Gente di bracciano marzo 2015 n 2

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Marzo 2015 numero 2


Marzo 2015 numero 2 Marzo 2015 numero 3

Dedicato a Gabriella Editore Associazione Gente di Bracciano Presidente Claudio Calcaterra Direttore responsabile Graziarosa Villani Redazione Francesco Mancuso Vittoria Casotti Mena Maisano Biancamaria Alberi Luigi Di Giampaolo Collaboratori Massimo Giribono Registrato al Tribunale di Civitavecchia n. 1388/2014 Foto di Copertina Tiberio Ferri Per questo numero Stampa Tipografia Camponeschi - Bracciano Progetto Grafico Simone Camponeschi

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I perchè di questa rivista

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ià, perché “Gente di Bracciano”? Molti mi hanno fatto questa domanda, ma a mio avviso, la risposta è nei fatti. Mi spiego meglio: mai come in questo momento sorgono e, in alcuni casi, direi “spuntano” riviste, giornali e giornalini dai nomi più strani e, alcuni, contrassegnati da sigle pittoresche. Qualcuno dirà: “E allora che bisogno c’era di un’altra rivista?” Intanto: se nascono tante riviste, giornali e giornalini vuol dire che c’è voglia di conoscere i fatti, le iniziative e i problemi del territorio in cui uno vive.Molti di questi giornali e di queste riviste sono però “politiche”. Non mancava forse una rivista che parlasse della “Gente di Bracciano” dei suoi personaggi, delle loro storie ma anche di personaggi “storici” e facesse rivivere le belle tradizioni di questo paese, e così non si perdessero nel tempo? I giovani di oggi, ma non solo loro, sono distratti dal richiamo di tante sirene e confusi da tante proposte contraddittorie, ecco far rivivere antiche tradizioni, far riscoprire alcune caratteristiche del tessuto sociale in cui vivono, insieme al “vissuto” di quelle persone che hanno contribuito a caratterizzarlo, mi sembra, non solo interessante, ma davvero importante. Allora, attraverso “Gente di Bracciano” e alle sue “storie”, sono convinto che possa trovare o ritrovare quello spirito che ha aiutato e che aiuta tutt’ora ogni persona ad essere pienamente se stessa e a comprendere come le sue capacità si rivelino appieno e si esaltino nel sociale. In questo modo ciascuno incide, non importa se poco o molto, nella realtà in cui vive. Luigi Di Giampaolo

“I Pecoroni”

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nessuno fa piacere sentirsi dare del pecorone, figuriamoci a noi gente di Bracciano! Se riflettiamo un istante però, forse, più di una volta ci siamo comportati come coloro che, senza “mettere in moto” la propria intelligenza, hanno seguito il gregge, da pecoroni. Appunto. Eppure, ognuno di noi preso singolarmente, ha un certo livello di cultura, di esperienza, di dignità. E’ una persona, insomma, capace di ragionare e di dare perfino, anche se non troppo spesso, dei buoni consigli. Tuttavia, non nascondiamocelo, alcune volte ci siamo lasciati “imbrancare”, ed abbiamo seguito qualche venditore di fumo o giocoliere di parole che ci ha illuso con sogni di facili ricchezze e con felicità a buon mercato.No. Con i tempi che corrono non si può essere “pecoroni”, neppure per un istante. Allora? Allora dobbiamo stare molto attenti: non possiamo dare la nostra fiducia a chi, molto spesso, se ne serve per i propri interessi. Lo avete notato? Questi falsi pastori, pieni di presunzione fanno di tutto per farci diventare un gregge belante.Il gioco è ormai chiaro e il “trucco” non funziona più. Osserviamoli attentamente questi falsi pecorari. Appaiono un po’ dappertutto: alla televisione, alla radio, sui giornali, sui muri, con il volto sempre sorridente che sembra dire “non so quello che debbo dirti, ma sorrido lo stesso”. Sono convito, ma sono sicuro di interpretare la vostra volontà, che a questa “specie” di pecorari bisogna fare qualcosa: mandarli da qualche parte, per aiutarsi, si capisce! Dove? Magari in montagna, con un paio di robuste ciocie, un bel mantello di capra, senza bastone, perché potrebbero farsi male ed anche uno zufolo. All’aria aperta potrebbero meditare e in qualche raro caso rinsavire. Chissà con un pezzo di pane ed acqua fresca di ruscello imparerebbero ad avere più rispetto per la natura e per le persone che la abitano. E allora? “Pecoroni”? Ma va là!! L.D.G. 2

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Rita Levi Montalcini 103 anni spesi nella ricerca. Nobel per la Medicina nel 1986 per il fattore di crescita nervoso

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ata in una famiglia ebrea sefardita, figlia di Adamo Levi, ingegnere elettronico e matematico e della pittrice Adele Montalcini, nel 1909 Rita nacque insieme alla sorella gemella Paola. I genitori, molto colti, instillarono nei figli l’amore per la ricerca intellettuale. Nonostante l’ostilità del padre, Rita decise nel 1930 di studiare medicina all’Università di Torino. La scelta fu determinata dal fatto che in quell’anno morì di cancro la sua amata governante Giovanna Bruatto. A vent’anni entrò nella scuola medica dell’istologo Giuseppe Levi (padre di Natalia Ginzburg), dove cominciò gli studi sul sistema nervoso. Ebbe come compagni universitari due futuri premi Nobel: Salvador Luria e Renato Dulbecco. Tutti e tre furono studenti di Giuseppe Levi verso il quale si sentirono in debito per aver insegnato loro come affrontare i problemi scientifici in modo rigoroso, in un momento in cui tale approccio era ancora abbastanza inusuale. Fu lo stesso Levi a introdurre in Italia il metodo di coltivazione in vitro. Nel 1936 il rettore dell’Università di Torino, Silvio Pivano, le conferì la laurea in Medicina e Chirurgia con 110 e lode. Si specializzò poi in neurologia e psichiatria, ancora incerta se dedicarsi completamente alla professione medica o alle ricerche in neurologia. A seguito delle leggi razziali del 1938, Rita fu costretta a emigrare in Belgio con Giuseppe Levi. Fu ospite dell’Istituto di Neurologia dell’Università di Bruxelles dove continuò gli studi sul differenziamento del sistema nervoso. Poco prima dell’invasione del Belgio tornò a Torino dove, nel 1940, allestì un laboratorio domestico nella sua camera da letto. Ad ispirare i suo studi un articolo di Viktor Hamburger del 1934 sugli effetti dell’estirpazione degli arti negli embrioni di pulcini. Presto si unì a lei nelle ricerche anche Giuseppe Levi. Il loro obiettivo era comprendere il ruolo dei fattori genetici e ambientali nella differenziazione dei centri nervosi. In quel laboratorio Rita scoprì il meccanismo della morMarzo 2015

