Gente di bracciano n 6 gennaio 2016

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Sabatia Stagna e la villa romana di Santo Celso A colloquio con l’archeologo Giuseppe Cordiano dell’Università degli Studi di Siena

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ieni, c’è una villa nel bosco”. Il bosco è quello di Santo Celso, la villa, quella di epoca romana solo in minima parte scavata. Siamo in riva al lago. A Bracciano. Di qua è di là della strada il sito archeologico, una delle ventidue ville romane finite sott’acqua a causa dell’improvviso innalzamento del livello del lago attorno al 60 d. C. Su questo ed altri sito sono in corso studi. Si tratta del grande progetto Sabatia Stagna che ormai da un decennio sta conducendo attorno al perimetro lacustre il professore Giuseppe Cordiano dell’Università degli Studi di Siena. Un lavoro meticoloso che, tra mille difficoltà, sta restituendo al territorio sabatino un pezzo della sua storia. Un epoca in cui il lago di Bracciano era meta di facoltosi patrizi romani con megaville, diremmo oggi, direttamente sul lago. La più nota è la villa di Domiziano nei pressi di Vicarello. Così Cordiano parla del sito di Santo Celso catalogato IT104. “Non è possibile allo stato attuale dare un attribuzione. Solo il 10 per cento ad oggi è stato indagato”. Quando vennero effettuati i primi scavi? Negli anni Settanta la realizzazione della strada comportò un taglio. All’altezza del chilometro 3,30-3,80 la Soprintenza alle Antichità per l’Etruria Meridionale effettuò degli scavi. Portò alla luce strutture murarie riconducibili ad una villa edificats nell’avanzata età tardo repubblicana ed oggetto già attorno alla prima età imperiale di rifacimenti e restauri. Lo scavo raggiunse in alcuni ambienti gli originali livelli pavimentali. Fu rinvenuto anche un lembo di mosaico a tessere litiche bianche con duplice fila parallela di tessere nere lungo uno dei bordi. Furono rinvenute anche 8 testate di muri spesso finemente intonacati e alcuni rivestiti probabilmente con crustae marmoree, alcune delle quali in marmor Carystium. Lo scavo portò all’individuazione del limite nord-orientale della villa costituito da un angolo con paramento in quasi reticolato che poggia su un massiccio basamento lungo la probabile fronte verso il lago di questa villa verosimilmente a terrazze, Nell’ambiente più a nord si nota una

superstite copertura a volte a botte che penetra nel tufo al di sotto del livello del bosco verso sud-ovest per 12 metri circa. Si ritiene che in età alto-medievale il criptoportico venne usato per scopi religiosi, come indicherebbe il toponimo S. Celso. Si è conclusa a ottobre la mostra “Archeologia sott’acqua. Ville romane nel Lago di Bracciano” sui suoi studi. Nel 2016 come proseguiranno le ricerche e le attività? “L’intento è proseguire le indagini archeologiche a Vigna Orsini di Bracciano, avviate dal 2013 col sostegno del Consorzio Lago Bracciano, attrezzando il sito della villa rivierasca oggi sott’acqua. Si vuole anche incrementare la pannellistica archeologica sulle dimore romane finite inaugurata col posizionamento dei primi 2 pannelli (su 22) proprio nella piazzola al chilometro 17 della SP Settevene-Palo a Vigna Orsini. Ritengo importante poi la decisione di istituire una corsa mensile da marzo a ottobre 2016 della motonave Sabazia II per la visita dei resti archeologici di età romana visibili a pelo d’acqua presso le rive. Fondamentali poi le iniziative didattico-divulgative rivolte alla scuola per la “lettura” del significato dei ‘cocci e muracci’ antichi di cui sono ricche le campagne e le rive sabatine. Graziarosa Villani

Gente diBracciano Gennaio 2016 - numero 6


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Gente Bracciano

Prosegue il racconto della Bracciano di ieri di oggi

Pasolini e il suo cinema di denuncia

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Secondo Rodotà: “prigioniero della macchina della giustizia”

Gennaio 2016 - Numero 6

Dedicato a Eleonora Editore: Associazione Gente di Bracciano Presidente: Claudio Calcaterra Direttore responsabile: Graziarosa Villani Redazione: Francesco Mancuso, Vittoria Casotti, Mena Maisano, Biancamaria Alberi, Luigi Di Giampaolo Collaboratori: Massimo Giribono Fabercross, Pierluigi Grossi Registrato al Tribunale di Civitavecchia n. 1388/2014 Stampa: FEDE 2011 srl Via dei Vignali, 60 Anguillara Sabazia su carta riciclata

Contribuisci al progetto Per la TUA pubblicità contatta la Redazione: gentedibracciano@tiscali.it cell. 349 1359720 foto di copertina a cura di

uesta rivista compie due anni di vita. Debuttammo con il numero 0 con molto entusiasmo, ma anche con molto timore di fallire nel nostro progetto. Oggi, 2016, l’entusiasmo di continuare a far vivere la rivista che mensilmente parla delle famiglie, della gente e della storia di questa splendida cittadina e dove le persone si raccontano e raccontano di personaggi noti e meno noti, dove ognuno di noi ritrova un poco della propria storia, persiste. Ricordiamo e raccontiamo di illustri personaggi che hanno contribuito a rendere indimenticabile la storia di questa cittadina con il suo magnifico castello e il suo splendido lago. Raccontiamo come Bracciano sia diventata famosa attraverso la sua gastronomia con i prodotti del lago e la sua prelibata “porchetta”. Ricordiamo inoltre le iniziative dei Rioni di Bracciano che a Carnevale organizzano bellissimi carri allegorici. Una Bracciano dove il 6 gennaio da oltre 25 anni arriva la Befana per distribuire ai bambini, ai nonni del centro anziani e ai degenti ricoverati all’ospedale Padre Pio, dove a Pasqua si realizza la straordinaria Via Crucis organizzata dal Rione Monti. Ricordiamo poi le varie feste medievali e rinascimentali ed i tanti mercatini organizzati durante l’anno, dall’associazione commercianti. Vorrei concludere ricordando l’emozione dei tramonti che donano a Bracciano, al suo castello e al suo lago colori caldi e pieni di immenso fascino. Claudio Calcaterra

Prima che bruci Parigi Finché ancora tempo, mio amore e prima che bruci Parigi finché ancora tempo, mio amore finché il mio cuore è sul suo ramo vorrei una notte di maggio una di queste notti sul lungosenna Voltaire baciarti sulla bocca e andando poi a Notre-Dame contempleremmo il suo rosone e a un tratto serrandoti a me di gioia paura stupore piangeresti silenziosamente e le stelle piangerebbero mischiate alla pioggia fine. Nazim Hikmet

asolini viene consegnato alla giustizia con il suo esordio, il libro Ragazzi di Vita, e rimane prigioniero della macchina della giustizia, anche dopo la morte. E’ un eretico rispetto alle idee correnti, alla morale diffusa che è capace di incidere, mettendo in gioco se stesso, sulla vicenda italiana. Pasolini attraverso una serie di sue azioni sposta sempre più avanti i confini di ciò che è giusto pronunciare e non tenere nascosto”. Sono alcune delle recenti considerazioni del giurista Stefano Rodotà a commento degli approfondimenti per il quarantennale della morte di uno dei personaggi più eclettici del Novecento italiano. Nel suo cinema come nella sua letteratura Pasolini non tace ed ogni volta fa scandalo. La morale di allora lo accusa apertamente. Si contano 24 procedimenti tra processi, censure e sequestri di film. La sua opera è una continua e serrata provocazione. Quasi volesse alzare sempre più l’asticella in una operazione verità che scalzasse via una volta per tutte ipocrisia e silenzi. Atti osceni, vilipendio alla religione sono alcune delle accuse che il regista ha dovuto fronteggiare. Nel mirino le sue opere, ma anche la sua persona. “Sono sempre preoccupata disse la madre - quando inizia a girare un nuovo film”. La sua cinematografia va in crescendo ed ogni volta crea dibattito. Sin dal debutto nel 1962 con Accattone scritto con la consulenza di Sergio Citti e interpretato da Franco Citti. Si tratta dei due fratelli che Pasolini conobbe non appena arrivato a Roma nei primi anni Cinquanta e che gli fecero conoscere la città vera e verace. Gli insegnarono gergo e dialetto romanesco tanto che Pasolini dirà che i due fratelli erano il suo “dizionario vivente”. In Accattone viene ritratta la periferia estrema. Mirato la scelta di attori non-professionisti in quanto - disse Pasolini rappresentabili” da nessun altro che da essi stessi in quanto soggetti incontaminati, puri, privi delle sovrastrutture imposte dalla società. Alla prima al cinema Barberini a Roma, giovani neofascisti cercarono di impedirne la proiezione, lanciando inchiostro contro lo schermo, piccole bombe di carta e finocchi tra il pubblico. Nel parapiglia generale la visione fu sospesa per un’ora. Nello stesso anno anche Mamma Roma con una impagabile Anna Magnani fu denunciato dai carabinieri. E’ del 1968 il sequestro di Teorema per oscenità. “In ogni immagine, in ogni scena si sente il turbamento di un artista” aveva commentato sul film il grande regista francese Jean Renoir. Finisce nel mirino della giustizia anche la Trilogia della Vita con il Decameron (1971) ispirato all’omonima opera di Giovanni Boccaccio, I racconti di Canterbury (1972) ispirati all’opera di Geoffrey Chaucer e Il fiore delle mille e una notte (1974). “Il corpo: ecco una terra non ancora colonizzata dal potere” disse Pasolini all’epoca parlando del Decameron. Ma è del 15 giugno 1975 l’abiura dello stesso Pasolini. “Io abiuro dalla Trilogia della vita - scrisse in Lettere Luterane - benché non mi penta di averla fatta. Non posso infatti negare la sincerità e la necessità che mi hanno spinto alla rappresentazione dei corpi e del loro simbolo culminante, il sesso. Tale sincerità e necessità hanno diverse giustificazioni storiche e ideologiche. Prima di tutto esse - scrive - si inseriscono in quella lotta per la

