Gregorio carbonero macchina per incisioni

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Macchina per incisioni

Gregorio Carbonero


" La poesía unida a la realidad es la historia. Pero, no es preciso decirlo así, no debiera serlo porque la realidad es poesía al mismo tiempo y al mismo tiempo, historia. El pensamiento, el riguroso pensamiento filosófico tradicional separó a ambas y casi las anuló, reservándose para sí la realidad íntegra, para sustituirla en seguida por otra realidad, segura, ideal, estable y hecha a la medida del intelecto humano." Maria Zambrano in “La crisis del racionalismo europeo” “La evidencia suele ser pobre, terriblemente pobre en contenido intelectual. Y sin embargo, opera en la vida una transformación sin igual que otros pensamientos más ricos y complicados no fueron capaces de hacer. Y de ahí que aparezca como el final de una confesión, corno su logro intelectual” Maria Zambrano, in “La confesión, genero literario” Di un gatto sperduto Il povero orfanello non s’era ancora inselvatichito se fu scacciato dal condominio perché non lacerasse le mochettes con gli unghielli. Me ne ricordo ancora passando per quella via dove accaddero fatti degni di storia ma indegni di memoria. Fors’è che qualche briciola voli per conto suo. Eugenio Montale, in “Quaderno di quattro anni” È probabile che io possa dire io con conoscenza di causa sebbene non possa escludersi che un ciottolo, una pigna cadutami sulla testa o il topo che ha messo casa nel solaio non abbiano ad abundantiam quel sentimento che fu chiamato autocoscienza. È strano però che l’uomo spenda miracoli d'intelligenza per fare che sia del tutto inutile l’individuo, una macchina che vuole cancellando ogni tracia del suo autore. Questo è il traguardo e che nessuno pensi ai vecchi tempi (se mai fosse possibile!). Eugenio Montale, in “Altri versi”


Memoria e presente Non si ha un luogo del presente se in esso non si può accumulare passato, frammenti di passato, non un passato ricordato o rivisitato o rievocato, ma un passato passibile di essere accumulato disordinatamente, a pezzi sparsi. Non si ha un presente se non lo si può sminuzzare in ogni momento, farne uso, trascinarlo all'orlo di un altro disegno. Un mortaio nel quale si macini la quotidianità , una confessione di incertezze e non il loro svelarsi come segni di impotenza.

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Puzzle di paesaggio incompleto

Avevo tra le braccia tese, vuote un arco di pietra stretto, segretamente, una sognata trama di passi decantati su stradine selciate e piene di antiche offese e rumori dimenticati. Avevo tra le braccia vuote la pienezza di colline fiammeggianti come fornelli verdi arati da sentieri aperti, curve svelte che irrompevano nel paesaggio. Ad occhi aperti avevo legato vicoli e muri diroccati e fermi, e sopravvissuti in un verdore infimo e sommerso nascosto nelle crepe, e una fioca luce consapevole, legnosa, di vita dimessa e domestica che tramava disegni di sopravvivenza. Le mie mani sono rimaste aperte come una frase incompiuta, un ricordo tra gli altri estraneo, un sogno che attecchisce ostile su una memoria estranea. Lo sguardo s’allontanava, fiducioso poggiava su casupole raccolte accanto a stradine tortuose, tramava lo spazio di un’altra geometria piÚ intricata che teme il destino del viaggio. Avevo negli occhi il ricordo, nei campanili di suoni trasparenti, di campane piene ondeggiando come vele gonfie che riempivano il pomeriggio. In alto dove l’accadere delle cose non sfugge, 1


si accovaccia lento, in un nido stretto intrecciato di memorie sottili e leggere. I ricordi sono una distesa radura e l’oblio è un rumorio di pagine sfogliate in fretta. Si riprende a piene mani con fervore disegna rovine desiderate coperti di muschio e intime piante. Avevo qualcosa da dire una distanza colma, un distacco di foglie come quando il buio autunnale permea il paesaggio e la vegetazione vive tra aloni e pause, e si spiega in un’apprensione dimessa, e s’inclina, e le piante nude con cautela vanno acquietandosi in un intreccio di rami spogli, addormentati. Avevo tra le braccia assenti un’attesa esaltata nata da pietre annerite e odori acri e focolai domestici e pareti oscure dal fumo e un vivere che si distanziava dove il bianco mattutino diventava grigio e poi pietrisco ascesa freddo partenza. Ed era tutto tra meandri di canne nell’acqua ferma, pronto a smarrirsi per fili di sangue e aria. Correnti inosservate che ora straripano, ed è così estranea e intima, ora, l’immediatezza dei ricordi. Su impronte scavo passi, con le ditta spezzate in memorie trovo fenditure, venature secche e indurite. Da gesti che mi sono estranei mi riprendo, che resistono e mi rimandano a un annunciato bruciore di radici dove mi perdo e senza volerlo mi perdo e mi riprendo. 2


Illazioni

OrfanitĂ che non ha nomi, attenzione spuria, ostile che non ha riposo cui niente riesce a mitigare. Vieni, copri con la tua voce e con passi puliti questa resistenza tenace. Le parole che accumulano distanza nelle consuetudini si riducono fino a essere rumoroso respirare.

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Stanchezza che posa sulle spalle le peripezie di una voce spoglia, quando non ha niente da dire. Vieni, ascolta, tendimi le tue braccia lette tra le righe tutte le parole sono l’usura che le cancella.

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Quel nulla di sgarbato e banale che opprime tra le righe. Erme in un plurale d’equivoci, segni di gioiosa crudeltà sul rovescio dell’esistenza, animali pigri nella conca della mano tutte le parole ci dicono della difficile cura di vivere.

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Ritagli, scarti del disfarsi quotidiano coltiviamo abitudini come ferite nuove, dopo si dimentica e l’esistenza lascia su ogni cosa impronte d’aria pulita Perché anche la memoria a volte ci smentisce ci è estranea.

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Leggero sedimento, scalpitio di una memoria vorace nel quasi silenzio del tempo vissuto.

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Il primo raccolto del sonno Il defogliarsi della mattina si ascolta ed è giĂ parola. Consapevolezza che è un nudo miracolo, volta verso l’immediata concretezza delle cose, fermezza che non si dimentica. persiste dove angoli, crepature, tonfi, sbalzi, restituiscono.

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A volte con mani usurate scaviamo, con le mani nelle mani. La voce nasce umiliata ma lo nasconde. La vita fuori si spezza e le mani e le braccia cadono a terra. Contingenza, esiguo residuo di tutto, da volti esasperati decanta la tua voce frantumata.

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Terra a stento calpestata parole mai pronunciate, nel gesto della mano che si apre e si spiega, in quel gesto: cenno di vulnerabilità . E dopo ogni cosa si risveglia e la memoria è vegetazione piena.

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un’acqua salina che inaridisce le vene del legno acerbo, luce che sbatte e s’infrange in schegge d’aria. Sei tu quella che mi ascolta quando mi volto indietro con lo sguardo, sei tu quella che mi attende in quei momenti, finché volto pagina.

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Un segreto messo a soqquadro dai frammenti diviene senso o suggestione di senso. Le mani sono rami spaccatici diramazioni tra pause e banali meraviglie. Volti scavati ad occhi aperti, ora so di non dimettermi, nessun dissenso.

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Acqua, gesto delle parole che filtrano nella lievità della terra. il solco è una bugia che assorbe luce e aria, l’alito è il muoversi delle labbra. Lasciami distendere una tela di leggere ferite e che bruci i tuoi occhi nelle mie parole.

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I piedi esangui pendono dal bordo del letto, la figura è già pietra o già figura, o quasi, la madre piange o la moglie o la sorella, e una luce spenta fa tremare sul muro divoranti ombre. Ombre che sfiorano ombre è questo il cerimoniale.

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Gli esseri sono abbozzi del ricordo, filtra nelle figure logorate e vili un viso incessante e gesti dimessi e lenti, mutevoli, chiedono di dimenticarlo.

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Cogliamo mute parole da dimenticate lacerazioni, a tentoni si ricomincia è avvizzito il senso, e nascondiamo le mani nei gesti consueti dove un ostinato silenzio lascia un improvviso bagliore.

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Chiudi gli occhi e palpa la leggerezza della ruggine, patina che nasconde la simmetria delle forme, nella leggerezza del gesto che calca l’inatteso si perde ogni disegno è questa velata pietĂ che ci porta a conoscere.

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E nella mente deboli figure rasserenano, mutano un caos di scaglie e increspature in un mormorio calmo, mani allacciate si protendono per trarre dall’attesa segni, e dicono da gesti, da altezze, da incertezze.