te di intere popolazioni nervose nelle fasi iniziali del loro sviluppo, fenomeno riconosciuto solo tre decenni più tardi (1972) e definito con il termine apoptosi. Il bombardamento alleato di Torino nel 1941 la indusse a rifugiarsi nelle campagne di un paese astigiano, dove ricostruì il suo minilaboratorio e riprese gli esperimenti. Nel 1943, sotto l’occupazione tedesca, lasciò il rifugio ormai pericoloso. I Levi-Montalcini nel 1943 restarono a Firenze, divisi in vari alloggi, sino alla liberazione della città, cambiando spesso casa per non incorrere nelle deportazioni. Una volta furono salvati da una domestica, che li fece scappare appena in tempo. A Firenze, Rita fu in contatto con le forze partigiane del Partito d’Azione e nel 1944 entrò come medico nelle forze alleate. Nel 1944 divenne medico al Quartier Generale angloamericano e fu assegnata al campo dei rifugiati di guerra trattando le epidemie di malattie infettive e di tifo addominale. Qui si accorse però che quel lavoro non era adatto a lei, in quanto non riusciva a costruire il necessario distacco personale dal dolore dei pazienti. “Era in corso – ricordò - un’epidemia di tifo, i malati morivano a decine. Facevo di tutto, il medico, l’infermiera, la portantina. Giorno e notte. E’ stato molto duro e ho avuto fortuna a non ammalarmi”. Dopo la guerra allestì un laboratorio di fortuna nella casa vicino ad Asti. Nel 1947 il biologo Viktor Hamburger la invitò a St. Louis, a prendere la cattedra di docente di Neurobiologia al Dipartimento di Zoologia della Washington University. Quella che doveva essere una breve permanenza si rivelò poi una scelta trentennale. Fino al 1977 rimase negli Usa, dove realizzò gli esperimenti che la condussero, nel 1951-52, durante la sperimentazione di un trapianto di tumore di topo sul sistema nervoso dell’embrione di un pulcino, alla scoperta del fattore di crescita nervoso, una proteina che gioca un ruolo essenziale nella differenziazione delle cellule nervose sensoriali e simpatiche. Nel 1956 fu nominata professore associato e nel 1958 ordinario di zoologia alla 3

Washington University di St. Louis e vi insegnò fino al pensionamento del 1977. Il Nerve Growth Factor (NGF), o fattore di crescita nervoso, e sul suo meccanismo d’azione, le valsero nel 1986 il Premio Nobel per la Medicina insieme al suo studente biochimico Stanley Cohen. “La scoperta dell’NGF all’inizio degli anni Cinquanta è – dice la motivazione - un esempio affascinante di come un osservatore acuto possa estrarre ipotesi valide da un apparente caos. In precedenza i neurobiologi non avevano idea di quali processi intervenissero nella corretta innervazione degli organi e tessuti dell’organismo”. Molti i riconoscimenti. Ormai celebre Rita ha fondato nel 2001 l’Istituto Europeo di Ricerca sul Cervello (Fondazione EBRI, European Brain Research Institute), dove ha proseguito, fino a poco tempo prima di morire, la sua attività di ricerca. A 90 anni è diventata parzialmente cieca a causa di una maculopatia degenerativa. Nel 2009, giungendo all’età di cento anni, è stata la prima tra i vincitori del Nobel a varcare il secolo di vita. E’ stata anche la più longeva tra i senatori a vita in carica e della storia repubblicana italiana. Più anziano di lei fu il senatore del Regno Giovanni Battista Borea d’Olmo, vissuto fino all’età di 105 anni. In occasione del compimento dei cento anni disse: “Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo: io sono la mente”. In suo onore è stato nominato l’asteroide 9722 scoperto nel 1981. Rita Levi Montalcini muore il 30 dicembre 2012, a 103 anni, nella sua abitazione romana di viale di Villa Massimo, nei pressi di Villa Torlonia.Il 31 dicembre viene allestita la camera ardente al Senato e il giorno seguente la salma viene trasferita a Torino, accolta da una breve cerimonia privata con rito ebraico. Il 2 gennaio 2013 si svolgono i funerali in forma pubblica. Dopo la cremazione, le sue ceneri sono state deposte nella tomba di famiglia nel campo israelitico del Cimitero monumentale di Torino. A Cura di Claudio Calcaterra Gente di Bracciano


Persichella impresa e creatività

foto di Salvatore M.

Da David ad Andrea, passando per Alfredo

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avid Granatelli era al fronte nella Grande Guerra. Quando poteva scriveva alla moglie e chiedeva notizie della famiglia, era l’unica ventata di aria fresca in quei giorni bui. Quando nacque Elsa, la primogenita, si presentò al mondo con due guance di rosa purpurea e David, dall’inferno della guerra, chiedeva come stesse la sua adorata “Persichella”, la sua pesca rosata, non sapeva che stava dando il nome a una “stirpe” che avrebbe contribuito alla crescita di Bracciano. La persica, insieme al persico lo si trova ancora nei tovaglioli per chi ha il piacere di andare a mangiare da “Alfredo”, la terrazza sul lago. David da civile faceva il carrettiere, un po’ di muli, un terreno dove tenerli, un carretto e via, su e giù per Bracciano, a portare oggetti e persone. Le voci narranti sono di Elvira e Anna, le figlie di Alfredo, il terzo figlio di David. David era un tipo fantasioso, diede Marzo 2015

nome Eros alla sua seconda figlia perché era il nome della fidanzata dell’ufficiale a cui faceva da attendente. Quel nome lo conquistò, doveva avere un animo romantico e così incoronò la figlia di un nome che sapeva di amore, nulla importava che fosse maschile. Poi venne il tempo della vecchiaia, era faticoso il mestiere di carrettiere, così il figlio, Alfredo, vendette i muli, che avevano cominciato a lasciare qualche livido sulla pelle di David, il terreno, il carretto e lo mise a godersi il meritato riposo. Alfredo era un ragazzo forte, ambizioso, intraprendente. Nacque nel 1920, prese la 5^ elementare, e non era scontato in quei tempi, e cominciò subito a lavorare. Lo zio, Goffredo Sala, lo prese a Roma e gli insegnò il mestiere di carpentiere. Acilio, nome della gens romana Acilius che fondarono la cittadina di Acilia, e Curzio, forse preso dallo storico romano Quinto Curzio Rufo, erano i figli di Goffredo, che doveva essere un amante dell’antica Roma per donare ai suoi figli nomi così densi di storia. Alfredo e i figli di Goffredo crebbero insieme e divennero inseparabili monelli, a cui piaceva giuocare e sgarbare. Crescevano per le strade 4

dei Parioli dove i Sala abitavano e costruivano. Ogni tanto venivano chiamati per fare qualche lavoretto e guadagnare qualche soldo, si trattava di pulire i cantieri alla fine della copertura, di raccogliere i chiodi, di ordinare i ferri, nonché di chiudere, armati di cazzuola e poca calce, i buchi che rimanevano quando venivano tolte le impalcature. Ma la calce non bastava mai. Un giorno venne loro un’idea che nessuno saprà mai quale dio dei dispetti, o dell’immaginazione, abbia potuto pensarla. Presero i pranzi degli operai, pasta, pane e cicoria e con quel materiale “crearono” dei blocchetti per tappare i buchi. Nessuno sa come finì la storia, si sa solo che quel giorno gli operai digiunarono. Il giovane Curzio divenne anche un buon pugile, un peso medio, gli annali riportano che fece cinque incontri vincendoli tutti. In un’ intervista di Decio Lucarini all’ottantunenne Cesaretto De Santis, famoso talent scout romano e allenatore di giovani promesse pugilistiche, questi narra “degli anni gloriosi della palestra l’ l’Audace che ospitava il popolarissimo Barbaresi, poi Fiermonte e Palmucci, Ubaldo e Ceccarelli, De Carolis e Curzio Sala, Leopardi e i Marfurt, Ansini, Girolami e LuGente di Bracciano