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democratizzazione del “diritto a esprimersi” e per la liberalizzazione sessuale, che erano due momenti fondamentali della tensione progressista degli anni Cinquanta e Sessanta. In secondo luogo, nella prima fase della crisi culturale e antropologica cominciata verso la fine degli anni Sessanta - in cui cominciava a trionfare l’irrealtà della sottocultura dei “mass media” e quindi della comunicazione di massa - l’ultimo baluardo della realtà parevano essere gli “innocenti” corpi con l’arcaica, fosca, vitale violenza dei loro organi sessuali. Infine, la rappresentazione dell’eros, visto in un ambito umano appena superato dalla storia, ma ancora fisicamente presente (a Napoli, nel Medio Oriente) era qualcosa che affascinava me personalmente, in quanto singolo autore e uomo. Ora tutto si è rovesciato. Primo: la lotta progressista per la democratizzazione espressiva e per la liberalizzazione sessuale è stata brutalmente superata e vanificata dalla decisione del potere consumistico di concedere una vasta (quanto falsa) tolleranza. Secondo: anche la “realtà” dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico: anzi, tale violenza sui corpi è diventato il dato più macroscopico della nuova epoca umana. Terzo: le vite sessuali private (come la mia) hanno subito il trauma sia della falsa tolleranza che della degradazione corporea, e ciò che nelle fantasie sessuali era dolore e gioia, è divenuto suicida delusione, informe accidia”. Alla Trilogia della Vita seguirà la Trilogia della Morte della quale solo un film, Salò o le 120 giornate di Sodoma, venne girato nel 1975. Uscì postumo nel 1976. “Il progetto di Pasolini - commentano gli enciclopedici della Treccani sul film - fu quello di mettere in corto circuito la retorica del mezzo cinematografico attraverso sé stesso: fornendo concretezza corporea alle fredde descrizioni verbali del romanzo, rendendo la strage gesto quotidiano e normalizzato, trasformando il cinema da sogno a occhi aperti in incubo, per suscitare la reazione attiva dell’inebetita merce culturale a cui è ridotto lo spettatore”. A cura di Claudio Calcaterra

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Il gran cuore di Gianfranco Vecchiotti

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ncontro Gianfranco a casa sua. Una stretta di mano poderosa e trovo sul tavolo i tanti articoli che L’agone, nel tempo, ha scritto sulle sue attività braccianesi. La macchinetta del caffè emette il suo sibilo che racconta del suo arrivo, intanto leggo e ascolto le storie di Gianfranco. Non so come e perché, ma mi balza alla mente l’immagine dell’Etna. Ero a Zafferana, alle sue pendici, ospite di cari amici in un periodo di attività del vulcano. Era appena scesa la notte e un boato squarciò il suo silenzio, uno spettacolo irraccontabile, terribile e magnifico insieme. Montammo in macchina, accesi di curiosità, e via, incontro alla lava che scendeva. Così mi sono sentito per tutta l’intervista. Gianfranco è un vulcano in azione, un boato e una pausa, un fiume di parole e una pausa ed è dentro di queste che mi sono ritirato spesso per tentare di cogliere il cuore del suo messaggio. Tutto cominciò con la passione di Gianfranco per i viaggi, voleva visitare il mondo e trentadue anni fa, quando era presidente del rione Cartiere, lanciò, al consiglio d’amministrazione, l’idea di organizzare il suo sogno. All’inizio lo presero per un visionario, un illuso, ma lui non si arrese e cominciò a organizzare gite di un giorno, alla scoperta delle bellezze del nostro paese. Gianfranco è un perfezionista: prima sopralluoghi per vedere di persona i luoghi da incontrare, le guide per raccontare le storie e le bellezze di quei luoghi, gli chef per organizzare pranzi da ricordare e poi la sua inarrestabile verve per creare un clima amicale, partecipativo. E le gite diventano, pian piano, sempre più mirate e partecipate. Quando arrivai a lambire la lava, c’era la protezione civile a tenerci alla debita distanza, trovai dei monelli che vendevano oggetti fatti con la lava, avevano stampini e cucchiaiole d’acciaio, eludevano la sorveglianza e giù lava, l’ultima, la più “fredda”, negli stampini per poi vendere ai tanti noi che arrivavamo fin lassù gli oggetti della loro arte imprenditiva. Comprai portaceneri e strane statuette,

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India. Villaggio di Ragjastan - bimba abbandonata

tutte rigorosamente laviche. Ed ecco che Gianfranco mi dona, in una pausa, il racconto lavico dell’altro suo sogno da realizzare: aiutare i più deboli, i più indifesi. Tutto cominciò ventisei anni fa con l’incontro con la comunità “Punto linea verde”, una casa d’accoglienza per ragazzi e ragazze che avevano problemi con la droga, l’alcol, la giustizia. Che fare per aiutarli? E Gianfranco comincia a raccontare delle sue “Feste dell’amicizia”, così ha voluto chiamarle per rimarcare la loro caratteristica di luogo d’incontro e di speranza. Vedo Gianfranco commosso, come se rivivesse quei momenti, si ferma un attimo e gli chiedo che mestiere facesse: “il portalettere”, mi risponde con un candore pari a quello dei suoi capelli che gli donano un’aria serafica, l’immagine della quiete sotto il fuoco delle sue emozioni. Così incontrò la comunità, portando lettere, facendo amicizia con alcuni di loro. I ragazzi inseriti nella comunità lavo-

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ravano la terra e vendevano il frutto del loro lavoro al mercato, “non avevano nulla”, racconta Gianfranco, “e spesso non avevano nessuno che si ricordasse di loro”. E furono proprio il dolore e la tristezza che gli procurarono quegli incontri la molla che lo spinse a organizzare le sue feste. Ricorda la prima: una trentina di persone a cena insieme agli ospiti della casa d’accoglienza a brindare insieme per il Natale, donando una speranza, una possibilità. Il ricavato della festa e della lotteria che mise in piedi fu devoluto interamente alla casa d’accoglienza. Gli chiedo che umori viaggiassero tra le persone che decidevano di vivere quell’esperienza e quei ragazzi “difficili”, un pennacchio di lava al cielo e mi risponde con una semplice parola: stupendi! Allora gli chiedo se c’è mai stata qualche tensione: mi risponde che solo una volta uno se ne uscì dicendo che questo non sarebbe mai successo ai suoi figli, allora lo abbracciò e tutto finì lì.

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“Sai ho un carattere che non sa vedere la cattiveria, aggiunge con pudore, so vivere solo l’incontro con l’altro” e ho visto i suoi capelli divenire ancora più candidi. Gli chiedo un ricordo particolare di quelle feste, ci pensa un po’ e mi racconta di quando fecero una sorpresa ad uno dei ragazzi. La comunità contattò i nonni che avevano in affidamento suo figlio di due anni, la madre scomparsa nel nulla: quando lo vide lo abbracciò, con gli occhi lucidi e il cuore in fiamme. Gli chiedo cosa sentì lui quando vide quell’abbraccio, mi risponde con una semplice parola: stupendo e dietro ho sentito prima il pennacchio di lava al cielo e poi il suo ritirarsi nel suo magma, pronto alla prossima eruzione! La casa d’accoglienza chiuse i battenti dodici anni dopo l’inizio delle feste dell’amicizia. Che fare? Fu così che Gianfranco cominciò il suo rapporto con il convento dei frati cappuccini e con frà Filippo, il frate superiore. Intanto dai trenta iniziali le feste avevano visto aumentare la partecipazione dei cittadini di Bracciano, fino ad arrivare a cento e passa presenze. Il racconto del rapporto con frà Filippo è toccante. Ho sul tavolo la fotografia che mostra il frate con la “sua faccia buona” -sono parole di Gianfranco -, i suoi occhi dolci, color marrone acceso, la candida barba fratesca, che guarda davanti a sé e, con il capo delicatamente chinato sulla sua spalla, un commosso e provato Gianfranco: una foto intensa, ricca di simboli e significati. Gianfranco parla di frà Filippo come di un altro padre… “le sue prediche erano scarne ma arrivavano dritte al cuore della tanta gente che le ascoltava; era infaticabile nel portare aiuto ai bisognosi: partiva con la sua improbabile auto e razzolava tutto quello che gli capitava alla fine del mercato e via a portare pane e companatico a poveri, vagabondi, persone in difficoltà; sferzava gli altri frati a darsi da fare per produrre olio e vino, per incantare le loro galline a fare uova: tutto da vendere per ridistribuire il ricavato all’umanità dolente che aveva deciso di aiutare; ospitava nuclei familiari senza casa e lavoro nel convento; per lui e i suoi fraticelli pane e poco altro, segno della missione di povertà cristiana a cui avevano deciso di dedicare la loro vita”… un soffio di voce e aggiunge…”questa è la differenza tra un frate e un prete, un frate non ha uno stipendio, vive solo della sua fatica e dell’elemosina che riesce a raccogliere... Poi un groppo nella gola e racconta dei tanti guai che ha dovuto affrontare frà Filippo, fino all’ischemia che gli tolse la facoltà della parola, ma lui non ci stette

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Deserto di Vudi Ram - Gioedania - pernottamento in tenda

e la domenica volle essere sempre lì al suo posto, masticando le parole che riusciva ad emettere, davanti ai suoi paesani che lo confortavano con la loro presenza sempre più numerosa. Gianfranco si concede una pausa prolungata, il riaffiorare alla memoria del suo altro padre lo ha turbato, ha bisogno di riallacciare il filo del suo racconto…”quando morì frà Filippo, pochi anni fa, arrivò al suo posto un nuovo frate superiore. Bastarono un paio d’anni: il convento dismise alcuni suoi beni, fino a chiudere definitivamente i battenti, oggi il convento ospita quasi quaranta migranti, altra umanità dolente che frà Filippo avrebbe abbracciato e sostenuto”. Anche qui le sue feste dell’Amicizia vissero di profonda partecipazione e presenza: un aiuto formidabile per quei poverelli d’Assisi al fine di sostenere la loro missione d’aiuto ai “miseri” della terra. E ora che fare? Gianfranco, infaticabile, incontra l’AAIS, Associazione per l’assistenza e l’integrazione sociale, una no-profit iscritta all’Onlus. Il Centro è ubicato a Bracciano, in via Varisco 11, nei locali appositamente realizzati dalla Coop. Ed. Il Trifoglio, i cui soci, per la maggior parte sono parenti dei disabili che frequentano il Centro. Le finalita' che si prefigge sono quelle di offrire servizi che, tramite un recupero psicoterapeutico, pedagogico e formativo, possano consentire l'integrazione dei Disabili Adulti residenti nel territorio. Insieme a me e Gianfranco ci sono

