La sagra di Santa Lucia - Carla Pietri

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La Sagra di Santa Lucia

...tutto cominciava agli inizi di dicembre... "...la stmâna ch' vîn a gh'è pó d'andêr al Misòun a fêr i caplèt da mé mêdra...per Santa Lucia..."1 Che bello! Anche quell'anno la sagra di Santa Lucia a casa di mia nonna paterna, la Gelsóma. Da pochi anni ero stata promossa aiutante ufficiale a strichêr i caplèt2 e, il giorno della sagra, a portare in tavola i piatti preparati. Mansioni riservate a me, unica nipote femmina, e questo mi riempiva di infinito orgoglio! Io e mia madre partivamo in bicicletta nel primissimo pomeriggio del giorno stabilito. Il nostro viaggio permetteva di godere appieno la campagna nel suo riposo invernale. Ci tenevano compagnia le nostre pedalate regolari, il respiro caldo nella sciarpa, il silenzio immobile tutt'intorno e l'odore del freddo sano e avvolgente la cui corposità benefica dava la sensazione di poterlo anche tagliare a fette! Attorno a noi ogni cosa taceva: i campi, gli alberi, le siepi, i filari delle vigne, l'erba dei prati e dei fossi...tutto dormiva tranquillo, incurante di quel freddo che lo proteggeva e lo vegliava. Dopo pochi chilometri, imboccavamo quella stradina, così stretta! Era contenuta tra due fossi laterali che ne definivano, sottolineandolo, il morbido andamento fra i campi. Piano piano, al ritmo scandito dalle nostre pedivelle, cominciava a vedersi in lontananza la grande casa con la porta morta3 che, come tutte le architetture rurali, coi loro morbidi volumi, sembrava sorgere dalla campagna in maniera spontanea. Un tempo aveva ospitato diversi nuclei famigliari. Ora era abitata solo da mio zio con la sua famiglia di cui faceva parte anche mia nonna. Entrate nell'andito, lasciavamo i cappotti su una sedia e poi ci infilavamo in cucina, dove trovavamo schierate attorno al tavolo, mani già lavate, alcune zie: maestranze altamente qualificate, riunite per la preparazione dei cappelletti! Il freddo che fino allora ci aveva avvolto, in un attimo ci abbandonava. La stufa a legna, fiera nel suo angolo e protagonista di quell'ambiente, emanava un caldo esagerato, difeso ad oltranza dai paraspifferi sui davanzali interni delle due finestre. Era un caldo schietto e La settimana prossima bisogna poi andare a fare i cappelletti a Lemizzone, da mia madre...per Santa Lucia Chiudere i cappelletti 3 Alto portico che separa parte rurale da residenziale 1 2


odoroso che scaldava i corpi, cuoceva pietanze, riservava acqua calda per rigovernare i piatti, donava braci rutilanti che alla sera, coperte dalla cenere, venivano messe nelle padèli da introdurre poi nei prēt4 sotto le imbottite di lana dei letti.

Mia nonna da sempre si occupava della cucina, anche quando viveva in quella casa con le sue cognate. Forse a motivo della sua esilità era stata designata, nella struttura organizzativa della famiglia, alle mansioni domestiche, partecipando in maniera meno assidua ai lavori nei campi. Era appunto una donna minuscola, magra e bassa con piccoli occhi tondi e chiari in un viso semplice e sereno, incorniciato dall'immancabile fazzoletto in toni scuri legato dietro alla nuca. Anche gli abiti che indossava erano di colore scuro secondo l'uso delle donne di campagna anziane e vedove. A corredo del suo abbigliamento c'era sempre un grembiule che quel giorno però era bianco, perché si faceva la sfoglia e si preparavano i cappelletti! Il suo modo di salutarmi era una carezza sulla spalla e uno sguardo che mi diceva tante cose pur senza esprimerle verbalmente e che avrei capito meglio nel tempo, crescendo e vivendo. Il suo sguardo era insieme speranza e preoccupazione, tante domande senza risposta per il mio futuro, per le auspicate gioie che avrei incontrato nella vita e per gli ipotetici dolori che mi avrebbero potuto far soffrire. In quello sguardo c'era insomma l'ansia e la pena che si prova sempre per chi si ama. Nelle famiglie contadine le affettuosità erano contenute e discrete, non c'era l'abitudine di elargire i baci e gli abbracci dei nostri giorni. L'affetto era dimostrato con la concretezza dei fatti e la certezza che ognuno aveva di poter contare sull'aiuto dell'altro nel momento del bisogno. Una certa ruvidezza dei modi, rappresentava una difesa per non mettere completamente a nudo i propri sentimenti. Il tulēr5 era sulla tavola, su di esso troneggiava il panetto giallo dell'impasto da tirare. Mia nonna allora, impugnata la canèla6, facendola girare nelle sue mani, cominciava a fare la sfoglia e con movimenti costanti, quella combinazione di farina e uova si trasformava via via in un largo e regolare cerchio piatto. In un ritmo metodico, dal centro verso l'esterno, arrivava il momento di avvolgere la sfoglia intorno al mattarello e poi via a ristenderla di nuovo con colpi vigorosi e sapienti, accompagnati dai piccoli schiaffetti che la sfoglia assottigliata dava sul tagliere di legno e dal suono metallico che la fede d'oro emetteva nel colpire la canèla. Quel disco roteava fino a quando, con una carezza, la Gelsóma capiva che la sfoglia era perfetta: non troppo spessa, non troppo sottile, ma pronta a essere tagliata, con la rotella dentellata, prima in lunghe

