Gente di Bracciano n. 30 - Ottobre 2021

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Ottobre 2021 - numero 30


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Gente Bracciano

Ottobre 2021 - Numero 30

Dedicato a Ninetto il fornaro Editore: Associazione Gente di Bracciano Presidente: Claudio Calcaterra. Direttore responsabile: Graziarosa Villani. Redazione: Mena Maisano, Biancamaria Alberi, Francesco Mancuso. Registrato al Tribunale di Civitavecchia n. 1388/2014

Stampa e impaginazione: FEDE 2011 srl Via dei Vignali, 60 - Anguillara Sabazia su carta riciclata al 100%

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Senso dello Stato

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n Italia manca il senso dello Stato, delle istituzioni e dell’etica civile. Lo Stato italiano ha poco più di 150 anni di vita. Nei secoli prima l’Italia era divisa e governata da potenze straniere con sentimenti ostili verso lo straniero. Queste situazioni hanno sviluppato negli Italiani la cultura dello “Stato nemico”, in tutti i suoi aspetti, anche i più degenerati, esasperando individualismo, per cui ciascuno pensa agli affari suoi, con quasi generale menefreghismo nei confronti dell’interesse generale. In Italia, negli ultimi venti anni ha dilagato il senso dell’egoismo individuale, eppure è un Paese cattolico dove la solidarietà e l’amore cristiano dovrebbero essere prioritarie di fronte alla società in tutte le fasce della popolazione. Diceva Sant’Agostino “che la società terrena è subordinata a quella celeste” e l’egoismo individuale ha comportato una radicale separazione tra morale e politica. Una delle spiegazioni che mi sono dato è che l’etica come coscienza è molto arretrata, perché hanno preso forza tre orientamenti o “principi”, ammazzare, rubare e commettere atti immorali. I reati classici, il furto nella forma del borseggio, i furti negli appartamenti, le rapine che tutti noi conosciamo. Invece i furti più sofisticati e più redditizi, per lor signori che li praticano, e più dannosi per la società, si muovono a livelli più alti, come l’alta finanza. Purtroppo questi peccati non riescono ad entrare nella coscienza collettiva degli Italiani, anche se spesso vengono perseguiti, quando si scoprono, dall’ordinamento giuridico, non sempre è possibile pervenire a sentenze che riescano a suscitare indignazione o riprovazione morale. Purtroppo la gran parte del “popolo” non è molto sensibile a questo genere di reati. Questi fattori - lo Stato come nemico, l’etica che non arriva a percepire una moralità civile, la mancanza del senso dello Stato - producono la politica che tutti noi, oggi, ci troviamo di fronte e che riflette esattamente il livello culturale del nostro Paese. Claudio Calcaterra


Silvana Mangano, attrice per caso L’interpretazione in “Riso Amaro” ne fece una icona di bellezza internazionale

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a “Barabba” di Richard Fleischer (1961). Nel 1963 Carlo Lizzani le affidò il ruolo di Edda Ciano nel “Il processo di Verona”, per il quale l’attrice venne premiata con il David di Donatello come migliore interprete femminile. L’attrice ebbe ancora un ruolo importante nel bellissimo kolossal di David Lyne “Dune” (1983). All’apice della sua carriera la Mangano in una delle sue rare interviste disse “riconosco di non aver mai avuto tanta simpatia per il cinema. Ho accettato di girare ‘Riso amaro’ più per la necessità di guadagnare che non per il vivo desiderio di intraprendere la carriera cinematografica. Gran parte del pubblico, purtroppo, è rimasto ancora con l‘immagine di una Silvana Mangano mondina per le mie gambe scoperte con le doppie calze e pantaloncini”. Italo Calvino ne rimase folgorato sul set di Riso Amaro. “Ha diciotto anni, il viso e i capelli della Venere di Botticelli, ma un’espressione più fiera, dolce e fiera insieme...spalle che si aprono con una dolcezza da cammeo, un busto di ardita armonia, di linee trionfali e aeree, la vita come uno stelo snello e un mirabile ritmo di curve piene e di arti longilinei” scrisse Calvino. Il suo fascino colpì anche Pasolini. “Cara Silvana...la tua bellezza amara che si offre, incombente come una teofania, ha uno splendore di perla, mentre in realtà tu sei lontana”. L’attrice è morta a 59 anni a Madrid dove viveva il 16 dicembre 1989 per i postumi di una operazione. Un fondo a lei dedicato è stato dichiarato di interesse storico particolarmente importante dalla Soprintendenza archivistica del Lazio il 7 agosto 2015. La documentazione testimonia infatti la vita e l’attività artistica della grande attrice e, nello stesso tempo, offre uno spaccato significativo di vita familiare e sociale dell’Italia del secondo Dopoguerra. Costituito inoltre un Centro studi Silvana Mangano. Si tratta di una associazione no profit che si occupa di promuovere in Italia e nel mondo la figura artistica ed umana dell’attrice. Claudio Calcaterra

immagine della Mangano che raccoglie il riso con le doppie calze, i calzoncini e lo sguardo fiero ha fatto il giro del mondo. Come molte altre attrici del periodo, anche la Mangano arriva al cinema grazie ai concorsi di bellezza. I suo natali a Roma il 23 aprile 1930, Suo padre Amedeo era un ferroviere siciliano, sua madre Jackie Webb, ballerina inglese. Viveva nel quartiere San Giovanni. Da giovanissima ebbe un flirt di quartiere con Marcello Mastroianni. Nel 1947, Man-gano, è eletta Miss Roma. Nello stesso anno le viene offerta una particina nel film “Elisir d’amore”, in cui, per combinazione, appare per la prima volta Gina Lollobrigida. Poi viene ingaggiata dall’atelier Mascetti come indossatrice. La sua figura slanciata campeggia in uno dei manifesti elettorali del 1948 con i quali si invitano gli Italiani a recarsi a votare. Poi, per puro caso, avviene il colpo di fortuna, l’incontro con il regista Giu-seppe De Santis che, dopo numerosi provini per scegliere l’interprete del film messo in cantiere, “Riso amaro” (1949), sceglie proprio lei trasformandola in una star internazionale. Poco tempo dopo dall’uscita del film nelle sale, Silvana Mangano sposa il produttore più famoso del cinema italiano, Dino De Laurentis che contribuirà al completo lancio della bellezza della attrice che si perfezionò nella recitazione. Con lui ebbe quattro figli: Veronica, Raffaella, Federico e Francesca. Vorticosamente venne scelta poi da Alberto Lattuada per “Anna” (1951), da Mario Camerini per “Ulisse” (1953), ancora da Lattuada per “Tempesta” (1958), quindi da Mario Monicelli per la “Grande Guerra” (1959), da Tinto Brass per “Il Disco Volante” (1964), da Pier Paolo Pasolini per “Teorema” (1968). A livello internazionale partecipò a “Mambo” di Robert Rossen (1954) e

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Mimmo Lucano: “A voi tutti che siete un popolo in viaggio verso un sogno di umanità” Resistere resistere resistere sempre. “Abbiate il coraggio di restare soli”. Solidarietà da Gente di Bracciano