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“Mena” e Claudio, senza loro Gente di Bracciano non esisterebbe, che vogliono raccontarmi la loro partecipazione alla recente festa dell’amicizia che si è svolta da Alfredo, da Persichella, la cui storia i lettori del giornale hanno trovato nel numero di marzo del 2015. Hanno ancora vivida l’emozione di una sala con quasi trecento persone partecipanti e il tavolo dei trenta “frequentatori” dell’AAIS, seduti al centro della sala, a ridere e cantare, tutti insieme, appassionatamente, accompagnando le note dell’orchestra che invitava al ballo. “Mena” e Claudio hanno ballato, riso, si sono emozionati nel vedere tanta partecipazione, tanti giovani, “siamo rimasti profondamente colpiti dal clima di profonda empatia che è cresciuta minuto dopo minuto”, dicono, quasi a una sola voce. Gianfranco riparte e mi racconta che hanno venduto 5.000 biglietti della lotteria, con premi messi a disposizione dall’associazione pittori “La cerqua”, dall’associazione commercianti, da singoli commercianti e artigiani, dall’Università Agraria, dal Centro Anziani, da Tour Plan, e da tanti cittadini di cui sarebbe difficile fare l’elenco. E tutto per sostenere i trenta magnifici disabili lì al centro della sala, a gioire della loro serata. E, a mezzanotte, cornetti caldi, caramelle e tanti dolcetti per tutti, ma i più buoni e i più dolci ai magnifici trenta, insieme a piccoli pelouche d’accompagnamento. Sento una pausa che mi dice che il rac-

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Bruno Fiorentini: una vita in versi A Bracciano: una eccellenza “poetica”

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Gianfranco

conto delle feste è finito. Gli chiedo allora di dirmi qualcosa sull’altra sua passione e il vulcano entra di nuovo in azione. Lui ora svolge un’attività di promozione viaggi per la Tour Plan e mi dice che Alessandra, la responsabile romana dell’agenzia, ringrazia sempre la cittadina di Bracciano per la sua forte partecipazione ai viaggi che fanno sognare Gianfranco. Gli chiedo qual è il luogo che lo ha più colpito. Allora mi racconta delle “case” delle fate in Cappadocia: un paesaggio quasi irreale fatto di torri, canyon, crepacci, pinnacoli e villaggi rupestri dai colori straordinari, che vanno dal rosso all’oro, dal verde al grigio. E’ il risultato del paziente lavoro di Madre Natura e opera di due vulcani inattivi ormai da molto tempo. Nei cosiddetti ‘camini delle fate’, stranissime formazioni laviche a forma di cono, si rifugiarono popolazioni eremite che scavarono le loro abitazioni nel tufo - una polvere composta da lava, cenere e fango -, un po’ come quelle etrusche. Poi mi ha fatto viaggiare in Cina e mi racconta che sulla muraglia

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danno una pergamena timbrata per chi riesce a fare un percorso di almeno due chilometri, ci provò e non ci riuscì, troppe scale, troppi dislivelli, troppa fatica. Da lì sono arrivato a navigare il Nilo, con la loro nave assalita da piccole barche piene di monelli a chiedere il soldo della giornata. E poi in India dove tocchi la miseria con le mani, fino allo spettacolo desueto dei corpi dei morti, quelli dei poveri, i ricchi si fanno cremare, buttati nel Gange, il fiume sacro che accoglie la vita e la morte. Gli chiedo che impressione facesse ai partecipanti la vista di tali spettacoli, mi risponde con una parola semplice: irraccontabile! Poi vedo Petra e la sua scalinata di più di ottocento gradini, tutti scavati nella roccia, per arrivare al monastero Giordania, e via a Luxor ad ammirare la magnificenza dei faraoni…non lo fermo più e sento una simpatica invidia salirmi al cuore pensando a quanti braccianesi hanno potuto godere di cotanti spettacoli. E via in Patagonia, incontrata da Magellano nella sua circumnavigazione del-

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la terra, poi assaporo il silenzio sdegnato del deserto e vedo Gianfranco dormire la notte in tenda, dopo aver fatto festa, sotto una luna fredda e partecipe, con i beduini. Sento che stiamo per terminare il nostro incontro, allora chiedo a Gianfranco, pensando alla sua storia e al suo impegno solidale per i deboli, i poveri, quali sentimenti viaggiassero in lui, turista non per caso, in luoghi così densi di fatica di vivere. Mi risponde con una frase semplice: “non lo so, lì ti senti totalmente im-preparato e manca il tempo per elaborare un sentimento interpretabile”. Sento che il vulcano sta rientrando nel suo alveo. Poso il quaderno e la penna che mi accompagnano sempre in questi racconti braccianesi e mi parte, senza averlo pensato, un gesto tenero nei suoi confronti: carezzo la sua spalla, quasi a esorcizzare uno strano formicolio che mi scorre sulla pelle, che, ovviamente, non sono riuscito a interpretare, ero impreparato! Grazie Gianfranco!!! Francesco Mancuso

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iù di una volta ho sentito il desiderio di porre in primo piano le eccellenze di Bracciano. Eh sì, perché in ogni città, cittadina, paese o paesino ci sono persone che hanno doti particolari e mi sembra giusto accendere i riflettori su di loro. Bracciano, di eccellenze poetiche, ne ha una davvero straordinaria, scommetto che siete curiosi e volete sapere chi è: eccovi accontentati, è…Bruno Fiorentini. Certo, oggi canzoni, canzonette, trombe, trombette e tromboni spopolano e parlare di poesia può sembrare fuori moda, ma e proprio così? Se ci pensiamo bene, la poesia, quella vera, ha un fascino particolare; chi di noi ascoltando o leggendo una poesia non ha provato emozioni o sensazioni che non ha saputo spiegarsi? Chi di noi pescando nella propria memoria, non ne conosce, a mente, almeno una strofa? “La donzelletta vien dalla campagna...” o “sempre caro mi fu…” o ancora “l’albero a cui tendevi la pargoletta ma-no”…Già, la poesia ha una forza straordinaria: sa suscitare ricordi, sentimenti e immagini di un passato a volte lontano ma che, come per incanto, torna a rivivere nel presente. Ecco: la poesia di Bruno Fiorentini ha proprio queste caratteristiche e questa forza. Ma quando si è scoperto poeta? Nella vita, molte volte è il caso a decidere e per Fiorentini è stato proprio così: nel collegio dove studiava, compagni ed insegnanti lo hanno eletto, pensate un po’, poeta ufficiale. In occasione di cerimonie e feste, immancabilmente, gli veniva chiesto un componimento poetico che, immancabilmente, riscuoteva immancabile successo. Poi si sa, la vita con i suoi mille problemi distrae, ma quella sua “vena poetica” non era scomparsa, probabilmente si era solo addormentata. Per ricomparire dopo i cinquanta anni, più robusta e matura. Da allora è un susseguirsi di stornelli, odi, sonetti, poemi e poemetti. Ma qual è la caratteristica della poesia di Fiorentini? A dire il vero nella

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sua poesia di caratteristiche ce ne sono diverse, ma forse quella che “sente” di più è quella in dialetto romanesco. Sulle orme del poeta romano Belli, Fiorentini sa tradurre in versi quello spirito popolare che senza ipocrisia, usando un linguaggio a volte forte, che qualcuno potrebbe definire sboccacciato, ma che sa cogliere appieno “l’anima” di un fatto o di una situazione, come questa “ora legale” Er gallo ner pollaro se ne fotte lui canta quanno er Sole sortefora manco ce pensa de scurtà la notte! “Legale” o “nunlegale” un’ora è un’ora. Se sparagna la corrente? Nun me ne grfega un accidente! Io, pe sparagno sparagnerebbe er core che me magno. Divertente nò! Certo la poesia ha regole precise, una “metrica” che, rispettata, dà al verbo un’eleganza e un’armonia tutte sue. Fiorentini sa utilizzare, adattandoli al tema che tratta, vari tipi di versi e di “metri”. La sua sensibilità lo porta a misurarsi, come abbiamo visto, non solo con la poesia dialettale, ma anche con quella religiosa o con quella più “intimista” come questa “brinata”

i riconoscimenti, le segnalazioni, le coppe e le medaglie che la sua poesia ha ottenuto. Ne ricordo solo alcuni: 1° classificato al premio poetico internazionale “laudato sie e mi signore” di Falconara (Ancona) con la “poesia” Madre Teresa di Calcutta; 1° classificato al premio internazionale Belli per la poesia dialettale a Roma; 1° classificato al concorso “Francesco Chirico” a Reggio Calabria, con la poesia “A Maria”. Questi pochi esempi dimostrano, tuttavia, le sue capacità e le qualità della sua poesia. Una poesia, quella di Bruno Fiorentini, con cui possiamo ridere, sorridere, riflettere e anche commuoverci. Eh sì! A Bracciano abbiamo davvero un’eccellenza poetica. Luigi Di Gianpaolo

Quanno marisvejo la mattina da la finestra accapannata in fonno un’arba chiara, gelida di brina me lascia a galleggià tra veja e sonno mentre me bevo un sorzo d’aria fina er monno me pare tutto e un artro monno ogni cosa così imbrillantata da ‘na trina ricamata da un mago in tonno tonno ogni presenza umana s’arinzerra ogni forma de vita sta sospesa in quer gelo de l’aria e de la terra sortanto du cavalli, fianco a fianco fermi de sasso in quella stesa cor manto bicio diventano bianco. Che ve ne pare? Non vi è sembrato di trovarvi immersi in quella brinata? E di vedere laggiù, quei due cavalli fermi in mezzo a quel prato l’uno accanto all’altro come a voler scaldarsi? Che magie sa fare la poesia!! In Fiorentini, questa capacità di descrivere e di interpretare i diversi momenti che la vita ci mette dinanzi e di saperli tradurre in versi gli ha procurato moltissime soddisfazioni. Numerosissimi sono infatti i premi ed

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Controcorrente 10. Le parole Se è vero che la lingua si muove, l’etimologia ricostruisce coreografie, una danza antica che anima il linguaggio dell’oggi

