnina e gioiosa di essere stata proprietaria della antica santella votiva che era all’ingresso del caseggiato, purtroppo demolita perché ritenuta pericolante,
oltre ad ostruire il passaggio dei grossi mezzi agricoli delle due famiglie. Una ridotta, moderna e semplice cappella è stata costruita di fianco al portale di ingresso, un affresco della Madonna Addolorata compare sulla parete di fronte all’entrata della cappella, in segno di ringraziamento da parte della numerosa famiglia Molinari, ultima proprietaria del fondo con annessa corte Madonnina sita a Cividale Mantovano. LA FAMIGLIA PASOTELLI Nel 1560, Bartolomeo, il capostipite della famiglia Pasotelli, riceve l’investitura della possessione CROCIARE, dall’abate commendatario dell’Abbazia di Santa Maria Della Gironda e si stabilisce a Bozzolo in provincia di Mantova, conducendo in economia parte dei propri fondi. Con il nipote Paolo la famiglia acquista prestigio e agiatezza, il primo che si da al mestiere delle armi con sempre più maggior successo, servendo il Papa e i duchi di Modena e di Mantova. E’ il 1664 quando Paolo torna a servire il Principe di Bozzolo con l’incarico di castellano, che passa poi al figlio Francesco, per essere confermato dall’imperatrice Maria Teresa e il nipote Giovan Battista (1672-1760). Viene iscritto nell’elenco dei grandi possidenti mantovani, tassati per legittimismo. Nella seconda metà del Settecento, il patrimonio della famiglia assume ancor più consistenza, Francesco ha 15 figli, grazie ad una gestione oculata, assecondata da rigida politica matrimoniale: per ogni generazione, si sposa un fratello solo e spesso le sorelle vengono monacate. Il comportamento sempre molto cauto del Pasotelli negli affari, lo favoriscono e ne trae vantaggio dalle numerose cariche che ricopre, alternandosi presso il Monte di Pietà, il Monastero delle Agostiniane, l’Ospedale e la Comunità. Tra il 1802 1 il 1816, l’avv. Giovan Batista compera fuori comune oltre duemila pertiche cremonesi, che aggiunge ad altre possedute a Bozzolo. Quando Il figlio, avv. Luigi segue il suo esempio continuando in cauti acquisti come il palazzo dei Conti Papini che restaura e va ad abitare con la giovane moglie. Nel 1859 realizza pure un “Gabinetto di Lettura in Bozzolo”. L’involuzione parte dagli eredi e Luigi jr, senza figli, uomo spietato, consapevole che con lui la famiglia si estingue, lascia tutti i suoi beni alla Santa Sede, perché trasformi il palazzo in una Casa di Riposo per anziani, che verrà gestito dalle Piccole Suore della Sacra Famiglia di Verona, dove confluirà tutto il patrimonio librario, catalogato e messo in rete sul circuito del Servizio Bibliotecario Nazionale. Questo avvenne dopo la morte della moglie Gisella Romani (1882-1970), (contessa vicentina). Negli anni trenta-quaranta, Luigi, sempre meno appassionato agli affari, lascia fare alla moglie, che in pochi anni, col suo carattere duro e autoritario, dissolve l’alone di prestigio e rispetto che circondava i Pasotelli. La signora Gisella, evade dai consigli del marito e, invece di affittare le possessioni come si era sempre fatto, importa dal Veneto numerose famiglie, distribuendo quote di fondi da lavorare. Si tratta di bravi contadini che contraggono debiti, quindi sopraggiunsero disgrazie famigliari, annate disastrose e infine la rovina. Nonostante tutto la signora Gisella, amava raggiungere i suoi affittuari per ritirare gli affitti, seduta su una specie di risciò, guidato a mano da un suo inserviente. Qualcuno la chiamava contessa, lei non disdiceva, ma non lo era. Acquisì il titolo nobiliare dal marito Luigi. Anche questi atteggiamenti finirono, come finì l'intero patrimonio, accumulato nei secoli da persone intelligenti e oculate come i Pasotelli. Successivamente, avendo una Pasotelli sposato un Baguzzi di San Martino D/A, famiglia borghese di medici, acquisisce per eredità una buona parte dei beni, compresi i libri. I Pasotelli erano in grado di leggere in volgare, in latino, in francese oltre a studiare grammatica e letteratura greca. (Il mio doveroso ringraziamento a Silvana Pomati Cracco, a Mario e Martina Molinari di Cividale Mantovano e a Giuseppe Valentini di Bozzolo per le notizie sulla famiglia Pastelli).