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n processo politico con il quale si è voluto schiacciare il modello Riace per l’accoglienza dei migranti. La sentenza di primo grado, pronunciata il 30 settembre scorso, che condanna Mimmo Lucano, già sindaco di Riace a 13 anni e due mesi di reclusione è abnorme. Il pubblico ministero aveva chiesto 7 anni. A difendere Lucano in tribunale l’avvocato Giuliano Pisapia. Contestati 22 reati a Lucano tra i quali l’associazione a delinquere. Imposta una sentenza esemplare che ha indignato partiti di sinistra e molti intellettuali, da Dacia Maraini a Erri De Luca, da Massimo Cacciari ad Ascanio Celestini. Nella Calabria delle ‘ndrine, della ‘ndrangheta dove Nicola Gratteri, procuratore della Repubblica di Catanzaro, combatte, sotto scorta, una battaglia quotidiana, si è voluto colpire un modello che, tra le pieghe di una normativa sull’immigrazione schizofrenica, ha tentato di dare risposte nuove e diverse ad un fenomeno nel quale in gioco sono vite umane. A Riace tutto cominciò nel 1998 con un primo sbarco di profughi curdi a bordo di un barchino. Da lì nuove soluzioni ad una questione alla quale invece l’Italia che vorrebbe dirsi “democratica” risponde con la solita ipocrisia di sempre fatta di presunti centri di accoglienza - in realtà veri luoghi di detenzione - che offendono la Costituzione Italiana. La Redazione di Gente di Bracciano esprime solidarietà a Mimmo Lucano nella convinzione che nei successivi gradi di giudizio una Magistratura più attenta saprà valutare al meglio quanto accaduto e soprattutto per quali scopi. Restiamo umani. La Redazione

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che guerre, più uguaglianza, più libertà che barbarie. Dove non ci saranno più persone che viaggiano in business class ed altre ammassate come merci umane provenienti da porti coloniali con le La lettera letta in piazza a Riace mani aggrappate alle onde nei mari dell’odio. Sulla mia situazione personale e sulle mie vicende giudiziarie non ho tanto da aggiungere inutile dirvi che avrei voluto essere presente in mezzo a voi rispetto a ciò che è stato ampiamente raccontato. Non ho rancori né non solo per i saluti formali ma per qualcosa di più, per parrivendicazioni contro nessuno.Vorrei però a dire a tutto il mondo lare senza necessità e obblighi di dover scrivere, per avvertire che non ho niente di cui vergognarmi, niente da nascondere. Rifarei quella sensazione di spontaneità, per sentire l’emozione che le pasempre le stesse cose, che hanno dato un senso alla mia vita. Non role producono dall’anima, infine per ringraziarvi uno a uno, a tutti, dimenticherò questo travolgente fiume di solidarietà. per un abbraccio collettivo forte, con tutto l’affetto di cui gli esseri Vi porterò per tanto tempo nel cuore. Non dobbiamo tirarci inumani sono capaci. dietro, se siamo uniti e restiamo umani, potremo accarezzare il A voi tutti che siete un popolo in viaggio verso un sogno di umasogno dell’utopia sociale. nità, verso un immaginario luogo di giustizia, mettendo da parte Vi auguro di avere il coraggio di restare soli e l’ardimento di reognuno i propri impegni quotidiani e sfidare anche l’inclemenza stare insieme, sotto gli stessi ideali. del tempo. Vi dico grazie. Il cielo attraversato da tante nuvole scure, Di poter essere disubbidienti ogni qual volta si gli stessi colori, la stessa onda nera che attraversa i ricevono ordini che umiliano la nostra coscienza. cieli d’Europa, che non fanno più intravedere gli Di meritare che ci chiamino ribelli, come quelli orizzonti indescrivibili di vette e di abissi, di terre, che si rifiutano di dimenticare nei tempi delle amnedi dolori e di croci, di crudeltà di nuove barbarie fasie obbligatorie. sciste. Qui, in quell’orizzonte, i popoli ci sono. E Di essere così ostinati da continuare a credere, con le loro sofferenze, lotte e conquiste. anche contro ogni evidenza, che vale la pena di esTra le piccole grandi cose del quotidiano, i fatti sere uomini e donne. si intersecano con gli avvenimenti politici, i cruciali Di continuare a camminare nonostante le cadute, problemi di sempre alle rinnovate minacce di espuli tradimenti e le sconfitte, perché la storia continua, sione, agli attentati, alla morte e alla repressione. anche dopo di noi, e quando lei dice addio, sta diOggi, in questo luogo di frontiera, in questo piccendo un arrivederci. colo paese del Sud italiano, terra di sofferenza, speCi dobbiamo augurare di mantenere viva la cerranza e resistenza, vivremo un giorno che sarà tezza che è possibile essere contemporanei di tutti codestinato a passare alla storia. La storia siamo noi. loro che vivono animati dalla volontà di giustizia e Con le nostre scelte, le nostre convinzioni, i nostri di bellezza, ovunque siamo e ovunque viviamo, pererrori, i nostri ideali, le nostre speranze di giustizia ché le cartine dell’anima e del tempo non hanno fronche nessuno potrà mai sopprimere. Verrà un giorno tiere. in cui ci sarà più rispetto dei diritti umani, più pace Vignetta di Vauro Mimmo Lucano

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Basta morti sul lavoro Invocate nuove misure. Ma bisogna fare presto

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e leggi ci sono ma spesso non vengono applicate. Sul luogo di lavoro questo significa rischio continuo. Molte aziende sono inadempienti ma lo Stato non controlla. Dietro il fenomeno, anche lo spettro della corruzione dei funzionari delle istituzioni preposte che nessuno persegue. Morire sul lavoro costituisce una tragedia che investe lo Stato tutto, il valore della sicurezza, tanto invocato da taluni ambienti politici, sul lavoro non vale. Orditoi che uc-cidono, trattori che si ribaltano, muratori che cadono dalle impalcature, addetti che soffocano per esalazioni letali. La lista nera si allunga di giorno in giorno. Serve indignazione per un fenomeno che è il risultato di connivenze. Governo e sindacati si sono incontrati il 27 settembre scorso dopo il gran numero di morti delle ultime settimane. Proposte alcune misure. Ma bisogna fare presto. Tutti i morti sono uguali e il dolore per la perdita colpisce le famiglie allo stesso modo. Ma le morti bianche finora

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non hanno fatto notizia. Croci nere che segnano una società latitante. Serve subito un decreto legge che tamponi l’emergenza in atto. Nell’incontro tra Draghi e il sindacato si è parlato della necessità di procedere all’immediata sospensione dell’impresa che non osservi le norme sulla sicurezza. Prevista inoltre l’assunzione immediata di ulteriori ispettori del lavoro e di tecnici della prevenzione. Ed ancora una campagna straordinaria di formazione e informazione anche con il coinvolgimento delle Regioni. Sollecitata inoltre la istituzione di una banca dati unica degli infortuni sul lavoro. Un provvedimento che viene invocato ormai da più di un decennio è anche quello della cosiddetta “patente a punti” che, analogamente per quanto accade per quella che abilita alla guida del veicolo preveda un punteggio a scalare. In caso di violazioni delle norme di sicurezza, il punteggio sarà soggetto a decurtazioni. Una volta azzerato il punteggio l’attività deve essere chiusa.

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Secondo i dati dell’Osservatorio sul Lavoro di Vega Engineering nei primi sei mesi del 2021 sono state 538 le vittime sul lavoro registrate in Italia. Il settore delle Costruzioni è quello che ha contato il maggior numero di lavoratori deceduti. Seguono i settori della Manifattura, del Trasporto e Magazzinaggio, del Commercio, della Ripa-razione di autoveicoli e motocicli, dell’Am-ministrazione Pubblica e Difesa e della Sa-nità e Assistenza Sociale. A morire di più sono i lavoratori tra i 45 e i 64 anni. Ad agosto, in base al dato Inail, le morti sono aumentate. “Le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale presentate all’Inail entro il mese di agosto sono state 772”. Un dato al quale è necessario aggiungere i morti delle settimane a seguire. Una ecatombe che solo ora comincia a conquistare la ribalta mediatica. Ma non servono più parole. Servono i fatti. Graziarosa Villani

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L’alfabeto delle parole perdute Tratto da “Vocabolario paesano”. Il linguaggio dei campi e delle masserie

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n linguaggio sconosciuto ai più che parla di una società contadina del passato quanto a scandire i tempi erano le “madonne”, quando si guardava il cielo pensando ai campi, quando la saggezza si nutriva di proverbi. Parole in via d’estinzione. Competenze antiche trasmesse di padre in figlio, di mamma in figlia. Per i pascoli e per le campagne.

