gran vĂa original • narrativa spagnola e latinoamericana
Ferran Torrent
WHISKY E CHICCHI DI CAFFÈ Traduzione di Simone Bertelegni
gran vía
La traduzione dal catalano di quest’opera ha beneficiato di un contributo dell’Institut Ramon Llull.
Titolo originale: Gràcies per la propina Copyright © 1994 Ferran Torrent Licence given by Columna, Llibres i Comunicació S.A.U. © 2015 gran vía s.c.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione: ottobre 2015 ISBN 978-88-95492-34-6 Progetto grafico: Mirko Visentin | www.treseditoria.it
Whisky e chicchi di caffè
Nota del Traduttore Mi scuso subito con i lettori per questa nota pedante ma necessaria per giustificare alcune scelte traduttive e editoriali. Whisky e chicchi di caffè è scritto nella variante della lingua catalana nota come valenciano. Il valenciano è, in sintesi, una varietà dialettale del catalano perfettamente intellegibile a tutti i catalanoparlanti. Rispetto ad altri dialetti della stessa lingua, gode di una normazione grammaticale e ortografica, della tutela di un’apposita accademia e dello status di lingua (sic) ufficiale della Comunità Valenciana. Le più sensibili differenze tra il valenciano e il catalano usato, per esempio, a Barcellona o Maiorca sono fonetiche e si perdono totalmente nella lingua scritta, tuttavia alcune sfumature presenti nel presente romanzo, per esempio lessicali e morfologiche, confermano la volontà di Ferran Torrent di scrivere nel dialetto della sua terra. Non ho potuto rendere tali sfumature anche nella traduzione italiana; ho reso infatti il testo nella nostra lingua standard, anche perché sarebbe stato grottesco far parlare la voce narrante o i personaggi del romanzo, chessò, in romanesco. A volte, tuttavia, ho cercato di abbassare il registro sia della voce narrante sia nei dialoghi quando l’utilizzo di velencianismi mi è sembrato rispondere a un’esigenza di colloquialità del tono. Nel romanzo originale, infine, compaiono numerose battute di dialogo in castigliano. Si tratta ovviamente di una scelta consapevole da parte dell’autore, in genere per dare a chi le pronuncia una connotazione politica, sociale o geografica: parlano castigliano i personaggi allineati al regime nazionalcattolico di Franco (per esempio i sacerdoti), alcuni appartenenti al ceto urbano (a Valencia città il castigliano è molto più parlato del valenciano, cosa che non avviene nelle aree suburbane e rurali della regione) e gli immigrati da aree ispanofone come la Murcia, l’Andalusia o l’Aragona. Ho rispettato pertanto la scelta di Ferran Torrent, lasciando battute di dialogo in castigliano e confinandone la traduzione in nota a piè di pagina. Se avete avuto la pazienza di leggere questa nota fino in fondo, vi ringrazio in catalano standard (us agraeixo) e nella sua varietà valenciana (vos agraïsc).
Nota dell’Autore I personaggi di questo romanzo sono di fantasia, persino quelli reali.
Un sogno è un luogo impreciso, la fuga momentanea da un presente incerto. A ogni modo, quel pomeriggio d’inverno del 1992 mi sforzavo di entrare nella trama astratta del passato mentre mio fratello leggeva sdraiato sul divano, vicino al caminetto. Il gocciolio lento sul tetto della cucina avvertiva che fuori pioveva a catinelle. Nei giorni grigi e freddi di pioggia, la casa recuperava la vecchiaia secolare di una lunga, venerabile esistenza. La casa mi piaceva, malgrado fosse priva di uno stile definito. Le varie ristrutturazioni, sugli spazi rustici originari, si mescolavano ad altre condotte alla bell’e meglio a seconda delle esigenze di ciascun periodo. A tutto ciò si sommava il particolare gusto per l’arredamento di mio fratello, criptico più che critico, che spesso anteponeva la comodità funzionale all’estetica, prescindendo dal rispetto per un insieme che, pur non essendo di alto valore architettonico, avrebbe meritato un certo riguardo. Ma tutto ciò, a quel punto, non aveva molta importanza: l’indomani avremmo demolito la casa per costruirne una nuova. Quel pomeriggio del 1992 eravamo lì per compiere il rituale dell’ultimo giorno; avremmo trascorso la notte in bianco sino alle otto del mattino, un omaggio cui avrebbero posto fine il camion della ditta di traslochi e l’inflessibile opera del piccone. Maleante e Mante, i due cani, e Patilla, il gatto, vivevano già nella villetta 9