cioli, il formidabile terzetto dei pesi mosca Sili, Varani e Magliozzi, quindi gli Alleori e Berardi”… Poi i tempi si fecero difficili e Acilio Sala emigrò a Buenos Aires, dove divenne un importante imprenditore edile. A ventuno anni Alfredo parte per la leva militare a Vigna di Valle, è il 1941, siamo già nell’orrore della seconda guerra mondiale, ma finisce la leva presto. Il fatto è che morì il fratello di sua moglie, Filomena, e lui divenne l’unico sostentamento della famiglia. Così seguitò a lavorare con lo zio, finché non fa il grande salto e si mette in proprio. Intanto studia per corrispondenza da geometra e impara a fare i calcoli del cemento per costruire palazzi, la sua avventura nella vita. Il primo palazzo lo costruisce sulla via Claudia, all’entrata di Bracciano, all’altezza del distributore di benzina, poi costruisce case coloniche sui terreni degli Scorsolini, a Vicarello, poi costruisce il circolo ufficiali di Vigna di Valle, lui progetta le sue case e assume personale, giovani muratori e padri di famiglia. A Elvira e Anna s’illuminano gli occhi quando parlano del padre, lo hanno amato e lo amano profondamente. Elvira racconta che a diciotto anni le regalò la sua prima macchina, una mini-spider, ma per un motivo originale. Aveva paura che la sua cara figlia potesse farsi del male, così pensò ad una macchina con il motore anteriore, non la cinquecento che davanti era sguarnita di peso e resistenza. Lui aveva una Lancia beta Montecarlo con motore posteriore e per evitare gl’impennamenti, possibili per la mancanza di peso anteriore, il motore era dietro, rinforzava il cofano con solidi blocchetti delle case che costruiva. A volte, quando doveva festeggiare la copertura del tetto con i suoi operai, o per qualche altro motivo che non mancava mai, rinforzava la trazione anteriore con cassette di vino. Era un tipico vino braccianese chiamato Micchelino, noto a tutti i braccianesi comp

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Alfredo Granatelli con la moglie Filomena Signorotti

gni di bevute e d’allegria, che serviva a rendere allegre le serate di festa. E con quel vino rubizzo Alfredo festeggiava con i suoi operai le sue imprese e il loro lavoro, binomio inscindibile per creare prosperità. Il vino finiva sempre e allora, quando ripartiva, giù con nuovi blocchetti. Gli operai gli volevano bene. Alfredo era una sorta di strano e controverso Robin Hood. Sul libretto degli operai, invece delle marchette, metteva francobolli, poi li aiutava a farsi casa, le case che lui costruiva. Un giorno arrivò in cantiere una moderna macchina per intonacare le pareti dei palazzi che costruiva. Come tutte le innovazioni tecnologiche aveva la conseguenza di ridurre la mano d’opera. Allora Alfredo, che non voleva licenziare nessuno, usò uno stratagemma. Costituì due squadre, una che doveva lavorare con la macchina e un’altra con il vecchio sistema manuale…vediamo cosa conviene, disse ai suoi operai. Vinsero i manuali che pur di battere la macchina misero in atto turni e velocità di lavoro sbalorditivi. La macchina

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continuò a lavorare e anche i manuali, con una redditività molto più alta di quando la macchina non c’era, ma senza che nessuno fosse licenziato. Alfredo aprì a Bracciano una palestra di boxe per permettere ai giovani braccianesi di fare sport, era il suo modo d’investire per il benessere del suo paese. Allenatore delle giovani promesse, c’erano molti dei suoi operai, era Freddie Mack, un nero gigantesco a cui tutta Bracciano voleva bene. Una lunga storia la sua. Era nato in una piantagione di cotone del South Carolina. Sua madre, per le strane coincidenze astrali che si condensano nella vita, si trovò a lavorare in un ristorante di Bracciano. Freddie era stato introdotto alla boxe da un amico di Floyd Patterson, campione del mondo dei massimi negli anni Cinquanta, dove apprese i rudimenti della nobile arte. Non apparve vero ad Alfredo di affidare la cura della sua palestra a cotanta sapienza ed energia pugilistica, così Freddie si ritrovò a lavorare, tra ring e sacchi, nella palestra che Alfredo aveva messo su, forse ispirato proprio dalle imprese di Curzio. Era una strana palestra frequentata da giovani braccianesi e dagli operai dei cantieri di Alfredo. Per gli aspiranti boxeur operai tutto cominciava nei cantieri, dove, tra loro, volavano sfottò e smargiassate, che poi regolavano in palestra dove se le davano di santa ragione, forse per dimostrare chi era il più bravo, il più fico del reame, ma sempre tra risate e sollazzi vari, l’amicizia non si toccava! Quasi un intermezzo musicale, un andante con brio, tra il cantiere e la palestra. I vecchi braccianesi si ricordano ancora di alcuni di loro: Francesco Viarengo, Bruno Catena, Salvatore Morbidelli, Franco Silvestri, gli altri sono spariti nelle nebbie della memoria di tempi lontani, sempreché non vivano, seppure dimenticati in qualche cassetto chiuso, nella memoria di qualche vecchio amico a noi sconosciuto. Ma torniamo ad Alfredo. Elvira e Anna raccontano che costruì tre palazzine attorno all’ospedale vecchio, lì c’erano anche le sue rimesse di materiale edile dove una ban-

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Alfredo, la moglie, la figlia Elvira e i primi dipendenti negli anni Sessanta

da di ragazzini terribili andava spesso a giuocare, facendo danni. Solo Alfredo riusciva a spaventarli, quando lo sentivano arrivare correvano via come lepri urlando via, via, arriva Persichella! Arrivarono a costruirsi un tunnel per nascondersi e rimanere nei paraggi. Ogni tanto s’intrufola amabilmente Andrea, il figlio di Elvira, che ha deciso, insieme al fratello Rodolfo, di ammodernare e rendere sempre più ospitale l’albergo e il ristorante dei “Persichella”. L’albergo inizialmente doveva