Anima: pertica di castagno o di altre essenze piantata verticalmente in terra, Attorno vi si ammucchiava il fieno per costruire il fienile a forma di pera. Balzo: due fasci di grano mietuto intrecciato con i quali si lega la gregna. Caciara: ambiente in muratura per la salagione e maturazione del cacio pecorino. Due Madonne: il tempo in cui di regola cessa il raccolto dell'erba estiva fra il 15 agosto (Assunzione di Maria Vergine) e l'8 settembre (natività di Maria Vergine). Erba di ricalcata: erba da pascolo del periodo dal primo ottobre al principio dei lavori di semina non oltre il 15 dicembre quando i greggi ricalano dalla montagna. Far bocca: diradamento delle nubi all'orizzonte attraverso le quali riappare il sereno. Guazza: rugiada. Impicciare: legare le corna con la gamba anteriore di una vacca in modo da tenere la testa piegata per mungerla. Lestra: piccola radura in mezzo al bosco dove è stato tagliato il sottobosco lasciando gli alberi da fusto. Serve spesso quale punto di riunione degli animali dopo il pascolo. Significa anche lo strato di paglia che si ponein terra nella stalla per giaciglio degli animali. Monaco: è il legno verticale girevole che nelle caciare sorregge la armatura su cui è sospesa la cal-

Tratto da “Tenutella Vendesi”. foto di Sandro Becchetti

daia ove si cuoce il latte per farne formaggio. Natalini: porchetti di terza figliatura. Ottobrini: porchetti di seconda figliatura. Provatura: formaggio fresco, piccolo, fatto con latte di vacca o bufala, legato a mezzo di giunchi. Quaglio: stomaco di abbacchi contenente latte fatto asciugare il disseccare per essere usato per coagulare il latte e fare il formaggio. Rapazzola: letto campagnolo comunque fatto. Nelle capanne dei pecorari erano costruiti in circolo in due ordini. Scacciacornacchie: ragazzo che batte un

bastone e sopra un bidone vuoto allontanando dai seminati gli uccelli, cornacchie, allodole, eccetera. Travaglio: armatura robusta di travicelloni disposti a quadrilatero dove si fanno entrare i buoi per ferrarli. Utello: contenitore con beccuccio per versare l’olio di oliva o l’aceto, in terracotta invetriata o in latta. Vetta: sono i buoi che tirano il carro avanti Il timone. Designa generalmente un paio di buoi da lavoro. Zaurro: uomo dappoco o malandato.

Rosita Signorelli: donna sempre in prima linea Il ricordo di Gente di Bracciano

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a redazione di Gente di Bracciano si unisce al dolore dei familiari per la scomparsa di Rosita Signorelli venuta a mancare all’improvviso. Compagna attivissima fino all’ultimo è stata una esponente di punta del sindacato Federazione Italiana Lavoratori Poste e Telecomunicazioni Filp Cgil confluito nel 1996 nel Sindacato Lavoratori della Comunicazione. Rosita Signorelli ha combattuto incessantemente sin da giovanissima, nelle piazze e nelle assemblee, per la parità delle donne, per il miglioramento della condizione operaia, per i diritti dei migranti. L’8 Marzo 2019 in occasione della Giornata Internazionale della Donna ha lanciato un monito: “Buona Giornata della Donna: non dico buona festa, cosa dobbiamo festeggiare? Un femminicidio ogni due giorni? Svegliatevi donne! Tutte le conquiste che le donne hanno faticosamente raggiunto negli ultimi anni, possono essere spazzate via con un voto incauto!”. La ricordano con affetto Claudio Calcaterra, Mena Maisano e tutti i colleghi.

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La lezione di Luigi Di Giampaolo Bracciano e Gente di Bracciano perdono un acuto osservatore della realtà. La vicenda di Corradino di Svevia dal suo libro “La storia, ma che storia è?”

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na ironia pungente, una leggerezza autentica e soprattutto una visione del mondo scanzonata, vera ed incisiva. Ci mancheranno gli scritti di Luigi Di Giovanpaolo scomparso in questi mesi dopo una malattia. Un collaboratore importante per Gente di Bracciano. I suoi racconti restano dei cammei senza tempo. Una istantanea della società. Raccontano di una quotidianità genuina. Anche in questo numero non abbiamo voluto far mancare l’appuntamento. Saccheggiamo allora un suo libro, edito da La Caravella Editrice “La storia, ma che storia è?”. Una narrazione sulla sua professione di professore alle scuole medie e ai licei. La materia: la storia, questa sconosciuta. Il suo insegnare esce dagli schemi, mira a divenire accattivante per adolescenti distratti che a tutto pensano meno che alla storia. L’obiettivo del professor Luigi Di Giampaolo è quello di trasmettere almeno i concetti chiave del divenire di fatti che dipana la storia. Riportiamo il brano riguardante Corradino Di Svevia. La scena vede il professore in cattedra durante una lezione. “Qualcuno ricorda lo sfortunato Corradino di Svevia o i vespri siciliani? No? Niente paura. Ci pensiamo noi. Ragazzi. Lotta tra papato e comuni da una parte e l’impero dall’altra. Guelfi e Ghibellini. Guelfi favorevoli alla chiesa, ghibellini all’imperatore. Siamo intorno alla metà del 1200. L’Italia è dominata ora da un re straniero, ora da un altro, sempre straniero, che “scendono” in Italia e arraffano tutto quello che trovano, e anche di più. “Bene, cercherò di essere il più breve possibile”. Una voce: “Meno male, co’ sti guelfi, ghibellini, imperatori, traditori, esattori, nun se ne po’ più. Me sta a venì un mal di testa…” “Pure a me”. “Ho capito...ma non mi interrompete, altrimenti perdo il filo e debbo ricominciare da capo”. Inizio la spiegazione dicendo che Manfredi entra in contrasto con il papa e si mette a capo di tutti i ghibellini d’Italia, per guidarli nella lotta contro i guelfi. Il papa sentendosi minacciato, invita un principe francese, Carlo d’Angiò, a scendere in Italia e a togliere il regno a Manfredi. Naturalmente Carlo d’Angiò accetta: le ricche terre della Sicilia e dell’Italia meridionale gli fanno gola. Promette perciò fedeltà al papa e protezione al partito guelfo. Le cose però per Manfredi vanno male:

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viene sconfitto nei pressi di Benevento e ucciso. Carlo d’Angiò si impadronisce, così, del suo regno. I ghibellini italiani si rivolgono, allora, a Cor-radino, nipote di Manfredi. Gli chiedono di venire in Italia con un esercito, ammazzare Carlo d’Angiò, riprendersi il regno e vendicare Manfredi. “Professò na cosetta da niente!” esclama Antonio. Dal secondo e terzo banco: “Professò, come va a finì sta storia? Me sembra un film”. Vado avanti dicendo che Corradino è un ragazzo di sedici anni che vive in Germania e che non conosce le trame e gli intrighi che spesso sono alla base di decisioni e alleanze. “Scende” perciò in Italia, desideroso di gloria e convinto che la sua avventura sia facile da realizzare. Le cose purtroppo per lui vanno diversamente: viene sconfitto, successivamente tradito, consegnato a Carlo d’Angiò e condannato a morte. La scomparsa di questo sfortunato giovane è stata resa celebre da un grande poeta. Quei versi lo hanno reso immortale. “...Avea la sveva stella d’argento sul cimiero azzurro, avea l’aquila sveva in sul mantello…”. “Ragazzi - dico - mi sforzo di tradurli in prosa”. Inizio descrivendo la scena, cerco di creare l’atmosfera: “Nella piazza è stato innalzato il palco, in mezzo un grande ceppo, vicino il boia con un cappuccio nero che gli copre il volto: la lama affilata della grande ascia brilla al sole. Rullo di tamburi. Corradino sale sul palco. La piazza è gremita e silenziosa. Gli occhi azzurri come il cielo fissano la folla; sono profondamente tristi. il vento muove lunghi capelli biondi. Il corpo eretto esprime una tragica solennità. prima che il boia gli appoggi il capo sul ceppo, Corradino si sfila un guanto e lo lancia tra la folla. Il boia alza la pesante ascia. Rullo di tamburi. Un colpo. Dalla folla un grido. La testa rotola sul palco...". La classe ha seguito il silenzio la triste vicenda. Il suono della campanella li riporta alla realtà. "Professore che storia!” mi dice Francesco. Luigi Di Giampaolo nato a Tortoreto, in provincia di Teramo, il 25 giugno del 1943 si è laureato in scienze letterarie nel 1971 e successivamente si è specializzato in Scienze Storiche. ha insegnato per 40 anni nelle scuole medie statali e negli istituti superiori. Ha pubblicato per La Caravella Editrice “Eppure sono sopravvissuto!... e voi?” (2009) e “La storia, ma che storia è” (2011).