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er milioni di anni i primati prima e gli uomini poi hanno comunicato fra loro in modo non verbale, attraverso i movimenti del corpo, come i gesti, la mimica del volto, lo sguardo, le grida, i richiami gutturali. Ma la comunicazione non verbale trova enormi difficoltà a esprimere concetti e significati sia di realtà astratte, sia di oggetti naturali e di artefatti. La comunicazione non verbale, da sola, non è in grado di dare origine alla cultura. E’ la parola che consente alla cultura di nascere. La parola, infatti, è capace di manifestare idee, concetti e significati di qualsiasi genere. Permette di esprimere ad altri i simboli che ciascun individuo elabora nella propria mente. Di conseguenza, si può dire che la nascita della cultura coincide con la nascita della capacità simbolica degli esseri umani grazie al linguaggio. Ma come e quando è nata la parola? Gli scienziati dicono che la parola nacque tra 200.000 e 500.000 anni fa. Immagino il mio antenato davanti a un noce enorme, lo guarda insieme all’orda con cui sta festeggiando, sotto la sua enorme ombra, l’uccisione di un dinosauro…gruut, gruut, gruut, dice un giovane guerriero…ma il più vecchio lo corregge: albrr, albrr, albr… e voglio pensare che fu così che quel noce cominciò a chiamarsi, intanto, “albero”!!! Solo giuocando con la fantasia riesco a sopire la mia divorante curiosità nel tentare di “capire” perché la lampada si chiama così e non miriapoliutupa, perchè lo squalo si chiama così e non tartumpilone, perchè le scarpe si chiamano così e non dadadupodi, perché lo zaino non si chiama parpalo? Perché la tastiera non si chiama kamarotui? E c’è un altro “mistero” che mi affascina: è la corsa a ritroso nel tempo alla scoperta del momento in cui, da una lingua, una parola è passata in un’altra, modificandosi attraverso i suoni di chi l’ha accolta, oppure cambiando la sua natura attratta da un suo contrario. Se è vero che la lingua c’è e si muove, l’etimologia è uno studio ricostruttivo di coreografie: un modo per ricreare la danza antica delle parole dai primi passi mirati fino alle evoluzioni immediatamente indivi-

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duabili dei nostri giorni. Mi commuovo spesso pensando al lungo viaggio migrante che le parole hanno affrontato, nello spazio e nel tempo, da una lingua all’altra, da un popolo all’altro. Spesso rifiutate in partenza, per diventare - spesso fortunatamente - ricchezza e premio della lingua d’arrivo. Prendiamo ad esempio la parola cinese pi-thy-za, letteralmente “ruota bianca”. Lei non sapeva che nel XIII secolo sarebbe arrivato un certo Marco Polo, che avrebbe portato in Italia gli spaghetti e la pitizza, la focaccia cinese fatta con acqua e farina, poi diventata la nostra “pizza”, arricchita mirabilmente dai napoletani. O la parola “zampogna” che anticamente era chiamata dai Greci la sampaghnìa, uno strumento costruito con pino marittimo. Dal greco poi, per tramite siciliano, il latino medievale la trasforma in sampaniam, fino alla prima attestazione del giullare aretino Baccio dei Castigli nel 1194: “et era tucto sille(n)te ne (l)la via / sin ch’eo sonai pro meo / la zàmponnìa”». E che dire del significato delle parole! Prendiamo la parola anarchia, dal greco antico: ἀναρχία. Essa voleva intendere un’organizzazione della società basata sull’idea libertaria di un ordine fondato sull’autonomia e la libertà degli individui, contrapposto ad ogni forma di potere costituito. Oggi la parola è associata solo ad una situazione pericolosamente fuori controllo, caos contro ordine. Certo in mezzo c’è il viaggio delle parole dentro la storia che ne modifica spesso senso e ordine. E che dire dell’ossimoro. Ogni volta m’incanto davanti alla sua forma. Riuscire a contenere insieme gli opposti, “che meraviglia”! Quante volte abbiamo detto di sentire un silenzio assordante, o siamo stati d’accordo o no sulle convergenze parallele o abbiamo compianto l’orrore sublime che prova un rude cow-boy quando deve sparare al suo cavallo azzoppato per non farlo morire tra atroci dolori! Ma la mia curiosità sulle parole è diventata “ossessione” quando un caro amico mi parlò delle poesie di Fosco Maraini (che non conoscevo affatto), definendole una caotica sequenza di lettere e parole, un insensato e anarchico susseguirsi di fonemi. Cominciai a leggere le liriche del poeta toscano e mi sembrò di volare: entrai in un mondo di paro-

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le anarchiche, ma niente caos, bensì al contrario, trovai l’ordine supremo delle cose. Supremo perché quelle parole non necessitavano di un pre-ordine, di un’istituzione che dettasse e imponesse regole per il perfetto funzionamento del meccanismo letterario. L’anarchia, nella poesia di Fosco Maraini, diventa, così, il puzzle dove ogni tassello sa autonomamente dove andare con estrema precisione a collocarsi, perché sa di avere diritto a uno spazio tutto suo, nel rispetto irrinunciabile dello spazio destinato a chi gli sta attorno. Ogni frase, ogni parola, ogni singola lettera delle sue poesie è situata al posto giusto, semplicemente perché quello è l’unico posto dove quella frase, quella parola, quella singola lettera potrebbe stare. Tutto ciò senza che un solo termine non sia stato inventato di sana pianta dall’autore. Le parole di Maraini non si trovano in nessun vocabolario, malgrado ciò esse esistono pur non essendo riconosciute e riconoscibili, ciò nonostante sembra di percepirne chiaramente il significato, perché la perfezione di quei suoni messi sapientemente in rima, evoca inconsce emozioni, anche se la parte razionale del cervello non comprende. Perché non può comprendere in quanto non c’è nulla da comprendere, deve solo cercare di “sentire”. Fosco Maraini definisce, il suo, linguaggio metasemantico. Egli propone suoni e attende che il lettore, con il suo patrimonio di esperienze interiori, magari con il suo subconscio, dia a quei suoni significati, valori emotivi, profondità e bellezza. Il lettore, dunque, non è visto come passivo fruitore ma come attore del gioco, protagonista che deve contribuire alla sua riuscita con un imprescindibile e massiccio intervento personale. Il poeta, con le sue “fanfole” (le sue poesie) ha un approccio visionario alla parola, egli parla “di valori cromatici e tattili, dei sapori e degli umori, della pelle e dei baci, dell’ombra e del profumo delle parole”, vede “parole tonde e gialle, lunghe e calde, voluttuose e lisce, oppure polverose e bigie, sfilacciate e verdi, parole a pallini e salate, parole massicce, fredde, nerastre, indigeste, angosciose”. E per meglio cogliere ogni più piccola sfumatura, l’autore fornisce un vero e

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proprio libretto di istruzioni, dal quale si coglie che “la poesia metasemantica va piuttosto recitata o letta ad alta voce, che scorsa con gli occhi in silenzio come si fa normalmente con i versi tradizionali. È legata al suono, al corpo, alla fisiologia, alle passioni della parola. Per questo va letta anche con una certa lentezza. Come ogni altro rivoluzionario nella storia dell’umanità, Fosco Maraini verrà probabilmente ricordato come un genio da alcuni, come un folle nemmeno particolarmente interessante da altri. Così le sue poesie verranno tramandate ai posteri come fresca sorgente di emozioni o come balbettio disarticolato di un vecchio mai diventato adulto. “Ci son dei giorni smègi e lombidiosi / col cielo dagro e un fònzero gongruto / ci son meriggi gualidi e budriosi / che plodigan sul mondo infrangelluto”. Mi rendo conto, a onor del vero, della difficoltà che possiamo incontrare nell’interiorizzare, col nostro cervello infarcito di “aiutini”, di “attimini”, di “assolutamente”, di “piuttosto”, di mortiferi e omogeneizzanti dibattiti televisivi, le sue rime. Mi rendo conto che possiamo far fatica nel riconoscere la smegità e la lombidiosità di alcune giornate, nel capire quanto può essere gualido e budrioso un pomeriggio, nel riflettere sul destino di un mondo sempre più irrimediabilmente infrangelluto. Perché la poesia metasemantica di Fosco Maraini sta al componimento classico come Picasso sta a Michelangelo, come Charlie Parker sta a Mozart, come Canova a Henry Moore e via dicendo. E ogni cosa che toglie o che sposta,

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levando punti di riferimento sicuri e assimilati, spaventa. E’ un pò quello che accadde quando il quintetto di Dizzy Gillespie e Oscar Pettiford calcarono per la prima volta le tavole del Teatro Onyx per suonare be bop, un jazz nuovo, mai ascoltato prima. Le parole di uno dei musicisti di Woody Herman, presente a quell’incredibile spettacolo, testimoniano chiaramente lo sbigottimento che quelle note non catalogabili provocarono a orecchie peraltro ben allenate alla musica. “Appena fummo entrati, quei tipi afferrarono i loro strumenti e si misero a suonare quella loro roba folle. Uno si interrompeva improvvisamente, un altro cominciava a suonare senza una ragione al mondo. Noi non avremmo mai saputo dire quando un assolo avrebbe dovuto cominciare o terminare. Poi tutti quanti smisero di punto in bianco di suonare e se ne andarono dal podio. Ci spaventarono”. Lo spavento. È sempre questa l’atavica e prima reazione di fronte a ciò che è nuovo e cancella certezze ormai metabolizzate. Mi immagino parimenti la faccia del primo lettore e poi del critico che per primo fu chiamato a dare una spiegazione al verso dantesco: “Pape Satàn, pape Satàn aleppe!”. Forse il sommo poeta non ha fatto che anticipare di qualche secolo il giocoso linguaggio di Fosco Maraini e avrà pensato: oggi mi vengono solo rime banali e ritrite. Perché non usare allora dei suoni piacevoli all’orecchio e che, pur senza significare nulla, ben s’inseriscono per metrica e ritmo nella composizione? Potrebbe essere andata davvero così, perché no?