Andrea Formaggi

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essere la casa della famiglia di Alfredo, lui aveva scelto quel luogo sul lago e cominciato a costruire la sua casa. Gli capitò l’ostilità della moglie che stava bene dove già abitava e che dichiarò che non sarebbe mai andata a vivere in un pantano. Alfredo era un gran bell’uomo, amava teneramente sua moglie, ma le donne erano per lui calamite, le mie fragole, amava chiamarle. Usava un parfume da puzzola incantata per confondere gli odori fragolosi che si sedimentavano nella sua Lancia beta. Una sera la sua dolce metà decise che il suo Alfredo aveva passato il segno, così mentre era sdraiato sul letto gli rifilò una dolce seggiolata addosso, Alfredo capì, non disse nulla, si rannicchiò su sé stesso e la mattina dopo trovò preparata una ricca colazione che consumò allegramente con la sua dolce metà. Ma facciamo un passo indietro. Nel 1958 Filomena aprì in via dell’Ospedale Vecchio un ristorante: Persichella si chiamò. Il ristorante ebbe un buon successo, poi subentrò una nuova gestione. Nel 1991, Andrea, finito il militare, insieme al fratello Rodolfo, riprese l’azienda che intanto si era chiamata “la Fontanella”. I due fratelli promossero una cucina “casereccia” e lanciarono il menù fisso a prezzi fissi 6

per conquistare le clientele dei lavoratori delle Asl, del Comune, delle caserme, delle comunità di lavoro di Bracciano. ­E’ stata la loro gavetta prima di intraprendere l’albergo e il ristorante sul lago, dove hanno lavorato a lungo le figlie di Alfredo, Elvira e Anna. E la vita presenta sempre le sue curiose ricorrenze e ricorsi storici. Alfredo permise al padre David di vivere una vita serena, senza “muli” e pensieri, così, ora, Andrea e Rodolfo, pur sotto il loro occhio vigile e amorevole, permettono alla madre e alla zia di godersi serenamente il frutto del loro lavoro. La chiacchierata è avvenuta davanti al camino del ristorante, un camino benedicente il riaffiorare di memorie, a volte allegramente spaventate di divenire racconto pubblico, a volte divertite del riaffiorare di fatti inediti, ciascuna all’altra, della loro vita. Non è stato facile lavorare il racconto di Persichella, un puzzle denso di affreschi, schizzi, suggestioni, che è stato simpaticamente impegnativo cucire insieme per provare a farne un vestito, o almeno un patchwork. Grazie ad Elvira, Anna, Rodolfo e Andrea, che adesso si chiama anche lui Persichella. Francesco Mancuso­­­­

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a l b e r g o /R i s t o r a n t e

Alfredo “da Persichella� Via della Sposetta vecchia,1 00062 Bracciano tel 06 99 80 55 85 - fax 06 99 80 91 40 www.alfredopersichella1960.it info@alfredoperischella1960.it

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Controcorrente 6 Ricorda sempre che sei unico, esattamente come tutti gli altri (Anonimo)

L’

esperienza formativa di ciascun essere umano è costantemente attraversata e costellata da continue presenze dell’altro. Le relazioni interpersonali sono di fatto una “galleria di volti e voci” che irrompono nel nostro spazio vitale e ai quali rispondiamo in forme differenti e ciascuno, a suo modo, in forma singolare. Entrare in relazione con l’altro vuol dire entrare in contatto con un’altra identità, cioè

ra, ansia, sospetto. Basti pensare a quanto la presenza di alterità sessuali, degli immigrati, di portatori di handicap o dei cosiddetti caratteri difficili, creino notevoli difficoltà relazionali, quando non direttamente la ripulsa, all’interno dei gruppi identitari.

con qualcuno che è “diverso” da me. E attraverso questo gesto, oltre a sviluppare maggiore coscienza della mia identità, io posso diventare una persona migliore o, comunque, più riflessiva, grazie all’alterità incontrata.

to, l’incontro con l’altro potrebbe essere in certi casi anche scontro, ma non sarebbe mai discriminazione. E l’incontro diventerebbe scoperta e affermazione della propria identità e, contemporaneamente, valorizzazione delle differenze.Invece è il pregiudizio, inteso proprio come giudizio superficiale non avallato da fatti, ma da opinioni, il motore che a volte muove le azioni e i comportamenti di tutti noi, che condiziona le nostre relazioni sociali, ostacolando le opportunità di contatto, incontro, esplorazione, scoperta, che sono i fondamenti del rapporto con l’altro da sé. Ma il pregiudizio non è innato, ha piuttosto il suo fondamento nelle influenze familiari, ambientali, sociali, e si struttura già dalla prima infanzia. Pertanto, se crediamo sia giusto cercare di limitare il più possibile l’insorgere di pregiudizi, è fondamentale intervenire a livello scolastico, educativo, familiare per fare della diversità una vera ricchezza, un nuovo paradigma educativo e per stimolare i bambini e i ragazzi a pensare criticamente piuttosto che dir loro quello che devono pensare.

Eppure a volte, a livello sociale (e, spesso anche a livello educativo) si cerca di annullare la “diversità” che ci rende tutti così meravigliosamente unici, si tende a lavorare più sulla massa che sull’individuo, a creare universi omologati, comunità di simili dove il singolo si possa identificare con il gruppo, e questo comporta che, spesso, la pluralità dei soggetti non sempre viene rispettata. Così l’alterità e la diversità vengono attribuite non a ciascun individuo in quanto essere differente da un altro, ma solo ad alcuni che presentano “particolari caratteristiche”, che li rendono dissimili rispetto all’omologazione del­­ gruppo. Ed è proprio per questo che la presenza dei cosiddetto “diverso” nella società genera conflitti, mette in crisi il normale funzionamento del sistema e condiziona in modo forte la formazione e la crescita dei singoli, ancor più quando si tratta di bambini e/o adolescenti. La “diversità” è cioè spesso vista in chiave negativa, come “minaccia” della propria identità e per questo la presenza dei “diverso” frequentemente genera sentimenti di pauMarzo 2015

Se si riuscisse invece a percepire la “differenza” non come un limite alla comunicazione, ma come un valore, una risorsa, un dirit-

In quest’ottica uno dei compiti della società, e in primis della scuola dovrebbe essere quello di educare alla differenza, all’altro, al diverso, per creare i presupposti di una cultura dell’accoglienza e per impedire l’omogeneizzazione culturale. La nostra ricchezza collettiva è data dalla nostra diversità. L’al8

tro, come individuo o come gruppo, è prezioso nella misura in cui è dissimile. Oggi più che mai la scuola dovrebbe educare gli studenti a considerare il diverso non come un “pericolo” per la propria sicurezza, ma come “risorsa” per la sua crescita. Tuttavia una vera pedagogia della differenza si esprime non certo in prediche e indottrinamenti, né con tecniche di persuasione più o meno sofisticate, ma anzitutto sperimentando quotidianamente la realtà di una società come una “comunità di diversi”, che non emargina chi non è “uguale” o chi non è in grado di seguire il ritmo dei migliori. E’ chiaro che, perché tutto ciò avvenga, è necessario porre come elementi centrali della relazione educativa l’ascolto, il dialogo, la ricerca comune e l’utilizzo di metodologie attive e di tecniche d’animazione in grado di sviluppare le capacità critiche, di porsi delle domande, di imparare a mettersi nei panni altrui, di attivare delle reti di discussione, di uscire dagli schemi, di essere creativi e divergenti. Io sono, un pronome e un verbo che usiamo in continuazione, poi arriva il sostantivo, senza sé e senza ma…io sono cattolico, io sono musulmano, io sono ebreo, io sono italiano, io sono pisano e tu sei livornese, io sono livornese e tu sei pisano, io sono ariano, io sono potente, io sono, io sono, io sono, una cantilena densa di esclusioni, di scontri, di segnali di guerra. Il primo Io Sono forte e chiaro lo troviamo nella Bibbia nel libro dell’Esodo (Es 3,14-15): Dio disse a Mosè: «Io sono Colui che sono!». 3 Il problema è che fatichiamo a dare un senso alla nostra vita se non ci identifichiamo, se non ci raccontiamo chi siamo. Mi chiedo spesso se è possibile non chiudersi nella gabbia del chi sono che abbiamo deciso di esGente di Bracciano


