Domenico Marchesini
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Il suo piccolo paese, che per lui rappresentò una libera scelta (infatti lasciò la carriera di capitano marittimo e il Mar-Grando per fissarsi sulla stretta duna di sabbia, dove condusse un'osteria (ce ne parla in Tra i Recordi, e poi uno dei primi alberghi . Questa scelta (e il conseguente proposito di fissare in testimonianze scritte mondo e dialetto) avviene con lucida determinatezza e non produce in essi o in lui passaggi di dimensione né trasposizioni di tonalità. Volendo richiamarci a un mondo arcaico, il Marchesini non ci appare un Ione, ma piuttosto un Esiodo. Lui e la sua lingua rimangono nella contingenza: non si giunge alla trascendenza e alla trasfigurazione lirica. Ma forse ciò non era possibile, perché ogni trasfigurazione presuppone un trasferimento, una distanza, reale o ideale, data o conquistata che sia. Il Marchesini non mitizza il suo mondo, non ha bisogno di compiere per esso un recupero nella memoria, è troppo "in media re" perché possa sorgere in lui il desiderio o la necessità di questo itinerario spirituale. Esprime il rimpianto del tempo che fu e ne fa una idealizzazione sentimentale, di tipo casalingo, diremmo e, come i gabbiani o i colorati germani, si trova bene nella sua laguna. Più che "rappresentarlo" Domenico Marchesini ci "presenta" il microcosmo gradese: un nucleo la cui struttura sociale si esaurisce in pochi elementi: i pescatori di mare e di laguna, gli artigiani e i renaioli. E gli artigiani allora si chiamavano "artisti", ed erano artisti che per poter vivere in quella società costruita su un'economia curtense, del tipo più primitivo dunque, erano spesso costretti a esercitare più "arti" contemporaneamente. Ricordo infatti che mio nonno faceva il barbiere e il sarto, un esempio fra i tanti dell'angustia nella quale si svolgeva la vita del paese. E il Marchesini di questa angustia è cosciente, e còn insistenza le pone di fronte, quasi a contrappeso spirituale, l'emblema di San Marco e il riflesso splendore della Serenissima, per cui i pescatori .comandauri del palù ricevono una patente di nobiltà d'antica data e diventano cortesani e, pur nelle loro misere capanne, i custodi eletti di un'eredità gloriosa e glorificante. Il ripetersi di quel riede de Sa-Marco , non è casuale, né dovuto a scarsa inventiva, come pure il frequente accenno ai confini urbani del vecchio castrum o L'osteria "Agli Amici" e poi l'albergo "Alla Posta", uno dei primi, 1892. Si direbbe quasi che il nostro autore li ripeta per assicurare noi e se stesso che ci sono veramente, perché, data l'esigua portata delle distanze, questo mondo non sfugga al nostro occhio, e per renderlo, se possibile, più ampio in latitudine e longitudine, e rendere la laguna più vasta, e perciò più ricca di pesce. Questa laguna, la pesca, era d'altra parte la vita stessa del paese. Una vita durissima, in cui la breve astrattizzazione è funzione del concreto: la pesca che impedisce di morire di fame e gli strumenti di essa sono sempre presenti, e trapassano nel linguaggio sotto forma di modi di dire ed espressioni metaforiche: 'l pulindron , la mota, le cane, pegia ; i pesci con la loro qualità più o meno pregiata rappresentano i ceti sociali, bransini e cepe , dall'alto verso il basso. Tutte espressioni che si possono intendere ma non tradurre, perché traducendole si distruggono, aderenti come sono alla sostanza isolana, come un affresco è tutt'uno col muro che lo porta. La elementare durezza di questa vita di mare e di laguna spiega anche la qualità degli ideali di beatitudine, che si configurano nell'assenza del massacrante lavoro quotidiano, lo stah de bando , il contare denaro - quel bori vivi è di una vibrazione quanto mai rivelatrice - e nelle