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Le cose si nascondono nella leggerezza dei loro contorni fuggevoli, sempre inavvertiti, immerse sarebbero un tessuto fitto di linee e vortici, ma si separano per logorarsi, si distendono, ci sono vicine.

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Qualcosa ho dimenticato, qualcosa mi manca, parliamo a bassa voce che il rumorio non ci confonda. La vita vissuta avvicina ambiguità e altri confini però c’è chi, a metà strada, inciampa, s’imbatte, trabocca di concretezze, sfugge dai legami, non si distrae, non è colto nei limiti, non è irreprensibile.

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Vedi l’albero dell’ulivo: vortice fastoso, allegria quieta che non ha vergogna. Nella terra scarsa intimità nata con pazienza, caparbietà della vita, respiro tortuoso, su una terra pigra.

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Voce, sorella distratta L’utilità della poesia sta nel ricordarsi quanto sia difficile restare la stessa persona C. Milosz

Niente dovrei dire, spesso anche se non avrei dovuto ho voltato lo sguardo come uno che passa distratto o finge e non se ne accorge o dimentica di essere stato là dove sa con certezza che è stato e ha visto ciò che con certezza sa di avere visto ed è stato zitto anche se sa che avrebbe dovuto dire qualcosa. Che sia stato veramente così? O forse era che volevo passare inosservato perché credevo fosse piu decoroso e con riluttanza e pena, ho voltato lo sguardo, e sono passato in fretta per non vedere, e non ho potuto più dimenticare quanto ho visto dove, forse, non avrei più potuto tornare? Invece di te niente ho voluto che mi sfuggisse, sei stata sola distratta a guardare il riflusso sulla riva, un lieve ondeggiare che ti sollevava le mani come se fossero più leggere. Di te niente ho voluto che mi sfuggisse perché non avevo altro. E io non so perché ma sei stata orfana e ripudiata e madre di nessuno solo perché stavi zitta, non avevi niente da dire non trovavi le parole.

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guardavi nell’acqua residui d’esistenza e dove v’erano scarti e finitezza vedevi rimasugli di qualcosa che sembrava provenisse da un segreto inaudito, che ti si sottraeva con ostinazione ma non erano che alghe e ramoscelli imputriditi attorno alle dita con la corteccia corrosa dall’acqua salina e io ti ho ascoltato, ho ascoltato quel nulla che avevi da dire ti ho ascoltato voce, sorella distolta spogliata di tutte quelle altre vite che non ti sono state concesse orfana di tutto ciò che non ti è mai accaduto di tutti quei fatti a cui sono mancato ma che ti erano dovuti e per capirti mi sono finto un altro sembravo distaccato e nascondevo tutto con vergogna con le buone maniere con il comune senso del pudore ma zittirsi non serve una lingua sola confonde, un voce sola è troppo.

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Queste poche parole (In re ipsa)

E se tutto questo non fosse vero? Se alla fine si dimostrasse inutile tutto questo rinnovarsi di attese e sussulti e false partenze questo affollarsi vuoto e dopo l'irrompere dell'inatteso, non ci legasse a nulla, non arrivando neanche a sfiorare il sollievo di pensarlo, o crederlo, tanto meno a una per quanto offuscata, dimessa, certezza di tutto ciò che è effimero ed esiste; e tutto, tutto si perdesse, svanisse tra banalità e luoghi comuni? Brusche vicine allo sgomento a momenti forse indesiderate, queste poche parole ritornerebbero con la stessa fragilità, le stesse, rotto l'orlo, inadeguate, a causare le stesse esitazioni, la stessa insistenza, a dirla lunga tra imbarazzi e disagio e il profondo desiderio schietto, fragile, inspiegabile, che tutto sia vero, spinte tutte verso quell’ultima che manca, che si dimentica, che sfugge, che è lì sulla punta della lingua.

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Riscritture

Quello che è scritto è scritto? Puoi fidarti dello zelo degli amanuensi, cancellino in mano? Voltati d’improvviso! e vedrai quanti, troppi! corvi, accigliati, sospettosi, curvi sulla pagina spiano il vacillare della tua grafia. Con quanta precisione si mettono al lavoro, imbianchini del nulla, con solerzia copiano, riscrivono, confondono, seviziano; quindi alla fine verrà tutto cancellato? Quanto di fuggitivo in ciò che esiste? e quanto di inutile in ciò che non è! Che è solo insofferenza, senza via di uscita. Alla fine non si raggiunge altro se non l’esiguità di una voce per poi metterla al bando sulla pagina? Ascolta, sii paziente, non demordere abrasione su abrasione, un dio di cancellature, un universo di lacerazioni scaturisce. Escoriazioni che perdurano, e in altre memorie, in altre labbra anche le tue s’infiltrano. In altre ferite in altre macchie anche le tue si disegnano. Pensi mi riprenderò le parole e farò finta di non averle mai dette ma non sono più li. E alcune verso altri respiri, confuse ad altri sguardi si estraniano come se non lo fossero mai state. 25


Ma se le ascolti, se le tocchi ti macchiano le dita, s’inceneriscono negli occhi. Tornano, con un’ansia familiare a cui sei già abituato.

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Appunti sul senso della distanza

Tra ciò che mi rimane ed è molto: il gesto che mi trattiene, mi consiglia di non voltarmi più indietro di sbieco a guardare ciò che ho lasciato per sempre, è troppo ho un per sempre in ogni tasca. Le esperienze più decisive della mia vita dai trenta in su, quando tutto comincia a sembrare vero indiscutibile, effimero e irrecuperabile. Mi allieta invece sentire il peso delle mie mani il peso dei miei gesti, quelli nuovi, quelli che avrò d’ora in poi, nati appena adesso prima ancora che arrivassi, non gli altri, che ho perso ieri o l’altro ieri.

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* So di dover ricominciare, ciò che è rimasto alle mie spalle mi sfugge, e perciò so di dover ricominciare. Non sono più tornato indietro e pertanto mi sembra di non essermi mai fermato e intanto, tuttavia, infidi, randagi mi si avvicinano: il giorno d’oggi un affettuoso ieri, un affrettati che si è fatto tardi, un saluto agli amici lontani, un dimentica ciò che non è accaduto un sii fermo, bada al tuo avvenire.

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* Fu allora, fu imprevedibile, forse inevitabile, assurdo, fu più evidente che ogni altra cosa quando decisi di ricominciare questo perché ho cambiato paese strada avvenire passato e poi dopo tutto cosa ho veramente, cosa credo di avere cambiato? Mai prima d’ora ho avuto un ora così vicino, così invitante, nitido, mai prima d’ora ho avuto un adesso che preme, che mi cammina accanto che non mi attende va per conto suo, gira l’angolo.

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* Sono rimasto ad aspettare e intanto svaniva il senso di ciò che avevo iniziato tempo fa. Ho dimenticato cosa farò domani, domani domenica 6 giugno, invece non riesco a dimenticare ciò che farò ieri, o l’altro ieri, vado mi affretto, a fare ciò che avrei dovuto fare. Che ho rimandato ed è rimasto sordo nella memoria, farò in fretta, vado a dimenticare ciò che avrei, già da tanto tempo, dovuto dimenticare.

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* Farò un mezzo giro sul marciapiede per passare inavvertito passerò inosservato accanto a qualcun altro passate e potrò fare tutto a modo mio e sarà facile da dimenticare come chiunque potrò tirare dritto per la mia strada come chiunque, come gli altri, come tutti. Troverò, sono sicuro, un andamento mio, un modo di non trattenermi un modo di lasciarmi andare, il passo svelto per attraversare la strada e tra le mani, stretto, accogliente un vicino aldilà confortante a due passi dal mio avvenire.

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* Oggi ero felice ma avrei dovuto saperlo ieri così, rassicurato, mi sarei lasciato sfuggire lo sguardo lontano, fino a un rinvenuto passato invece ho avuto paura ho pensato ai rischi che correvo anni fa. Cercherò il modo di non prendere di petto ciò che oggi nel pomeriggio mi è successo o quasi ho annaffiato due pianticelle, basilico e rosmarino in quel momento ho creduto di essere in tempo. Poi sono andato oltre: ho trovato un’infanzia che sembrava la mia, ma era un po’ più lontana giocandomi in anticipo andava in un’altra direzione non mi angoscia saperlo, o pensarlo, il fatto è che ho tra me e me, e tra un passo e l’altro, momenti in cui credo di capire, perciò tratterrò solo qualche parola, per dire solo poche cose, tratterrò la difficoltà di sostituire una parola con un’altra, e tratterrò la voce affinché mi aiuti a respirare il mio luogo non è questo il mio luogo è un altro, perciò mi allontano e se credo di non sapere da dove vengo non mi insospettisco purché possa soffermarmi a riposare.

