La pugnata ad fratel dumenic - Rosa Manara Gorla

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“LA PŰGNATA AD FRATEL DUMENIC” (La pentola di Fratello Domenico) Ricordo, sin dai primi anni dell’infanzia che mia madre mi raccontava spesso la storia di Fratel Domenico. A sua volta lei l’aveva sentita raccontare da sua nonna, anche perché nella chiesa del paese di Cividale, dove fu sepolto, si trova una lapide a ricordo di Fratel Domenico e questo passa parola, di questa straordinaria vicenda, durava da secoli, raccontata anche dalle persone anziane del paese, durante i “Filos” , che riunivano numerosi gruppi di persone, durante l’inverno nelle stalle e nella bella stagione negli ampi cortili delle corti agricole. Fedeltà dunque alle mie radici è per me rituffarmi nella coscienza di “una memoria” che, per i miei avi era insieme conforto, rivendicazione di certi diritti e rispetto di certi doveri. Cividale Mantovano è l’unica frazione del comune di Rivarolo Mantovano, un piccolo paese, una minuscola borgata (oggi 450 abitanti, un secolo fa il doppio) che vanta assieme a Sabbioneta e comuni limitrofi, il passaggio della storica famiglia Gonzaga. Nei libri di storia si legge che, nel 1708, finita la linea diretta dei Gonzaga -Bozzolo, il principato era passato ai Gonzaga- Guastalla e a quel tempo, che stiamo descrivendo, era una delle terre amministrate da Maria Teresa d’Austria. A Bozzolo qualche signorotto si prendeva ancora dell’”illustrissimo” ma i tempi erano di miseria anche se in qualche palazzotto signorile si fingeva un certo tono aristocratico piangendo nascostamente sui casi del proprio sfacelo. Anche Cividale ha il suo storico edificio gonzaghesco, che fu il Casino di caccia di Vespasiano Gonzaga, Principe di Sabbioneta: una rustica palazzina, denominata “Corte Stella”, posta a sudovest del piccolo gruppo di case, nel secolo scorso abitate in parte da modeste famiglie cividalesi, pochi possidenti, qualche artigiano, parecchi contadini, salariati e operai che occupavano il resto degli edifici del paese. Oggi il 50% sono case vuote, disabitate. Domenico Sanguigno o Sanguini era un frate che nella seconda metà del 1700 dimorò presso alcune famiglie del paese lasciando ricordi indelebili come la “pentola miracolosa”. Proveniente da Belgioioso in provincia di Pavia, il giovane fraticello, nato il 20 settembre 1723 iniziò giovanissimo il lavoro di calzolaio nella bottega del fratello maggiore. Nel 1745 la scelta vocazionale e l’11 maggio dello stesso anno veste l’abito di terziario francescano chiamandosi fra Giuseppe. La sua travagliata vita religiosa, dopo qualche anno, lo vede spostarsi a Pavia, poi a Mantova come “frate cercatore” vivendo in un eremo a Tabellano, qui riceve l’abito eremitico dal canonico Zaniboni che gli concede di riprendere il nome di Domenico. Nel 1756 inizia a Fabbrico una nuova esperienza eremitica e dal 1756 al 1761 gira l’Italia; da Assisi a Genova, poi a Livorno,