sere, ma di aprire le porte agli altri io sono. Detta così la questione sembra di facile soluzione, basterebbero un po’ di buoni sentimenti per permettere all’amore e alla fraternità di sbaragliare il perfido nemico, ma la storia e l’esperienza ci raccontano delle fatiche e dei guai che spesso intervengono nell’incontro con l’altro. Non esiste una regola matematica che possa orientarci, si può solo provare ad esercitare una grande disponibilità all’ascolto, al vivere positivamente anche le fatiche e le delusioni che possono capitare nell’incontro con l’altro, al razionalizzare quello che a volte diventa l’impossibilità di vivere insieme, a reprimere gli istinti violenti che albergano dentro noi. A volte, però, malgrado i nostri sforzi è l’altro che è chiuso nella gabbia dell’io sono senza sé e senza ma, che fare allora? Come ho già scritto nel controcorrente 2 Einstein, nel luglio del 1932, presago dei terribili guai che il nazismo avrebbe provocato, scrisse una lettera a Freud chiedendo a lui, profondo studioso dell’animo umano, come fosse possibile liberarsi della violenza, della guerra, dell’istinto dell’annientamento dell’altro, del diverso. Freud, nel settembre dello stesso anno, gli rispose che da tempi immemorabili l’umanità è soggetta al processo dell’incivilimento. Dobbiamo ad esso il meglio di ciò che siamo

divenuti e buona parte di ciò di cui soffriamo. Le sue cause e origini sono oscure, il suo esito incerto, alcuni dei suoi caratteri facilmente visibili…aggiungendo, subito dopo, che la “velocità” di questo processo è eguale a quella di quei contadini che hanno portato grano al mulino per avere farina e mangiare, ma questo è talmente lento che rischiano di morire di fame. Una risposta lucida, ottimisticamente pessimista o pessimisticamente ottimista, come voi desiderate. La sera, in quel magico momento prima di addormentarmi in cui parlo con me stesso senza remore, mi racconto che io mi sento quella risposta e che già sentire questa empatia mi apre all’ascolto, al dialogo, a quello possibile, seppure nei tempi del mulino. Non nascondo che non riesco a trovare “una conclusione” a queste mie parole in libertà, troppo arduo chiudere un tema come questo in due paginette, troppo vischioso, troppo denso di trappole umane e filosofiche, troppo pieno di accadimenti terribili che si sono snodati e si snodano tuttora sotto i nostri occhi per pensare di chiuderle con qualche accenno di razionalità. Allora ho cercato qualche poesia che potesse esprimere questo mio sentimento, questo mio bisogno, ho navigato per una mattina intera alla ricerca di una poesia dell’io sono,

finché non mi sono imbattuto in quella di Penna d’Aquila Danzante: Io sono una roccia, ho visto la vita e la morte, ho conosciuto la fortuna, la preoccupazione e il dolore. Io vivo una vita da roccia.Io sono una parte di nostra Madre, la Terra. Ho sentito battere il suo cuore sul mio,ho sentito i suoi dolori e la sua gioia. Io vivo una vita da roccia. Io sono una parte di nostro Padre, il Grande Mistero. Ho sentito le sue preoccupazioni e la sua saggezza. Ho visto le sue creature, i miei fratelli,gli animali, gli uccelli, i fiumi e i venti parlanti, gli alberi,tutto quello che è sulla Terra e tutto quello che nell’Universo è. Io sono parente delle stelle. Io posso parlare, quando conversi con me e ti ascolterò, quando parlerai. Io ti posso aiutare, quando hai bisogno di aiuto. Ma non mi ferire, perché io posso sentire, come te. Io ho la forza di guarire, eppure all’inizio tu dovrai cercarla. Forse tu pensi che io sia solo una roccia,che giace nel silenzio, sull’umido suolo. Ma io non sono questo. Io sono una parte della vita,io vivo, io aiuto coloro che mi rispettano. Francesco Mancuso­­ rapinatore di parole in rete

Mia madre non è solo un ventre che si è scoperto per mio padre e per me, quando sono nato. Le donne non sono solo un ventre che si scopre per noi e per i predatori. Non sono solo due occhi dolci e impauriti, sono il cervello ed il cuore di tutti noi maschi. Spesso l’uomo uccide chi ama, anche il più profondo dei sentimentiha il suo limite, perchè l’uomo spesso è il peggior nemico di se stesso. Claudio Calcaterra Marzo 2015

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Novant’anni fa il delitto Matteotti Dal rapimento all’omicidio.

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el 2014 si è celebrato il novantesimo anniversario dall’assassinio di Giacomo Matteotti, avvenuto il 10 giugno del 1924 per mano fascista. Personaggio cui in quasi 4mila Comuni d’Italia è dedicata una via o una piazza, a testimonianza di quanto forte e radicata la sua figura nella memoria collettiva del nostro Paese. Nonostante il silenzio assordante dei media nazionali sull’anniversario, la figura del leader socialista, quest’anno è ricordata in diversi appuntamenti, tra cui anche a Bracciano e ad Anguillara, grazie al contributo della Fondazione Matteotti. Giacomo Matteotti fu rapito e subito ucciso sul Lungo Tevere Arnaldo da Brescia di Roma. Il suo corpo fu ritrovato a Riano, in località Quartarella, a 24 chilometri di distanza dal luogo del rapimento, sotterrato in una boscaglia, sessantasei giorni dopo, il 16 agosto.Il tragitto compiuto della lussuosa e vistosa Lancia Lambda nera su cui il leader antifascista fu caricato a forza di calci e pugni dalla Ceka mussoliniana, comandata da Amerigo Dumini e composta da Albino Volpi, Giuseppe Viola, Amleto Poveromo e Augusto Malacria, è ancora oggi oggetto di studi e di ricerche. Anche a questa ricostruzione, oltre che al desiderio di tramandare alle future generazioni la personalità umana e politica di Matteotti, è dedicato il ­mio libro, dal titolo “Il corpo di Matteotti”, pubblicato da Suraci Edizioni. Su quale sia stato l’itineraLa sua scheda parlamentare. (Fonte Archivio Storico Camera

rio dell’automobile gli assassini hanno sempre sostenuto di non ricordarlo, asserendo di essere andati a zonzo per ore nella campagna nei dintorni di Roma. Su cosa sia realmente avvenuto non possiamo Marzo 2015

che basarci sugli articoli di stampa di quel periodo. Leggerli fa capire che il delitto, uno dei più violenti e atroci del Novecento, in particolare nella dinamica in cui è avvenuto, appartiene agli abitanti a nord di Roma più di quanto sipensi, anche dal punto di vista geografico. L’omicidio e il ritrovamento del corpo del leader socialista, nella riproposizione fantastica o meno di quei giorni, nella cronaca spicciola o attenta dei giornali, nella rappresentazione sincera o meno delle rivelazioni che via via si succedevano, infatti, coinvolse solo ed esclusivamente tutta l’area compresa tra la Salaria, la Tiberina, la Flaminia e la Cassia. Pochi minuti dopo l’ora presunta del rapimento – le 16.30 – un avvocato vide sfilare l’automobile assassina all’altezza di Ponte Milvio. Un brigadiere di Finanza, tale Cossu, la notò procedere a gran velocità sulla salita di Tor di Quinto. Un uomo la segnalò invece lungo la via Cassia, mentre la denuncia di uno anonimo l’avvistò di passaggio a Ronciglione. Qui, due persone, Annibale Carelli e il barbiere Mario Michele, dissero di averla veduta sfrecciare nella piazza del paese proprio nel momento in cui era in corso una tombolata, in occasione della Festa della Madonna. Uno sconosciuto comunicò al quotidiano “Il Mattino” un probabile indizio a Monterotondo, dove a seguito della telefonata, cinquanta uomini della polizia setacciarono accuratamente una località sperduta e selvaggia, esplorando anche alcuni scavi. Tutti questi indizi imposero agli uomini delle forze dell’ordine di fare per giorni e giorni perlustrazioni ad hoc in tutta l’area a nord di Roma, fino ad arrivare a scandagliare il lago di Vico e le sue sponde. 10