Padelle, preti: utensili per scaldare il letto Tagliere 6 Mattarello 4 5


strisce equidistanti e poi, perpendicolarmente a queste, in tanti quadratini di circa tre centimetri di lato, pronti a racchiudere il saporito pést7 preparato il giorno prima. Aprire il contenitore del pesto, originava un momento delizioso per il profumo che si spandeva in tutta la cucina. La magica miscela prevedeva una lunga preparazione che univa, a freddo, carni diverse di maiale, pollo e manzo e anche (mia nonna la metteva) una fetta di mortadella. Il pesto era lasciato andare a fuoco basso nella parte della stufa dove il caldo era meno aggressivo per tre o quattro ore e ricoperto costantemente a filo di acqua calda. A quell'unione di carni lentamente sminuzzate, rigirate e profumate con la noce moscata, veniva aggiunto, a fine cottura, il pane grattugiato per assorbirne l'eccesso di umidità e dare più consistenza. Occorreva però aspettare che il pést fosse freddo per arricchirlo generosamente di parmigiano reggiano. A quel punto al pést al gnîva mnê e cioè veniva impastato con le mani fino a quando tutti gli ingredienti, amalgamati, potevano essere plasmati in una palla da cui pizzicare piccole porzioni da mettere nei quadratini. In un unico e veloce movimento il quadratino era chiuso a triangolo mentre un vertice veniva alzato all'insù e gli altri due erano saldati insieme creando la graziosa e tipica forma a cappelletto. L'assaggio del pést era d'obbligo! Io ero la prima ad essere invitata a farlo, seguita dalle altre aiutanti...e qui partivano i complimenti indirizzati alla nonna: "ō mó s'lè savùrî!"..."ghîv més ânch i magunsèin?"..."ā la Gelsóma, per fêr da magnêr, bişògna lasêrla stêr!"8... Il riempimento doveva essere eseguito in modo svelto perché la sfoglia non seccasse impedendo la perfetta sigillatura del cappelletto. Quei gesti incorporati, ripetuti negli anni sempre alla vigilia di grandi eventi da festeggiare, per quelle donne erano diventati automatici. Le mani andavano per conto loro e le chiacchiere assumevano quel dolce ritmo terapeutico che dava tanta serenità. Io cercavo di tenere il passo di quell'esperto gruppo di lavoro, ma non ne ero proprio all'altezza. Non mi importava però: ero troppo felice di essere stata ammessa in quell' "harem di zdōri9"e, intenta alla mia mansione, in silenzio ascoltavo il conversare di quelle donne adulte che rievocavano fatti accaduti anni prima in quella casa o parlavano di vicende e notizie attuali. Ma erano le storie del passato che mi affascinavano di più e che mi piacevano tanto! Poteva capitare allora che sentissi di nuovo raccontare di mio padre bambino e ammalato, quando insieme a suo cugino, avevano svuotato in Ripieno "oh ma com'è saporito""ci avete messo anche i magoncini?""ah la Gelsóma, per far da mangiare, bisogna lasciarla stare!" 9 Casalinghe contadine 7 8