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* Lo so, oramai non mi allontano piÚ è un fatto assodato il senso della distanza non demorde pensaci, il senso della distanza affretta, accelera il passo, resiste, consiglia di non dimenticare.

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Ricercare

Vedi com’è incurvato quando cammina e chiuso porta lo sguardo, e un nerbo contorto è il suo volto uno scarabocchio che sembra partire dal irsuto mento verso le orecchie, due G espresse da incerta grafia. Ecco un uomo di lettere dissero appena lo videro, quasi da poterlo sfogliare, la carne a righe, da Fabriano ruvida e giallastra, eterea l’anima, carta velina che un soffio e svolazza. Nel petto batte il bip della segreteria telefonica vi amo per sempre ripete metallico, sono assente lasciatemi vi prego il vostro numero, sarete richiamati. Ma per lo più il tut tut suona occupato che non abbia altro da dire sembra assodato ma ci si chiede neanche qualche parola per zittirsi? Su una spalla il segno di un’orecchia una lettura interrotta per non perdere il filo l’altra è sempre offerta a rimpianto e all'affanno. Si sente, se ti avvicini alla sua testa, il respiro vitale del suo cervello, un fruscio di chi volta le pagine in fretta, tanto che una brezza fresca gli esce dalle orecchie e dal naso. Le sue viscere, caverne inesplorate dove una membrana floscia e tetra percuote a nulla come campana mortuaria, mangia a sproposito perché i suoi nervi sono affamati. 34


Dorme male, teme gli incipit, è andato e venuto da ovunque a nessuna parte ha un’aria spiegazzata, malgrado i suoi piedi non possono che allontanarsi, non è mai distante, senza mai partire non si è mai fermato. Mantiene geloso le mani in tasca, l’epistolario che non ha mai fatto vedere a nessuno, trattiene in gola con segreto stupore vocali mute consonanti cristalline, parole levigate come fossero lampadari ancora spenti, Videro che si chinava davanti ad un crollato tempio, ad antiche rovine friabili come biscotti con venerazione dissero gli altri, gli indifferenti e i sorpresi, ma forse, cercava solo un gradino per allacciarsi le scarpe.

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Quasi niente (variazioni sui passi definitivi e sul pentimento)

non mi rimane quasi niente muovo una mano, prende il volo e la perdo, se mi guardo intorno spuntano gesti, sguardi, nomi muovo l’altra, vedo un granchio che si allontana va e viene, su e giù, fa passi da granchio mi è rimasto l’acredine della meta compiuta perché credevo fosse essenziale, irreparabile dare passi definitivi, compiere una meta, imparare a girare la testa fu allora una cosa necessaria quanto indietro dovrei guardare affinché possa smarrire lo sguardo? ma ora dubito, non voglio più andare da nessuna parte, fermarsi e già abbastanza difficile, arduo, ma dare passi definitivi si, mi è capitato io sono uno che i passi li da con convinzione, ora pero non so più che farne dei passi definitivi mi sono voltato verso i segni delle mie sconfitte mi è sembrato di vedere un tappeto volante che dormiva nell’aria una ragnatela tessuta da un ruminante le ali di una fenditura, un intero universo lasciava passare una rete da pesca, solo ansia e ruggine pescava dopo mi sono seduto sui miei passi definitivi, non credo siamo fatti per questo, siamo troppo fragili, approdare è un’inutile sconfitta 36


malcerto, irrimediabile è il ritornare, quanto inquieta e quanto è inutile il ritorno, dopo assorto, distratto, spaesato, mi sembrò finalmente di essere vicino, avrei potuto dimenticare e ricominciare? ero a un passo dai miei passi, poi altri si aggiunsero camminare fu solo un fatto che capitò perché mi credevo fermo poi ripensarci fu facile, non arrivare sembrò la cosa più naturale, e ancora di più supporre che il viaggio l’avessi già fatto prima, fingere la stanchezza e il difficile ritorno nulla di più semplice, l’angoscia diviene confine, un inizio iniquo, una bestia elementare.

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Intorno al presente

è inutile rischiare tanto, costernato, no riesco a proferire parola, cosa rischi? la stupidità di un gesto insicuro l’ abbozzo di un saluto strappato dalle mani, rimasto a metà strada… rischio l’inettitudine di una parola inopportuna fuori luogo, che possa incappare nel silenzio altrui, in un momento in cui avrei potuto essere convinto, essere di parte, gettarmi alla cieca in quel istante che sembrava mi appartenesse e che dopo essendosi dischiuso del tutto avrebbe deviato il mio tempo presente verso un altro, più vicino da dove forse non avrei saputo più riprendermi rischio di allontanarmi in un ora ingente rimanere chiuso in un viavai di evenienze spinte dalla fretta di avvenire, spinte da un'urgenza di presente e finalmente oltrepassare una soglia, per poi cambiare strada, prendere quella che non ho, e malgrado so di poter perdere e che so possibile solo perché avverto il suo logorio necessario rischio il pentimento di essermi perso in titubanze, incertezze, tentando inutilmente di trattenere come se fossero miei una brezza leggera, un cenno inerme 38


di qualcosa che era lì per lì per nascere ma che non mi è dato capire e ciò che è peggio, rischio di essere costretto a evitare, tradire quel ieri o ieri l’altro, che da tanto attendo e di cui sono fiero e sicuro che sia l’unico che non mi va stretto e l'unico credo che veramente mi riguarda.

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So di doverti qualcosa

so di doverti qualcosa, ma mi sfugge cosa sia, e non so neanche se restituirti ciò che ti devo non sia altro che costringerti ad accettarmi temo che voler darti quello che io non ho mai posseduto e che a te non è mai mancato non sia che una nuova forma del mio reiterato ricatto ti sei fatta portare a strattoni e poi poi protrarre è stato per te un gesto di cauta comprensione, un’attesa giustificata hai capito ciò che io non ho potuto ma non darmi consigli, io in ogni modo non capirei, per me è tutto diverso io sono vicino agli altri, e voler essere vicino a tutti ed essere tra tutti confonde. questo solo di te non mi è sfuggito: ti ho visto che tocchi con mano ogni cosa, respirandole vicino un battito animale nascosto ti guida quando rivolgi lo sguardo verso la commovente futilità di tutto ciò che appena esiste certo alla fine dovrei convincermi che anche questa vuoto sibilo che ho nell’udito quando credo di non averti vicina e che mi rende ansioso cesserà, ma non sono sicuro, non riesco ad accettarlo, invece il tuo rimandare è in intreccio, un affollarsi di voci 40


che, mi sembra, sia esistito da sempre lo so: è per questo che siamo rimasti entrambi un po’ disorientati, tuttavia eri tu che guidavi io mi sono fidato e mi fido ancora ti seguo e attendo quegli attimi in cui tu ti fermi ad aspettarmi solo se tu lo vuoi io ti raggiungo ma è in quei momenti che sono sicuro di dover proseguire tutto di te mi ha preceduto, modi e gesti in cui ti intravedo, e credo, né ora né dopo né mai cesseranno, forse mi sbaglio ma penso: rimandare ha il senso di una verità ferma protrarre è una forma di resistenza parla del contegno, della decenza di esistere si sa è irrilevante ciò che si sfila si sa ciò che angoscia è perdere il filo questo è il gioco che ho imparato da te è vicinissimo al morire, ma sa stare in bilico passa rapido sa dimenticare, allontanare con leggerezza, protrarre con fermezza e fa’ sembrare che niente sia definitivo niente effimero e niente inutile.

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Un altro modo di restare, o di non tornare indietro

Non ho mai capito cosa fosse andarsene se un dilungarsi scontroso, una riluttante fermezza o una laboriosa felice sconfitta; un fermalibro, nel libro tenacemente, lungamente prima o poi dovrò leggerlo. O un parziale commiato, con in vetta una rivincita: un arrivederci e un poi vedrai tornerò e vi faro vedere e allora forse capirai, forse tutti capirete. Non partire ma andarsene era ciò che entusiasmava, nessuna cautela chiede il gioco dell’irreversibile. C’è chi è pieno d’inquietudine e progetti e non è mai andato da nessuna parte, e c'è chi no è mai restato perché non ha mai trovato l'unica scorciatoia, l'unica salvezza che avrebbe giustificato che restasse, - se la avesse trovata forse sarebbe stato peggio. E c'è anche chi non ha mai capito (so di non essere l'unico) che l’inevitabile è fermarsi e che forse il vero segno di perspicacia 42


è dimenticarlo, far finta di niente.