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Omaggio a Dante Eventi zoomici attorno al sommo poeta nella secolare rilettura dei suoi canti e della sua vicenda umana. Colorita e ragionata la “riscrittura” di Francesco Mancuso

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settecento anni dalla morte la figura di Dante Alighieri è un mito anche per chi conosce solo superficialmente la sua opera. Di Lui sappiamo tutto e niente, di Lui ci arriva l’eco di un animo fiero ed esiliato, il suo naso ingombrante, il suo vestito rosso, le sue terzine scaprollate.. che roba mantenere la rima tre e due, due e tre, un mistero, solo Lui poteva riuscirci, la Comoedia è un viaggio nei luoghi oscuri della nostra anima.. ma com’era il vero rapporto con Beatrice e con le altre donne della sua vita: sua madre, sua moglie, le sue amanti? Quale messaggio profondo ha inteso lasciare ai posteri? E perché la Divina Commedia sa ancora parlare a questi nostri tempi se-gnati da una scaprigliata velocità senza lentezza che spesso non permette di ri-conoscere chi ci è vicino? Il quattro settembre ero alla festa di Claudio e Mena, animatori di Gente di Bracciano, stavo aspettando il loro arrivo sulle note di una marcia nuziale quando mi si è avvicinato un curioso signore, non so il suo nome, occhi di un’ironia lenta, alto, giacca e cravatta andanti: il vestito giusto per l’occasione, che, senza alcun preambolo, mi chiede: ”Lei è un’artista?”… mi è piaciuto subito quel suo modo diretto di cercare risposta a una sua curiosità, gli rispondo “forse sì, forse no, scrivo poesie per me, da giovane ho imbrattato qualche tela, amo intrattenermi con i miei sogni, ma un’artista? non so proprio!” ma capisco la sua domanda, io indosso un pantalone arancione, una blusa che mi portai dietro da un mercatino di Bogotà e in testa fa mostra di sé uno zucchetto con i colori dell’arcobaleno della pace, il mio modo di raccontare di me al viandante che incontro… e lui “sa, in tedesco c’è una parola che racconta di lei: Bunte, che vuol dire multicolore, è anche il nome di una rivista specializzata in reportage sul jet-set internazionale” e cominciamo a chiacchierare fitto fitto fino all’arrivo dei novelli sposi. Lasciandolo gli ho detto che avrei scritto una storia “buntesca”, in effetti ho solo venduto un simpatico imbroglio perché, da sempre, amo scrivere colorato, creare ossimori, sparare aforismi, dare realtà ai sogni, inventare parole che rispondano ad emozioni più che a descrivere cose, usare lampride metafore, così, quando Mena e Claudio mi hanno chiesto di mandare loro un articolo per l’uscita di Gente di Bracciano ho pensato che la Conbristola che ho scritto su Dante potesse rispondere a uno spirito “buntesco”, mi piace rispettare le promesse che faccio a me, sperando che possa arrivare anche al signore dall’ironia lenta che l’ha promossa. Tutto avvenne nel tempo della pandemia grazie a Zoom, la piattaforma on line che permette di fare cose insieme senza stare insieme. A inizio anno ho partecipato a un laboratorio su Dante tenuto da messere Berton, uno strano e meraviglioso prete operaio, ha lavorato trentacinque anni a Porto Marghera, che ha letto e parafrasato, a una posse di una quindicina di persone, il Paradiso dantesco, devo a lui Ulisse e Canizza e i versi su quella Chiesa che lo esiliò chiedendone la testa. Un viaggio nell’anima. Poi, a maggio, ho partecipato a un laboratorio di scrittura autobiografica promosso da messere Giovanni, presidente dell’Associazione Spazio Tempo per la Solidarietà, affiliata alla Libera Università dell’autobiografia di cui sono socio: dieci incontri zoomici per raccontarci, io e tredici donne sparparose, il nostro incontro con il Divino Poeta. Riporto la scrittura di restituzione del mio viaggio alla ricerca di me e del Divino. Conbristola* su Dante Un colibrì ogni mille anni arrota il suo becco su una roccia alta mille metri e larga mille metri, quando l’avrà consumata sarà passato un giorno dell’eternità. Io ho un solo foglio per raccontare le mille onde dei mille oceani che ho incontrato nel laboratorio di messere Giovanni, quando l’avrò finito avrò disegnato una sola onda delle conoscenze e delle emozioni vissute. Con un “dazio” da pagare, fino a cinque mesi fa di Dante conoscevo solo la fama, in questi ultimi cinque mesi ho letto vari libri su di lui, ah! Borges e i suoi nove saggi danteschi!, messere Berton mi ha pa-rafrasato il Para-diso nel quasi pa-rallelo laboratorio zoomico di

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Berton mi ha pa-rafrasato il Para-diso nel quasi pa-rallelo laboratorio zoomico di messere Giovanni e ho cominciato a leggere la Como-edia a voce alta, per il mio piacere, ascoltare la propria voce rimanda sempre echi imprevisti se si riesce a fare attenzione alle pause, ai silenzi, agli inciampi, alle note acute e a quelle basse. A Dante capitò di vivere in un secolo che puzzava di zolfo e catrame, attraversato da demoni e castighi, una parola sbagliata ed eri al rogo, Papi e Imperatori a spargere il sangue dei villici per stabilire chi fosse il più bello del reame e ognuno a invocare il suo Dio giustiziere della notte perché fosse lui e non l’altro a vincere la disputa… “Quelli che usurpa in terra il luogo mio che vaca ne la presenza del Figliuol di Dio, fatt’ ha del cimitero mio cloaca del sangue e de la puzza; onde ’l perverso che cadde di qua sù, là giù si placa”: canto XXVII Paradiso 22-27… e Lui, esule, profugo, partigiano, a scrivere una Summa del suo secolo tra allegorie, religiosità, teologia, filosofia, storia e poesia. Per fortuna che prevalse il Poeta, Immenso, Divino, Infinito, e per fortuna che scelse di scrivere in volgare, fu l’elemento che permise al paese dei cento comuni di far vivere l’idea di un paese più largo. E ora vi prego di te-

nere a mente il colibrì nel seguire tre miei colpi di becco sulla roccia. Ulisse Sfida l’ignoranza, vuole andare oltre i limiti che il suo tempo antico permetteva, vuole sapere, vuole conoscere, rischia, supera lo stretto del mondo conosciuto e che fa il Divino? me lo schiaffa all’Inferno tra i consiglieri fraudolenti per punirlo della sua “arroganza”, solo Dio sa e può sapere… non va bene… anche il Divino superò lo stretto della conoscenza del suo tempo, allora il sole ancora girava attorno alla Terra e guai a dire il contrario, si batté per difendere le sue idee, anche se, va detto, non vide troppo sangue scorrere perché pensò bene di defilarsi durante la battaglia cui gli capitò di partecipare ma la potenza dei suoi versi quando fa il Poeta sono di una bellezza senza aggettivi… “Considerate la vostra semenza: fatti non fummo per viver come bruti ma secondo virtute e canoscenza” canto XXVI Inferno 118-120… chissà dove si metterebbe Lui medesimo? Catone Le persone che si suicidavano a quei tempi non meritavano neanche la sepoltura, la vita è di Dio e solo a lui spetta deciderne la fine diceva la Chiesa piena di oro e armigeri pronti a scannare, in nome di Dio, l’eretico … e Lui che fa? me lo schiaffa nel Purgatorio, un luogo alprido dove però si sa che nel giorno del Giudizio sarai promosso in Paradiso… doppia morale vien da dire, lui era un buon cattolico… ma i versi per tratteggiare l’incontro, che armonia!… vidi presso di me un veglio solo,