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pochissime feste, che dovrebbero essere religiose ma, qui almeno, si presentano con il tumultuoso e spumeggiante aspetto di una godereccia sagra popolare E la sfilata continua: la storia passa davanti ai nostri occhi con il più immediato e palpa bile simbolo del potere, il denaro: marculini, fliche, fiurini. assistiamo al documentario della flora e fauna, e un po' sconcertati scopriamo che nelle lagune di Domenico Marchesini crescono soltanto erbe utilitarie, buone soltanto per farne fascine e scope, che il cielo è popolato soprattutto da volatili commestibili - e di quelli che commestibili non sono, il corcal funge da sinonimo per "stupido" o peggio . Ci sono si a nostro conforto le ordole a cantah più liegre, e le silise che fanno il nido ma passano davanti con la velocità di un lampo, e quasi per caso. E ci vengono mostrati i vestiti, i gioielli delle donne, simbolo del prestigio e del raggiunto benessere, e 'lfante , che in questa minuscola società diventa quasi la personificazione del "sistema". Le donne: esasperate dalla miseria - quelle dei sabionanti ; laboriose e virtuose secondo l'antichissimo mo dello "domi mansi lanam feci" -le granzere e; appassionate come Leta
Un mondo aspro che sa di amaro e di sale come le alghe dei suoi lidi. E proprio per la visibile asprezza di questa sfera isolana dobbiamo render merito al Marchesini del suo amore per essa, un amore per cui - unica idealizzazione - la ristrettezza della quotidianità quasi scompare per far posto a un paese di favola, dove si fanno pesche miracolose e il denaro guadagnato si spartisce a peso , e i s-ciopeteri raccolgono prede prodigiose che farebbero impallidire d'invidia i cacciatori d'oggi. Esagerazione sentimentale? Ma i fondali nereggianti di anitre sono anche immagine dei miei ricordi. E il nostro Marchesini sarebbe dunque un "laudator temporis acti"? Non soltanto e non esattamente. Infatti la sua vena più valida, le sue creazioni più efficaci si rivelano là dove egli, permeato di tutta questa vita e del linguaggio in cui essa si incarna, dimostra una capacità non comune di assaporare e rivivere le espressioni popolari, e di tradurre in immagini, e ben efficaci, le sue intenzioni. E ciò è fenomeno non tanto da glottologo, o da semplice raccoglitore entusiasta, quanto da artista. Egli "documenta", certo, ma non dobbiamo dimenticare che nemmeno la fotografia è una piatta ripetizione della realtà; anche al documentario - tanto di moda oggi - bisogna riconoscere il sigillo della personalità, il quale è anche uno degli attributi della creazione artistica. Se il Marchesini rimane tutto nella contingenza, questa è pur sempre filtrata dalla sua personalità, dal suo spirito, vivace e penetrante, anche se non sempre sereno. In un mondo come il nostro di oggi, in cui veniamo inesorabilmente messi di fronte a una realtà che costantemente ci sfugge e nella quale siamo costretti a vivere da provvisori e sradicati, l'incontro con un Domenico Marchesini che nella sua piccola realtà si trova bene e vi è così integrato - per usare un termine di moda può rappresentare un momento corroborante. E per noi gradesi un ritrovamento quanto mai felice. Tra la lepidezza accademica di Sebastiano Scaramuzza e l'aerea lirica di Biagio Marin egli è un uomo nuovo, una voce di aspro suono ma ben originale, che
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arricchisce il passato delle nostre testimonianze letterarie e il nostro presente. I! fatto che non abbia trasfigurato e trasposto il suo mondo
