gran vĂa original • narrativa spagnola e latinoamericana
Ronaldo Correia de Brito
Il dono della menzogna Traduzione di Daniele Petruccioli
gran vĂa
Obra publicada com o apoio do Ministério da Cultura do Brasil Fundação Biblioteca Nacional. Opera pubblicata con il supporto del Ministero della Cultura brasiliano Fondazione Biblioteca Nazionale.
Per l’immagine di copertina (xilografia attribuita a Francisco Amaro Borges) l’editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire. Titolo originale: Galileia Copyright © 2008 Ronaldo Correia de Brito © 2014 gran vía s.c.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione: giugno 2014 isbn 978-88-95492-31-5 Progetto grafico: Mirko Visentin | www.mirkovisentin.it Le citazioni della Bibbia sono tratte dalla traduzione ufficiale della CEI, edizioni Paoline del 1974; la citazione di Emil M. Cioran è tratta da Storia e utopia, a cura di M.A. Rigoni, edizioni Adelphi del 1983; mentre quella di Euripide è tratta da Ifigenia in Tauride, in Il teatro greco, a cura di G. Paduano, edizioni Bur del 2006.
Il dono della menzogna
Adonias
Abbiamo saputo di nonno Raimundo Caetano ben prima di cominciare la traversata del Sertão dos Inhamuns. La sua salute è peggiorata e la festa di compleanno potrebbe saltare. Sto pensando di dar retta ai miei cattivi presentimenti, preoccupazioni che mi assalgono a ogni riunione di famiglia, e di tornare a Recife. Davi e Ismael mi lanciano sguardi interrogativi, temono che rinunci al viaggio. Un mio eventuale forfait non li fermerebbe, ma servo loro da paciere fin da quando spaventavamo le greggi di pecore e io mi sono ferito il tallone, in un pomeriggio uguale a questo. È tutto come in passato, anche le strade già battute e il silenzio dei morti, fantasmi che in vita si aggiravano con il mio stesso passo ansioso e depresso. Da un po’ di tempo sono solo alla guida del camioncino. I cugini sono montati dietro sul cassone aperto, esponendosi alla polvere e al sole di questo tardo pomeriggio estivo di dicembre che minaccia pioggia. Tanta bellezza è una vera trappola. Mi servirebbero un paio di occhiali per astrarmi dall’azzurro del cielo, dalle nuvole da grande schermo. Il caldo mi dà noia. Sale dalle rocce che spuntano da ogni parte, come cespugli bassi. Niente ricorda il silenzio più delle rocce, materia prima del sertão, che attraversiamo a grande velocità. 9
Come ha fatto mio cugino Ismael a trovare i soldi per comprare un camioncino? Non glielo abbiamo ancora chiesto. Rimandiamo i conti a dopo, in fondo ci stiamo rivedendo dopo una lunga assenza. Per diverso tempo siamo stati appena una reciproca notizia. Guardo le palme da cera, snelle come mio cugino Davi, e rivedo il pomeriggio crudele, lui che scappa, nudo, con addosso solo una camicia bianca, il sesso di fuori e il sangue a scorrergli tra le gambe. Mi assale la solita nausea, la paura di non capire, nonostante gli anni di psicanalisi. Voglio tornare indietro. Accelero, mi appoggio allo schienale. Ritorno ancora al passato, al pomeriggio in cui è successo tutto. Gli occhi incollati alle immagini con inquadratura fissa, un trailer di un quarto d’ora o venti minuti. Esco a metà film. Non voglio proseguire. *** Proseguiamo tra i campetti di calcio sabbiosi che solitamente costeggiano le strade brasiliane. Ragazzi avvinghiati intorno a un pallone, indios con le mazze, intenti a distruggere il nemico. Città povere, uguali in tutto e per tutto: una chiesa, una piazza, una tavola calda piena di mosche. Alla stazione degli autobus, un poliziotto federale è in attesa di un’occasione per estorcere soldi a qualche autista còlto in fragrante. Una donna su una moto porta una vecchia sul sellino di dietro e incita tre vacche magre. In un attimo due miti si dissolvono ai miei occhi: quello del bovaro macho, vestito di cuoio, e quello del cavallo dei racconti eroici, quando i buoi si acchiappavano per la coda. Mi immagino la casa dei nonni devastata dalle ruspe per costruire una strada nuova. Il frastuono delle macchine e la luce dei fari mi danno l’impressione di essere su un altro pianeta. E invece 10