Al di là di segnalazioni fatte ad arte, espresse più per depistare che per collaborare, la verità è che per i cinque assassini, che provenienti da­l nord non conoscevano per niente le strade intorno a Roma, la situazione, con la precipitosa e rapida uccisione del deputato socialista, era sfuggita loro di mano. Nelle ricostruzioni giornalistiche dell’epoca – come è possibile leggere anche in un articolo pubblicato su “La Stampa” del 15 giugno 1924 – alcuni testimoni, tra cui un ragazzo di undici anni, riferirono di aver avvistato la

Manoscritto di Matteotti riguardante quesiti sulle forze armate (Fonte Archivio Storico Camera dei Deputati)

Lancia Lambda nera anche in località Casaccia, nei pressi di Anguillara Sabazia. E’ inoltre interessante sapere che la tessera ferroviaria di Giacomo Matteotti, di colore verde oliva, presumibilmente scaraventata dal finestrino dell’automobile dallo stesso leader socialista oppure accidentalmente persa dai rapitoriassassini nella foga del momento, fu ritrovata il 15 giugno sul Lungo Tevere Flaminio, nei pressi di Ponte Milvio, da un contadino di Gente di Bracciano


Pensiero per Nonna Gabriella S

ei stata la persona più solare che abbia conosciuto in vita mia, un vero e proprio fiume in piena di ottimismo, "gente allegra il ciel l'aiuta" dicevi spesso. Mi ricordo particolarmente uno tra i tanti motti che amavi ripetere: "non fare mai a botte Gialluchì, mi raccomando; ma se sei costretto, dalle, perché se torni e le hai prese, poi quelle che mancano ce le aggiungo io", era come per dire che nel crescere bisognava imparare a difendersi, ma tu riuscivi a dirlo con quell'allegria che avevi tanta quanto l'aria che respiravi. Ricordo me bambino, in quella terrazza assolata su quel dondolo fatto di fili di plastica arancioni, con quella vista mozzafiato sul castello e sul lago di Bracciano.

Ricordo te che cantavi e i profumi della tua cucina, i peperoni, lo spezzatino in umido, i filetti di persico fritti. Ricordo te, piccina piccina, su un lettino di ospedale dopo un'importante operazione e i medici che avevano mandato a dire di tenerci pronti... una settimana dopo quel giorno eri in trattoria con me che mangiavi più di me. Sono passati quindici anni da allora, di tempo ce ne abbiamo avuto, e tanto di quel tempo, purtroppo, lo abbiamo sprecato. Ma pur avendo avuto tutto questo tempo per prepararci, noi non ci siamo fatti trovare pronti lo stesso. Ciao Nonna Lella. Gianluca Scortecci

Manoscritto di Matteotti riguardante una proposta di legge (Fonte Archivio Storico Camera dei Deputati)

Campagnano in attesa dell’autocarro per tornare a casa. Così come è interessante sapere che il 12 agosto 1924, al diciottesimo chilometro della via Flaminia, sotto un ponticello stradale, in località Pietra Pertusa, a ritrovare la giacca in tessuto cheviot di Matteotti fu un cantoniere interprovinciale di Scrofano, attuale Sacrofano, Aldo Saccheri. A distanza di diciotto lustri dall’avvenimento storico che ha inserito in profondità l’antifascismo tra i sistemi valoriali dell’Italia, prima ancora che il fascismo prendesse veramente piede, è perciò doppiamente doveroso per l’area a nord di Roma, commemorare il per corso di un uomo che, seppur non crocifisso sul Golgota come Cristo, ha subìto maltrattamenti inimmaginabili, fino al barbaro sotterramento, compiuto in un luogo impersonale, freddo e abbandonato. Italo Arcuri

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Fuffa metropolitana Con la nascita della città non tramonta la visione romanocentrica

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ronto?” – “Sì” – “Buongiorno, sono della Provincia di Roma, ops della Città Metropolitana di Roma, la chiamavo per...­”. Il debutto della città metropolitana, per ora, è solo uno sterile cambio di parole. A tre mesi da quella che doveva essere una rivoluzione istituzionale attesa da decenni non si può non constatare come, attorno al tema, si sia fatto tanto rumore per nulla. Gattopardescamente si potrebbe dire “cambiamo tutto perché nulla cambi”. Cambia il nome e non la sostanza. La Città Metropolitana ad oggi fa quello che faceva la Provincia di Roma. La sede è la stessa. Palazzo Valentini nel centro di Roma a dieci passi da piazza Venezia. Navigando in rete un internauta attento può a malapena individuare il cambiamento per il reinderizzamento al “nuovo” sito, vuoto di sostanza e contenuti, che rimanda in uno schizofrenico rimbalzare all’ex sito della Provincia di Roma. L’ente era di area vasta e di area vasta rimane. Tradisce crudezza ma anche velleità istituzionali il 1° comma dell’articolo 1 dello Statuto partorito dalla Conferenza metropolitana ed approvato con l’atto n. 1 del 22 dicembre 2014. “La Città metropolitana di Roma Capitale, - recita - è ente territoriale di area vasta dotato di autonomia normativa, amministrativa e finanziaria secondo i princìpi fissati dalla Costituzione, dalle leggi e dal presente Statuto, ispirato a criteri di semplicità, efficienza e capacità di fornire risposte strutturali ai bisogni e alle domande della società”. Sì la società…quale? Il nuovo ente, più della Provincia, rischia di essere svincolato dal Paese reale, dalla vera società in quel crescendo di livelli istituzionali dove il cittadino non conta più niente, dove il voto non è più un diritto dovere dell’italiano. Poche le note positive del Marzo 2015