poche ore la scatola delle medicine prescritte dal medico: "ón'a tè e ón'a mé...ón'a tè e ón'a mé..."10. Il dottore infatti aveva sentenziato: "quando avrai finito tutte le pastiglie, sarai guarito"! E questa guarigione era stata scrupolosamentemente accelerata per lasciare al più presto il letto e tornare alla quotidianità!...o di quella volta che, per far prendere una pausa ad un giovane parente invitato a pranzo, che si stava abbuffando, gli fu chiesto: "mó cûnta un pô: cm'el môrt tó nôn?"11e lui, lasciando tutti stupefatti, rispose ermeticamente senza interrompere la sua famelica attività: "tót d'un cōlp!"12...o del timido e impacciato giovane vicino di casa che era stato trattenuto in chiacchiere: per più di un'ora, quel poveretto, aveva passato da una mano all'altra un secchio pesantissimo senza appoggiarlo mai a terra, scatenando così le prese in giro e il divertimento di tutti...o ancora del parto di mia madre, in quella casa, quando di notte, sotto una pioggia torrenziale, erano andati a prendere l'ostetrica che avrebbe fatto nascere mio fratello... C'erano inevitabilmente anche racconti tristi che potevano riguardare il tempo di guerra e le conseguenti paure e la miseria passata, anche se sentivo spesso dire: "nuêter cuntadèin, per furtûna, la fâm an l'òm mai pàtîda!"13. Questo mi rasserenava, mi faceva bene immaginarli in qualche modo al sicuro, nutriti e confortati dalle risorse del loro lavoro...o si ricordava quella cognata morta di parto e la sua bambina, allevata poi come una figlia da un'altra cognata che aveva un unico maschio. Un ricordo dopo l'altro, i cappelletti chiusi aumentavano sempre di più, mentre la sfoglia e il pesto andavano esaurendosi. Lasciavamo quella cucina quando tutti i cappelletti erano allineati sul tagliere, pronti ad essere cucinati di lì a pochi giorni. Il giorno della sagra, subito dopo la scuola, raggiungevo di nuovo quell'ambiente, ma la quiete si era mutata in una leggera tensione e in un gran fermento che si allargava a tutta la casa. La Gelsóma era in postazione alla stufa fumante dove non c'era più un angolo libero; affaccendata nel controllare e rigirare arrosti e sughi, a spostarli dove il calore era più o meno intenso a seconda delle loro diverse esigenze e ad aggiungere legna al fuoco. Il tavolo era completamente rivestito di piatti ed utensili vari. I vetri della cucina, madidi di vapore, creavano una cortina velata alla quale il mio indice non sapeva resistere e, immancabilmente, tracciavo una scritta o un piccolo disegno mentre aspettavo di essere chiamata in causa. Mio zio pendolava tra cantina e sala da pranzo con le bottiglie del lambrusco nelle mani. Mia zia a sua volta, in un frenetico andirivieni, ultimava l'apparecchiatura dei tavoli ed io eseguivo gli ordini che mi venivano impartiti: "pôrta d'ed là al pân", "và a vèder s'a ghé l'âqua, "guêrda ch'agh "una a te e una a me" "ma racconta un po': com'è morto tuo nonno?" 12 "tutto d'un colpo!" 13 "noi contadini, per fortuna, la fame non l'abbiamo mai sofferta!" 10 11


sia al furmâj"14... Intanto mio padre faceva un giro nella stalla che tra poco avrebbe accolto i nuovi vitellini, riviveva gli ambienti di quella casa dove aveva trascorso la sua infanzia e la sua giovinezza. I miei cugini e mio fratello si mettevano a tavola in sala da pranzo dove la stufa Becchi era rovente e i piatti, recuperati dalla credenza per quell'evento così importante, mettevano in bella mostra i decori a fiorellini sul bianco delle tovaglie stese...gli invitati cominciavano ad arrivare. A quel pranzo di Santa Lucia, non partecipavano tutte le mogli, spesso venivano solo i mariti e alcune zie che abitavano lontano e che vedevamo solo in questa occasione. Dalla cucina mia nonna, che non poteva muoversi, si informava sui vari arrivi. Lo smistamento degli ospiti avveniva nell'andito. Chi arrivava voleva assolutamente entrare, anche solo un attimo, in cucina per un saluto. I parenti che non mi vedevano da tempo si informavano sui miei studi, si stupivano che fossi così cresciuta, non si davano pace per il tempo che passava troppo in fretta! I cappotti e i cappelli venivano raccolti e portati di sopra, nella camera da letto di mia nonna. La confusione aumentava, la casa era piena di voci, di risate, di commenti; piano piano tutti erano dirottati, incanalati e finalmente piazzati al loro posto. Ormai era ora di cominciare a cuocere, il brodo bolliva, gli arrosti rosolavano, la tensione saliva, il nervosismo da prestazione era al massimo! Quando mio zio dava il via, i cappelletti erano tuffati nel brodo bollente e l'impresa cominciava! A vigilare sulle varie fasi preparative, a stemperare il clima di apprensione, a infondere fiducia, si convocava da Correggio la Francesca, sorella di mia zia che godeva della stima incondizionata della Gelsóma sia per la sua imperturbabilità sia per il fatto che aveva svolto, per un periodo della sua vita, il lavoro di cuoca. La Francesca elargiva consigli, sovrintendeva alla preparazione dei piatti, si consultava con la nonna e insieme prendevano decisioni inappellabili! Io portavo in tavola le varie pietanze e mia zia eseguiva vari compiti subalterni di aiuto cuoca. La prima portata era costituita da due zuppiere di cappelletti che venivano rigorosamente "fât padîr"15per almeno cinque minuti e su questo non si discuteva, perché per l'appunto, "i caplèt i vân fât padîr!". Veniva poi il momento dei bolliti che la Francesca tagliava, trinciava e suddivideva sui piatti di portata, alternando con armonia i pezzi delle carni di manzo e di gallina accompagnati dalla salsa verde e dalla giardiniera con l'uovo sodo tritato. Di seguito venivano preparati gli arrosti: le ali, le cosce, le sopracosce, i petti e i bocconi del prete dei polli erano sapientemente sistemati e composti. Poi ancora altri piatti con le carni bianche dei conigli. Tutto era irrorato coi sughi prodotti dalla cottura 14 15