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Probabilmente la verità non la conosceremo mai. Per fortuna, però, ci resterà sempre l’immutata bellezza di quel misterioso, incomprensibile, Pape Satàn, pape Satàn aleppe! Di palla in frasca. Pensiamo alla parola: gelosia, è chiaro il suo significato, ma ho faticato a metabolizzare che viene da gelo, proprio per il ghiaccio che afferra le vene di chi è geloso, una sorta di paura ‘fredda’ che lo getta nel panico. Insomma chi è geloso si vanta di esserlo per passione: e non sa che è solo una persona fredda, intanto per la parola…». E che dire dell’espressione “perdere le staffe”. Viene dalla particolarità di alcuni pantaloni da uomo… perché, anticamente, erano allacciati con un tipo speciale di bretelle, le staffe, appunto… Che, una volta perse… Insomma: l’espressione vuol dire ‘trovarsi in balìa di tutto’… “essere indifeso”, capito?». ☻ La parola è l’ombra dell’azione. Democrito, in Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, III sec. ☻ Non esiste una magia come quella delle parole. Anatole France, Il giardino di Epicuro, 1895 ☻ Originariamente le parole erano magie e, ancor oggi, la parola ha conservato molto del suo antico potere magico. Sigmund Freud, Introduzione alla psicoanalisi, 1915/32 ☻ La parola è la madre del pensiero. Karl Kraus, in Armitage, Schoenberg, 1929/37 Francesco Mancuso

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“Fanno a lei corona Beltà, Gratia, Valor, Scienza e Senno”

te la precauzione di mandare con un seguente ordinario il duplicato delle missive più importanti”. Nella lettera di risposta del Duca, non datata e presumibilmente mai arrivata a Cristina, è contenuto il primo sonetto da lui composto e dedicato a Lei

Al castello di Bracciano l’incontro nel 1655 tra i due amici di penna: Paolo Giordano II e la regina Cristina di Svezia

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l 19 dicembre 1655 la regina Cristina di Svezia, con il suo seguito, giunge a Bracciano. E’ domenica pomeriggio, piove. Il suo magnifico viaggio verso Roma attraverso tutto lo Stato Pontificio sta per concludersi. L’anno precedente, il 23 febbraio 1654 aveva annunciato al suo popolo la propria irrevocabile decisione di abdicare a favore del cugino Carlo Gustavo dopo la profonda crisi religiosa che l’aveva indotta ad abbracciare il cattolicesimo. Pochi mesi dopo si era messa in viaggio con la ferma convinzione di raggiungere la Città Eterna dove l’attendeva papa Alessandro VII. Ovunque è stata ricevuta con grandi onori e feste: Bracciano è l’ultima tappa prima di arrivare a Roma. Ad accoglierla un suo vecchio amico: il duca Paolo Giordano II Orsini. Così descrive l’evento l’erudito e storiografo vicentino Galeazzo Gualdo Priorato nella sua Historia della sacra real maestà di Christina Alessandra regina di Suetia, &c. del conte Galeazzo Gualdo Priorato: “Il giorno dietro partì Sua Maestà da Caprarola accompagnata, e servita da tutto il corteggio. Don Paolo Giordano Orsino Duca di Bracciano, e la Duchessa moglie di lui, con quattro carrozze a sei piene di nobiltà, e 200 corazze portatisi a riverirla, come fecero ad Oriolo Terra delle sue giurisdittioni; Doppo il complimento s’avvanzarono alla volta di Bracciano per esser a servirla in quel bel Palazzo. La Regina trovò al suo arrivo spallierate per tutto numerose Soldatesche, che fecero i dovuti saluti con loro moschetti, come pur fu riverita col tuono d’alcuni pezzi di cannone, e diversi mortaletti. Poco lontano dalla Città erano 18 Arcieri, e 18 Tedeschi della guardia di esso Duca, che l’accompagnarono sino al Castello, e l’assisterono poi sempre. Alla porta del Palazzo, la nobiltà del quale era stata accresciuta con la ricchezza di sontuosissimi parati; si trovò il Duca, che coperto la servì di braccio etiamdio caminando. Fu la sera Sua Maestà trattenuta da una ben concertata armonia di Musici, della quale come di diletto proportionato al suo genio godé ella grandemente. Cenò poi in privato, e ritirossi. La seguente matina nell’andar dalle sue stanze alla capella per sentir

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messa, il Duca la servì pur di braccio. Doppo la messa Sua Maestà montata nella seggetta della Duchessa calò in Piazza, & ivi salendo in carrozza, s’incaminò per la strada dritta di Bracciano al Casale della Polzetta, detto l’Olgiata, casa di campagna del Sig. Filippo Franceschi Fiorentino, posata destinatagli per il pranso”. L’opera del Gualdo Priorato fu pubblicata in Roma, Nella Stamperia della Reverenda Camera Apostolica nel 1656, anno in cui morì a Bracciano Paolo Giordano II. Avrà fatto in tempo il Duca a leggere la storia che lo ha visto protagonista? Chissà. Non lo sapremo mai. Ma dove nasce l’amicizia di “penna” tra il Duca e la Regina? Ce lo racconta il barone Carl Nils Daniel Bildt diplomatico e storico svedese ambasciatore a Roma dal 1889 al 1902 e dal 1905 al 1920. Grande appassionato di storia del suo paese, scrive due opere sulla Regina Cristina grazie anche alla possibilità che gli viene concessa da papa Leone XIII di consultare gli archivi concistoriali. Nel 1906 pubblica un bell’articolo, apparso sul n. 29 di Archivio della R. Società Romana di Storia Patria, dal titolo: Cristina di Svezia e Paolo Giordano II Duca di Bracciano(1), che include la corrispondenza tra Cristina e Paolo Giordano II relativa all’arco temporale 1649-1655. E’ una lettura deliziosa, che suggeriamo a tutti(2), una lettura che ci consegna due personaggi storici di grande spessore in una veste meno “storica”, ma più umana e intima, arricchita dai divertenti e sagaci commenti dell’autore dell’articolo. De Bildt scrive che fu Matthias Palbitzki, “gentiluomo di camera della regina Cristina di Svezia”, diplomatico svedese di passaggio a Roma, a metterli in contatto nel 1649. Paolo Giordano era un uomo di grande cultura “era disegnatore, incisore, pittore, musicista e poeta. S’occupò di esperimenti nell’arte delle medaglie, inventò uno strumento di musica chiamato rosidra (una specie di organo azionato dall’acqua), … scrisse una tragedia e fece stampare nella sua stamperia ducale di Bracciano due bei volumi di rime e di satire”. Cristina all’epoca ventiduenne, “sognava di lettere e d’arte, che s’inte-

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Un raro ritratto di Cristina di Svezia - Anonimo

A Cristina regina de' Sueti, Goti, e Vandali. Oh decoro del mondo, e meraviglia; Herede de lo stato e del valore Del gran Gustavo; non di lui minore, Se non quanto ei fu padre, e tu sei figlia. Germe, che tanto al tronco rassomiglia, Ch'l suo gran nome ov’è giaccio, ove ardore. Dove nasce la luce e dove more Non puossi udir senza innarcar le ciglia. Quelli, a chi petto tal le leggi dona Ben più de gli altri esser contenti denno E chi si bella man scioglie o imprigiona, Ma, perché sia soggetto anco al tuo cenno Il mondo tutto, fanno a lei corona Beltà, Gratia, Valor, Scienza, e Senno.

ressava, come lui, ai progressi della scienza e del pensiero, che amava e proteggeva, come lui, rimatori e scrittori”. La prima lettera del Duca reca la data del primo giugno 1649: “Sacra Real Maestà, I gran meriti di Vostra Maesta me le hanno constituito servitore di somma devotione. Così inizia il rapporto epistolare tra Paolo Giordano II e Cristina di Svezia. La risposta non proprio sollecita è datata 16 gennaio 1650, partita da Stoccolma e arrivata a Bracciano presumibilmente nel marzo dello stesso anno. Lo deduciamo dalla risposta del Duca del 2 aprile 1650. Quasi dieci mesi per scambiarsi tre lettere! Sembra impossibile soltanto immaginarlo! Sulla velocità delle comunicazioni in Europa del XVII secolo, de Bildt, fornisce delle interessanti considerazioni: “La posta metteva ventitré giorni fra e Roma e Amburgo, a condizione però che il corriere settimanale, il cosidetto ordinario, raggiungesse a tempo a Norimberga l’ordinario partente per Amburgo. Nel caso contrario la corrispondenza italiana era costretta ad attendere a Norimberga la partenza della settimana seguente. Lo stesso accadeva ad Amburgo, donde gli ordinari settimanali raggiungevano Stoccolma in dieci giorni nella buona stagione. Nella cattiva, ed era lunga, molti ritardi erano da aspettarsi. Trentatré giorni erano dunque il tempo minimo che occorreva per l’arrivo di una lettera di Roma a Stoccolma nelle condizioni più favorevoli, ma era piuttosto raro che ciò accadesse. Non era raro, invece, che le lettere andassero smarrite, e per ciò i corrispondenti usavano soven-

Sulla produzione poetica di Paolo Giordano II riportiamo il giudizio che ne dà Giovan Mario Crescimbeni, letterato, critico e poeta, nato a Macerata 1663 e morto a Roma 1728, nei suoi “Commentari intorno alla sua Istoria della volgar poesia”: l’“Orsini occupa un posto tra i primi cento rimatori del XVII secolo”. I sonetti del Duca inneggiano alle donne, alla bellezza, all’amore, alla fedeltà e all’infedeltà, al piacere della caccia e della pesca, alla filosofia. La risposta di Cristina è in francese, lingua meno solenne del latino: il “suo” Duca non è più Altezza Reale ma un più confidenziale Mon Cousin, cugino. E in francese saranno le successive lettere di Cristina(3). Tra gli elogi e i panegirici con i quali Cristina ricambia Paolo Giordano troviamo anche un suo piccolo grande rammarico: esser stata più d’un anno senza avere notizie di lui. Possiamo provare ad immaginare lo stupore e il disorientamento del Duca appena letta la ferale nuova: il suo bellissimo sonetto non è stato letto! Il barone De Bildt, sull’episodio, dà un saggio della sua bravura: “Dov’erano dunque andate a finire le sue lettere a Palbitzki, e il suo sonetto, spedito già prima dello studiolo e non ancora giunto al destino? Girovagava forse ancora per le poste della Germania? Aveva sudato dunque invano la sua Musa? Terribile pensiero, questo, per un poeta!”. Il Duca risponde alla regina l’8 settembre 1651. E’ felice del fatto che la “M. V. tiene di persona tanto inutile come me”, e supplica la sua amica affinché “mi sia mandato un suo ritratto perché havendo