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Incipit

La stanza era enorme, sembrava vuota, c’erano alcuni pochi mobili. Di notte si ascoltava scricchiolare il pavimento di legno, a causa dell’umidità, o del freddo. Io da piccolo pensavo che fossero i topi sotto nello scantinato e se il timore aumentava sentivo voci che parlavano di cose incongruenti, sensi spezzati, parole sciolte come quelle che ci riportano un aldilà familiare. Voci estranee però che chiedono di farsi ascoltare.

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CosĂŹ era gioiosa la notte

Dalla grondaia una goccia: il mondo si era spento e in un batter d'occhio si è riacceso * è notte chiusa noi all'erta, sulle spine aspettiamo sui tetti inizia il miagolio. * Il mondo era allora incolmabile, tanto vasto e tanto vicino.

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Per il CV in terza persona e al passato

è nato, per quanto si sa una sola volta, per favore non dire nasce, l’epifania farebbe pensare all’inutilità del rimorso alla vanità dell’esperienza è nato, per quanto si sa una sola volta, per favore non dire nasce, l’epifania farebbe credere effimera l’evenienza incomprensibile l’esperienza.

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Polariscopio

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Oh N.3 - La mosca nella ragnatela.

Tutto accadde in un indulgente pomeriggio c'era una dolce, morbida calma, tanta pace tra la verdura, nessuna amarezza nel bosco degli ulivi, ovvero nulla da sbucciare. C'era una quiete di muschio rinsecchito e un sole distaccato impacciato, timido perfino, che si appisolava. Su e giù indolenti passeggiavano fuochi fatui, pietre focaie, cornamuse e ghironde e perfino un corno inglese e una tromba marina, ma tacevano, per non disturbare. Vicino, passava spensierato, sorvolando su tutto, un vecchio ciclope in pensione, baffi, berretto e occhiali scuri, guidava un inutilmente decappottabile maggiolino. Ma quel giorno il guastafeste s’intromise, e rovinò tutto. Egli che nei suoi meandri immondi si compiaceva, egli cui in verità poco interesse destava il creato, egli che furibondo di buona mattina si svegliava pronto a scrutare il male nell'universo, ma dopopranzo tra crepe di sonno sfiatava, e si addormentava -e tant'è, tutto non poteva far altro che continuare, anzi ovviamente continuava... Solo viltà vedeva nel mondo, e si addolorava, oh quanto quanto si addolorava, e d'ira d'immediato s'incendiava. 48


Oh desolazione, ma rimase di stucco quel giorno! Ammutolì, senza parole rimase quando nella ragnatela vide come il ragno la sua mosca si arruffianava. Allora capì che la cosa era assolutamente seria. E si pentì, oh rabbia inutile. Oh rabbia effimera, deleteria... Ora cosa si può fare si chiedeva, Ora cosa si dovrà fare? Oh duolo, timore, incertezza, espiazione, ma anche ispirazione. Astuzia, garbo, perfino prudenza e diplomazia, sarà meglio adoperare. È peggio di quanto credessi incredulo rimuginava con un nodo alla gola singhiozzava. É peggio di quanto pensassi. Non si dava pace né tregua. Nel timore, nell'ansia, - Oh pentimento, nel tormento, nello sgomento sguazzava...

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Maria

Non so se ti chiamavi Maria a me sarebbe piaciuto, anche con le trecce e i capelli scuri, rubati dal bianco e nero di una foto. O forse un nome più presuntuoso o elegante - volevano farmi credere che era meglio una Tiziana o una Cristina, ho conosciuto anche qualcuna che li usava come nomi di battaglia, a tempo perso però, un modo come un altro aggiungo io. Non importa, è meglio così, anzi l’ho capito dopo e da quel momento anch'io non faccio che cercare te e qualche serpentello… A me basterebbe almeno una mela brucata e assegnare il compito del ventriloquo al vermiciattolo. Ha qualche senso il castigo - cosa avremo mai da emendare noi che abbiamo perso anche la colpa, e l’espiazione, noi orda di disorientati? Sembra sia l’unica via rispose una voce in falsetto o forse l’audio era distorto, per non farsi riconoscere.

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Il coro dietro - voci scure a bocca chiusa: “Servì ad aprirci le porte delle città incompiute, per questo ci furono date le mani e un sempiterno affanno”. Ma i cori, si sa, sono infelici, ammonitori, troppo severi. “Io non lo so, se ci fu sbattuta o no la porta in faccia, questo, c’è chi lo sa bene o lo presume, ma non io, questa storia del paradiso perduto sembra una forzatura, un luogo comune, un remake” Diceva una maschera da carnevale appesa al muro. “E poi non si sa se ci abbia fatto bene o quale sia tale bene”. Aveva l’aria di una di uno sconfitto, uno che prima aveva creduto con vivissimo anelito, ora invece era un maldicente nascosto dietro una smorfia. - Dicerie tra il coro: “-Quando arrivammo non c’era il pubblico pensammo fosse solo una prova. - la scena, sembrava, era stata preparata in anticipo, era tutto pronto già da prima, - ci dissero di improvvisare mentre aspettavamo”. Per un istante ho avuto l’impressione che mi guardassero, lo sguardo era accusatorio - “io ero lì, sono sicuro (mi sono affrettato a spiegare) però ero distratto. Non è colpa mia se mi è capito di passare senza soffermarmi, se qualche volta, senza volerlo ho voltato da un'altra parte lo sguardo” 51


La mia voce sembrò strana, mi sentivo osservato no ho saputo che altro dire‌

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Bagattella votiva O teu silêncio é uma nau com todas as velas pandas. Fernando Pessoa

Strano quel vento che ieri ti dava in faccia lieve, titubante, indolente. Fingendo un aria distratta apparse da dietro un mucchietto di foglie secche... Un vento smarrito abbattuto malconcio inopportuno, e sospettoso infido indiscreto, gironzolava sulla tua fotografia grigia granitica e macchiata di muffa e di umidità... Ieri guardandoti in quel “giardino dei ricordi” ordinato e pulito, ornato solo da pietose margherite, ma piatto nudo pigro insignificante, senza sventurati pendii né cupe radure, senza doloranti sassi, né nodose radici, né pensosi sentieri, né aspri cespugli luttuosi, né fiorellini appassiti, né ostinate incomprensibili erbacce, né vasetti di plastica (rovesciati e schiacciati da passanti distratti e assorti nel loro dolore, e dallo scricchiolio alleviati dal timore della morte) né ceri consumati, né corone di fiori secchi, né formiche, e neanche ronzii di invisibili premonitrici api; in un cielo tenue senza nubi e disteso come un lenzuolo...forse neanche lucertole, ma grilli si, grilli si qualche grillo c’era... In alto un sentiero s'immergeva tra le coltivazioni a terrazza lampeggiavano lamelle di alluminio come girandole per spaventare gli uccelli intrusi. Rupi proterve, rocciosi crinali, recitavano 53


fuori con magniloquenza le cose vive… le cose della vita che fuori irrequieta, si agitava, separata appena da una cancellata con i cardini arrugginiti, chiudendo fuori l'antro dei vivi. Separata appena da una cintura di muri, inutili visto che a chi mai potrebbe essere impedito l'ingresso e di uscire mai si è saputo, tranne uno ma fu subito scandalo, capire ci è difficile ancora oggi e a tale inconsueto ritorno alle volte, volenti o nolenti ci affidiamo. Ma arrendersi no è possibile e poi non c'è motivo, rimuginare è inevitabile proseguire è necessario - certo ci sarebbero alcune cose da dire, il presupposto politico della situazione descritta: nel morire la compostezza è inutile, immiserisce, se almeno cespugli mezzo rinsecchiti, un tappo di sughero, una lattina arrugginita, dei gladioli tenuti in una pagina di giornale fracido, - perché dei gladioli? non era meglio forse il canto stridulo di un Cristoè? Che dire poi di quello che era scritto nel cordiale fraterno negletto giornale. Scritto, come tutto ciò che è scritto: bianco su nero: incancellabile, perché tutto ciò che accade è verosimile e non può non esserlo: gli aumenti della benzina, il crollo finanziario, la crisi dei regimi del vicino oriente e del lontano smarrito occidente, le tasche piene di terrorismo, e per quanto mi riguardava o meglio, il mio decisivo contributo una leggera indigestione, -poiché tutta questa tanto attesa morte era capitata all'improvviso... Dunque in quella nostra gioiosa sempiterna era delle caverne, cosa cambiava d'ora in avanti? 54