"porta di là il pane", "va a vedere se c'è l'acqua", "controlla che ci sia il formaggio" "fatti riposare"


di quelle pietanze buonissime. Arrosti lungamente curati e controllati in ogni momento della preparazione perché, se si vogliono ottenere dei buoni risultati, "al magnêr bişògna tendrégh"16. Questa era la massima che mia nonna ripeteva sempre e che la Francesca approvava senza emettere una parola, assentendo leggermente con la testa e con gli occhi al di sopra delle lenti e assumendo la serietà sul viso di chi ascolta e condivide in pieno un assioma indiscutibile! Ogni volta che entravo in sala da pranzo era un'acclamazione generale di gioia. Raccoglievo i complimenti da riportare in cucina, carpivo brandelli dei discorsi che gli uomini, ormai senza la giacca, con la sola camicia sotto il gilèt e la cravatta allentata, facevano relativi all'andamento dell'annata e alle speranze per l'imminente e nuova. Le nostre cuoche non mangiavano, così intente nel loro lavoro! Io ero meno stoica: non potendo resistere a quei profumi, prelevavo la mia porzione e la gustavo in un pranzo in piedi antelitteram. Assaggi d'altronde fondamentali, per confermare ulteriormente la bontà di quei cibi...e io mi sacrificavo così volentieri! La tensione si stava intanto allentando: i piatti venivano riportati in cucina. Si stabiliva una tregua, gli uomini si alzavano per sgranchirsi e per fumare una sigaretta; i miei cugini venivano in cucina a curiosare, ma erano immediatamente rispediti fuori per non creare confusione in quella squadra così ben organizzata. Arrivava poi il momento dei dolci e a questo punto tutti erano di nuovo seduti ai loro posti per accogliere l'immancabile zuppa inglese. Ne erano state preparate due enormi, pronte ad essere capovolte. Un nuovo momento di nervosismo era inevitabile, poiché la zuppa inglese doveva riuscire soda e compatta: una zuppa inglese troppo morbida si sarebbe allargata inomignosamente in orizzontale. Quelle della nonna, per fortuna, erano riuscite belle sode e si ergevano superbe! Ma quell'anno c'era una novità che la Gelsóma aveva accolto con non poca diffidenza! La Francesca aveva portato da Correggio un marchingegno guardato con grande sospetto: la Petronilla! Si trattava di una pentola elettrica in cui cuocere la torta. Mia nonna accettò, proprio per la grande stima che nutriva nei confronti della Francesca, che il secondo dolce fosse preparato con questo aggeggio, se non proprio infernale, un pochino diabolico. La Francesca aveva garantito che la cottura sarebbe stata più uniforme rispetto a quella del forno a legna, che si sarebbe evitato il rischio di un'eventuale bruciatura o al contrario di una scarsa lievitazione e che si sarebbe alleggerito il compito delle mansioni da seguire...in conclusione, mia nonna si convinse! La Francesca sapeva usarlo alla perfezione: aveva già previsto l'ora e le modalità con cui metterlo in