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degno di tanta reverenza in vista, che più non dee a padre alcun figliuolo canto I Purgatorio 31-33... Cunizza da Romano Dante la colloca in Paradiso, nel girone degli spiriti amanti, lei che non perse una sola occasione per vivere intense nottate adrenaliniche con vari mariti e vari amanti… donna libera, emancipata, la adoro, ma a quei tempi a una donna non era proprio consentito condurre una simile vita, un solo adulterio e la Bibbia, Deuteronomio Libro V-22, invoca per lei la lapidazione… onde la luce che m’era ancora nova, nel suo profondo ond’ella cantava, seguette come a cui di ben far giova: canto IX Paradiso 22-24… chissà, forse il Divino salvando Cunizza voleva riscattare il fatto che per ricordare Bella e Gemma, madre e moglie, scrisse solo cenni distratti e mai parlò di Lisetta, Fioretta, Violetta, Pargoletta, le donne che il concubolo Dolce stilnovista amava carnosamente mentre aulicava la donna angelica, senza sesso… viva Cunizza! Viva Cecco Angiolieri! Aiuto!!! Temo che se questo mio scritto buntesco finisse nelle mani di un Dantista verrei lapidato senza processo, pazienza! ci sono parecchi di loro che hanno speso tutta la loro vita per parafrasare una singola terzina del Sommo con maniacale puntigliosità mandarinale, che tristezza!… non ragioniam di lor, ma guarda e passa… canto III Inferno 53. In onore del Sommo Alla fine del cammin di mia vita mi ritrovai per una radura lucente che la retta via era seguita. E quanto a dir che è cosa splendente esta radura infiorata e colorata e forte che nel mio pensier sa rinnovar la mente! Tant’è gioiosa che poco è più che Morte ma per trattar del pensier che m’accompagna dirò io de l’altre cose ch’io v’ho scorte. Io non so ben ridir come Lei mi calcagna tant’è pieno di dubbio il mio momento che la verace via scompagna. Ma poi ch’io fui al piè del dubbio giunto là dove termina la mia esistenza che m’ha di leggerezza il cor compunto guardai un fiore e vidi la sua possenza vestito già de’ raggi del suo mistero che mena dritto altrui per ogni intermittenza; allor fu l’ossimoro a mostrare il vero che nel lago del cor m’era cresciuto la notte che passò con tanto malinvero! Francesco Mancuso P.S. Schizzo gli indifferenti. Per vivere bisogna essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera, è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Io voglio vivere, perciò sono partigiano. * Conbristola: tre zampe di gallina, tre zoccoli di cavallo, tre ali di pipistrello, tre parti di mercurio, tre parti di titanio, tre parti di piombo, tre parti di pece, tre parti d’arcobaleno, tre parti di cenere… frullare per tre giorni, ogni tre ore, con tre litri d’acqua di sorgente, tre litri di sangue di maiale, tre litri di nettare… bere ogni tre giorni tre bicchieri di pozione da ricalibrare ogni tre mesi secondo le nuove conbristole che arrivano, spesso senza che siano state chiamate… la pozione non funziona quasi mai ma ha un sapore talmente disgustoso che riesce a farmi apprezzare il resto… viva le Conbristole!!!!

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1868: Amato Amati così ritrae Bracciano Ha direzione postale, cancelleria del censo e propositeria del bollo e registro. Si contano 2.554 abitanti

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na istantanea di Bracciano di metà Ottocento. E’ la voce Bracciano di una grande opera che all’epoca, in dedica a Vittorio Emanuele II Re d’Italia, ha ripercorso la penisola. Si tratta del Dizionario corografico dell’Italia compilato per cura del prof. Amato Amati col concorso dei sindaci, delle rappresentanze provinciali e di insigni geografi e storici datato 1868. Una descrizione accurata, che si avvale dei suggerimenti del Gonfaloniere comunale, che ritrae una Bracciano d’altro tempi dove la Bracciano Nuova non era quella che oggi viene identificata nei nuovi quartieri al di là della Braccianese ma proprio quelli fuori dal castello. Ancora una volta emerge una Bracciano operosa, produttiva, ricca di agricoltura e manifattura tra le quali spiccano la cartiera e il forno fusorio. E’ proprio a riguardo della fonderia da un altro scritto arrivano notizie sulla fase napoleonica di Bracciano. Nel Processo verbale del concorso a premj de’ prodotti delle arti e delle manifatture di necessità, di comodo e di lusso de’ Romani dipartimenti in occasione del giorno onomastico di Napoleone I, Imperatore de Francesi, Re d’Italia e Protettore della Confederazione del Reno (1810) si racconta della impresa di un tale Morel Francese, Direttore del Forno fusorio e delle Ferriere di Bracciano che ottiene, alla sorta di fiera campionaria, a medaglia di argento in prima classe.

BRACCIANO (Bracennum, Brasanum, Brachianum, Arcenum). Comune nel Territorio Romano, Comarca di Roma, governo di Bracciano. Comprende le frazioni di Oriolo e Trevignano, ed ha una popolazione di 2.554 abitanti. Ha direzione postale, cancelleria del censo e propositeria del bollo e registro. Il suo territorio è parte in piano e parte in colle, e produce in copiosa quantità grano, fieno, vini, eccellente olio e pascoli. E’ bagnato dal lago omonimo e da altre acque. Il capoluogo è una città situata a Ponente e presso le rive del lago sopra citato 24 chilometri a maestro da Roma, 24 a levante da Civitavecchia e 23 a mezzodì da Ronciglione fra i 42° 04’ di latitudine e 29° 45’ 20” di longitudine. Dividesi in Bracciano vecchio e Bracciano nuovo: il primo di essi consiste nel castello feudale circondato da mura e torri nel secolo XV ed avente nel lato orientale la rocca o palazzo feudale; col secondo s’intende indicare la collegiata dedicata a S. Stefano protomartire. Dalla piazza della rocca si diramano due belle strade, che sono fiancheggiate da case ben fabbricate, specialmente quella che conduce al convento dei Cappuccini. Il palazzo ducale appartenente alla famiglia Odescalchi venne recentemente abbellito e ristaurato: la sua architettura è del secolo dal XV e nello stile ricorda il palazzo di Venezia in Roma, eretto nello stesso secolo da Paolo II sopra disegno di Giuliano Maga-nense. Recentemente i Gesuiti edificarono quivi uno stabilimento per le famose acque termali, anticamente denominate di Vico Aurelio e dedicate ad Apollo, da cui si dicono anche acque Apollinari. Nella riedificazione furono trovate molte antichità in medaglie e vasi portanti iscrizioni al dio Apollo. Vicino al lago vi è un forno fusorio e vi sono quattro ferriere, in cui si lavora il ferro grezzo, preso in gran parte dall’isola d’Elba: in queste ferriere al tempo del governo francese si fabbricavano bombe. Nel paese vi ha una cartiera, in cui si fabbrica buona carta da stampa. Ne’ tempi addietro vi era fiorente anche una tipografia, dalla quale uscì in luce nel 1631 la rara edizione della Vita di Cola da Rienzo di Antonio Fei, scritta nel dialetto popolare romanesco.