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. Robe passae a) La Ronda
Oeh, l'ora ze passagia! e che se sconda Cu che 'mbriago a stah no 'l poI più in pie; Doboto ha da passah per qua la Ronda Che va a fando serah pe le ostarie. Za le sie lanze 'le ze qua in Stra-longa, Eee ... col feral in man, quel no fa a rieh! De turno ze un sartor, do sabionanti, Ze Candi, çiprian e Tio de i Turchi Che 'l ze pagao, ma ... buli dutiquanti! Seré le porte; no zugah più a mora! Savé che col feral quel sa a fah lume Per fahne 'ndah in bonassa de la buora E a l'osto petahj multe co le spiume. Regatanti de valgia e defiao Seno duti e fa paghi 'l Vogah;
, le sie lanze: sotto la Repubblica di Venezia gli unmini del dcappello eseguivano il 10m giro armati di lancia. 8 CandI: çiprian e Tio de; Turchi: altri soprannomi ficchi di sfondi storici. ' che 'l ze pagao ... : uno era stipendiato, mentre gli altri dovevano prestare servizio onorario. 1.> petahj: appioppargli multe coi fiocchi. b) Regata: sotto la Serenissima fino al Seicento, il diritto d'uso dei beni comunali (fondali lagunari, valli da pesca ecc.) si disputava per mezzo di una regata, che si svolgeva in mare, fino ai banchi della Muggia, (che alloca era bacino di pesca e chiusa da a,gini) su gondole "dette anche 'barche bianche' ("perchè si ungevano col sego onde fossero più veloci nell'an. dare ... e non si impegolavano mai". NoI. 47); esse servivano in pari tempo per le festività Pubbliche; si costruivano in Grado o negli squeri di Venezia ... L'ultima di queste barche bianche venne distrutta sei o sette anni fa" (il Caprin scrive nel 1890). "Più tardi, verso il diciassettesimo secolo, il diritto di pescare tanto nelle acque di fuori che in laguna, si scommetteva al gioco della sorte" . Cosi si è continuato a fare fino al presente, ma una canzone ancora oggi ben nota tra i pescatori ricorda l'antica gara. ' de valgia .. : di vaglia e di buoni polmoni. 2 seno: siamo. 68 •
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La Regata De regata se veno impignao E de bando no cagia a suah! Forza in pope! Quel remo a premando, Che a stagando la resta de qua: Si a sta gondola in banda a subiando Za j passeno de duta briva! Oeh! 'l porcuzzo ne meta de 'mpegno Pope e prova per fahjla tignih! Ala! primi a tocah 'ndeno 'l segno Per la megio seragia 'nçernih!
c) La Cria per un Nanelo No steno 'ntardigahçe o veh paura, Bisogna mandah Tono a fah la cria, E a cu lo cata dahj la cataura Senza badah per nome e gni siuria. Mo, in deo 'l me steva aval de una pitura E .. .roba de veciao de casa mia!
5 a premando: premendo; movimento del remo per far avanzare la barca; a sfagando: remo immobile o all'indietro per arrestarne la corsa. Nel regolare la rotta, a premando, la barca si dirige a sinistra, a sfagando invece verso destra; il ger. è accompagnato dalJa prep. a; cfr. en del francese. 9 '1 porcuzzo: evidentemente il premio. l no steno .. : non stiamo a ... (forma d'imper. negativo) _ 'ntardigahçe: attardarci. ~ la cria: dal veneto 'cria', mandare in giro il banditore; il termine è veneto o istriano e tale uso durò fino al primo anteguerra. " il banditore annunciava nei paesi dell'Istria che era arrivato il pesce o la frutta o la verdura " . A Grado si faceva per comunicazioni importanti di carattere pubblico, nel caso di oggetti smarriti o per qualche vendita particolarmente interessante. 3 dah) la cataùra: dargli il compenso per il ritrovamento dell'anello. 4 senza badah ... : senza badare al nome o al ceto (siuria). 6 roba de veciao: era cioè un gioiello antico.