quindi di nuovo a Fabbrico, poi in Toscana, nel 1760 ritorna febbricitante a Mantova dove viene rimproverato dai Superiori e imprigionato per “alcune intemperanze apostoliche”. Da Mantova viene cacciato, il frate si indirizza verso Bozzolo. Quindi a Rivarolo Mant.no, dove subisce l’affronto offensivo di alcuni giovinastri, e, fuggendo arriva a Cividale, si stabilisce presso Giovanni Solci. Con lui c’è un gruppo di ragazzi che lo segue ovunque e lo coadiuva nella missione. La permanenza più significativa e ricordata di fratel Domenico nei paesi del bozzolese è quella di Cividale mantovano. La famiglia Solci lo ospitò proprio quando avvenne “il miracolo”! Giovanni Solci, abitava con la numerosa famiglia nella grande cascina di proprietà del conte Ercole, subito dopo la corte Stella, ed era l’affittuale dell’”Illustrissimo Peyri” che a quei tempi dimorava nella corte che fu del Principe Vespasiano. A dividere i due grossi edifici una stretta stradina di terra battuta che conduceva in aperta campagna. Il frate accompagnato da alcuni ragazzini, che definiva “i suoi piccoli discepoli”, giunse da Rivarolo sotto un acquazzone furioso, dove aveva pazientemente sopportato una chiassata di alcuni balordi, passata dalle parolacce ad una sassaiola spietata. Mentre i suoi piccoli amici si grondavano i vestiti inzuppati per il gran temporale, fratel Domenico, si presentò al parroco nella chiesa di Santa Giulia che lo indirizzò presso la famiglia Solci per prendere un poco di refezione per lui e i suoi ragazzi. Quell’anno giugno era assai caldo e fervevano i lavori della mietitura. Per rinfrescarsi e per trovare più forza nel lavoro i padroni passavano ai mietitori qualche fiasco del solito vinello tenuto a fresco nelle correnti dei fossati. Ma oltre al rinfresco momentaneo avveniva anche di seguito per minor controllo di nervi e facilmente scoppiavano discussioni e litigi. Fratel Domenico interveniva sempre per quietare gli animi. La gente diceva che non si poteva non ascoltare il frate perché sembrava di sentire un angelo. Il frate era solito pregare nel cortile del prevosto e un giorno d’inverno, la stagione era freddissima e il cortile pieno di neve e di ghiaccio, il parroco cercò di distoglierlo invitandolo a rientrare dicendogli che poteva prendersi qualche malanno. Quando, dopo tre ore lo richiamarono era così intirizzito che quasi non poteva muoversi. Rimase a letto per alcuni mesi con febbre alta. Il caldo torrido del mese di luglio fece precipitare la salute del povero fratel Domenico, ma continuava a prodigarsi per i suoi ragazzi, per i malati e i vecchi. La voce del suo peggioramento si sparse nei paesi del circondario, altri ragazzini si aggregarono a quelli che seguivano fratel Domenico nelle missioni, e le bocche da sfamare aumentavano sempre più. Un giorno, all’ora di pranzo la moglie di Giovanni ne contò una ventina, preoccupata per avere la minestra al massimo per sette-otto persone andò al capezzale del frate e molto preoccupata lo


informò della poca minestra che era nella pentola. Fratel Domenico abbozzando timidamente un sorriso invitò la donna a scodellare tranquillamente la fumante brodaglia a tutti, assicurandola che sarebbe bastata. Col grosso mestolo riempiva fino all’orlo le bianche scodelle che i ragazzi reggevano, ordinatamente in fila aspettando il loro turno. Qualcuno, a digiuno da parecchie ore chiese il bis e nella pentola ne rimaneva sempre una buona quantità che ne copriva il fondo. La donna visibilmente meravigliata e incredula raccontò prima al marito poi ai vicini quanto le era accaduto. Subito si sparse la voce e le testimonianze di allora raccontarono che questo fatto accadde ancora altre volte, specialmente quando i ragazzini si aggiungevano al già numeroso gruppo che seguiva fratel Domenico. Tra la gioia e la meraviglia di tutti, dopo quel giorno, il fraticello parve riprendersi e grandi speranze nascevano nel cuore di tutti. Giovanni era orgoglioso di avergli fatto del bene e come “eredità” ebbe da Fratel Domenico alcune povere cose, tra queste: “Il suo Crocifisso”. Nella sua vita, fratel Domenico fu anche conosciuto e stimato per saper prevedere certi avvenimenti, sapeva dare consigli e fare anticipazioni sul tempo meteorologico come capitò allo stesso Giovanni Solci quando, in una soleggiata giornata estiva il frate disse: “Trebbiate ma non stendete oggi il frumento sull’aia perché ci sarà un grosso nubifragio”… nel pomeriggio un tremendo temporale parve sconvolgere tutto. Qualche tempo dopo, il gruppetto dei suoi “discepoli”, ospitati dal Solci raccontavano che negli anni precedenti, quattro sacchi di farina per sfamare le bocche di casa e dei mietitori non erano sufficienti, in quell’anno, con trentotto bocche da sfamare, due sacchi furono più che sufficienti e ce ne fu d’avanzo.

Il 28 luglio 1761 dopo tante tribolazioni fratel Domenico si addormentò per sempre.


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