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Nei dintorni veggonsi alcune rovine, che appartengono all’antica Veio. Nelle sue vicinanze, oltre ai bagni termali, vi ha pure la celebre Grotta dei Serpenti, detta volgarmente la Grotta delle Fate, la quale sta a 18 chilometri circa da Roma fra Castel Giuliano e la tenuta del Sasso, alle falde del monte Santo: consiste in un bagno naturale a vapore, che veniva visitato da numerosa gente due o tre secoli fa per guarire, sudando, da certe infermità. Chi vi acquistava però la salute non l’attribuiva all’elevata ed umida temperatura del luogo, ma ad invisibili e benefici serpenti, i quali, provocato il sonno nell’infermo, uscivano fuori dai loro nascondigli ed aspergevano gli umori maligni al malato lambendogli tutto il corpo. Anticamente il luogo di Bracciano era occupato dalla città di Sabatia che sorgeva presso alla via Claudia, nel fundus Braccianus, che credesi abbia preso tal nome dalla gente Braccia, che, secondo il Grutero, abitava il territorio Sabatino. Il castello faceva parte dell’antica Etruria. Nel medio evo divenne Bracciano capoluogo di un potente ducato e nel secolo XIV ſu occupato dalla romana famiglia Orsini. Durante il pontificato di Eugenio IV, eletto nel 1431, si riunì a Bracciano l’esercito papale nella guerra contro Nicolo De Stella. Sotto Innocenzo VIII i Colonnesi in guerra cogli Orsini lo presero e saccheggiarono nel 20 luglio 1485. Nel 1496 Alessandro VI Borgia tentò di togliere Bracciano agli Orsini, ma essendo stato sconfitto l’esercito pontificio, vennesi ad accordi di pace. Nuovamente però essi insorsero, onde il pontefice mandò contro loro nuove truppe guidate dal cardinale Bernardino Lonati da Pavia, accompagnato dai duchi di Candia e di Urbino; morto il Lonati all’assedio di Bracciano, nel 1501 Alessandro medesimo vi fece ufficii di capitano generale. In seguito gli Orsini vennero investiti del feudo a titolo di conti, poi di duchi sotto papa Pio IV, che con diploma del 9 ottobre 1560 eresse Bracciano in ducato.

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estrarre, come dianzi, il denaro all’estero. Sono stati ancor presentati all’esame del Giurì sedici pezzi di munizione di artiglieria consistenti in bombe, palle da cannone, e mitraglia di calibri diversi, e di bella esecuzione. Ha offerto egualmente lo stesso Sig. Morel nove campioni di munizione da caccia di ferro fuso prodotto nuovo per noi, del quale l’esperienza farà in seguito conoscere il grado di utilità. Ciò peraltro, che più distingue gli edifici di Bracciano, è la eccellente qualità dei ferri in barre forgiati in quelle ferriere. Ben undici campioni sono stati sottomessi all’esame del Giurì, il quale se n’è particolarmente occupato, e li ha tutti egualmente commendati. Per tutti questi nuovi rami d’industria segnatamente per la buona qualità del ferro in barre, il Giurì ha decretato con pienezza di suffragj all’industre Sig. Morel la medaglia di Argento in prima Classe.

Nel 1696 Livio Odescalchi, nipote di Innocenzo XI, comperò dagli Orsini il ducato di Bracciano che sul principio del secolo presente fu venduto per 500 mila scudi a D. Giovanni Torlonia con patto di ricupera entro 50 anni, ciò che effettuavasi da Livio Odescalchi nel 1846. Al tempo del governo francese fu a capo a di esteso circondario. Bracciano è patria dello scultore Stati, che lavorò a Roma nel XVII secolo e vi eseguiva opere di molto buon gusto, come può vedere nel basso rilievo del deposito di Paolo V, e lo è pure del vivente matematico Mazzani, professore all’università di Roma, già maestro del cardinale Wiseman, di Massimo D’Azeglio e di Terenzio Mamiani. Secondo alcuni sarebbe di Bracciano anche il celebre tipografo Aldo Manunzio. Alcune delle surriferite notizie debbonsi alla cortesia dell’onorevole Gonfaloniere di questo illustre comune.

L’arte di fabbricare bombe Terra di Clo: versi d’amore Dedicata a Mena Fra tutte le rose tu, rosa sovrana. mia Riva pescosa arabescata dal mare. mia isola Chiara levigata dal lago, mia cruna. O mio tormento, mia malattia, rosa dispersa per ogni piega, dentro ogni vena, mia schiava minuta, mia assoluta regina... tu mia follia, mia gola assetata, screziata forma desiderata. Terra di Clo

L'albero vive dov'è Il frutto pende, l'uomo vi sosta quando è innamorato. La bocca parla e canta le parole, La lingua batte dove il dente duole. Bella che sembri la figlia di Giove, hai i capelli fluttuanti come vele, ogni folata di vento te li smuove. Quant’è bella la stella di Diana, quant'è bella la luna quando è piena, tu sei quella che il cielo colora. E’ bella la vita, è bello il sole, sono belle pure le onde del mare. Ma sono più belli gli occhi tuoi. Bella che te ne vai per la via, ti guardo il viso e mi sembri una dea, e mi fai consumare di frenesia.

MOREL FRANCESE Direttore del Forno fusorio e delle Ferriere di Bracciano Bombe, Munizione d’Artiglieria, Munizione da Cacciae ferro in barre L’arte di fabbricare le bombe è stata presso di noi, fino a questi ultimi tempi del tutto ignota. Corre ora il quindicesimo anno, allor chè fu tentato negli stessi edifizi di Bracciano di fabbricare la munizione di Artiglieria. Si riuscì allora assai mediocremente in diversi calibri di palle da cannone; ma non fu mai possibile la fabbricazione delle bombe, e ne fu abbandonato il progetto. Il Sig. Morel, direttore attuale di cotesti edifizj avendo risoluto di riassumere l’impresa, chiamò a sé due artisti Francesi, ed assistito da essi, senza scoraggiarsi né della mancanza totale di operaj esperti in una manovra affatto ignota, né della moltiplicità delle macchine da costruirsi, né delle somme vistose, che conveniva sborsare per condurre tutto a buon termine, riuscì a stabilire una fonderla capace di somministrare ogn’anno circa due milioni di libre di ferro coluto in munizione d’artiglieria, e particolarmente in bombe di perfetta esecuzione: Così abbiamo di presente il vantaggio di poter approvigionare i nostri arsenali con prodotti del proprio paese, senza

Terra di Clo

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La chiesa di San Liberato: gioiello architettonico La struttura originaria risale all’epoca carolingia. Legata ad un’antica tradizione devozionale braccianese

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na chiesa molto cara ai braccianesi ma fuori prevalentemente dai circuiti turistici perché custodita nella Tenuta Sanminiatelli Odescalchi. A goderne prevalentemente sposi e i loro ospiti di nozze. La chiesa altomedievale di San Liberato si rileva ancora tra le testimonianze più rilevanti del passato romano del territorio e racconta di un’area che fu sede, in epoca romana, della praefectura Claudia Foro-clodiensium, divenuta poi municipalità a margine del percorso dell’antica via Clodia quindi, successivamente, sede di una delle prime diocesi a nord di Roma, in stretto rapporto con l’allora fiorente Monterano. Nel suo territorio erano ricomprese anche un vicus nei pressi del santuario della Bona Dea (da individuare ancora), altri abitati oltre le due stazioni terali delle Aquae Apollinares. Poi una sorta di oblio fino all’epoca moderna. Nei primi anni del Cristianesimo i vescovi di Forum Clodii presero parte a vari concili: già nel 313 il vescovo Donatius di Forum Clodii partecipò al Concilio Lateranense indetto da papa Miliziade per la questione donatista generata dalla consacrazione dei vescovi di Car-tagine in assenza dei vescovi di Numidia. Nel 465 il vescovo di Forum Clodii partecipò al Concilio convocato da papa Ilario. Nel 487 fu il vescovo Gaudenzio di Forum Clodii a prendere parte al sinodo sulla questione dei cosiddetti “lapsi”, cattolici convertiti all’arianesimo a seguito delle persecuzioni in Africa del re dei Vandali Unnerico. Collonico, che partecipò a numerosi sinodi tra il 499 e il 502, è ad oggi l’ultimo vescovo di Forum Clodii del quale si abbia notizia. La chiesa di San Liberato ad oggi rimane una struttura di indiscutibile fascino. Restano su di essa ancora molti interrogativi. Ci si chiede infatti se la chiesa sorga su quella che un tempo era Forum Clodii o se si erga sui resti di quella che era stata la villa denominata Pausylypon di Mezia, liberta di Tito Mezio Edoneo. Tradizione vuole che presso questa chiesa nel primo giovedì di marzo i braccianesi si recasseroi in pellegrinaggio partendo da Bracciano. Si tratta probabilmente del retaggio della devozione nei confronti dei protomartiri, tra i quali Stratoclinio, i cui resti vennero traslati nella cripta.