no. Il sertão è sempre qui davanti a me, di lato, dietro. L’asfalto puzza. Ho smesso di piangere per questa ferita nera che solca la terra. Mi distraggo guardando le automobili passare. Dove sono i sentieri tracciati dagli uomini di un tempo, che scelsero di abitare in questo paese portando greggi e costruendo recinti? Cerco il fiume Jaguaribe e trovo solo un letto sabbioso, un ricordo sonnolento di acque che si ritirano nei mesi caldi, per rinascere abbondanti durante la stagione delle piogge. Che fine hanno fatto gli alberi? Si vede solo deserto grigio, senza un briciolo di verde. Il sole, ormai all’orizzonte, alimenta preoccupazioni notturne. Avrei preferito non tornare ad Arneirós, temo l’incontro con la famiglia. La sua storia è stata scritta in tre secoli di isolamento ed è rimasta chiusa in bauli mai arieggiati, nonostante la nostra diaspora alla ricerca di mondi civilizzati. *** Guardo i due fratelli dallo specchietto retrovisore. La pelle scura di Ismael risalta in questa fine di giornata, la cicatrice sul volto, i segni che rivelano le sue origini di indio kanela. Davi, il più piccolo, con la pelle bianca e i capelli biondi, non somiglia affatto al fratello. Fermo la macchina e dico loro di rientrare nell’abitacolo. Comincia a rinfrescare. Stiracchio gambe e braccia, salto, grido. I miei cugini si mettono a ridere, mi spintonano scherzosamente, gridano ancora più forte. Fingo normalità, mi comporto come se fossi contento di questo viaggio e del nostro incontro. Ismael prende il volante. Si è fatto buio. La macchia illuminata dai fari sembra un campo innevato. Il paragone non mi piace. Le probabilità di arrivare prima delle nove si fanno scarse, per via delle pessime condizioni della strada. Tutti i giorni c’è qualche 11
servizio in televisione sullo stato di abbandono di questi luoghi. Potremmo essere rapinati alla prossima curva da delinquenti armati di fucile, su un camioncino importato uguale al nostro. I pascoli del sertão sono stati ormai sostituiti da piantagioni di erba da fumare. «Si può mettere un cd su questo affare?» domanda Davi. «Dipende da cosa. È pagode?» lo prende in giro Ismael. «Vedo che i tuoi gusti musicali sono peggiorati di brutto, fratello. Preferivo quando facevi macumbe con la maraca indigena». Ismael non risponde. Ogni riferimento alle sue origini lo irrita, benché siano impossibili da nascondere. Non si vergogna della gente di Barra do Corda, per quanto degradata sia quella cittadina, ma non tollera il disprezzo da parte della famiglia che viene dal Ceará, troppo spesso dimentica di essere anch’essa il risultato di incroci con gli indios jucá. Impreca e stringe il volante. Mi immagino il camioncino che finisce in un burrone alla prima curva, e Ismael decapitato. Rivedo la scena di un tempo, Davi che corre con la camicia bianca macchiata di sangue, nonno Raimundo Caetano alla finestra, indifferente, come se guardasse il telegiornale, zio Salomão dentro casa, zio Natan nell’attimo in cui esce dalla porta. Un cavallo gira in tondo, sanguinante per via degli speroni. In groppa c’è Elias, l’altro fratello di Davi. Non vedo Ismael. *** Grido come se mi risvegliassi da un incubo: «Torniamo a Recife. Non voglio andare a Galilea, non ci vengo!» 12
Ismael ferma il camioncino in mezzo alla carreggiata e mi guarda. «Sei impazzito, Adonias?» «Sono stufo di queste liti famigliari in cui mi tocca recitare la parte dell’arbitro». Davi prende un cd e me lo passa. «Sentiamo qualche sonata di Scarlatti». Afferro il disco e lo infilo nell’autoradio. Ogni volta che ascolto musica mi immagino sempre allo strumento, con tanto di applausi alla fine. La mia fantasia su queste sonate è di arrivare in una casa con un pianoforte in salotto. Lo apro annoiato, provo l’accordatura. Qualcuno mi chiede se sono un pianista, con falsa modestia rispondo di sì. Mi siedo e comincio a suonare. Nell’esaltazione musicale della macchina, fendiamo il sertão a grande velocità: il mondo esterno, attutito dai finestrini oscurati e dall’aria condizionata, è stupendo. Ho dimenticato dove siamo diretti. Sono in una sala da concerto. In platea, le persone che più aspiro a impressionare. Il suono del piano è disturbato da altri rumori. Davi è chino su un giochetto elettronico, dimenticando di averci imposto lui Scarlatti. Quanto vorrei che Ismael si fermasse e gli desse due sberle. Il camioncino ha un sobbalzo. Per poco non finiamo in una buca. «Le strade sono le stesse di quando i nostri antenati ci hanno trasportato un pianoforte fatto arrivare al porto di Recife». «Secondo me sono peggio, Ismael» intervengo io, mezzo stordito dalla mia fantasticheria musicale. Ho un’immagine del fragile strumento venuto dalla Francia, sopra un carro trainato da buoi. «Ma davvero hanno portato un piano fino a questo buco?» «Mio padre giura di sì. Stiamo per attraversare il fiume dove i buoi si sono impantanati con il carico». 13