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tanto lontana quella gran regina a chi ho dedicato la mia humilissima servitù, ne havessi almeno presente l'imagine”. Cristina nella lettera di risposta ci appare in tutta la timidezza e fragilità. Sa di non essere un bella donna, ma nello stesso tempo non vuole deludere il suo amico: “non appena se ne presenterà l’occasione vi invierò il mio ritratto. Ricordate, Signore, di avermelo chiesto. Non avrei avuto l’ardire di farvi un simile dono se non lo aveste desiderato voi. So che i difetti del mio viso vi sveleranno quelli del mio spirito e vi rammaricherete, notandoli, di aver avuto così bei presagi di virtù a mio vantaggio”. Nella lettera successiva, dopo aver inviato il ritratto al Duca la Regina scrive: Signor cugino, credo che il pentimento avrà già fatto arrossire la vostra curiosità, visto che la presenza del mio ritratto vi avrà fatto capire che non è degno della vostra stima. Ho una così bassa opinione di tutto ciò che mi appartiene che non avrei avuto il coraggio di presentarvelo se non lo aveste desiderato. Non mi accusate dunque se la vostra curiosità non vi appaga e ricordatevi che non vi avrei dispiaciuto con un tale soggetto insoddisfacente se non lo aveste voluto voi. Il De Bildt immagina un Paolo Giordano entusiasta “Mettiamoci adesso un po’ nei panni d’un poeta, nobilissimo e illustrissimo, ma già fra la cinquantina e la sessantina, al ricevere tale lettera da una regina venticinquenne famosa per le sue doti di spirito, d'intelligenza e d' erudizione, e che la miniatura rappresentava senza dubbio graziosa ed attraente! I ritratti di Cristina di quel tempo la mostrano sotto un aspetto maestoso, talvolta grave o malinconico, ma di viso piacente. Che fosse bassa di statura e con una spalla più alta dell'altra, le miniature non palesavano. Era bene da aspettarsi che il poeta fosse entusiasmato, e così fu. Paolo Giordano si mise subito all'opera per rispondere degnamente alla regina e, come era da prevedersi, lo fece “per le rime”. Il bellissimo ritratto, scrive il Duca nella lettera del 2 gennaio 1652 ha risvegliato la mia Musa la quale era gran tempo che “dormiva”. Compone per lei un altro sonetto: Per un Ritratto di Christina regina di Suetia. Chi e costei, che ha valor, dottrina. Regia Maestà, dolci costumi, Il cui nome non fia che mai consumi Secol futuro, e che '1 presente inchina? Tutti di cui son gli altrui cor rapina, I detti suoi d'alta eloquenza fiumi, Neve il petto, oro il crine e sole i lumi?

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Avverti, e leggerai eh' ella è Christina Regnatrice dell'Orse ; il regio petto, E che le preci giuste ognhor precorse, Gradisca chi gli brama esser soggetto: II regno tuo del Polo Artico, forse Non sdegnerà, che di devoto affetto A lui tributo dian d'Italia l' Orse. L’8 maggio da Stoccolma una Cristina molto onorata scrive: “Desidero ringraziarvi, inoltre, di avermi reso partecipe delle belle manifestazioni del vostro spirito. La vostra Musa ha ricoperto di lodi straordinarie il mio ritratto facendolo assurgere ad un rango superiore al suo reale merito. Dispensatemi dal credere che questo sonetto sia l’opera di una Musa addormentata. Avete espresso nei miei confronti, soggetto alquanto insignificante, delle parole così belle che desidero con impazienza conoscere gli altri sonetti dedicati ad una “stoffa più preziosa”. La mia curiosità sarebbe davvero soddisfatta qualora potessi ottenere da voi tale produzione”. Naturalmente Paolo Giordano le invierà le sue fatiche letterarie stampate in Bracciano da Andrea Fei(4). Il nostro viaggio nel tempo sta per volgere al termine. Torno per un attimo a quel 19 dicembre 1655 quando il corteo regale della regina Cristina di Svezia con un seguito di duecento persone scortata dalla guardia personale del duca Paolo Giordano Orsini II, giunge davanti al castello di Bracciano. Ad accoglierla c’è il suo vecchio amico di penna. Tra poco inizierà nel castello la grande festa in suo onore nella quale si festeggerà anche il suo ventinovesimo compleanno. A volte mi capita guardando da lontano il castello, di chiudere gli occhi e immaginare quel pomeriggio piovigginoso di tanti anni fa. E’ senz’altro merito del barone de Bildt e del suo bellissimo articolo. Quel vecchio bastione mi appare più vivo e più vicino, pieno di vita e di storia e non più uno dei tanti bei monumenti di cui l’Italia abbonda e molte volte trascura. Fabercross (1) C. de Bildt, C. di Svezia e Paolo Giordano II duca di Bracciano, in Archivio Società romana di storia patria, XXIX, pp. 5-32. (2) Per la consultazione del patrimonio librario e archivistico della Società Romana di Storia Patria si vedano gli orari della Biblioteca Vallicelliana in Roma (3) Per la traduzione dal francese mi sono avvalso della preziosa collaborazione della dottoressa Sara Cascio, bibliotecaria presso la biblioteca della Corte dei conti di Roma (4) Paolo Giordano Orsini - Paralello fra la citta e la villa satire vndici. Intendesi della città di residenza oue monarca abiti. A Mario Stellanteposto, In Bracciano: per Andrea Fei stampator ducale, 1648; Rime, In Bracciano: per Andrea Fei stampator ducale, 1648.

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Agraria conta oggi poco più di 3.000 soci-utenti contro i circa 15.000 aventi diritto, cioè tutti (Universitas) i cittadini residenti a Bracciano da almeno 5 anni e che presentano domanda di inserimento tra i soci. Oggi l’iscrizione avviene singolarmente a titolo personale, indipendentemente dalla attività lavorativa di ciascuno, mentre in passato era riservata a tutti i soli capifamiglia coltivatori diretti, ritenendo così che si realizzasse una maggiore equità sociale rivolta ad assicurare la conduzione dei terreni alle famiglie più bisognose. Per iscriversi bisogna versare all’Ente una piccola quota annuale ottenendo in cambio di poter acquistare una certa quantità di prodotti (legna, farina ecc.) ad un costo agevolato rispetto ai normali prezzi di mercato. Le poche Università Agrarie ancora presenti in Italia, di fatto maggiormente concentrate nell’Alto Lazio, sono uscite dal

Università Agraria di Bracciano: un patrimonio di 2.200 ettari Q

uando viene citata la parola università (dal latino “universitas”, cioè totalità) si pensa subito all’insieme delle discipline degli studi dei vari settori, tra cui quelli agrari. Ma l’Università Agraria di Bracciano non è riferita agli studi (universitas studiorum) bensì ai cittadini (universitas civium). Poiché se ne sente parlare spesso ma pochi ne conoscono veramente la natura, è opportuno precisarne la genesi. Come e perché sono nate le attuali Università Agrarie? Dopo il 1870, con l’inquadramento giuridico nello Stato italiano, il territorio vide una maggiore regolamentazione di alcune agevolazioni che venivano concesse alla popolazione, spesso già aggregata in associazioni, e che costituivano il retaggio di antichi privilegi medioevali. Erano benefici legati all’ambiente agricolo quali la servitù di pascolo, di semina, di tagliare la legna ecc., i cosiddetti “usi civici”, esercitati dalla popolazione sui latifondi ricadenti sui territori dell’ex Stato Pontificio, in particolare in alcuni comuni delle province di Roma, Perugia, Ascoli Piceno, Macerata, Ancona, Pesaro e Urbino, Forlì, Ravenna, Bologna e Ferrara, quindi su un territorio limitato. Per consentire ai cittadini di poter continuare ad esercitare tali diritti e, contemporaneamente, di venire incontro alle esigenze dei vecchi latifondisti di liberare i terreni di proprietà da questi vincoli, fu loro concesso di cedere in contropartita parte dei terreni stessi alla cittadinanza, ottenendo così il risultato che i latifondisti avrebbero posseduto meno terra, ma libera da vincoli, e la popolazione avrebbe potuto disporre di una proprietà comune indivisa dei beni ceduti, sulla quale avrebbe continuato ad esercitare anche i privilegi preesistenti. Fu così che venne costituita una proprietà collettiva che incentivò la formazione di ulteriori associazioni, riconosciute poi come persone giuridiche dalla legge n. 397 del 4/8/1894, le quali dettero vita alle attuali Università Agrarie, regolate da propri autonomi Statuti, purché conformi ai dettami legislativi. Le normative approvate successivamente emanarono le disposizioni affinché i terreni fossero suddivisi in piccoli appezzamenti, le cosiddette “quote”, da assegnare alle singole famiglie al fine di coltivare e migliorare i terreni. L’assegnazione doveva essere dapprima provvisoria e, successivamente, il bene sarebbe stato trasferito nella proprietà dei soggetti che avevano realizzato la miglior coltura, tramite enfiteusi perpetua e correlata affrancazione con il pagamento di una somma per il riscatto. Furono le quote di terreno assegnate ai singoli cittadini che determinarono il formarsi di una piccola e frazionata proprietà terriera che altrimenti sarebbe stata impossibile. Il salto di qualità fu notevole perché i cittadini passarono, da semplici detentori di alcuni diritti su terre non loro, a proprietari effettivi, sia pure di piccoli appezzamenti. Lo scopo delle leggi successive a quella del 1894, quindi, fu quello di assicurare la coltivazione e la valorizzazione dei terreni in precedenza non adeguatamente utilizzati. Le norme sulla ripartizione dei demani universali e di quelli feudali trovano la loro origine, a partire dal 1800, negli indirizzi economici diretti essenzialmente all'affermazione dell’individualismo agrario e quindi a considerare poco opportune, per l'agricoltura, le varie forme di gestione collettiva. E’ lo stesso indirizzo che, successivamente, ha portato anche alla istituzione dell’Ente Maremma intorno al 1950.