nuovo statuto. La prima, la previsione della elezione diretta. All’articolo 16 è scritto “Il Consiglio è composto dal Sindaco, che lo presiede, e da un numero di Consiglieri stabilito dalla legge,eletti a suffragio universale e diretto”. Poi, tra i principi generali, il riconoscimento alla parità di genere - si vedrà alla prova dei fatti e l’espressa condanna alla “violenza domestica”. Ma come potranno i romametropolitani eleggere i propri rappresentanti? Ad oggi non si sa a quali arcani meccanismi di computo elettorale si farà riferimento. Insomma fuffa, checché ne dica Graziano Del Rio, checché ne dicesse dal pulpito di coordinatore sindaci delle Città Metropolitane Giorgio Orsoni, all’epoca sindaco di Venezia e arrestato per le tangenti sul Mose. Nulla di nuovo. Nessuno ha scritto che è ora che Roma non la faccia più da padrona sull’hinterland, che non domini su quella cintura un tempo nobilitata con il nome di Agro Romano che le dava grano, carne e formaggio, su quell’immenso tesoro culturale, delizia per i turisti del Grand Tour, fatto di ville, di dimore nobiliari e di castelli. Nessuno ha scritto che Roma deve smettere di bere l’acqua del lago di Bracciano senza dare nulla in cambio, che i biglietti dei treni devono avere tariffe uguali almeno fino al confine della Città Metropolitana stessa. Nessuno ha scritto che i Comuni metropolitani (e Bracciano dal 1° gennaio 2015 è uno di questi) devono veder garantito il diritto alla vita e quindi ad un ospedale serio ed efficiente, alla giustizia, con la garanzia di Tribunali di prossimità. Nessuno ha scritto che Radio Vaticana, l’emittente extraterritoriale, deve smettere di bombardare gran parte dell’area nord della Città. Nessuno ha scritto che dall’Enea Casaccia devono essere trasferiti i rifiuti radioattivi 13

da destinare al deposito nazionale (?) definitivo. “Area vasta” è un termine vago per se stesso. Serve chiarezza ed incisività. Oggi come prima altrimenti ci si ricorderà della Città Metropolitana solo se si percorre una strada che ricade nella sua competenza (a quando – ci si chiede – la messa in sicurezza della Settevene Palo I e II), se si vuole andare a raccogliere funghi e serve il tesserino o andare a pesca, se si vuole andare a pescare sul lago e serve l’autorizzazione, se in un liceo cade una finestra in testa a uno studente. Il lavoro e la formazione restano un capitolo a parte. Il sito www.capitalelavoro.it sta lì, incurante della pseudo novità. La società in house della Provincia di Roma si occupa oggi di lavoro, formazione professionale, nuove tecnologie, sociale, ambiente, formazione del personale provinciale. A dirigerla fino all’approvazione del bilancio 2016, un Consiglio di Amministrazione il cui presidente e amministratore delegato percepiscono, fino all’approvazione del bilancio 2016, 81mila e 600 euro l’anno ciascuno. A nominarli degli organismi provinciali ormai decaduti. L’interregno rischia di essere lungo e pieno di incognite. Intanto a Bracciano e non solo si chiede il referendum. Oltre 4mila le firme raccolte. Dentro o fuori? La risposta potrebbe essere “ma di che parliamo?”. Graziarosa Villani

La non violenza è una cosa dell’animo; è un valore, è come la musica, la poesia. Aldo Capitini

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Scoppia la Primavera L’armonia a suon di mandolini e chitarre

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ccoci arrivati al momento della partenza. L'entusiasmo è alle stelle. Nove di sera: al centro anziani c'è una grande animazione o forse sarebbe meglio dire una grande “caciara”. Qualcuno ha già portato lo “strumento” e prova un accordo canticchiando una canzonetta. Naturalmente di accordo ce n'è poco: le parole vanno da una parte e la “musica”, si fa per dire da un'altra. Gran risate. Arriva il maestro Salvatore Mele. Silenzio.

sempre più impegnativo. La pazienza del maestro è messa a dura prova. I progressi però, si vedono o meglio...si sentono.

Si dispongono le sedie in circolo. Breve introduzione. Succo del discorso occorre studiare, fare molta attenzione e…provare e riprovare. Innanzi tutto il maestro sottolinea l'importanza del solfeggio e invita i portatori di “strumento a metterlo da parte, ma a…spolverarlo ogni tanto. Così sera dopo sera la sala è un risuonare di do.o.o.o, mi.i.i. re.e.e.e, di: “attenzione non è un do, è un mi, quattro quarti, due in battere e due in levare, e così via. Il “Branzoli”, in quelle serate, diventa la Bibbia di tutti noi apprendisti musicisti.

vista la mia disperazione, mi assegna il compito di presentare la Primavera e, brevemente, le caratteristiche dei brani musicali “compito” che rende felice e svolgo con il massimo impegno. La voglia di far bene, la buona volontà, la costanza, danno i primi frutti: finalmente si passa allo “strumento” compaiono i mandolini, le chitarre, il basso e, in un primo tempo, anche i violini.

L'impegno di tutti e di ciascuno è forte: in poco tempo le note sugli spazi e sulle righe, vengono individuate al primo colpo d'occhio. Un' altro passo avanti: il solfeggio diviene

L'unico sconfitto è chi scrive, perché nonostante il suo impegno e la sua buona volontà, è costretto dalle lamentele dei figli e da quelle degli inquilini del palazzo, a gettare la spugna. Il buon maestro Mele, da persona intelligente,

Il maestro Mele ha un gran da fare ad armonizzare le “voci” degli strumenti. Arriva finalmente il giorno del grande debutto, 2004: chiesetta del riposo. Grande emozione. L'inno della primavera lungamente provato emoziona, e non poco, i presenti. Applausi e richiesta di bis. L'impegno di tutti prosegue. Il repertorio si arricchisce di nuovi brani musicali.

Maggio 2006: festa della primavera nella tenuta Santa Barbara. La primavera si esibisce davanti ad un folto e attento pubblico. All'inno, seguono applauditissimi, “o sole mio”, “quanto sei bella Roma”, e “voglio amarti così”. Ormai la Primavera è “lanciata”, arrivano importanti riconoscimenti che rendono particolarmente orgogliosi i componenti del gruppo, e naturalmente il maestro Mele. Di cosa si tratta? E' presto detto: tra i 278 comuni della Regione Lazio, ne sono stati scelti 18 e, tra questi 18 c'è il comune di Bracciano e la Primavera premiata come associazione che esprime al meglio la musica popolare. Una bella soddisfazione. Che ve ne pare? Gli anni che seguono sono anni intensi: di studio, di preparazione, di concerti di successi. Il repertorio si amplia sempre di più. La tecnica si affina. La Primavera, lentamente ma inesorabilmente scala “l'olimpo”. E poi? All'orizzonte appaiono nubi. Saranno minacciose? Chissà. E poi? Ma su lo sapete! Il poi alla prossima.