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L’interno della Chiesa di San Liberato

La chiesa di San Liberato si trova nella cosiddetta Macchia della Fiora, tre chilometri a Nord Ovest da Bracciano, a 38 chilometri da Roma in cima ad un’altura che guarda allo specchio del lago di Bracciano. La più importante fonte documentaria su di essa è il racconto di una passio. Ne riferisce, tra gli altri, Martina Usai nella tesi “La chiesa di San Liberato. Analisi delle fasi costruttive e dei suoi arredi scultorei dal IX al XII secolo” (2017-2018) . “La passio - si precisa - è ambientata a Forum Clodii e riguarda i tre martiri Marciano, Macario e Stratoclinio”. I tre, durante la persecuzione dell’imperatore Diocleziano, sarebbero stati decapitati e sepolti il 2 gennaio in crypta miliario ab Urbe Roma XXVII ubi florent orationes Sanctorum usque in Hodiernum diem. Il cuore della chiesa è costituito dalla cripta, posta sotto al presbiterio, con la camera reliquiaria che coincide esattamente con l’altare. Secondo gli studi condotti da Usai che lamenta a tutt’oggi un’indagine archeologica approfondita, “ciò che è certo è che tutte le modifiche effettuate nel corso dei secoli sono state fatte insistendo su una stessa struttura originale che per le sue caratteristiche e i riscontri con gli altri edifici religiosi e civili a Roma e dei dintorni e sicuramente attribuibile all’epoca carolingia (IX secolo). Le pareti dell’edificio originario difatti sono ancora del tutto integre ed è

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questa la straordinarietà di San Liberato: murature in Opus quadratum di solito si conservano raramente in alzato come dimostrato dai confronti. Per lo più infatti lo possiamo trovare almeno nella città di Roma esclusivamente nelle fondazioni degli edifici. Una nuova fase costruttiva - prosegue Usai - riguarda invece il periodo compreso tra il IX e il XII secolo e consiste nell’ampliamento del complesso religioso che viene dotato di una serie di nuovi elementi: la navata laterale aperta lungo il lato nord poi chiusa lasciando solo una piccola cappella, il portico con arcate in facciata e il campanile nell’angolo sud-est. Quest’ultimo può essere datato alla prima metà del XII secolo”. Graziarosa Villani

Sproverbi Rosso di Sera... mal di testa la mattina. Can che abbaia... rompe le scatole. Occhio non vede... è di vetro. Chi va piano... arriva ultimo. Chi dorme... ha sonno. Gallina vecchia... la mangi tu. Nella botte piccola... c'è poco vino. Donna baffuta... non è mai piaciuta.

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Il Quattrocento della Tuscia Nel romanzo storico “La Notte delle Cinque Lune, il processo al Conte Everso dell’Anguillara” un affresco dell’epoca attraverso la figura di uno degli esponenti più controversi di una delle più antiche famiglie dei baroni romani

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erché un romanzo sul Conte Everso dell’Anguillara? Perché, tra le pieghe della storia ufficiale e documenti storici alla mano, c’è necessità di ridare nuova luce e nuove narrazione di un Quattrocento troppo spesso incentrato sulle “veline” di un potere, quello papale, che proprio in quegli anni, dopo il periodo buio della Cattività Avigno-nese, si stata secolarizzando e ponendo le fondamenta di quello che sarebbe stato lo Stato Pontificio dei secoli a venire.

Everso Conte dell’Anguillara è stato dipinto dalla storia davvero come un brutto personaggio, capace di praticare incesto con le proprie figlie, di rapinare i viandanti lungo la via dei pellegrini, di battere moneta falsa. Così lo dipinge nella Eversana Deiectio il cardinale Jacopo Ammannati, famiglio di papa Enea Silvio Piccolomini. Peccato che finché Everso faceva comodo, ovvero i suoi servigi da capitano di ventura si rilevavano utili per sconfiggere la potente famiglia dei Prefetti di Vico, il suo ruolo di paladino della fede veniva esaltato, mentre, non appena lo stesso Conte dell’Anguillara, ha tentato di creare una propria signoria, la scure del Papato si è abbattuta su di lui. Dopo la sua morte, avvenuta a Cerveteri il 4 settembre 1464, contro i suoi figli Francesco e Deifobo e i suoi possedimenti si mette insieme un esercito straordinario che ha visto scendere in campo anche Federico da Montefeltro. Interi territori vengono conquistati, passando sotto l’influenza papale, comprese le miniere di allume che hanno poi fatto la fortuna dei Chigi. Fu vera storia? Ne “La Notte delle Cinque Lune storia di Everso dell’Anguillara, estinzione dell’antica stirpe”, gli autori Biagio Minnucci e Graziarosa Villani, costruiscono un romanzo storico che ritrae il personaggio e la sua famiglia fin dai tempi della leggenda della sconfitta del drago di Malagrotta posta all’origine della stirpe, e lo consegnano al lettore con tutte le sue vanità e con tutte le sue debolezze in una sorta di dramma storico in cui potersi identificare. Il tentativo è quello di porre spunti di riflessioni sul potere in primis, ma anche sul ruolo che, grazie al nepotismo dilagante, alcune famiglie nobiliari hanno avuto e continuano avere. Edito da Gangemi Editore International, nel settembre 2020 il libro è stato presentato per la prima volta al pubblico in un evento in programma venerdì 24 settembre 2021 ai Giardini del Torrione ad Anguillara Sabazia. L’iniziativa è stata organizzata dall’As-sociazione Culturale Sabate che ha potuto realizzare il libro grazie ad un contributo specifico grazie al Progetto Castrum Angularie, si è avvalso del contributo di Lazio Crea e del patrocinio del Comune di Anguillara.

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All’incontro sono intervenuti Angelo Pizzigallo, sindaco di Anguillara, Emiliano Minnucci, consigliere regionale del Lazio, Maria Gabriella Scapaticci, già direttrice del Museo Etrusco di Tarquinia, il professor Luciano Osbat, già docente di Storia Mo-derna dell’Università della Tuscia e il professor Sandro Carocci, docente di Storia Medie-vale all’Università di Tor Vergata di Roma. Molto apprezzate sono state le letture a

cura degli attori Jennifer Mischiati e Fabrizio Catarci. Osbat ha detto letteralmente che gli eversani - Deifobo e Francesco, figli di Everso in particolare - vennero “macinati” dalla Chiesa. Ha inoltre evidenziato che proprio nel periodo in cui visse Everso del-l’Anguillara si pongono le basi, tra alleanze ed intese, dello stato moderno. Ha inoltre posto in evidenza la necessità di continuare nella ricerca storica della Tuscia in generale citando tra le altre cose il progetto Gente di Tuscia da lui curato nel quali sono evidenziati fatti e personaggi del territorio. Carocci per ricordare l’atmosfera del tempo ha citato una lettera di Francesco Petrarca che ebbe a parlare di contadini in armi a caratterizzare un’atmosfera da guerra permanente dell’area. Ha inoltre puntato l’attenzione sul fatto che “Gli Anguillara fra tutti i baroni romani figurano tra le famiglie più antiche”. Con gli Anguillara i Colonna e solo dopo gli Orsini. Una nuova presentazione è in programma a Roma il 19 ottobre 2021 alle 17 alla libreria Gangemi di via Giulia 142. Oltre agli autori in questa occasione interverranno Tommaso Di Carpegna Falconieri, docente di Storia Medievale all’Università di Urbino, il giornalista de Il Corriere della Sera Giuseppe Pul-lara, la dottoressa Viviana Normando, la dottoressa Sandra Ianni, profonda conoscitrice dell’arte culinaria in uso nel Tardo Medioevo e nel Rinascimento. Attorno al libro può nascere una nuova comunità che unisca e comprenda menti, territori, appassionati di una storia fino ad oggi non adeguatamente indagata, quella della Tuscia dell’epoca.