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"il cibo va controllato continuamente"


funzione in modo tale che, durante il pranzo, la torta si era già cotta ed ora, raffreddata, doveva solo essere tirata fuori. Io, mia zia e la Gelsóma, intorno alla Petronilla, assistemmo all'apertura di quello strano coperchio con timer e maniglie e pulsanti: la Francesca, staccata la spina dalla presa di corrente, con la professionalità e la sicurezza di un chirurgo sbloccò il coperchio, lo ruotò, lo sollevò e lo tolse. Potevamo ora ammirare una torta con una superficie perfettamente dorata e regolare. La torta margherita che venne estratta aveva un aspetto e soprattutto un profumo molto invitante! Raggiante di questo risultato, gratificata dai nostri complimenti, la Francesca procedette alla sua suddivisione geometrica in tanti piccoli e impeccabili rombi...una spolverata di zucchero a velo e via di là dagli invitati! A quel punto il pranzo era davvero terminato, si poteva aggiungere il caffè per chi lo gradiva o un bicchierino di nocino o di grappa. Adesso la cucina era aperta a tutti: l'agitazione era svanita. Restava ancora tanto lavoro da fare, ma poteva essere fatto con maggiore rilassatezza: sparecchiare, lavare i piatti, asciugarli e riporli di nuovo nella credenza. Gli uomini cominciavano ad andare verso le loro case, passavano in cucina per salutare, per complimentarsi di nuovo, per fare gli auguri di buon Natale... ricomparivano cappelli e cappotti. La convivialità allegra era rimasta impressa sui loro volti schietti. "Stavolta", garantivano, di non aver mai mangiato bene "come stavolta"! Ma che era stato fatto troppo! Che la Gelsóma doveva tribolare meno, ma che erano stati proprio bene! E così piano piano, la casa si svuotava di nuovo e anche io dopo aver aiutato ad asciugare i piatti potevo rientrare. Mio padre e mio fratello mi aspettavano, allora andavo a riprendere il mio cappotto, salivo le scale facendo scorrere il palmo sul corrimano in legno della ringhiera. Al primo pianerottolo una finestra guardava sulla stradina e sulla casa dei vicini, fatta un'altra rampa raggiungevo il corridoio della zona notte, alzavo la marlèta17 dell'uscio ed entravo nella camera da letto di mia nonna. L'atmosfera di quella stanza era così particolare per la sua sobrietà, compostezza e semplicità! Rivivo quei momenti come se fosse ora. Mi trattengo un pochino, guardo la campagna che si sta oscurando nelle cornici delle due finestre: la sera sta per arrivare. Mi soffermo sui mobili: l'austero comò con la specchiera, l'armadio in legno, quel letto altissimo con la testata e la pediera in ferro dipinto a motivi floreali e gonfiato dal prēt, e mentre mi infilo il cappotto, alzando la testa, vedo Santa Lucia. La guardo, sorrido tra me e me perché quella stampa, messa a capoletto, mi aveva sempre inquietato quando ero una bambina: il viso serio e lo sguardo melanconico di quella donna mi aveva sempre

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Serratura manuale in ferro


messo un po' di smarrimento e quel piattino con sopra gli occhi mi aveva sempre fatto un po' paura. Ora non più: so che è la protettrice della vista, che a Lemizzone è la Santa in onore della quale si fà festa e che la devozione nei suoi confronti è tanta. Questa mia nuova consapevolezza mi porta anche un pochino di tristezza: penso che sono passati veramente pochi anni da quando la sera del 12 dicembre, prima di andare a letto, mettevo sul tavolo della cucina la lettera con la richiesta del mio regalo, preparavo un pasto per Santa Lucia e il fieno per il suo asinello. Rimpiango quella assoluta certezza di quando, bambina, credevo fermamente che in quella notte sarebbe venuta anche a casa mia volando magicamente nel cielo. Provo nostalgia di quando, con tutte le mie forze, cercavo di addormentarmi presto perché altrimenti, se Santa Lucia mi avesse trovata sveglia, non avrei ricevuto nulla! L'eccitazione però era troppa! Non riuscendo a dormire immaginavo la Santa che entrava in casa col suo asinello e mangiava e beveva quello che le avevo preparato, ma un dubbio rimaneva sempre a tormentarmi, poiché i miei genitori mi avevano garantito che lei sarebbe passata in tutte le case, che sarebbe andata da tutti i bambini, sia da quelli di campagna sia da quelli di città. E allora pensavo: "io che abito in campagna sono fortunata perché ho tutto, ma quei bambini di città, come faranno a procurarsi il fieno per l'asinello?"


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