Luigi Di Giampaolo

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Ombre e luci della vita di “paese” nel terzo millennio

Vado a vivere a... I

l fascino del vivere in un paese piuttosto che in una città è legato ad una serie di ragioni e suggestioni che riguardano direttamente la qualità della vita spaziando dalla riscoperta del valore dei riti e dei simboli, alla voglia di ritrovare ritmi più umani, un tempo più lento e meno stressante in cui gli sguardi e le parole ritrovano strade più umane, meno intasate di noncuranza e indifferenza. Queste più o meno le spinte che hanno agito su tanti cittadini che, a un certo punto della loro vita, hanno deciso di traferirsi in un centro urbano più piccolo alla ricerca di uno stile di vita diverso, salvo poi pentirsi e rimpiangere l’atmosfera più movimentata della metropoli di fronte ad una realtà ben diversa da quella sedimentata nell’immaginario collettivo. Bracciano in particolare intorno agli anni ’90 è stata meta di trasferimenti abbastanza massicci da Roma tanto da portare, nel giro di 20 anni, al raddoppio della popolazione (da 10 a 20.000 abitanti) con i conseguenti problemi di integrazione tra la comunità storica del paese ed i nuovi arrivati concentrati, tra l’altro, in una zona di recente edificazione denominata

fin dalla sua nascita “Bracciano Due” ed oggi ribattezzata come “Bracciano Nuova”. Riuscire ad integrare i due nuclei urbani, i quali hanno caratteristiche socio demografiche molto diverse tra di loro, è stato l’obiettivo perseguito da tutte le amministrazioni comunali susseguitesi in questi anni che gradualmente hanno messo in campo iniziative per migliorare la situazione dei servizi pubblici offerti a “Bracciano Nuova”. Con il tempo le criticità più pesanti sono state parzialmente risolte e “Bracciano Nuova” ha oggi luoghi di aggregazione, uffici, negozi, parchi, anche se è legittimo chiedersi quanto questo moderno quartiere riesca a soddisfare le aspettative di chi, in un periodo della propria vita, aveva pensato di allontanarsi dalla città per scegliere una vita più genuina, fatta di relazioni umane autentiche e solidarietà sociale. In realtà la vita di un paese come Bracciano oggi non presenta più queste caratteristiche sociali. La piazza, simbolo per eccellenza del luogo di sosta e di incontro nella struttura urbanistica del paese, non è molto diversa dal resto dei luoghi urbani dove le persone si muovono in fretta e non hanno tempo per chiacchiere,

parole, storie, leggende, personaggi. Ugualmente, le relazioni tra le persone non sono così idilliache come ci si continua a raccontare, la vita è cambiata per tutti, città e paesi che, pur mantenendo proporzioni diverse, presentano caratteristiche sempre più simili tra di loro. Anche per chi è nato e vissuto nel paese è evidente che le cose sono molto cambiate nel corso degli anni nel senso che il clima di “famiglia allargata” che connotava la vita delle piccole comunità che costituiva una solida rete sociale non è più una caratteristica così pronunciata nel tessuto territoriale. Tra le tante persone che tra città e paese hanno fatto la loro scelta in favore della vita di paese, sicuramente ci saranno quelli soddisfatti e quelli che rimpiangono la metropoli, così come anche tra i nativi braccianesi ci sono quelli che apprezzano la loro condizione e quelli che aspirano a cambiamenti di luogo. Questo per dire che non ci sono scelte giuste o sbagliate. Scegliere dove e come vivere è una questione strettamente personale, certo è che nel nostro mondo globalizzato le differenze tra vita di paese e vita di città appaiono fortemente ridimensionate anche se non proprio azzerate. Biancamaria Alberi

Amore Sbagliato Era freddo più di un bacio rubato, Ma volle fermarsi tra gli alberi spogli, Per un bacio, per avere il suo bacio In quel campo ghiacciato. Non gridare il tuo piacere Non farti sentire.

Dignitosa protesta era il silenzio. Mi sorrideva, mi attirava, Piangeva, il suo pianto D’amore era grido Non gridare il tuo piacere Non farti sentire

Si sfogò con ferocia, Con rabbia mi prese Naufraga tra onde e scogli. Grida di piacere Che ti possano sentire

Mi insultava, dall’offesa umiliata Mi offriva la pace con gesti di pace. Sussurrava di parole carezze. Mi sentivo per amor consolata. Non gridare il tuo piacere Non farti sentire. Mi calpestava gelido,

Mi colpiva selvaggio, Ma il mio cuore mentiva, Confondeva la mente. Parole di miele a smentire l’oltraggio. Non gridare il tuo piacere Non farti sentire Tra quegli alberi spogli,

Mentre il collo serrava, Con le sue mani, crudele. Custodivo dolore nel grembo Del suo piacere il seme. Del tempo nell’attimo senza tempo Angosciata il mio errore scoprivo Quell’uomo non mi amava.

Rodolfo Damiani Marzo 2015

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Gente di Bracciano


Riscopriamo il potere dell’uomo senza potere della capanna di Betlemme, dove più di duemila anni fà un uomo venne ucciso per aver dato al mondo il vero potere: L’amore Marzo 2015 numero 3

Auguri a tutti i nostri lettori di una Buona Pasqua La Redazione

Rosina Albieri La fioraia paladina degli infermi e dei bisognosi. Un’infaticabile donna che si è spesa sempre per gli altri

L

a storia che andremo ora a raccontare è quella di una donna che forse le nuove generazioni non conoscono ma che proprio per questo motivo deve essere raccontata: Stiamo parlando di Rosina Albieri. La sua storia inizia nel 1917 quando, a soli ventun anni, opera come infermiera sui campi di battaglia per assistere e donare sangue ai soldati feriti con l’entusiasmo e la generosità che Le venivano dalla sua terra d’origine, il Polesine. Nel 1922 si stabilisce a Bracciano e da quel momento fino alla seconda guerra mondiale sono frequenti i casi cui interviene per portare il suo aiuto: assiste gli ammalati e sorregge gli infermi, va a lavorare per consegnare il ricavato a famiglie estremamente indigenti, privandosi ella stessa del cibo. I suoi pensieri sono tutti per la sua famiglia, il figlio e i bisognosi. Arriva la seconda guerra mondiale. I bombardamenti non risparmiano neppure Bracciano e allora Rosina Albieri, o semplicemente come la chiamavano tutti Rosina, corre in aiuto di tutti come già aveva fatto sui campi di battaglia della prima guerra mondiale. Nel settembre del 1943 sopraggiunge a Bracciano l’armistizio. Il paese diventa teatro di aspri combattimenti tra la colonne tedesche che avanzano dal nord e le truppe italiane che presiedono la zona. Di nuovo la guerra produce feriti, morti e dolore. E’ sempre Rosina ad accorrere in aiuto dei feriti e a raccogliere

le vittime. Rosina raccoglie dal campo di battaglia il corpo di Udino Bombieri, il sergente carrista di Vicenza che sarà poi insignito della medaglia d’oro. La nostra Rosina non sente mai la fatica per il suo operato: anzi, sembra che le sue energie non finiscano mai. La fine della guerra non segna la fine delle fatiche di Rosina: la donna continua a prestare la sua opera di soccorso per feriti e morti tanto da essere considerata per ospedali come il Policlinico di Roma come una delle più assidue donatrici di sangue. Rosina non cesserà mai di stare vicino alle vittime e al loro ricordo: a Lei si devono i tanti omaggi floreali (la donna aveva un negozio di fiori che ancora oggi molti ricordano ubicato presso via Principe di Napoli angolo via XX Settembre) deposti presso il monumento ai caduti di piazza IV Novembre. Nel 1949 il Commissariato Generale per le Onoranze Funebri elogia pubblicamente Rosina Albieri per la sua opera “prestata nel periodo bellico ed immediatamente post-bellico; opera di soccorso verso i feriti da mitragliamento e bombardamento e di raccolta e di composizione dei corpi militari e civili caduti in seguito ad azioni belliche”. Ecco la storia di un personaggio di cui non sentiremo, forse, parlare sui libri di storia ma che sempre parlerà nei cuori dei Braccianesi. Massimo Giribono


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