Cohen

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gran vía original • narrativa spagnola e latinoamericana



Marcelo Cohen

L’ILLUSIONE MONARCA Traduzione di Francesca Lazzarato


Titolo originale: La ilusión monarca Copyright © 1992 Marcelo Cohen © 2016 gran vía s.c.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione: ottobre 2016 ISBN 978-88-95492-41-4 Progetto grafico: Mirko Visentin | www.treseditoria.it


L’illusione monarca



NascerĂ , nacque da noi, disse Watt, colui che senza possedere niente non vorrĂ niente, se non che gli lascino il niente che possiede. BECKETT, Mercier e Camier



Prima parte

I In fondo, sotto il peso dell’aria, l’orizzonte è come un atrio o un sigillo. Non sembra una linea, ma la traccia di un pennello quasi asciutto, anche se in realtà è la luce cristallina che ogni tanto lo cancella, lo allontana, lo dissolve o lo prolunga. Vicino a quel confine plumbeo, a volte scuro, il cielo è di un pallore sorprendente; più in alto, però, i colori si rafforzano e le zone di scialbo celeste si perdono in un blu da fiamma del gas, tranne che a destra (ma molto più indietro, alle spalle di chi guarda), là dove il sole, che cala portandosi dietro il pomeriggio, lo rende bianchiccio e concavo come una tazza. Attirato dal riflesso del sole, intensa scia malva e rame, lo sguardo scende verso il mare. Il mare si espande, freme; è scabro, compatto, il mare toglie il fiato, e l’orizzonte si diluisce ancora di più, come se una parte della linea retrocedesse e l’altra si arrendesse alla persuasione delle onde. Perché il mare è rude ma anche delicato, e l’orizzonte cede per accentuare l’inganno. Allora, da lontano, il mare è un tumulto luccicante, quasi una tela cerata color indaco mossa da turbìne. È molto più in qua che le onde si delineano, prima come lievi colline di mica, poi 9


come rulli di gomma raggrinzita. Quando si confondono, un verde scuro prende il posto del blu ed esita; quando ritrovano un ordine, appoggiandosi le une alle altre in rapide catene, una forza che si potrebbe sfruttare le eccita progressivamente, fino a strappar loro elettriche chiome bianche. Ciò accade più vicino: le onde si innalzano, minacciano, e sembra che lo stupore per la propria ostentazione possa paralizzarle. Nel preciso istante in cui un’onda sta per infrangersi, tutto il mare diviene improvvisamente reale. Non appena l’onda precipita, un tripudio di schiuma si lascia dietro il ruggito per impregnare l’aria di sale, invadere la riva e placarsi nell’indifferenza della sabbia. All’inizio il mare è come tutti i mari. La spiaggia, quel che la spiaggia racconta, è un’altra cosa. A cento metri dalla costa, tre boe arancioni a forma di trottola suggeriscono un messaggio che a volte scompare, quando le onde lo nascondono, e riappare ritmicamente nelle creste, sempre trasformato. Può darsi che le boe significhino qualcosa. Hanno la dolce costanza dell’ammiccare di un idiota. II Sono all’incirca centocinquanta metri di spiaggia, una spiaggia ampia, di sabbia fine e dorata, che potrebbe essere fantastica se non fosse interrotta. A destra e a sinistra, a una distanza imprecisata ma notevole, emergono dal mare due muri di calcestruzzo grigio chiaro, non ancora attaccati dal muschio, che a giudicarli dalla spiaggia si direbbero alti sette metri. Per lo sguardo, la certezza che racchiudano la spiaggia non è immediata, perché i muri proiettano giusto qualche metro d’ombra, e 10