in questa nostra appena iniziata era della protostoria? Ma pioveva, almeno pioveva… Una corazza di lastroni distendeva il pudico camposanto. Di un gigante avrebbe potuto essere quella corazza deceduto in cruenta battaglia, smarrito in una foresta di betulle, (cosa c’entrano le betulle? dalla loro corteccia si estraggono un olio medicinale e tannini per la concia) o un immenso quaderno a quadretti, (a rettangoli 220 x 90 misura standard) per un malfidato contabile, puntiglioso: detrazioni e derisioni a colonne separate e neanche una misera, salvifica nota a piè di pagina, le scritture di bilancio dovranno considerare non tanto la capacità di vivere, ma anche la volontà di detenere lo strumento (l’esistenza) sino al recupero del costo d’acquisto, a meno che tale costo non si possa estinguere anticipatamente... Come posso estinguere una fideiussione da me sottoscritta per garantire una terza persona, e che tra altro non conoscevo neanche? Ti ho guardato negli occhi, tu sei una che si arrabbia facilmente una che si butta a capofitto, sembri irritabile e gioiosa come quelli che amano la vita, quante volte sei stata irragionevole, anche scostumata, indecorosa, spudorata... Le curve tenui delle lapide viste da lontano sul quel grigio infreddolito mare di inizio autunno muovevano verso di noi un'inesorabile, ingannevole risacca. Sul ferrigno l'orizzonte pioveva, era confortante, e la nave tristissima con le vele gonfie a tutta vela si avvicinava, si addentrava nella vita. O teu silêncio é uma nau com todas as velas pandas... Il tuo silenzio è una menzogna con le vele strappate il filo colmo, quello della vita poco vissuta, che è data ai più vivi, nella filanda dei vivi, dipanavi ceca, distratta e imprudente. 55


Il letto asciutto e già stracolmo tu l’hai riempito cieca, irragionevole, e dalle date sulla lapide: morta appena da poco e nata in un anno felice. Il presente è solo ciò che riusciamo a conservare del passato? Solo questo e nient'altro ci è dato possedere? A questo ci siamo ridotti? Avresti dovuto conoscermi quando ero viva - mi è sembrato di ascoltarti, l’arco della mia schiena, i miei capelli tenuti all’insù sulla nuca. Avresti dovuto conoscere me da morto, ho ribattuto, sfiduciato e profondo come un filo d’erba. Certo, si fa per dire. Ma ora ti sei chiusa in un solo sguardo, ti rimane uno sfarfallio intorno agli occhi è una dissolvenza che non finisce di chiudersi… L’internazionalizzazione dei mercati ed il conseguente processo di convergenza verso una unica lingua: è come se ti avessi conosciuta per caso e mi sentissi perciò di parlarti come solo a quelli che appena si conosce o agli estranei sfugge di parlare, Si trova un senso di distacco ma anche di somiglianza, e si crede per questo, di esporsi meno nelle confidenze che con gli altri? Obiettivo principale dell’autore è far comprendere che la condizione umana non può essere interpretata solo a partire dai modi in cui gli esseri umani producono i loro mondi. Sennonché...? Forse da viva avrei desiderato tutto mi sembrò di ascoltare, parlavi tra i denti, tranne te che brontoli e parli a vanvera scivoli ma non sprofondi e non sai neanche stare zitto -invece io ora, risposi, perché sembri tutto ciò che di più insensato si può non avere e desiderare -vorrei 56


pareggiare i conti, dissi, ma, di nuovo, dicevo così per dire, per pietà o per pudore. Ero composto, era finita l’attesa, mi era capitata una morte prevista, di quelle in cui i retroscena sono stati costruiti minuziosamente giorno dopo giorno e quando si ascolta il clic, si sussulta e ci si nasconde per qualche istante, ed è una cosa incredibile malgrado tutto, e leggeri e allegri con sollievo si assiste al funerale, viene voglia di scherzare, si ha quel buon umore da funerale. Un vuoto a giri concentrici, senza ombre, le tende lievemente mosse, aspettando una telefonata impegni di lavoro, qualcosa che riguardava dei documenti, adempimenti, scadenze, verità piene, la realtà smontabile. Aspettando, buco lo sguardo verso la tv, quando di colpo: come se un tempo cruciale ci avvolgesse: in mezzo al cammin, ma chissà quale: la morte deve essere avvenuta verso le sei disse il medico chiudendo una parentesi. Nella selva dei monumenti funerei eravamo un pubblico apatico un uditorio annoiato, uno scenario con le file disposte a platea. La mattina era lieve e fresca, il pomeriggio fu indolente e afoso e la notte rugginosa ma clemente e tutt’intorno il mare verde mansueto beveva ciò che era duro e fermo in ogni cosa; tra i presenti alla cerimonia, ognuno mostrava il suo garbato pianto e perfino ci fu qualcuno che prese un pugno di terra e lo gettò delicatamente sulla bara che scendeva piano trastullandosi. Fu allora che la trama svelò il suo punto nodale,

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fu allora che ebbe inizio: fu così che successe, come gregge che non trova l’uscita dell’ovile - intrecciando passi, confusi dalla fretta degli postremi saluti, indaffarati nel preparare l’oblio del nostro caro povero estinto, a coro calpestavamo i tuoi fiori appassiti che ti erano stati lasciati prima, qualche giorno prima, in quel momento fummo certi di essere estranei, arrivati per caso, lo capimmo e ci scostavamo, forse intimoriti o vergognandoci, scansavamo il tuo rettangolo grigio, il posto a te assegnato orlato d’erba rasa, in quel momento eri la nostra vicina entrata di soppiatto in quel nostro mal calcolato settimo giorno. Il nostro caro estinto si era messo da parte distratto sonnecchiava, sembrava già tranquillo guardava la scena, era il nostro unico incantato spettatore recitanti eravamo tutti noi, i saltimbanchi non mancano, i ciarlatani non sopportano non essere invitati, tutti in un momento così, ora come ora adesso e per sempre, era ormai tutto passato e noi dolenti dilettanti, con il solito granellino di polvere nel occhio capimmo che era tempo di smetterla e finirla con le cerimonie. Allora ascolta, non pentirti dei tuoi dubbi, dei tuoi ripensamenti non vergognarti se credi che i tuoi compiti sono rimasti incompiuti, ricorda ancora una volta come siamo distratti, inconcludenti anche noi non facciamo altro che aspettare ci giriamo intorno, non capiamo e non sappiamo cosa aspettiamo, in questo ti siamo vicini 58


e abbi pazienza, e perdonaci... Dimenticavo, solo una cosa, si trattava di uno che era stato mio padre, ma ora che ci penso era già da tanto che gli cercavo un posto nel mio teatrino, e solo la sua dipartita... Vedi, tutto continua, solo gli errori ci sembrano definitivi, per favore porta la mia commossa dimenticanza a tutti i miei cari, giÚ nell’oltre tomba, un affettuoso saluto a tutti...

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Esercizi

Morire è un prima o poi è vederci chiaro dopo col senno di poi, è trattenersi, dubitare, attardarsi, aspettare è impegnarsi invano ma in tutta coscienza è essere in ritardo o in anticipo è avrei dovuto aspettarmelo è avrei dovuto saper cosa fare è un'altra cosa sarebbe stato pensarci prima è nulla è di più veritiero di ciò che accade, è poche parole, non c'è che dire è come dire lo so, ma non so che fare è come dire forse altro avrei potuto fare, o se fossi stato un altro è tornare indietro, pero, mal volentieri o senza volerlo, o senza accorgersene è guardare da un'altra parte o capire nel mezzo di uno sbadiglio o è perfino qualcosa d'altro, che dimentico è veramente oggi proprio non ho altro da dire, è che tutto sia, sia vivere per morire o per vivere morire?

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Tra stranieri, vecchi amici sconosciuti. Alla mostra della storia delle migrazioni si parlava in un'altra lingua, si parlava di un presente mai passato. To change your langue you must change your life Derek Walcott