dove avremmo abitato sino alla fine dei lavori. C’era una sorta di tacito accordo: non farci soffocare dai ricordi. Perciò, riempimmo il frigorifero – uno storico Kelvinator – con ogni tipo di frutti di mare, carne, vino, spumante e una lattina di caviale. Nelle interminabili ore d’attesa, ebbi la tentazione di evocare ricordi a voce alta per stimolare la nostalgia di mio fratello. Sono certo che fingesse di leggere, perché a volte impiegava venti minuti prima di voltare pagina. Era un romanzo di Stefan Zweig di venticinque righe a facciata. Io ero disteso sull’altro divano, con lo sguardo fisso sul fuoco del caminetto. Di sottecchi, lo vedevo strizzare di tanto in tanto gli occhi e sorridere in maniera quasi impercettibile. Non era un sorriso soddisfatto, no; e ancor meno la conseguenza della lettura di Zweig. Era un sorriso triste, rassegnato. Sia lui sia io siamo di quelli che celano i sentimenti che tradiscono sensibilità, convinti che non ci sia niente di più nocivo della pratica pubblica della debolezza. E insomma, entrambi eravamo là, apparentemente sereni, con la confortante presenza, non si poteva mai sapere, di Crocevia della morte, Rusty il selvaggio, Barton Fink – È successo a Hollywood e Città amara, film che avrebbero addolcito il nostro ozio malinconico nonostante li avessimo già visti. Ciò non di meno, decisi di prendere appunti mentali con la certezza che in futuro avrei riversato i ricordi in un libro, che è il modo per infondere loro vita, per quanto la vita sia fatta di costruzioni e insabbiamenti e rimanga soltanto la memoria – o la nostalgia –, quel sostrato forse inutile e tuttavia persistente che ci ricorda giorni irraggiungibili.
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Mi chiamo Ferran Torres e mi sono masturbato per la prima volta quando avevo nove anni. Be’, in realtà si trattò di un tentativo, perché la goffa frenesia onanista mi provocò un’irritazione del glande e un notevole gonfiore al pene. Di per sé, si tratta di un fatto di scarsa importanza, ma me ne ricordo perché accadde il giorno precedente la mia prima comunione, oggettivamente uno dei giorni più sciagurati della mia vita. L’origine di quell’infortunio va ricercata nell’allegria comunicativa di mio fratello, impeccabile e implacabile, soggetto volontario attraverso il quale mia madre venne a sapere della trasgressione per così dire fisica, pur tenendo conto dell’età. Lui si chiama Pepín, sebbene oggi sia conosciuto come Josep Torres, poiché non ritiene adeguato firmare col diminutivo famigliare la vicedirezione del quotidiano per cui lavora. Per me rimarrà sempre Pepín, anche se diventasse consigliere d’amministrazione del «Washington Post». Io sono il maggiore – il “ragazzo”, come un tempo veniva chiamato il primogenito maschio – e dovevo farmi carico dei compiti più pesanti che ci venivano assegnati, pur essendo più basso e minuto. A me toccava prendere l’acqua da una pompa a mano. Per riempire la cisterna era necessario far fare non meno di seicento giri alla manovella della pompa, uno strumento circolare dal rumore monotono che ti strideva in testa. Un padre, 11
non l’abbiamo avuto; non abbiamo fatto in tempo a conoscerlo: morì poco dopo la nascita di Pepín. In base all’album di famiglia e a quello che ci hanno raccontato, mio padre aveva una fisionomia che, in apparenza, era l’esatto riflesso del suo carattere: alto, ma magro e debole, privo di spirito imprenditoriale, il volto spesso abbronzato e i capelli brizzolati. Sembrava Richard Widmark di fronte a un duello inesorabilmente perduto. Tutto, in lui, parlava di sconfitta cronica. Ogni singolo giorno della sua vita fu un’inutile lotta contro la malattia polmonare. E quindi, in casa non c’era un uomo, e sin da piccoli mamma si era affrettata a inculcarci il valore della responsabilità solidale, pur se enfatizzandolo più in me che in mio fratello. Problemi economici non ne avevamo, ma il lusso era un mero accenno. Tiravamo a campare con la modesta pensione di reversibilità, gli aiuti del nonno e di due zii, una piccola proprietà agricola gestita da affittuari e l’allevamento di maiali, galline e pulcini di cui si occupava mamma col nostro aiuto saltuario. Alla vigilia della comunione, mamma si affannava a preparare l’evento a casa del nonno. Da lì, un’abitazione più grande e centrale, l’indomani sarei uscito vestito alla marinara,* diretto in chiesa. Nel frattempo, noi eravamo a casa nostra a fare provvista d’acqua. Ogni volta che riempivo la cisterna, mamma mi dava cinque pesetas; per lo stesso incarico io ne davo due a Pepín, cifra che lui considerava vessatoria e io generosa. Approfittai dell’assenza di autorità morale in casa per obbligare mio fratello a metter mano alla pompa, mentre io mi chiudevo in bagno, deciso a mettermela in un altro posto in teoria più adeguato. Di certo la vigilia della prima comunione non è il giorno più adatto per masturbarsi, tuttavia, giovane e ingenuo com’ero, * In Spagna, l’abito tradizionale maschile per la prima comunione non è, come in Italia, la tunica, ma un’uniforme marinaresca. [N.d.T.]