non per tutto il giorno, ma sulla cima, tra pali di ferro piantati nella malta, corrono numerose linee di filo spinato. Stregato dal mare, dopato dall’aria frizzante, lo sguardo dimentica i muri e fa la spola tra l’orizzonte e la sabbia. È primavera, e a quest’ora del pomeriggio la sabbia conserva un tepore che l’aria sta perdendo. Sembra sia stata la sabbia a generare quel che c’è sulla spiaggia: un po’ a sinistra rispetto al centro, una grande palma arrogante; all’estrema destra, vicino al muro, un palo alto tre metri con un tabellone digitale che indica l’ora e la temperatura (17.28/19°); e, arbitrariamente suddivisi come per invitare a una sosta prolungata vicino alla riva, quattro tendoni a righe fissati a pali di ferro. Con così poche attrezzature la spiaggia non è inospitale ma sembra vuota, e il mare si offre ampiamente alla vista. Due gabbiani svolazzano sulla risacca: uno vola più in alto e si perde sopra il muro di sinistra. Allora, osservando meglio, lo sguardo conferma che entrambi i muri si protendono in senso opposto al mare, si lasciano dietro la spiaggia tagliando un basso parapetto, tagliano anche una striscia di asfalto (lungo il cui bordo crescono erbacce) e alla fine, a trenta metri dal parapetto dove la sabbia comincia, vengono collegati da una specie di padiglione a un piano, imbiancato a calce, lungo quanto il tratto di spiaggia e diviso in trentasei vani uguali. I vani sono celle larghe tre metri e mezzo e lunghe quattro. In ognuna ci sono due letti e una scaletta che porta a un basso soppalco con lavabo e water. La porta che si apre sulla spiaggia è scorrevole, di una lega metallica leggera; l’altra è d’acciaio, con un finestrino, e dà su un corridoio uguale a quello di un qualsiasi carcere. Dietro la fila di celle e di corridoi, prima che il resto del mondo abbia inizio, c’è un cortile chiuso da un doppio muro, e sul muro una passerella disseminata di garitte. 11


Se dalla spiaggia lo sguardo osserva il padiglione, vede che in fondo e in cima, tra le garitte, passeggiano giovanissime guardie armate, dall’aspetto bovino e gli occhi da psicopatico. III Questo è il punto di vista del detenuto: Entra da un portone, sente i propri passi sulle mattonelle, gli tolgono la benda, attraversa un cortile, varca un cancello e gli ordinano di procedere lungo un corridoio trasversale, fino alla cella che gli è stata assegnata. Alle sue spalle, la porta viene chiusa a chiave. L’altra porta, quella che ha davanti, è semiaperta, e quando il detenuto si affaccia, colpito dall’odore di sale e crostacei, vede una striscia di asfalto simile a una strada in disuso, un parapetto molto basso e il velluto biondo della spiaggia. Più in là, prima dell’orizzonte sfocato, il mare si agita come un invito o una premessa, ma il movimento contrasta con le stolide mura che a destra e sinistra chiudono la spiaggia. Per quanto quest’ultima sia scoscesa e le onde si infrangano vicino, i muri si protendono nell’acqua per un bel tratto, e a più di duecento metri, forse molto di più, le loro sommità munite di reticolati continuano a regnare su onde turchesi ricamate di sale, rifulgendo a volte nella luce come circuiti di un ordigno in agguato. Bisognerebbe nuotare a lungo per evitare uno di quei muri a fior d’acqua, per fuggire o vedere che cosa c’è dall’altra parte; bisognerebbe andare oltre il punto, che esiste solo per chi si trova sulla spiaggia, in cui la verticale del muro taglia l’orizzonte. La volontà dello sguardo si aggrappa alla sabbia. 12


IV Ci sono alcuni uomini, sulla spiaggia. Sono detenuti. In questo momento cercano di conciliare una routine oziosa con vari tipi di rabbia, sconforto o stupore. La maggior parte non ci riesce. Il percorso del sole li disorienta (il tratto di spiaggia si estende da nordest a sudest), sono arrivati solo da un giorno e può darsi che il polivaccino somministrato il pomeriggio precedente abbia intorpidito i loro bioritmi. Come se si conoscessero da tempo, ma non si conoscono, o fossero guidati da rancorose affinità, alcuni condividono l’ombra sotto i tendoni della spiaggia; altri si siedono sul parapetto, tra la spiaggia e l’asfalto; altri ancora, distanziati, si sdraiano a riva, e poi ci sono quelli che non escono dalle celle, forse perché non avevano mai visto il mare e provano più diffidenza che curiosità. Sono sessantotto. Sotto il chiaro nylon della mattina sembrano frequentatori di un villaggio turistico di massa, perché li hanno forniti di indumenti in jeans diversi e tuttavia simili, nuovissimi e pieni di etichette. Visti da vicino, i volti rivelano odio. C’è chi ha già i calzoni rotti sulla coscia, la faccia pesta. E macchie di sangue, anche; durante la notte è successo qualcosa. Adesso stanno facendo colazione, e il rito li placa. Uno coi capelli rossi rovescia il tè sulla sabbia e sputa i corn flakes perché, dice, sono pieni di purganti e sedativi. A qualche metro di distanza, il tallone di gomma di una ciabatta Adidas martella il cemento del parapetto.