La presentazione ad Anguillara il 24 settembre 2021

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Vita psichedelica del matto Xzybownwszkyij Il nuovo libro di Flavio Caracciolo di Torchiarolo

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na storia al giorno per 100 giorni in compagnia di uno strano personaggio che guarda il mondo con spirito disincantato e curioso. Strappano sorrisi le vicende narrate da Flavio Caracciolo di Torchiarolo in “Vita psichedelica del matto Xzybownwszkyij”. Un po’ un libro del buon umore che l’autore, alla sua seconda fatica letteraria, offre al lettore invitandolo in una peregrinazione nel mondo e a valutare se il protagonista sia o no davvero un “matto”. Una lettura fresca, vivace, piena di

spunti ed evocazioni. Pagine nelle quali ciascuno può ritrovare una parte di sé. Giovanissimo, 19 anni appena, Flavio Caracciolo di Torchiarolo, vincitore di un concorso letterario, con questo nuovo libro mostra ancora una volta la sua straordinaria originalità. La chiusa di ogni “avventura” propone al lettore una massima il più delle volte lapalissiana che si traduce allo stesso tempo in uno spunto di riflessione per tutti. Di seguito riportiamo un brano del libro. Buona lettura.

Il matto Xzybownwszkyij al mercatino dell’usato

una ciocca di capelli di Einstein, amigdale, caloriferi, acquari vuoti, un Gigantopiteco, trentatré trentini, uno scheletro di adrosauro, il Fatberg, una foto della Terra piatta, il ramo del lago di Como, quattro impermeabili gialli, un coccodrillo marino, il diamante più grande del mondo, tre civette sul comò, tutti i numeri di Topolino, il re Mida ancora vivo, guanti da pugile, biglietti del tram, coltelli da caccia, banconote false, sigari cubani, la pizza napoletana con il cornicione, una medaglia olimpica, il Sacro Graal, un cameriere androide, il milite ignoto, Elvis Presley ibernato, Jumanji, una zucca di Halloween, un’aragosta irachena, un pezzo di Giove, sculture di Michelangelo, cani con la congiuntivite, archi di trionfo, e molto altro ancora. C’erano così tante cose strane, rare e introvabili, che il matto Xzybownwszkyij, nonostante la sua immensa collezione, non poteva fare altro che ergersi impotente. I suoi occhi si muovevano febbrili, le sue membra si agitavano alla vista delle merci, le sue gambe si spostavano da sole; troppa fatica per uno come il matto Xzybownwszkyij, che ben presto si accasciò al suolo, svenuto. Si svegliò solo dopo settimane o giorni, quando ormai il mercatino era terminato. Così, rialzatosi in piedi, riprese a camminare verso il resto del globo.

Quel giorno il matto Xzybownwszkyij si era imbattuto in un mercatino dell’usato. Il matto Xzybownwszkyij si grattò distrattamente la testa, perplesso, bloccato com’era tra folle in delirio e in preda alla febbre dell’oro; d’altronde, il matto Xzybownwszkyij non aveva idea di cosa un mercatino dell’usato fosse. Se da una parte, infatti, il matto Xzybownwszkyij non poteva non essere considerato un vero accumulatore di cianfrusaglie, dall’altra, avendo viaggiato per non si sa quanti anni o secoli in lungo e in largo per il mondo, e avendo trovato in questo modo ogni possibile strano aggeggio, non aveva mai avuto bisogno di recarsi in un mercatino dell’usato. Nonostante questo, il matto Xzybownwszkyij decise di dare comunque una chance al mercatino: e fu così che vi entrò. Tripudio e bellezza, meraviglia delle meraviglie; quello era il suo mondo. Il matto Xzybownwszkyij si ag-girava meravigliato tra i gazebo, osservando con dovizia di particolari tutte le inutilità esposte in bella vista: c’erano statue di imperatori greci, cellulari retrò, sedie in mogano, i sette nani, il naso di Cyrano, caramelle medievali, tappeti persiani, rotocalchi vittoriani, un moai dell’isola di Pasqua, sette pinguini, gli occhiali di John Lennon, il cervello di Pitagora,

Da questa avventura il matto Xzybownwszkyij ha imparato che il mondo è pieno di cianfrusaglie pressoché inutili.

Un mondo di pace Ho sognato un mondo di pace ed eravamo neri ed eravamo gialli ognuno con la sua storia ognuno con il suo messaggio felici d’essere liberi come gli uccelli dividevamo pane dividevamo Cielo ed eravamo figli di uno stesso amore ed ogni bimbo aveva sorrisi e pane.

Ho sognato un mondo senza guerre ed il quieto respiro della pace universale pace per ogni uomo nella sua casa pace per ogni donna è la sua creatura ed ogni fiume la sua canzone . E canto canto la pace per ogni creatura per ogni cuore per ogni vecchio che chiude gli occhi nel suo cortile.

E canto e canto un mondo senza guerre canto la pace dai mille volti bimbi felici donne in amore campi arati spighe gonfie di sole.

Vorrei non fosse un sogno ma un miracolo del cielo un mondo senza guerre un mondo senza odio.

Giuseppina Tundo

Friulana d’adozione, Giuseppina Tundo è nata a Bracciano. Amante della poesia scrive anche testi di canzoni alcune già musicate. Ha ottenuto vari riconoscimenti tra i quali il primo premio al concorso letterario Cesare Pavese in Santo Stefano Belbo. Collabora con la rivista letteraria Le Colline di Pavese. Ha partecipato a numerosi certami di poesia nazionali ed internazionali conseguendo primi premi e prestigiosi riconoscimenti tra i quali “Malattia della Vallata” in Barcis, Leone di Muggia, “Cesare Pavese, Giacomo Leopardi, Luigi Pirandello a Roma, Città di Terracina, Premio internazionale di Fermo, Gran Premio Nazionale di Poesia Regioni d’Italia concorso, Via Roma33 café. È stata insignita del Campidoglio d’oro 1987 dell’Accademia Burckhardt per una silloge di poesie. Premiata al concorso indetto dalla città di Trichiana (Belluno) “Paese del Libro” per il racconto “Un dono meraviglioso”. Sue composizioni sono state pubblicate nell’antologia Volaria (2004). È presente nella antologia “Caro amore ti scrivo” (Ibiskos editrice) 2007. Ha pubblicato nel 1994 una raccolta di poesie dal titolo “Oltre il deserto”.

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Mena e Claudio sposi

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iori d’Arancio. Filomena Maisano e Claudio Calcaterra, editori di Gente di Bracciano, il 4 settembre scorso si sono uniti in matrimonio. A celebrare il rito che ha visto testimoni Graziarosa Villani e Emiliano Grosso, il consigliere comunale Claudio Gentili. Si è coronata così una unione che dura ormai da qualche anno. A festeggiare, negli spazi del ristorante Alfredo Persichella, numerosi parenti ed amici. Ancora una volta le nozze testimoniano che, a tutte le età, l’amore è una cosa meravigliosa. A Mena e a Claudio i sentiti auguri di tutta la redazione di Gente di Bracciano. Fotoservizio Luca Tedesco

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