Sto mamolo che '1 ziga ciaro eforte: "Uuu! eee! cu ha catao un nanelo de oro Lo porta in Ciesa oben Soto-Ie-Porte!" E per siguro 'ncuo lo varè in mano
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d) Gara de Contrà Qui! de in Cavo-de-Palasso E de in Corte, duti fora Li 'ntendeno sl e co un brasso Anche qui! in Borgo-de-Fora! Phu! de Piassa e Cul-de-Muro Ve sfideno sie per tre. Dcio eee! ... che caté '1 duro Se sto gatolo passé! 4 Ben, se l'anemo ve basta Ze bandio de coreh via! Ala! a pugni! e ben che i tasta! E i più sgagi fa partia. 9 Sofo-te-Porte: la casa col Leon, in Piazza Duca d'Aosta, un tempo adibita a Municipio, dove si apriva la Porta gronda, le cui tracce sono tuttora visibili nel muro esterno verso la Calle Lunga. Grado aveva sei porte . Oltre alla nominata Porta gronda c'erano la Porta picola demolita nel 1875 (Campo dei Patriarchi), Porta nova (verso Piazza XXVI Maggio) - entrambe rimaste nella toponomastica locale - Porta vecia (probabilmente nei pressi dell'Ospizio Marino) e le pustierne: S-ciusa (verso la laguna) e Capelana; (nel Protocollo Particelle dell'anno 1811, in Corte di Palazzo - il prato tra la basilica e il Capitello, oggi Piazza della Vittoria e Via Alfieri, - risulta nel numero dei proprietari, alla particella 632 la " Capellania di S.Antonio " ; tale porta secondaria doveva dunque trovarsi nel Campo adiacente alla basilica, detto semplicemente Corte). l quii de ... : Quelli di... Pur essendo piccolissimo, il paese aveva i suoi 'rioni' ed rione il suo partito, naturalmente nemico acerrimo di ogni altro. - Cavo-dePalasso: dierna Calle del Palazzo ricorda il sito dove sorgeva il palazzo del Conte di Grado, fatto costruire da Orseolo Il (1009-1026), . È il lato sud della mura, mentre, come abbiamo già visto Cavo-de-Muro (Cao, Coo, Cul-de-Muro) era la parte verso nord. Nel Protocollo particelle annesso alla mappa del 1811, il nominato lato sud porta il numero 640, la qualifica 'bastione' e la denominazione 'Capitello'. Di fronte al palazzo, fabbricato sulla muraglia, si estendeva la 'Corte di Palazzo', registrata con la qualifica 'prato', un vasto spazio che allora arrivava fino alla basilica di S. Eufemia (lnd.); il Borgo-de-fora era la zona al di fuori della cinta del 'castrum' (San Rocco-Via Gradenigo; v. anche nr. 3, v. 29). 3 li 'ntendeno: li sfidiamo. - co un brasso: i più audaci si facevano legare un braccio dietro la schiena e lottavano con quello libero. 7 caté: trovate. 8 gòto{o: ogni calle aveva nel mezzo una specie di scanalatura per lo scolo delle acque; un rigagnolo scorreva anche all'altezza di San Rocco, e in esso finiva anche l'acqua del pozzo artesiano (1900); comunque il gàto{o fungeva da confine.
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1. Gravo antigo De Gravo antigo la so storia ciara Gnissun la sa e la savarà per mai E tra quii che no cree me meta a gara. Co le marine mundi deslargae Qua gera de eia nome la fortessa Sul più levoso a giusta veritae; Cu dise che ebia qua dao zoso i fundi Cu, che de più 'l mar s'ebia solevao, Comò se veghe infora piere afundi. Ma co più sigurtae se sa de quando Gera Atila a destruzeh Naquilea Che a Gravo i Patriarchi 'i aveva brando, Lafe, e che se poi ben mostrah col dea Che in Ciesa tanti i so ossi'i li ha sepulti E 'l so palasso che 'ncuo 'l ze in bareo. Sora tante urne e sparse antichitae, Sto Gravo 'l veva più de vinti ciese, E donca j se poi dih: gera çitae: Che per ben creeh, ve basta ghitahj vardo A tantefondamente, in mar fondae
Co de San Vio Grisoveno e Gotardo. Ze nato puo Venessia, e i patriarchi Eia ne ha tolto e i siuri del paese E'I megio e'I bon, co le galie so barchi. De i primi di che Gravo j comandeva Puo 'la ze deventagia so parona E de Sa-Marco 'Ilion ne governeva. Da qui! di in qua, più sempre descagiando 'L ze 'ndao perdando case e anche marine Per via de '1 mar e de omini '1 comando. Za prima co i vigniva da l'uriente, Stao travagiao da i Greghi e Turchi in guera 'L ze, e sachizao, destruto da oltra zente. Che infin, da quii de Franza e dai Anglisi
Domenico Marchesini Co i bastiminti ze stao bombardao: Che col dahj luogo puo qua e 'sti parisi 'L ne ha brusao Canonega e l'Ufissio Co duti i libri e carte che spiegheva De Gravo sin al buo 'sto malifizio: Comò, se cussi tresca 'ste ristie Fa a dih: "da qua tre seculi, siguro, Dute 'ste case no sarà più in pie. " Ma a viveh sin quel tempo no me bramo! Se sa, che a dihve he co sinçeritae Za a st'ora, la gno vita me fa gramo: Che a duol tra i veci va 'vanzando etae Che voi canui, voi orbi e despussinti E a fah magnah panà co cage i dinti.