La musica mi rende ancora più triste, infelice. Avrei preferito non andare alla festa del nonno. Nessuno dei miei fratelli ha voluto accompagnarmi in questo viaggio e tanto meno mia madre, che da anni non vede suo padre e in quanto figlia glielo dovrebbe. «Scarlatti ha scritto le sonate per un’allieva, la principessa Maria Barbara, figlia di Giovanni v di Braganza, re del Portogallo. Non aveva la minima pretesa di scrivere grande musica, eppure l’ha fatto. Ed è di difficilissima esecuzione». «Tu suoni Scarlatti?» «In questo momento sono fuori esercizio, ma l’ho suonato. Le sonate sono più di cinquecento, ognuna un capolavoro. Nacquero da una necessità molto prosaica: insegnare. E tuttavia questa necessità è servita come motivazione per la creazione artistica». Strano come il sole tramonti presto, nel sertão. Quasi non abbiamo il tempo di prepararci alla notte. Volano uccelli che non conosco, volpi attraversano la strada, maggiolini sbattono sul parabrezza. Con la musica di sottofondo, non riconosco il verso di nessun volatile. La mia paura aumenta. Dove stiamo andando? Ci guida mio cugino Ismael. Mi brucia la gola, scotto di febbre. È una fissazione. *** Perché sono venuto? Quante volte me lo sono chiesto? Non riesco a stabilire un legame con questi due cugini, un sentimento che mi aiuti a sopportare il viaggio. Se Joana fosse qui con me, sarebbe più facile tenere a bada l’angoscia. Le parlerei delle mie preoccupazioni o di cose senza significato apparente, per ricostruire un qualche vincolo 14
col mondo. Ma è dovuta restare. Non posso strapparla dal lavoro ogni volta che voglio. Non è facile lasciare i pazienti, l’ospedale, l’ambulatorio. Accendo il cellulare, ma non c’è campo. Provo ad attaccare discorso. «Vi ricordate i nomi degli alberi del sertão?» «Io nessuno» risponde Davi. «Non so assolutamente niente di botanica. Non distinguo un mango da una papaia». «Io ricordo bene la foresta del Maranhão, nonostante gli anni in Norvegia». Il discorso va alimentato, altrimenti si esaurisce. Davi, ora sdraiato sul sedile posteriore, ha ricominciato con il suo giochetto elettronico e Ismael tiene gli occhi fissi sulla strada, attento alle curve e agli animali che attraversano la carreggiata. Abbasso la radio, continuo a voler attirare la loro attenzione, come se fossero una zattera di salvataggio. «Mio padre pretendeva che memorizzassi tutti gli arbusti della caatinga, anche quelli più insignificanti. Sapevo i nomi a memoria, ma ero incapace di riconoscere le piante». «Ne ricordi ancora qualcuno?» «Li ricordo tutti, Ismael». Recito i nomi con memoria orgogliosa, poi vengo ripreso dalla tristezza. Tutte nozioni che mi sembrano inutili. Non mi sono mai servite a niente. Attraverso il sertão scorgendo ombre nere, resti vegetali di queste memorie. Mi sono portato appresso quei nomi come fantasmi, sentendomi in colpa se li dimenticavo. Per me erano come tronchi di recinti in rovina, ormai inutili, senza più mucche né tori; pali solitari, testardamente ritti in cima a un altopiano senza pascoli, senza mandrie, senza uomini. Con desolazione, ripenso alla famiglia. Si aggrappa ancora a una terra un tempo ricca e apportatrice di potere, ma oggi ridotta a un allevamento di uomini che appena nati scappano via. Ismael si entusiasma per i miei ricordi. Grida, picchia con le 15