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ero convinto che il peccato fosse incluso nell’assoluzione con cui il parroco mi aveva immunizzato alcune ore prima. Disquisizioni spirituali a parte, friggevo dalla voglia di fare ciò che veniva condannato con tanta durezza. Tuttavia, cotanto entusiasmo e una simile mancanza d’esperienza non mi condussero al piacere che fantasticavo, e il mio pene, tenero e novizio, ne pagò le conseguenze. Terrorizzato, uscii dal bagno per spiegare a mio fratello che problema mi era capitato tra le mani, arrossato e gonfio. Anziché tranquillizzarmi, Pepín mi spaventò ancor di più, proprio nel momento in cui mamma apriva la porta. Mi riallacciai lesto i pantaloncini e mi misi subito a pompare acqua, con le parti violentate in fiamme. L’incidente non avrebbe oltrepassato i limiti del fastidio fisico se lui, Pepín, non avesse infarcito di preoccupazioni sanitarie una questione strettamente personale: «Mamma, Ferran ha il pisellino gonfio!» «Che ti succede?» volle sapere mamma. «Niente» feci io aggrappato al manico della pompa, più duro e compatto del mio. «Se lo stava menando!» insistette Pepín, caso mai ci fosse qualche dubbio. Le donne del tempo erano poco pratiche di rapporti complessi con ragazzi iperattivi, e l’assistenza psicologica, pertanto, si traduceva in un doloroso corso pratico: mio fratello, che era più vicino, ricevette il primo schiaffo; subito dopo toccò a me, due volte. E ancora grazie: mi evitò, di rimbalzo, il complesso d’Edipo infantile. «È vero quel che dice Pepín?» sberla sulla nuca. «Rispondi, bandito!» «Io… io…» «Svergognato d’uno svergognato!» esclamava, incredula, abbas13
sandomi i calzoni. Alla vista dello stato del pene si mise le mani nei capelli. «Che cos’hai combinato?» «Se l’è menato!» La voglia di Pepín di farsi capire era lodevole. Mamma, scandalizzata, lo schiaffeggiò di nuovo. «Ma me l’ha detto lui!» «Non hai vergogna a dirgli una cosa del genere?» «Gli ho detto che me lo sono grattato!» protestai. «Ma con che faccia farai la comunione domani?» A dirla tutta, non era la faccia a preoccuparmi. Il problema si trovava tra le gambe, un bruciore che aumentava d’intensità col trascorrere dei minuti. Per fortuna, mamma antepose la prevenzione medica alla virtù morale; giusto il tempo di lavarmi le mani e le ginocchia – e anche i testicoli e il bassoventre –, e mi portò all’ambulatorio di don Eulogio. A quel tempo, i medici di paese erano persone oziose che si occupavano di malattie di routine. Ciò nonostante, godevano di un successo spettacolare in virtù, probabilmente, della saggezza che una clientela poco pretenziosa attribuiva loro. Don Eulogio era alto e ben piazzato; con la barba curata e le labbra all’ingiù, aveva uno sguardo folle che rafforzava un atteggiamento imperativo. Semplice nei modi, diagnosticava fornendo spiegazioni singolari e spesso, mentre visitava i pazienti, canticchiava pasodobles a bassa voce, a volte con tanto di parole, altre imitando il suono di uno strumento. Nella regione di Valencia la gente è sempre stata appassionata di musica; don Eulogio era un melomane indiscusso, come quasi tutti quaggiù. Nella zona godeva di un prestigio riconosciuto, per l’esperienza e, soprattutto, poiché in ambulatorio – ampio, luminoso, pulito – possedeva un apparecchio radiografico, vecchio e arrugginito, che faceva lastre talmente scure da non ricavarne mai altro se non il solito «Smetti di fumare e bere», nonostante il presunto malato fosse magari pervicacemente astemio. 14
E insomma, andammo in ambulatorio e vi trovammo don Eulogio intento a pulire alcuni attrezzi con l’alcol. «Buongiorno, don Eulogio». «Buongiorno. Che succede, Eugènia?» «Guardi… il ragazzo ha quelle parti lì gonfie». Da piccolo ero incuriosito dal fatto che le palle venissero chiamate “quelle parti lì” e il resto del corpo “organismo”. Me ne accorsi il giorno in cui conobbi la prima donna: in effetti, il pene è un problema a parte. Il problema. «Abbassagli i pantaloncini e mettilo a sedere» ordinò don Eulogio. Mamma mi fece accomodare su uno sgabello metallico, freddo al punto da incollarmi le natiche. Allora don Eulogio si chinò e, impossessandosi con deferenza del mio pene, l’esaminò superficialmente con lo sguardo mentre canticchiava «Manolete, Manolete, si no sabes torear por qué te metes. Manolete, Manolete, si no matas una rata en el retrete». Ripeté quelle strofe un paio di volte. «Ha un’irritazione» sentenziò. «Come ha fatto?» «Pare proprio che non se la sia procurata camminando» fece don Eulogio beffardo. «Gli metteremo una pomatina e tutto a posto». Mi spalmò sul glande e la pelle del pene un unguento che lenì il bruciore. Poi vi posò sopra un rametto di prezzemolo assicurandolo con una garza di cotone e mi sollevò le mutande per tenere fermo il tutto. Appena indossai i pantaloni, mia madre approfittò dell’occasione: «Don Eulogio, il ragazzo non cresce e non ingrassa». «Mangia abbastanza?» «Sì». «Seme di mala pianta» sospirò. «Le persone sono come i maiali, ce ne sono di quelli che con quattro ghiande fanno un buon pro15
sciutto e altri che si rimpinzano di mangime Sanders e non producono niente. Ma non preoccuparti, magari da qui a poco s’allunga di colpo». Ho sempre avuto la certezza che, all’epoca, l’unica differenza tra un medico e un veterinario fosse il tipo di paziente. A ogni modo, conservo una profonda e pubblica riconoscenza per la figura e l’opera di don Eulogio. Il margine di fiducia che concesse alla possibilità che un giorno o l’altro potessi “allungarmi di colpo” tenne viva in me la speranza sino al termine della naja, a ventitré anni, età in cui gli “allungamenti” sono poco frequenti. Il peggio tuttavia, quel giorno, doveva ancora arrivare. Di ritorno a casa, mamma mi obbligò ad andare a confessarmi di nuovo, rinunciando ad accompagnarmi per risparmiarsi le responsabilità che, come tutrice morale, aveva di fronte al parroco. Don Mariano, così chiamavano l’intermediario di Dio in paese, era un sacerdote con pretese religiose prive di realismo. Teologo massimalista, esasperava il rapporto peccato-penitenza sino a estremi inconcepibili: faceva a malapena distinzione tra peccati veniali e mortali, e per verificare che ognuno sciorinasse il cilicio verbale che imponeva, aveva collocato il confessionale davanti alla cappella laterale, dove mandava i parrocchiani a far penitenza. D’aspetto omosessuale (e lo era), puzzava di sigarette autarchiche. Il volto color seppia, i capelli forforosi e stirati, la tonaca lisa sino a brillare e le dita della mano sinistra macchiate di nicotina, don Mariano dettava etica con tale estetica. Colpevole e sconfitto, mi avviai con gambe tremanti al confessionale, assediato, la vigilia del Corpus Domini, da anziane in cerca di una porzioncina di paradiso. Se ben ricordo, le donne si confessavano da una parte laterale e gli uomini di fronte, faccia a faccia col parroco. Mentre attendevo il mio turno, cercai di preparare una strategia, consapevole della difficoltà di convincere un uomo della parzialità morale di don Mariano. Tuttavia non ebbi 16
a disposizione il tempo necessario, visto che in fila c’erano solo donne e le code erano rigorosamente di stampo maschilista. «Tu ti sei già confessato» disse il parroco in tono energico, lievemente nervoso per lo stress causato dallo spossante compito. «È che prima mi sono dimenticato un peccato». «Mortale o veniale?» «Credo mortale». Mi diede un sonoro scappellotto (era finocchio e schizofrenico) e non so se lo fece per punirmi della dimenticanza o per la mole del peccato. Mi confessai mentre lui mi torceva un orecchio e, una volta assolto, mi alzai, squadrato dagli occhi di nonne che mi indicavano come fossi uno psicopatico. Uscii dalla chiesa con coscienza cristiana e fisico scosso. Per me, mettere d’accordo quel dualismo fu un grande problema, che risolsi privilegiando il corpo anziché l’anima. Un giorno magnifico che proseguì l’indomani, vestito in tutto il mio splendore marinaresco, il collo dritto, l’orecchio arrossato e un pisello genuinamente vegetariano. E don Mariano, la ciliegina sulla torta: «¡Hijos míos, hoy es el día más feliz de vuestra vida!»* esclamò con euforica pedofilia dall’altare, a mano a mano che noi bambini facevamo il nostro ingresso in chiesa. La terapia che mi avevano applicato ebbe risultati positivi: ci vollero settimane prima che osassi afferrarmi di nuovo il pene, se non per orinare comodamente.
* «Figli miei, oggi è il giorno più lieto della vostra vita!»
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