Eravamo a disaggio tra quelle vecchie parole, confusi, intimoriti tra quelle parole ritrovate. Parole che non avevamo mai perso. Ci si erano addormentate negli occhi, tra le dita, corrose, brunite da una vecchia dignità. Da molto erano rimaste celate tra le nuove menzogne, tra le nuove consuetudini imparate con rancore e amarezza. Sembrava non servissero ad alcunché, ma ci zittivano. S’insinuavano appena per restituirci dalla malsana malleabilità della memoria. Non capita tutti i giorni avere parole così, affabili come un gradino annerito e slabbrato. Segrete, dire che erano come fradiciume e limo sotto tronchi abbattuti, e dire poco, ma vero. Parole cartografi di terre da sempre conosciute e sempre vicine che bastava uno sguardo per ritrovarle. Ma non erano irreprensibili, sfiorarle inavvertitamente era essere scaraventati in un presente remoto, in vecchi scantinati dove si festeggiava i giorni della ruggine, i giorni dei fildiferro attorcigliati, delle ragnatele spesse come stracci di lana, del miagolio di gattini appena nati tra strofinacci sporchi di vernice e acquaragia. E il ribrezzo, il brulichio di scarafaggi e formiche sotto annerite, ammaccate pentole di rame. Eravamo diffidenti del nostro immediato e fermo presente. Persi tra cordiali incomprensioni e convinti di essere della fratellanza del tradimento, rinnovammo il patto segreto degli estranei, degli stranieri. Fuori un sole quasi disfatto affondava 61


nel pomeriggio della città collinare, e non c’era angolo dove la luce rimarginasse. Nella penombra tagliata a spanne di luce, nel salone della mostra tra le mappe dei viaggi mai conclusi, mai irreprensibili, le mappe degli affranti, le finestre erano penosamente socchiuse. Noi tra l’orda cordiale degli assorti e immobili visitatori per pudore dovevamo bisbigliare. I ricordi, l’anelito di raccontare prese il sopravvento: fu allora congiura di accenti strambi, pronunce titubanti voci spurie, infedeltà, andirivieni eccessivi, slabbrature lessicali, sintassi felici di crepature. Grammatiche gravate da distanze, pesanti di addii, di partenze, di confini. Si parlava dei ritmi delle cose quotidiane che in una città nuova potevano sovvertire la memoria, dei cumuli di silenzio che ammutoliscono la coscienza, di silenzi che s’incrostano tra le vertebre, duri e d’intricata lavorazione come il fondere di una campana, di lingue vaste e rumorose come le città della memoria, di varchi che si aprono nei gesti più consueti, di crocevia nate a sorpresa nello sguardo, di bestie afasiche e sorde che tendono agguati tra i passi più cauti tra le premesse più soppesate, del magma che muove gli strati dei sogni, delle decisioni che attecchiscono come ferite negli occhi e nelle mani. Persi, distanti in un irraggiungibile presente, l'unico, fragile, falso, insidioso, che ci appartenesse sembravamo studiosi dei laghi e delle isole della muffa. I segni, gli itinerari intricati di anni già vuoti ci ghermivano gli occhi fino alla cecità. Andavamo a tentoni, ma non a ritroso. Sulle pareti il caldo afoso ingialliva gli affreschi e nella grazia delle figure gremite e sovrastate dal tempo nascevano screpolature, macchie appena germogliate orli di umidità, aureole dalla calce, sfaldature dai soffitti e nuove ombre giunte dal passato si agitavano nella conversazione. Nelle figure consumate cercavamo le incrinature della storia, cercavamo 62


ciò che da tanto avevamo perso, ciò che da tanto ci era stato negato, cercavamo la indulgenza per il tempo che non scandisce più il passato. Abbiamo creduto intravedere in quelle figure il logorio del presente, l'esultanza dell'attesa e il mutare delle consuetudini, l'abitare nella dimora nel presente che si consuma e che si affaticata nel morire quotidiano, che si affatica nell’essere relitto, detrito di esistenza, la fragilità che perdura, che si ostina, che protegge. Andavamo a tentoni, ma non a ritroso. Non ricordo nessuno che si sentisse estraneo alla conversazione. Non ricordo nessuno che si sentisse scoraggiato, sconfitto dall’ostilità delle parole ritrovate. Nessuno che fosse distante dalle parole nuove che crepitavano piene di vecchie voci. Chi, penso, avrebbe potuto tenersi, estraneo, distaccato o rassegnato, nel suo mal puntellato silenzio; e non essere tentato di parlare con le tempie martellate dai ricordi e le dita tamburellando, cedendo all’urgenza di ricordare l’attesa del viaggio i preparativi ultimi tra le vecchie premurose consuetudini. Chi non avvertì, nella volta alta di quel salone antico, il fluttuare di altri spazi senza forma, senza peso, e la brezza che richiamava giorni d’ansia, dubbi, ripensamenti. Chi non riascoltò il chiudersi di porte, stanze che non si sarebbero mai riaperte, finestre che si chiudevano su giovanili insidiose distanze, e le decisioni che tagliavano in due quel presente remoto il più urgente, il più pregnante, forse mai esistito e il più vivo. E il cicatrizzarsi delle separazioni tra un passo e l’altro, dopo una determinazione sofferta e tanto sognata e tanto soppesata. Chi non si disse anch’egli smarrito, con l’esultanza dello smarrimento che muove a speranza, e non volle essere tra gli affanni di quel cordiale, effimero girone dei dispersi, e dei ritrovati nell’intransigente memoria; e rimase separato considerando pesi e misure e non si tradì e non volle invece malcerto, piegarsi alla tentazione di parlare, e di dire cose ignorate, 63


appena nate e da sempre amate e da sempre attese; e colte in quel momento unico a mani piene, con la premura che non gli fuggisse una frase, con l’ansia di non perdere tra una parola e l’altra ciò che di piĂš essenziale aveva da dire‌ Andavamo a tentoni, ma non a ritroso...

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Nella confusione dell’alba i versi di Ungaretti

Orecchie e muso di maiale arrostiti, tritati finemente con aglio cipolla erbe e spezie, un formicolio di cartilagini pungente, rancido di grassi copre il sapore amaro della birra e del fumo. La città crolla in una luce grigia di saracinesche e pozzanghere, c’è traffico anche a quest’ora, le quattro o cinque di mattina. All'orlo del marciapiede corre un'acqua sporca di fuliggine, trascina cicche, lattine, carte unte di grasso. Nell’aria appena rasserenata dalla pioggia, s’insinua il silenzio che precede l’alba. Va calando il rumore delle marmitte rotte. Come asteroidi in collisione con l’atmosfera passano traballanti, facendosi a pezzi, gli ultimi autobus quasi vuoti. In lontananza dove la notte medusa si dissolve in orli di chiarore si fa insistente il canto doppleriano delle ambulanze. Sono le ore zoppicanti, le ore storpie che si abbattono sulla città, sulla notte carcassa. Scappiamo, appena in tempo. Ci allontaniamo cercando rifugio verso stradine ripide, curve troppo chiuse che sfiorano i dirupi ai lati delle vie. Passiamo tra officine meccaniche, fabbriche di ceramiche e caseifici dove si fa un formaggio morbido e filante. Sembrano mandrie sonnolente, scalpitano irrequiete, si risveglieranno da un momento all’altro. Più in alto, le casupole bordelli, appollaiate come galline dormono, le luci sono spente. Albeggia, fili d'aria sfiorano senza attrito la boscaglia, albeggia. Albeggia negli occhi stralunati, tra foglie e rami leniti dal buio. Un brulichio di aghi di luce filtra tra gli arbusti, vibra tra radici aeree e ragnatele. L’alba è una soglia fragile: rumoreggia, smonta la scena. Vengono lontanissimi versi di Ungaretti: più non muggisce, più non sussurra il mare il mare Una brezza estranea, salmastra si agita nel pensiero. Un mare distolto, celeste, arioso come una tenda di lino, che parla di lontane torri diroccate, campanili, archi di pietra, porticati. Pietre antiche che cadono leggere sulle palpebre appesantite dal sonno: più non muggisce, più non sussurra il mare il mare, senza i sogni incolore campo è il mare il mare L'alba si allontana. La luce della mattina s’addensa riempie il paesaggio.

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Intorpiditi dal chiarore intravediamo l’onda verde che allaga le gobbe della collina, la strada oscilla e serpeggia. In bocca persiste il sapore acre, asciutto. Malgrado tutto alla fine siamo tornati, costretti, riluttanti, verso la città che riarmava le sue tortuose molle.