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controllo amministrativo dello Stato e, come tutto il settore agricolo, fanno riferimento alla Regione che legifera in materia ed è competente per le principali attività, tra cui si annoverano: la liquidazione dei diritti civici sui terreni di proprietà privata, le alienazioni di parti della proprietà collettiva ed i mutamenti di destinazione della proprietà collettiva per scopi di pubblica utilità. Le Università Agrarie hanno rappresentato, soprattutto nella prima metà del 1900, un po’ il cardine dello sviluppo del territorio, sia da un punto di vista agricolo che sociale. La natura pubblica dell’ente ed i particolari vincoli vigenti hanno consentito di salvaguardare l’ambiente dalle speculazioni, ma forse è giunto il momento di iniziare a progettare un futuro più stimolante in termini di ritorni economici ed occupazionali. Pierluigi Grossi

Il valore simbolico del cibo Tavola rotonda dell’Associazione Culturale “Mythos”

S Con la legge n.1766 del 1927, integrata dal Regio decreto n. 332/1928 che ne regolamentava l’attuazione, i terreni di proprietà dell’Università Agraria furono distinti in due categorie: a) - terreni convenientemente utilizzabili come bosco o come pascolo permanente; b) - terreni convenientemente utilizzabili per la coltura agraria. I terreni indicati alla lettera b) furono “destinati ad essere ripartiti, secondo un piano tecnico di sistemazione fondiaria e di avviamento colturale, fra le famiglie dei coltivatori diretti del Comune o della frazione, con preferenza per quelle meno abbienti, purché diano affidamento di trarne la maggiore utilità”. La stessa legge prevedeva che il “Ministero dell'economia nazionale …di sua iniziativa ...od anche su richiesta della maggioranza degli utenti, potrà procedere allo scioglimento delle associazioni se il patrimonio sia insufficiente ai bisogni degli utenti, o vi siano motivi per ritenere inutile o dannosa la esistenza di esse. In tal caso i terreni delle associazioni saranno trasferiti ai Comuni ...nel cui territorio trovansi compresi, con la destinazione corrispondente alla categoria cui essi appartengono”. Lo scopo principale della legge del 1927 era quindi quello di assicurare la coltivazione e la valorizzazione dei terreni e di creare una piccola e frazionata proprietà contadina, non solo quello di perpetuare nel tempo l’esercizio degli usi civici da parte della totalità degli aventi diritto, vantaggio che, di fatto, sarebbe rimasto limitato ai terreni boschivi o adibiti al pascolo, perché non migliorabili, e di cui si ipotizzava il passaggio ai Comuni al verificarsi di specifiche circostanze. Alcune Università Agrarie della zona (Anguillara e Trevignano) applicarono la legge 1766/1927 e provvidero alla ripartizione dei terreni nonché allo scioglimento delle associazioni, mentre altre (Bracciano, Manziana, Canale Monterano, ecc.) preferirono mantenere in piedi le associazioni sia pur con modalità attuative diverse. Manziana e Canale Monterano hanno assegnato i terreni utilizzabili a coltura ed ora gestiscono quasi esclusivamente terreni boschivi o di pascolo, quelli che non sono stati privatizzati perché non migliorabili ai fini della produzione agricola. Bracciano, invece, non ha completato l’assegnazione ai soggetti singoli dei terreni coltivabili e, pertanto vanta ancora un vasto patrimonio indiviso che, oltre a cospicui fabbricati, ammonta a circa 2.200 ettari di terreno, comprensivi sia di aree coltivabili che di pascolo o boschive. L’Università

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abato 12 dicembre si è svolta a Bracciano, presso la sala conferenze dell’Albergo “Alfredo” al lago, una tavola rotonda promossa dall’Associazione Culturale “Mythos” che ha proposto un approccio psico antropologico al tema del cibo ed ai vari modi di consumarlo nelle diverse parti del mondo, in diversi periodi storici. L’introduzione fatta dalla professoressa Maria Pia Rosati ha fornito al pubblico le coordinate culturali per una rilettura, sotto una nuova luce, dell’incredibile rivalutazione degli ultimi anni dell’interesse per il cibo, per il modo di prepararlo, per il modo di consumarlo, ed anche per il modo di produrlo. Si ricerca una sempre maggiore genuinità, un contatto più diretto con la natura, un modo per essere parte attiva nel ciclo naturale della vita e della morte. La società contemporanea cerca soluzioni ai propri malesseri e la nuova attenzione rivolta al nutrirsi rispettando la natura ne è un’efficace testimonianza. Da qui il successo delle trasmissioni televisive sui grandi cuochi, così come delle più varie teorie nutrizioniste e più in generale dalla sensibilità diffusa sviluppatasi sul tema. Il fatto che mangiare sia in realtà molto di più che “nutrirsi” è ampiamente dimostrato dal fatto che ogni pasto è organizzato e vissuto come un rito. Anche la scelta di piatti particolari per occasioni specifiche come Natale, Capodanno, e altre festività di ogni Paese del mondo, è legata ai significati simbolici dei cibi: la

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carne, ad esempio, riceve un’attenzione particolare in tutte le religioni, i musulmani non mangiano alcuni tipi di carne, il Cristianesimo prevede l’astensione dalla carne in alcuni giorni specifici e via dicendo con altre prescrizioni di altre fedi religiose. Mangiare la carne è un atto importante perché significa confrontarsi con la morte: la carne è un animale morto che serve alla vita di altri, i quali, tuttavia, mangiando sentono di condividere questo stesso destino di morte. La relazione della dottoressa Laura Mazzone ha poi illustrato le radici simboliche dell’atto del mangiare a partire dal mito di Prometeo fino alle tradizioni ancora vive che, almeno nei giorni di festa, vedono riunite le famiglie intorno alla tavola da pranzo e, ancora, i pranzi funerari in onore del defunto, i banchetti rituali nei grandi eventi a confronto con i banchetti degli dei e via continuando attraverso la galassia dell’umano sentire che si esprime nel rito della condivisione

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del cibo in una molteplicità di significati e di simboli. C’è stato un dibattito vivace tra i partecipanti da cui sono emerse una serie di suggestioni legate a tradizioni culinarie antiche e moderne. Si è toccato il tema dei disturbi psichici legati al cibo correlati ad un sistema di vita in cui la carenza di amore e di attenzione in famiglia trova espressione nel rifiuto dell’alimentazione. La tavola rotonda si è conclusa con un pranzo conviviale a base di cibi a km 0 durante il quale il gusto di un’ottima zuppa di ceci si arricchiva del valore simbolico della ciotola che tutti insieme stavamo condividendo augurandoci all’unisono l’arrivo di un anno nuovo davvero dove pace e serenità abbiano fatto sparire le ombre minacciose che opprimono il nostro oggi. Biancamaria Alberi

Bracciano, amore mio Uscite dalle foglie del tuo centro, le spine addosso… le barre dei tuoi treni, fiocchi rossi da rubare, è Natale…addio dolce Bracciano. Fiori per te coi miei baci rubati fuor dal tuo guscio anch’io ti sognerò, nobile donna, sull’uscio. Bracciano, amore mio, addio!!! Silvana Meloni (2015)

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La Grotta dei Serpenti tra scienza e mito

Bracciano commissariata

Sul Monte delle Fate l’antro serpifero e salutifero meta tra Cinquecento e Settecento di persone in cerca di guarigione e di studiosi di medicine

Dopo le dimissioni di Giuliano Sala e di 10 consiglieri in un clima di veleni si apre la campagna elettorale

Segue dal numero 5 di ottobre 2015

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o stesso testo viene ampliato nel libro di Andrea Pasta che riporta pure alcuni commenti sugli scritti di Thomas Bartholin (1616-1680) italianizzato in Tommaso Bartolino o Bartolini, professore danese di anatomia, che ha insegnato anche all’università di Pisa; da Voci, maniere di dire, e osservazioni di Toscani Scrittori e per la maggior parte del REDI, raccolte e corredate di Note da ANDREA PASTA (Brescia - 1769). Sembra che il Bartolini distingua la spelonca di Bracciano dalla grotta. In quella dice di essere entrato con due compagni, in questa di non avere introdotto che il capo. Inserendo la testa nell’ingresso della grotta, si sente un calore emanato dai vapori dello zolfo. De serpenti poi racconta “si avvinghiano intorno al corpo, provocano sudore, leccano e aspirano finché non estraggono ogni malanno dal corpo infermo). E poco dopo esitando il medesimo Autore nell’ascrivere il salutifero effetto al solo e semplice succhiare de’ serpenti, passa a dire: Quomodo supra nominatos affectus gravissimos pellunt? Sine dubio attractione humiditatum noxiarum, vel sui formidine, qua multi perciti speluncam ingressi sudant, antequam ullus coluber prorepat. Ita terrore multi et sudore diffluunt, et morbis liberantur. Forsan transplantationi morborum hic aliquis locus. Denique saturi, cioè i serpenti, et humiditatibus repleti sponte decidunt, quemadmodum hirudines, levique corporis agitazione territi antra repetunt (In che modo espellono i forti malanni? Senza dubbio risucchiando il liquido delle malattie, o loro paure, in quanto molti rimangono scossi e sudano già all’ingresso della grotta, prima ancora che qualche serpente venga fuori. Così molti o per la paura o per il sudore si liberano delle malattie. Forse trasferendo i malanni in altro luogo. Infine saturi, cioè i serpenti, e ripieni dei liquidi decidono spontaneamente, come delle sanguisughe, veloci nei movimenti del corpo e spaventati rientrano nelle loro tane). In quanto a me provo maggior difficoltà a credere, che quei serpenti facciano il mestiere delle sanguisughe, senza roder la pelle degli ammalati, o che sia l’uscita spontanea di un copioso sudore che risani quegli ammalati medesimi, di quello che a immaginarmi che sia il solo terrore che gli guarisca, non essendo probabile che umane creature indisposte vadano a conversare tutte ignude co’ serpenti senza aver prima sperimentato l’arte de’ medici, e le loro purghe e ripurghe, e le loro diverse maniere e diverse strade di vaccinazione di umori. Io posso dire che il terrore da me concepito dal veder divampare la mia paterna abitazione, detto fatto, mi liberò da una grave e pertinace vertigine, che da più mesi ed incessantemente mi opprimeva; e l’infausta nuova dell’inopinata morte di un saggio e customato giovane guarì di botto la di lui afflitta madre di una lunga febbre, che io non avea potuto scacciare né con china, né con salassi, né con altre diminuzioni di liquori”. Francesco Eschinardi, (1623-1703), gesuita e letterato, professore al Collegio Romano; dal libro (Roma-1750): “Descrizione di Roma e dell’Agro Romano” edizione accresciuta e corretta da Ridolfino Venuti (1705-1763, presidente dell’Antichità di Roma). “Ma prima di parlare di Civita Vecchia abbiamo lasciato a destra la Grotta de Serpenti, posta in un monte vicino alla Villa del Sasso de Sig. Patrizj; qui mi dicono venire le Serpi a lambire il corpo dell’Infermo posto in detta grotticella assai piccola a dormire, ed escirne guarito, la ragione credo sia perché sudando di pena, e paura l’infermo; venghino i Serpi a lambire i mali umori, come giova alle piaghe esser lambite dai cani; dalla detta Grotta ho veduto escire del fumo caldo, ed in tal caso potrebbero esser false le notizie de Serpi, e potrebbe avere le qualità della grotta del Cane, e delle altre solfuree di Pozzolo”.