In Quistion De mati e savi al mondo Ze si 'sta soçia un ben, E un ben, pensando a fondo, Che belo lo sostien. Cussi i pitochi e siuri Che 'i viva ze razon, Comò che fra i duturi, 'Onorante, anche me sono Perchè se richi duti E sapientai se ze, No ze più beli e bruti Che col bai! fa sè. Se ze che tra sie mati Un savio insieme va, Mato vien elo, e imati Savi 'Ifa deventah. Perçiò in razon za ranzia Val sempre a megio pro 'L stah per la magioranzia Che pensa ben si o no. SI: cussinò magari Che ze gran peche e mal E in colpa de i somari 'Sti radighi soçial.
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De lenguistiga Sti leterai de grosso e fin talento Che '1 so capih sta drento int'un çistelo Megio i farave senza 'veh aria e stento Che 'i favelessa lisso e co çarve/o. Va 'Ifave/ah in dantin co se zefranchi E in dola che bisogna in veritae, Ma no tra relevai su istissi banchi! Co i guanti no va scarpe taconae! E pur qua fra i compari de dialeto Se missia drete e strupie toscanae Col remenah amia Crusca e fahj l'açeto A più bastarde mal gramaticae: Co usah tra i verbi in gara co Trieste 'L condizionai per ma corelativo, Che a la sintassi j ponze e qua desveste De tal so forma 'I fave/eo nativo. Cussipur digo a çerti che afamai La boca 'i se sparlanca mal-graisana Per pronunziah de gloria sublimai La E e la O co modula furlana. Ma forsi a causa ze fi!ologia De indian Chinese e Turco infacoltae? Passenzia se 'i pastrocia CO 'i ze via, Ma che 'i desmeta qua, per caritae!
Domenico Marchesini
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De sto dialeto
(a eli che lo desdegna e pastrocia) In veritae, capindo fa despeto, Che a Gravo mundi 'i 'ntenda pe sbravura A despreziah la patria in garghe 'speto 'Gnoranti de lenguistiga cultura. De 'ntoscanah vernaculi ze s-cieto Che 'ncuo 'I progresso vogia, e se procura Ma pur tra 'sti compari de dialeto Me sta che faga rieh e che desfigura. Si ze stomegarie che no le ha paria Che col tocah de l'eco o del somaro Più de un, int'i descursi per dahse aria A Dante e çiçeron j tò '1 tabaro; Fiorentinae de stampa straordenaria 'I te spua drento senza vegheh ciaro. E quii che se pretende indotorai e de savehlo ben, senza aveh base 'I merita, laf è, d'esseh impalai Senza 'ncolpah filologia che tase.
