Vita maratona - Marco Berrettini

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VITA MARATONA

Siamo a meno di un chilometro dall’arrivo, distrutti, affranti, doloranti e sudati. Avevamo tutti altre aspettative, altri obiettivi. Colpa del caldo fuori programma, di qualche fetta di culatello in più, dell’aver preteso troppo all’inizio. Abbiamo mille altre scuse, ma non è questo il momento del lamento, l’ultima svolta è là, ci occhieggia da dietro un albero. «Forza ragazzi, adesso conta solo sorridere al fotografo e non appoggiare i talloni!» «Gruppo vacanze Piattura Padana, avanti! Dai che ci siamo.» Abbiamo un bel dire, ma è dura. Stimolarci a vicenda, però, ottiene i suoi effetti e girato l’angolo appare il tappeto rosso: gli ultimi maledetti 195 metri che ci separano dalla medaglia. L’emozione ci attanaglia con sfumature diverse. Piangiamo, ridiamo, gridiamo al cielo i nomi che abbiamo nel cuore, mentre gli amici dietro le transenne ci acclamano e la folla applaude. Ci prendiamo per mano, alziamo le braccia, posiamo raggianti sorpassando plastici la linea d’arrivo in un ultimo estremo sforzo, poi ci genuflettiamo alla regina conquistata e lasciamo che c’infilino al collo l’anelata patacca per schiantarci, infine, sul ristoro. Mele, biscotti e acqua. Tanta acqua. Ci sediamo stremati su una panchina e, senza davvero vederli, osserviamo quelli che arrivano dopo di noi. «È l’ora del reintegro. Ci vuole una birra.» Come un corpo solo, legnoso e scricchiolante, ci alziamo e andiamo al chiosco adagiato tra i colori autunnali degli alberi e il prato ancora verde; il sole scalda l’aria a dismisura in questo strano ottobre e un odore di legno e sudore ci satura le narici, ci sciacquiamo a una fontanella, togliamo le scarpe, strappiamo le linguette d’alluminio delle nostre lattine e brindiamo. «Prosit!» «Che ore sono? Ragazzi c’ho ‘na fame…» Cappelletti in brodo ci vorrebbero proprio, ma anche dei tortelli con burro fuso e parmigiano grattugiato, poi pesto di cavallo, patate bollite ripassate in padella e che nessuno ci tolga un altro piatto di culatello, mica ci farebbe male, magari anche due fette di Felino e due di prosciutto. E torta fritta! «Chi non pulisce il piatto non mangia il dolce, che sia spongata o torta di Maria Luigia.» «E lambrusco a litri, mi raccomando!» 1


Ci infiliamo negli spogliatoi, i teli di plastica bianca accentuano il fetore di stalla, a terra i residui di quasi mille speranze, poi qualcuno ci dà la ferale notizia. È morta una persona. Siamo increduli. Sì le abbiamo sentite le sirene, abbiamo visto l’ambulanza e anche quell’atleta steso a terra dopo il ventottesimo chilometro. Gli siamo sfilati accanto convinti fosse una cosa da nulla, un colpo di caldo, una storta, al massimo una frattura. Lo abbiamo incitato e siamo andati avanti, nelle nostre solitarie esistenze in corsa; attorno a lui c’era già tanta gente, vigili, personale medico, l’amico con cui divideva l’avventura. E, invisibile, la morte. Ci rivestiamo in silenzio, ci abbracciamo. Le lacrime sgorgano spontanee, anche se non lo conoscevamo lui era uno di noi, era un uomo. Fuori il sole non ha coscienza, risplende e staglia la sua luce sul presente. L’annunciatore continua a congratularsi con chi ancora arriva scandendone il nome; intervista una ragazza che ha corso scalza tutti i quarantadue chilometri, comunica dati e indicazioni di servizio. Il circo è in smantellamento, gli sbarramenti rimossi e il traffico riprende il suo corso. Ci si mischia con la folla della domenica, i turisti, i ragazzi che domani torneranno a scuola, i fedeli che sciamano dal Duomo. Ci raccontiamo le nostre recriminazioni, ma ci appaiono così piccole di fronte a ciò che è accaduto che le gettiamo presto ai sorci e, poco a poco, spuntano gli attimi più belli. Cerotti per le ferite dell’animo. «Magnifici i primi chilometri in città, è uno spettacolo correre in questi posti.» «Pannocchia, siamo passati da Pannocchia, che nome. E Alberi?» «Certo che quello che ha gridato e cantato tutto il tempo se avesse risparmiato fiato sarebbe salito sul podio.» Per vie traverse si insinua nuovamente in noi la morte, sotto le vesti di un cerbiatto rigido in un campo. Lo abbiamo notato tutti, attorno al dodicesimo chilometro, forse investito da un’auto nella notte è andato poi là a morire. Con quegli occhi neri spalancati e il suo manto vellutato, le zampe tese a oriente e gli zoccoli che sembravano scalpitare al paradiso. È così, un’altalena, una giostra a catena che ci frulla e noi saliamo e scendiamo, ci attacchiamo gli uni agli altri e ci spingiamo via, ridiamo, gridiamo, ma purtroppo non c’è nessuna coda da acchiappare, non si può vincere un altro giro, finora non è capitato a nessuno.


E allora ci godiamo queste ore, ancora tutti insieme, prima di riprendere le nostre auto e tornarcene ai giorni di sempre. Abbiamo prenotato un tavolo in una trattoria in centro, il profumo dei cibi ci accoglie e ci coccola, noi e le nostre medaglie dal nastro rosso al collo. L’oste stappa una bottiglia e mesce, alziamo i bicchieri e brindiamo. Beviamo alla salute di chi non ce l’ha fatta, ai nostri amori, a noi, al ragazzo spentosi in ambulanza, alle prossime maratone. I salumi e la torta fritta scompaiono in un battibaleno nelle nostre fauci; bomba di riso col piccione per tutti e già un’altra bottiglia si avvicenda. Ancora un tintinnio di bicchieri, un inno alla vita. Morte compresa.


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