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Io

Pulsioni, nodi dell’inconscio sublimazioni, rimozioni contenuti sommersi, funzioni compensatrici mi basta guardarmi allo specchio per non ritrovarmi e mi perdo in giro anche il resto: l’agenda, gli occhiali, le chiavi di casa, i fazzolettini di carta me le porto dietro tutte queste e altre stranezze se cerco una matita per segnare un numero di telefono inaspettatamente spuntano fuori un paio di pulsioni perse chissà da quando inasprite che per riprenderle, quanta cautela! e se dimentico di spegnere le luci e torno sui miei passi, ecco i nodi del mio inconscio cambio idea e mi trattengo a snodare uno e annodare un altro e nasconderne altri per momenti più cupi in quei momenti li prendi e te ne stai lì a sgrovigliarli senza pensarci, e la vita fuori sfavillante sfracellandosi, ma sempre viva attende, la lasci per un momento in disparte che aspetti! lo so, anche la mia vita un giorno si è frammentata in un tafferuglio di voci dove ogni cosa mi guardava di sbieco, ma io avevo altro da fare 67


e la cosa mi disturbava, e non poco certo, ho i miei momenti più luminosi: se trovo una radice contorta che spunta sull’orlo del marciapiede allungo il passo per non calpestarla sbriciolo le nervature secche delle foglie e con gesti che mi scappano dalle mani le spargo e nella ruggine delle ringhiere so che c'è qualcosa che mi separa da te e da me e non che non senta anche tra le vertebre quel poco di ruggine che alcuni giorni e alcune notti si raccoglie e s'incrosta e che le fa più spesse e dure, inflessibili e definitive dopo mi allontano con un’aria un po’ teatrale un po’ distratta in un morente autunno di cicche e foglie annerite sull’orlo del marciapiede verso quel vicino parco dei gelsi e gli aghi ingialliti dei pini dove non vado mai e la stagione non è meno buia da appesantirmi meno la giacca sulle spalle ma il peso, in certi momenti, è elegante, veste bene ma appena mi giro intorno, torno e trovo nella memoria tutte le macchie del muro che ho davanti al mio tavolino e non solo di questo muro anche quelle di un altro muro, eterno credo dove spesso mi ritrovo e so che mi appartiene di più 68


e sono fisse e ineludibili, penzolano come ciondoli ostinati come oscure pietre incastonate resistono quelle macchie nel mio sguardo C’era una volta un angolo, accanto a una porta di legno, di legno massiccio e fradicio, e la porta era sbarrata da un tubo piegato e accanto cera una mensola malferma storta, e sotto, c'era quella sveglia rosso scuro, con lo smalto scrostato e quella città era in pendenza e con ali di nebbia volava leggera, e la sera arrivava con un mormorio di infiniti segreti che noi tutti, in calma sapevamo ascoltare. anni fa, tempo addietro, avevo poco da dire non era necessario dire niente, spiegare nulla un mistero fu covato, che resta, perché dove non avevo niente da restituire, non dovevo niente ancora non avevo debiti allora era un luogo spoglio quello perché lì vi fu un inizio ora pero che so dove sono un po’ la cosa mi angoscia, e un po’ mi allieta so che sono tornato, e già qualcosa, ma non so da dove... ora cerco la mia agenda, le chiavi di casa, prendo la giacca devo uscire, ora ho tanto da dire, ma che dire, non so che dire...

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Consigli a me stesso (di scrittura e d’altro)

Innanzi tutto socchiudi gli occhi, guarda di traverso, con la coda dell'occhio, per mettere a fuoco l’oggetto, che il peso delle marionette non s’infili tra le dita e le irrigidisca, vedi: la colpa è del burattinaio, non dargli retta, rischia, fa sì che il teatrino dell’assurdo non sia la tua casa, (è seducente l’assurdo, tutto pieno di cavi sciolti, tutti che chiamano il tuo anelito). Respira, respira, c’è sempre il respiro per prendere distanza e la distanza sia abbastanza per distogliersi da ciò che nello sguardo pesa, pensaci.

* Con cautela poche parole appaiono, indesiderate si rannicchiano in un angolo, si guarda loro malvolentieri, con diffidenza, non sembrano quelle che ci si aspettava. Se sono spigolose, ingannevoli, difficili da prendere, saprai che sono tue. E a questo punto, sii reticente ma non cedere, sii riluttante ma insisti.

* Dopo avrai tempo per ripensarci pentirti: per pudore? 70


perché parole troppo, troppo intime, ti scavano nel costato? è lì la giostra dei dubbi, lì le feste di povertà e inquietudine quando riescono a toccarti nel costato. Ma non fidarti di tali felici & infelici avvenimenti quelle non si svelano al primo sguardo, quindi fa' come se fosse, fa' finta che sia la tua vita. Fa' come si fa con quella, a volte scalpellando, tra strati e fragili resti cautamente spennellando, e altre addentrandosi nei meandri di cartapesta, nelle voragini lasciati da altre timide orme che svaniscono dopo l’ultimo passo e al successivo ricompaiono. É la cosa più difficile di solito si ha paura e per questo si prendono vie sbagliate e si finisce per mentire. * Poi il resoconto dei tesori: stracci, cortecce orli, spigoli, macchie, gli strappi (alla regola), una radice ammuffita, un fildiferro contorto, la ruggine su un chiodo e una pallina di piombo - è la rotondità del suo peso che ti spinge a chiudere la mano? Usa quello che trovi, quello che trovi a mano alla fine se puoi usa solo le mani, sgombra, fatti spazio, raccogli frammenti, ritagli, residui, delicatamente col canto della mano, rastrella tutto in un angolino, dopo un intreccio di vasi comunicanti s’insinuerà, una rampicante crescerà…persistente

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* Ascolta: prima era un limpido arco, un gong che sembrava vibrasse tra fronde ombrose, ora è un trac trac sbilenco che si allontana. Ascoltalo di sfuggita mentre accade il solito naufragio. Dopo tra un tamburellare delle dita e un fischiettare delle osa, in un batter d’occhio il paesaggio è diventato ostile ora fili d’acqua corrono ai margini, tra le righe erbaccia è nata d’improvviso un formicolio di voci attraversa le linee. Ti assomiglia? È irrilevante Ma tu fa' sì che tra le righe sfugga qualcosa. che ci sia l’ansia del rischio, già che tutto potrebbe essere vero o forse che ciò che è vero non avrebbe dovuto esserlo, è necessario il rischio, è imprescindibile. * Scrivere: sui gatti e le tegole ogni dubbio è benvenuto, puoi anche ascoltare il miagolio, sulla testa offuscata che si piega e poggia sul tavolo la fronte pensosa, sii tollerante chiudi un occhio, lascia passare, sono stracci da palcoscenico, vecchi costumi con i gesti cuciti alle stoffe. Vedi è semplice, non ci pensare, c’è tutto, non manca nulla e la resistenza è quasi inutile, potrebbe finire qui, potresti non dire una parola. Ma è anche il punto di non ritorno, si esce sempre dimenticando qualcosa, perdendo qualcosa, e in quel qualcosa rimane un gesto colmo un passo infinito da tartaruga, un inizio mille volte ripensato mille volte atteso, ma inevitabile. 72


Ora esci senza sbattere la porta sii affabile lasciala socchiusa, ora anche tu sei l’estraneo che si allontana. * Vuoi veramente rimangiarti le parole? Non farci caso, non ascoltare i gracchianti del nulla, sospesi nei crac crac abissali, chini sul abisso banale dell’io decomposto dell’io suscettibile, delle sempreverdi vanità-cecità costruisci la barchetta di carta che avevi voluto, le pozzanghere sono ancora avvolte nell’ignoto, laghi neri battuti dalle tempeste. O se no, pensa all’acqua che corre all’orlo del marciapiede, in una strada in discesa dopo la pioggia. Fa' la barchetta che ti avevi proposto. Prima galleggerà, dopo imbevuta d’acqua perderà la forma e sarà di nuovo una pagina persa Una cosa così l’hai vista. C'è chi legge meglio tra rimasugli e fango. * Sei ancora in tempo? mi chiedo sai ancora appallottolare una pagina per gettarla di nascosto, come ti è capitato di fare dolcemente a quella che ti piaceva? l’arco del volo era un arco di tempo, le cose tornavano e il tempo si soffermava ad aspettarle. In tempo, voglio dire in quel tempo in cui non ci si pensava, non era il tempo dei ripensamenti. Ci sono momenti in cui la realtà sembra a un passo dallo sguardo appena lì a due dita di distanza, che quasi puoi toccarla. * Consigli o tecniche alternative: 73


1) Per chi si spaventa ed è a punto di zittirsi quando in realtà vorrebbe dire qualcosa. Nei casi più difficili per chi si spaventa e ha paura di esporsi, straccia la carta, poi con acqua e farina fa' con la pagina una poltiglia, arrotondala tra le mani. Lascia però che s’intraveda qualche parola, qualche frase interrotta. Fa' dunque un pianeta con la pallina, e poi, un altro e dopo, se continua così, altri ancora, e alla fine un sistema solare. Attendi dopo, ascolta, non esitare e aspetta, aspetta che inizi il moto orbitante. 2) Per fare un aeroplanino, per chi si schianta sulle proprie parole. Per quelli invece che non sono presi da rimorsi, e si schiantano in ogni cosa detta, calandosi tutti loro in ogni parola, e dicono tutto e il contrario di tutto può servire un aeroplanino di un modello elaborato con molte pieghettature per vederlo sventolare dall’alto, cadrà inesorabile ma troverà peripezie inedite e un atterraggio silenzioso. 3) Per fare pieghettature a mancanza di spiegazioni, quando la vita sfugge tra le dita e non tra tutte le altre cose come dovrebbe. Finalmente si può anche piegare la pagina a fisarmonica un gesto inconfessato, segreto, si faceva così per copiare a scuola- ho copiato, ma avrei voluto essere più fedele. Sii fedele alle tue copie mi sono detto, sii fedele alla povertà, alla banalità dei tuoi abbozzi… Una voce riluttante vi si affaccia, non è la tua non è quella di nessuno che tu conosca. Tienila in serbo, e leggi, rileggi, di nascosto, vivamente senza farti scoprire. Ascolterai un segreto (di pulcinella), 74


un universo radicherà –stretto tra le mani, grave negli occhi, sconosciuto, di contrasti. E appena dopo la soglia della porta di casa, quando sarai solo: sentirai un’aria asciutta in faccia, le dita nodose, le mani sfiorare una realtà corposa, ostile ma rinunciare ti sarà sempre più difficile.