Nicola Maria Nicolaj (1756 -1833), letterato e economista romano, presidente della Pontificia accademia romana di archeologia; da “Memorie, Leggi ed Osservazioni sulle campagne e sull’annona di Roma” (1803).

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“In un monte di questa Tenuta vi è una grotta angusta che si chiama de’ Serpenti. Si dice, che posto un infermo in questa grotticella, vengano i serpi a lambirlo, e recuperi la sanità. Se non è favola tal guarigione, potrebbe attribuirsi a qualche esalazione solfurea, di cui è indizio il fumo caldo, che talvolta si vede uscire da questa caverna. Egli è certo però, che in questo luogo l’aria è saluberrima. Si potrebbe chiamare questo sito per ragione dell’aria il Frascati della maremma. Senza dubbio diverrebbe questo in breve tempo un florido, e popolato Castello, se le terre si dessero a colonia, e si adoperassero i mezzi opportuni per stabilirvi i coloni, ed animarli all’agricoltura”. Luigi Metaxà, (1778-1842), professore medico naturalista romano; da “Monografia de’ serpenti di Roma e suoi contorni “ (1823). Pag. 6: Preferiscono ai calcarei i terreni arenosi, i quali oltreché sono meno atti a trasmettere la materia del calore, presentan loro i forami già fatti dalle lucertole, ch’essi poi ingrandiscono, e vi s’ intrudono. Forse perciò annidavan tai rettili nella famosa grotta delle Serpi presso S. Severa rammentata dal Kirker. (Musaeum Vorrn. lib. 3 cap. 9 Derham p. 347 (Firenze 1719). Pag. 16: Che anzi nella già mentovata grotta delle serpi lungo il mare della tenuta del Sasso corre voce, che avvinchiandosi intorno ai nudi corpi de’ malati ne guariscono l’artritide, l’elefantiasi e la gotta. Francesco Orioli (1783-1856), professore e letterato; “La grotta dei Serpenti presso Bracciano” (1851 in L’ALBUM-Giornale letterario e di belle arti - Volume XVII), Siamo ancora ben cristiani o non abbiamo assai cose conservato dell’antico paganesimo de’ maggiori nostri? … Ciò scrivo pensando alla grotta de’ serpenti già si celebre, quasi alle porte di Roma, voglio dire presso Bracciano, natural bagno a vapore a che s’andava in folla due o tre secoli fa per guarire sudando da certe infermità, coll’opinione però che la salute non venisse dalla elevata ed umida temperatura del luogo operante su i pori della pelle, ma si da invisibili e benefici serpenti, i quali provocato il sonno nell’infermo, e già cominciato uscivan fuori dalle interiori cavità, e lambendo a questo ultimo il corpo, tutta la malignità degli umori astergevano e ne mondavano. Due, tra molti fatti, gioverà riferire, per favellarvi poi sopra con la debita brevità. Traggo il primo da Tommaso Bartolino nella Cent. 2 delle sue Istorie Anatomico-Mediche più rare, ist. XLVII, donde io così traduco: “La spelonca de’ serpenti è presso la terra di Bracciano, nel luogo volgarmente detto il Sasso, a 12 miglia da Roma, illustre pel molto che se ne narra. Gli entrati con malattie fredde (paralisi, lebbra, artritide, lue venerea, idropisia, tumori e dolori o simile) felicemente risanano. Nudo l’infermo si stende sul suolo, e senza dar moto che lo mostri vivo, si a lungo giace, finché dai loro covili qua e colà i serpenti vengono fuori. Lo abbracciano questi strettissimamente applicandoglisi intorno, e il sudore ne cavano, lo lambiscono, lo assorbono finché tutta la perfidia della malattia ne tolgono. Bisogna però che si guardi il malato di dare alcun indizio di movimento, senza che le serpi dai loro antri non escono, od uscite rientrano. Il perché per essere più sicuri di restarsi tranquilli aspettando la cura, prendono alcuni oppio, con che si salvano altresì dal timore. V’entrano spesso contadini abitatori delle vicinanze fingendo malattia, presi a mercede dai viaggiatori, e riferiscono che prima esce un re de’ serpenti coronato, ed ogni cosa esamina, il quale se tutto trova esser quieto, convoca gli altri e comincia l’operazione. Io, nel 1644, facendo il cammino, vi fui colla gradevole compagnia di Giovanni Van Horne, e di Teodoro Fuiren mio cugino, e niun serpente vi vidi, per cagione del parlar nostro di che facevamo rimbombare lo speco. Molte spoglie però vi scorgemmo, similissime a quelle delle serpi nostre, e ne tolsi meco e trovai non manco traccie di viscosa e duttile saliva che indicavano i serpenti ivi stati. segue al prossimo numeno

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na commissaria a Palazzo. E’ l’esito a Bracciano delle dimissioni contestuali di 10 consiglieri comunali di maggioranza e del sindaco Giuliano Sala. Fondamentale nella scelta la pressione della Magistratura su vicende, in massima parte tutte ancora al vaglio, condotte in modo eclatante come le perquisizioni operate in casa di amministratori, dipendenti ed imprenditori per recapitare un avviso di garanzia. Il tutto condito dall’atteggiamento di continuo ostruzionismo del consigliere di opposizione Tondinelli, dalla pressione della Corte dei Conti, dall’atteggiamento del Collegio dei Revisori dei Conti. Una situazione alla base di una paralisi amministrativa della quale a farne le spese sono stati non solo gli am-ministratori ma anche i dipendenti comunali costretti a lavorare in un clima di veleni. Dimettersi o restare? Questo il dilemma. E Sala e i suoi dopo essersi confrontati tra loro hanno deciso compatti di lasciare. Una decisione difficile, che per i non addetti ai lavori suona come una ammissione di colpevolezza. Ma nulla invece è ancora accertato. La Procura di Civitavecchia, probabilmente incalzata, ha pensato di fare la voce grossa, di operare con uno straordinario ricorso di uomini mettendo in atto delle perquisizioni. Il 21 dicembre sulla “questione Bracciano” è stato ascoltato come persona informata dei fatti anche il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti. Da parte loro i dimissionari sono sereni, fiduciosi nella Magistratura. Nella conferenza stampa, all’indomani delle dimissioni, hanno ribadito di aver agito solo per il bene della collettività di Bracciano. Sala in particolare ha tracciato un excursus dei risultati delle sue amministrazioni. Tra le battaglie vinte quella per il mantenimento dell’ospedale Padre Pio. Tra i nodi quello della discarica di Cupinoro, una vicenda per la quale anche in sede di audizione parlamen-

tare Sala ha ribadito che la Bracciano Ambiente ha sostenuto spese per la tenuta in sicurezza ambientale post gestione operativa, tutte fatturate, per la parte dell’impianto già autorizzato dalla Regione Lazio e gestito dalla società privata Sel s.c.a.r.l., sino al 2004. In quella sede l’ex sindaco ha posto l’attenzione nuovamente sul vulnus iniziale ovvero sulla mancata previsione di una fidejussone al momento del passaggio dalla gestione privata a quella pubblica con la creazione nel 2004, ad opera del sindaco Enzo Negri e dell’assessore Tondinelli, della Bracciano Ambiente. Oggi Bracciano, manda i suoi rifiuti indifferenziati alla società Ecologia Viterbo srl i cui amministratori sono stati arrestati a giugno scorso dai carabinieri con l’accusa di truffa nella gestione dei rifiuti. Tra loro riporta in un articolo il Fatto Quotidiano “Rosario Carlo Noto La Diega - consigliere del gruppo Gesenu di Perugia (di proprietà dell’avvocato Manlio Cerroni, il “re” dei rifiuti romani arrestato nel gennaio 2014 con l’accusa di associazione a delinquere e traffico illecito di rifiuti) e “governatore distrettuale” di tutti i Rotary Club di Roma, del Lazio e della Sardegna - Ernesto Dello Vicario, dirigente del settore ambiente del comune di Viterbo e Francesco Zadotti, presidente della Ternana Calcio e considerato uomo di fiducia di Cerroni”. Mentre Bracciano si prepara alle urne, tra vecchi e nuovi schieramenti, la Magistratura continua i suoi riscontri. Il clima di veleni è persistente. Il tempo saprà dire di chi sono le responsabilità. Da parte sua l’ex sindaco Giuliano Sala, visibilmente commosso, ha sottolineato “Le accuse ipotizzate a mio carico, da un punto di vista penale, ad oggi hanno portato solo a sentenze di non luogo a procedere con rigetto dei ricorsi in Cassazione, molteplici archiviazioni di procedimenti avviati per denunce

Giuliano Sala presentate tutte dalle stesse persone. Sono convinto - ha aggiunto - che il tempo ci darà ragione anche con riferimento alle indagini in corso e ai procedimenti pendenti, perché sono una persona perbene e lo sono i miei compagni di viaggio. Per mia formazione e tradizione politica, ho sempre creduto nella Magistratura e nella giustizia, continuerò a farlo anche ora”. Guardando avanti Sala ha detto “non so cosa accadrà tra sei mesi, ma gli elettori sono persone intelligenti e sono certo che non premieranno i denunciatori di professione. Per la guida di un paese complesso come Bracciano - ha commentato - serve una persona che abbia un progetto, una proposta, che possegga capacità di ascolto e di comprensione, che abbia rispetto per chi rappresenta le istituzioni e che sia disponibile a sacrificare se stesso, la propria vita, la propria professione e la famiglia. E’ ciò che ho fatto in tutti questi anni e la mia scelta attuale di uscire di scena anticipatamente, d’accordo con tutta la mia maggioranza - ha commentato ancora Sala - non equivale ad una scelta di disimpegno, tutt’altro mi impegno fin d’ora a sostenere chi saprà rappresentare al meglio un progetto di crescita sana per Bracciano, disponibile ad offrire la mia competenza, la mia esperienza, la mia correttezza e la mia onestà ben conosciuta da tutti coloro che hanno avuto modo di rapportarsi con me”. La corsa al Palazzo è aperta. Graziarosa Villani

Bracciano Via Principe di Napoli, 9/11 Tel./Fax 06 90804194 www.caffegranditalia.com

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