mani sul volante. Le memorie comuni ci avvicinano, riannodano vincoli che credevo sciolti da tempo. «Adesso, Adonias, ti dico i nomi degli alberi che conosco. So la forma di tutte le loro foglie, tronchi e fiori. Non sono ricordi inutili, non credere. Mi sono serviti molto, quando ero in carcere in Norvegia. Se non sapevo più che cosa fare, immaginavo la foresta, le pianticelle più stupide. Scrivevo i loro nomi su un quaderno, disegnavo i fiori e piangevo, pentito delle scelte che avevo fatto. Era l’unico modo per tirarmi su». Lo lascio continuare. «Un giorno ti racconterò la mia storia. Si dicono cose tremende su di me, lo so. Ci crede perfino nonno Raimundo Caetano, benché mi abbia adottato e dato il suo nome». Mi posa la mano destra sulla coscia e si volta a guardarmi. I maschi della famiglia hanno l’abitudine di toccare l’interlocutore, quando parlano. Il contatto mi spaventa. I sentimenti che provo per mio cugino non sono cambiati da quando eravamo piccoli. Vorrei avere fiducia in lui, ma temo di cadere in un tranello. Se credessi alla metà di quello che zii e cugini vanno dicendo sul suo conto, scenderei dalla macchina e continuerei il viaggio a piedi. Davi mi chiede di cambiare cd. Ci passa un Rachmaninov. «Di che parlate?» «Di piante». «Sono analfabeta in materia, l’ho già detto». «Allora parlaci di animali». «Parlate voi. Io ascolto i preludi. Lo spirito di Rachmaninov era come questa notte, non lasciava passare nemmeno un raggio di sole. Ma, anche così, a me piace». Il tono pomposo stona con la sua corporatura gracilina, con il gergo usato di solito da mio cugino. Si capisce che recita una lezione imparata a scuola. 16
Incrociamo una macchina in velocità. Le luci dei fari illuminano il volto di Ismael. Davi è chino sul suo giochetto elettronico e io riprovo il cellulare. Ancora niente. A quest’ora sarei a casa a cenare con Joana e i bambini o a legger loro qualcosa prima di mandarli a letto. Ogni sera onoriamo il rituale della buonanotte. Il mondo sembra meno spaventoso se si tengono le luci accese, con le voci della televisione, i computer, lo squillo dei telefoni. «Abbassa, Adonias, così parliamo». *** Davi si è addormentato. Diminuisco il volume della musica lentamente, per non svegliarlo. Ismael accende una canna, fa un bel tiro, mi lancia un’occhiata d’intesa e, prima che io manifesti desiderio o rifiuto, me la passa. «Grazie, non fumo». «Questa è erba di Barra do Corda. Riforniamo tutto il Brasile con maria di prima qualità». Ride forte, mi tocca di nuovo la coscia, io mi irrigidisco. Percepisco i segnali dell’euforia da cannabis e mi preparo a un nuovo livello di discorso. Sempre meglio del silenzio o della musica. Allungo le gambe, stiro la colonna vertebrale, faccio esercizi contro la stanchezza degli occhi. Mi offro di sostituirlo alla guida, non mi fido di ubriachi né di drogati al volante. «Hai paura perché fumo? Tranquillo, sono abituato». «Parlo da medico. È pericoloso». «Rilassati. Non mi è mai successo niente». Davi si stiracchia alle nostre spalle. «Cos’è quest’odore? Ah, dev’essere Ismael! Non avete rispetto 17
nemmeno per la malattia del nonno?! E se fosse morto? Volete arrivare al funerale in questo stato?» «Io non fumo, lo sai». «Dormi, fratellino, dài! Sei il compagno migliore del mondo quando dormi». «E tu sei fantastico quando ti dimentichi che esisto». «Per piacere, smettetela con questa sceneggiata da Caino e Abele». «Non mi piacciono i moralisti. Adesso non venirmi a dire, fratello, di aver suonato con la testa lucida, in quel baretto di New York. Scommetto che fai uso di roba molto più pesante. Se non altro, io mi limito a bruciare un po’ d’erba». «Va’ all’inferno, Ismael! Sono chiacchiere da sconvolto. Torna ai discorsi di prima. Ti preferisco sdolcinato. E per tua norma, non ho suonato in nessun baretto. Sei male informato». «Ah, scusa» ironizza Ismael. «Hai suonato in un pub! Non scordartelo, Adonias! Davi ha suonato in un pub di New York, per mezza dozzina di scocciati». «Io questo qui non lo sopporto più! Già senza marijuana è di fuori, quando poi fuma diventa insopportabile. Non infangare il nome di Rachmaninov! Per piacere, Adonias, ridammi il disco». Levo il cd, lo rinfilo nella custodia e lo passo a Davi, che si è steso di nuovo sul sedile a occhi chiusi. Ha ripreso a fare l’angelo caduto sulla terra. Non è un caso se tutti lo hanno sempre preferito a Ismael. Come se non bastassero il suo carattere tranquillo, i boccoli biondi e gli occhi vivaci sul corpo snello, con la sua aura da pianista virtuoso riempie di orgoglio tutta la famiglia. Da quando quel nostro antenato ha fatto arrivare un pianoforte dalla Francia, abbiamo tutti ereditato un gusto snobistico per la musica, un amore feticistico per i pianisti.
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