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V Quando Sergio entrò in cella, su una delle brande russava un orientale col viso di madreperla e i pugni stretti. Sergio non era uno stupido: scoprì che le porte che davano sulla spiaggia non avevano serratura e la sera stessa aveva già trasferito tutto, la coperta, il cucchiaio di legno e la scodella, le riviste e gli abiti, in una delle poche celle vuote all’altro capo del padiglione. Là cenò con stufato di ceci, e siccome non poteva dormire uscì a guardare la spiaggia, che nel pomeriggio si era costretto a dichiarare inutilizzabile. Quando cominciò a sentire lo scricchiolio della sabbia sotto le suole di gomma aveva ormai raggiunto la riva. Il rumore del mare lo scosse con l’inumana efficacia di una sveglia. Fece un passo indietro e si sedette. Dieci metri a destra, il muro sembrava frazionare l’odore di iodio, lasciandone nel carcere la porzione più evanescente. Guardando il muro, i massi che lo rafforzavano, Sergio scosse la testa, mentre cominciava a intuire che il mare parlava, cose incomprensibili, sciocchezze, come se volesse distrarlo dai piani che lui doveva imporre al tempo. La cosa più importante era ragionare. I buffoni che lo avevano condannato a tre anni di gattabuia (ma quel carcere, certo, non era la gattabuia) volevano vederlo a pezzi, e lui aveva bisogno di uscire più forte di prima, perché era l’unico modo per sconfiggerli. Lui, pensava Sergio, non era un buono a nulla qualsiasi, né un predestinato allo stipendiuccio, era un imprenditore e aveva giurato su Dio che non avrebbe mai più venduto pneumatici né mangiato minestra di riso per una settimana di fila. Per questo, e non per altro, si era dedicato al traffico 14


di ghiandole, un commercio nuovo e promettente. Ghiandole di feti: pituitarie, surrenali, che qualcuno, sottovoce, importava dalla Russia o dall’Armenia. Non era difficile piazzarle. A Sergio avevano offerto di contattare i clienti. Sarebbe stato un promotore, gli avevano detto; provvigioni enormi. Un medico, proprietario di una clinica, gli aveva spiegato che le cellule si usavano per sintetizzare droghe utili o vaccini, e a volte era perfino possibile servirsi della ghiandola intera. Lui aveva creduto di potersi arricchire aiutando clandestinamente la scienza e adesso era in galera; era un recluso. Il suo capo, il grossista, era uscito su cauzione; i clienti non li avevano toccati; e tutti sapevano che il giudice si era tenuto un paio di pituitarie. Sergio era in galera. L’unico trionfo che gli si prospettava era uscire più forte di prima. E poi fare qualcos’altro. Nel corpo, le ghiandole fabbricavano ormoni. Il mare era maschio o femmina? E l’ingiustizia? L’avvenire: quello era maschio. Un’improvvisa voglia di nuotare lo fece sentire così furioso che balzò in piedi e prese a calci la risacca. Due tizi grandi e grossi con le gambe storte, le voci smorzate dal mare, gli si avvicinarono indicando le boe fosforescenti. Sergio tornò alla sua cella correndo, tanto per fare esercizio. Era la numero due, la seconda a partire dal muro di destra. VI Già dalle prime notti i detenuti imparano che non è prudente indugiare all’aria aperta dopo le undici, perché innumerevoli fasci di luce, sottili e incrociati, cominciano a piovere sulla spiaggia come lance arroventate e non smettono di crivellar15


la fino all’alba. Anche se non si sentono minacce o esplosioni quando la luce denuncia un corpo, e anche se non provoca dolore, in quell’improvvisa illuminazione di sé il detenuto intravede chissà quali rappresaglie. Si rifugiano tutti nelle celle, allora, mentre sulla spiaggia, davanti al mare incolume, continua il frenetico balletto delle liane incandescenti. Quand’è che quel balletto si interrompe, e a volte si ferma per ore, lasciando riapparire il luccichio notturno della spuma, i detenuti lo ignorano. I detenuti non hanno rapporti con i funzionari. A certe ore non troppo fisse i finestrini delle celle vengono aperti dal corridoio, voci viniliche chiedono i piatti e mani senza polso li restituiscono pieni. C’è in quelle mani puberi una trasparenza gommosa, intimidatoria, la medesima qualità anfibia che da lontano i detenuti intuiscono nelle guance delle guardie.

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