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Echi de canzon vece a) Mo, dona mare Mo, dona mare, le campane sona Che i Turchi se desbarca a la marina, Per portah via le zovene, 'i minsona, E dahjle a la bandiera saraçina! luogheme s-cieta s-cieta, mare mia! Preghé '1 Signor, preghé Gesù e Maria! b) Vardela là Vardela là che 'la me par 'na santa Co 'la vien per de qua che 'la va a messa. Co quel sestin che a veghehla 'la 'ncanta Che 'la sumigia al fah de una badessa. Co i noni in pie e '1 fassoleton in cavo Varéla là che ze l'onor de Gravo. a) canson vece: nel manoscritto, una nota dello stesso Marchesini dice: " Notate dai ricordi di mia fanciullezza sino all'anno 1860 " . È naturalmente molto difficile, se non impossibile dire con esattezza fino a che punto arrivi la 'ricostruzione' e quali siano le parti autenticamente vece. Comunque, la mano del Marchesini si sente già dal secondo frammento e diventa anche fin troppo evidente ne " gli ultimi quattro. Il Caprin non include nel capitolo 'Canti lagunari' le presenti canson vece, mentre per due 'canti' cita il nostro Marchesini (come già accennato nella prefazione, si tratta probabilmente dei canti 9 e 12, i cui motivi si ritrovano in 'Colò e Leta' e 'A cason e in lole'. I primi tre frammenti di questa serie di canson vece vennero pubblicati anonimi nel 1896 (Pagine Friulane, IX,4, 18.6.1896) e, sempre come anonimi, vengono ripresi da M. Cortelazzo (Il dialetto di Grado ecc.), che a proposito della prima canzone nota: "Notissimo il motivo in tutta Italia, ma ancora una volta diluito e distorto nei suoi elementi fondamentali in altri centri, come nella stessa Venezia, dove il verso di avvio ... è subito perduto e confuso con un altro motivo ... mentre a Grado è conservato integralmente il tema della paura delle incursioni turchesche e delle loro conseguenze" . Oltre a qualche lieve differenza di grafia (minzona, Giesùj nella ripresa di M. Cortelazzo osserviamo le varianti: che i Turchi ze rivai za quà in marina - Che i vien robah.. - Per dahile ... A Grado la marina di ponente è chiamata Marina de i Turchi. "' 'i minsona: menzionano, dicono. 5 luoghéme: nascondetemi. b) vàrdela: guardala; in Pago Friul. e M. Cortelazzo (ibid.) con le varianti: " Co la vien par de qua.. - ... veghela ... - L 'ha la sumigia e '1 fà d'una badessa - Coi noni in piè e col fazzoletto in cavo - Vardela là che la zè l'onor de Gravo " . Il par del primo verso è friulano; i due ultimi presentano anche un ritmo diverso: la esatta accentuazione gradese è pie.
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c) Quando co me Quando co me 'la baia la manfrina No, no 'la fila e gni 'la zuoga 'i dai; Ze una colomba e ze una canarina Che cu la veghe 'i resta 'namorai! SI' sr' 'la sbola, sI' quela gno stela De le gonele zale, Anzola bela! d) Mo siela benedeta Mo siela benedeta furbaciona No 'la sa 'mpigiah '1 fogo senza rieh Co 'la va urihse l'aqua 'la minciona Cu che va igiahjla in cavo e j fola i pie. Ma a me, che 'la sa de esseh gno parona, Co vago, 'la me ciama: carne mie! e) Sì, là a Venessia bela SI: là a Venessia bela benedeta Che Gravo j ha dao in man i patriarchi, Che ze la nostra riva che ne speta E j toca a dahne luogo i oltri barchi; Là SI: co barca nostra o de i marcanti Ndareno pe 'sta Sensa liegri e in tanti Vardah i Remagi e a fah la devozion. c) manfrina: monferrina; varianti (I. cit.) monfrina - ai dai ... - ... 'i cagia 'namorai - De le gonele biave Zuana bela! d) l siela: sia ella. 4 igiahjla: sollevargliela. 6 dama: chiama. e) 2 i Patriarchi: Giovanni Gradenigo stabilisce nel 1105 la sua dimora a Venezia. Si inizia così il trasferimento della sede metropolitana gradese in quella città, sanzionato definitivamente dal Papa Nicolò V che nel 1451 elevò alla dignità patriarcale l'antica sede di Olivola o Castello, riducendo Grado a semplice pieve soggetta al nuovo patriarcato: S. Lorenzo Giustiniani, vescovo di Castello fu il primo patriarca di Venezia . J La nostra riva: San Silvestro; il patriarca di Grado Enrico Dandolo fa qui erigere (1156) il palazzo dei patriarchi gradesi . 4 e j toca .. : e le altre barche devono cederci il posto. 5 de i marcanti: non esistendo con Venezia collegamenti regolari e organizzati, chi non possedeva una barca propria doveva servirsi di quella di qualche mercante. Per la Sensa V.