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Avevi qualcosa a mano?

avevo due mani vuote e nessuna piena, a mani piene ero senza parole, zitto zitto me ne andavo per non farmi notare avevo un’aria distratta e guardavo tutto, (questo fu prima, molto prima che me ne accorgessi) invano mi allontanavo, niente avevo perso, ma avendo perso tutto nulla cercavo allora ci fu una volta, ma non fu l’unica forse neanche la prima che voltandomi indietro non seppi dove guardare non ho niente mi dissi, ma ho l’ansia di saperlo, che per non aver niente è necessario ignorarlo, ne fui certo, convinto o forse (ma questo fu dopo, cominciavo a dubitare) certo ora che ci penso non so come, non so come sia successo, né se avrei potuto evitarlo, ho combattuto estenuanti brutali battaglie, sono sicuro, o forse solo qualcuna o forse nessuna certo non ricordo quali, e per forza di cose sono stato vinto, sono stato vinto, questo mi sembra vero (ora qualche certezza non mi manca) e ho vinto sulle mie sconfitte, come chiunque d’altronde, ma la cosa non è finita e non so come dirlo non saprei, il senso mi sfugge (iniziavo a ricordare, ma i ricordi mi sfuggivano) mi sono fidato di me, mi sono detto di questo sono sicuro - per confortarmi, 76


ma probabilmente non sempre giunto fin qui pero: dopo tutto questo, niente, niente, ripeto! a me stesso, con fermezza, convinto, niente mi sarà più essenziale del il mio smarrimento terrò in serbo, come un bene nascosto i giorni persi a dubitare sono stato qui, solo, a osservare, (quanta amarezza!) e intanto aspettavo, aspettare non mi stancava… perciò senza perdermi d’animo, ho pensato di dover proseguire, un giorno o l’altro dovrò proseguire (ora mi rendo conto, quanta incertezza nella mia decisione! che sconforto, ora sono solo! ho deciso di proseguire, sono solo!) o forse no, proseguire non che l’inizio appena, non è altro che l’inizio che si snoda, niente meno evidente niente più vero, ma aspettare non è stato vano no forse no, forse non è stato in vano…

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Sulla temperanza

Quale tappo di sughero caduto nella limonata, ahimè, che permane a galla, che resta, testardamente, della sua inevitabile pochezza convinto della sua sughero essenza della sua tappo esistenza, già che per natura di inferiore densità così tenace è a tal punto che non affonda e alla spinta più caparbia resiste, e non si fa eco di finitudine o fato o caso o sorte, ma ride, e scherza e riemerge ed è quella la sua essenziale verità di quanto sia l'esistenza leggera quando quasi vicina è al nulla, e a tal punto è la sua porosa consistenza, la sua impermeabile caparbietà, che si ostina, e resiste e galleggia, e dell'acqua senso, conoscenza memoria, storia, non si cura e rimane asciutto, sobrio e pulito... cosi anima io, mente, corpo sii perseverante.

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Domenica. Tempo di spolverare ossa e pensieri

oggi tutto ciò che non mi è accaduto mi accompagna come un formicolio tra le dita vado e vengo tra ricordi, rimasugli, strofino spolvero e vedo scomparire vecchi affanni e di ciò che rimane non se farmene tempo per ricordare tempo per dimenticare ora come ora sembra quasi vero ma affligge tutto questo tempo rimasto nei vuoti scaffali metto in ordine ciò che non ho mai saputo in ordine alfabetico dalla zeta di mai alla x di infinita speranza c’è di tutto in questi ripiani: mani incallite, partenze inattese, un colpettino di tosse di tu sai chi, quegli occhiali di chi passa senza guardare ma oggi no, non pensarci sembra non ci siano rischi oggi meglio non avere ricordi e calpestare il presente concavo delle battaglie differite affaccendato vado e vengo, vengo e vado indaffarato da ovunque a nessuna parte, in secreto mi sforzo, e a dire verità ci riesco a far sì che oggi nulla accada

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oggi mi rendo conto che è il tempo felice di rimescolare, quindi scelgo separo riordino straccio solo alcuni giorni ci è consentito di non capire nulla ricominciare tutto, rifare tutto da capo oggi è tempo di spolverare le ossa dei ricordi, ho visto fare così a certi allevatori di parassiti, quelli più insistenti mai dimenticati, che a forza di memoria hanno fatto orli e incrostazioni di ruggine annodo slego spezzo ricompongo ritaglio e mi riempio di sospetti e dunque sottolineo prima di farmi prendere dall’angoscia prendo nota di tutto, di quanto accadrà, ma soprattutto non lascerò che ciò che non avvenne mi prenda in contropiede e su quanto ho dimenticato e mai più ricorderò su questo faccio note al margine, su questo faccio capriole mi butto a capofitto incrocio le braccia scivolo annego e dopo sono seduto placidamente nella mia poltrona abbi pietà dei tuoi ricordi, non esporli oggi, fa sì che il gioco inizi in ritardo, questo chiedono gli amici dimenticati, questo consigliano voci amiche tieni le mani lontane da te oggi a un baratro di distanza tienili a qualche centimetro dallo sguardo a un passo dietro i tuoi passi guardati da quello dicono segnalandomi, non fidarti di lui che tutto vuole dimenticare 80


parole rinsecchite, attrito di minuti vuoti, gallerie di larve, una porta inopportuna che sbatte e mi ricorda che avrei dovuto chiuderla nella cassetta delle lettere c’è il ricordo di te che mi è più caro, mi è stato spedito da amici lontani che forse ora non sanno più nulla di me avvolto in carta da giornale, avvolto da cattive notizie oggi, oggi... non so che farmene di un oggi così il sole splende come una vocale è la o incorruttibile delle certezze inspiegabili oggi i ricordi sono frattaglie distese alla gioia delle mosche oggi è il vuoto del dopopranzo alta marea del sopore, l’ultima riga di una pagina superstite, di un frammento superstite di un libro superstite, ingiallito rosicchiato dalle termiti “Una luce negli abissi” trovato sull’armadio una sera tardi, un martedì penso, un martedì il giorno delle promesse rimarginate era l’anno di 1966, ed io mi trovavo lì, per puro caso e lessi tutto, dalla metà superstite fino a quasi il finale in quei giorni oggi era il grillo apparso nello sgabuzzino rinsecchito, di cartone, vicino a un paio di scarpe vecchie avevo dimenticato le chiavi di casa sono tornato e ho trovato la porta chiusa c’era il sig. paura che filava il filo di zucchero e sono rimasto a aspettare perché avevo otto anni oggi dilaga una luce tonda e il campanile chiama a raccolta estinti e superstiti 81


tutto è chiuso ed è molto pulito il silenzio oggi dopo ne avevo 99 ed ero io che filava fili di sale oggi è il giorno dei miracoli attesi quello sgarbato, imprudente che se ne va a pezzi quello solo abbozzato che si è fatto un ieri senza neanche un graffio oggi è il giorno in cui le cose sembrano ben delineate appese da un filo di buon senso, oggi è il giorno in cui le cose sembrano mal collocate, annerite, chiuse nel loro guscio di silenzio e offese oggi è il giorno che ti sei perso in giro quello che sapevi di avere in serbo sapevi che avresti avuto un giorno così un giorno arrivato da poco e che ti consiglia di prepararti perché vedi: tutto si è fermato e rapido passa inevitabilmente oggi non è ancora accaduto e forse se saremo sbadati ci sfuggirà, a te e a me accadrà appena un istante prima che tutto il resto finisca, pensaci, affrettati oggi è il domani esasperato che ci segnala col dito potrebbe perfino non accadere, perciò sbrigati niente da fare, oggi non ci faremo imbrogliare, affrettati oggi è un colpo di domani, un vuoto di cui non ci sono più tracce, nessuno se lo aspettava affrettati prima che accada senza che nessuno se ne accorga...

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Misure (a modo di canzonetta)

tu che avresti desiderato essere chiaro come un gesto, qualunque gesto sottile come una pagina e acuto come il voltare pagina, qualunque pagina non dimenticare che hai avuto anni più certi pensaci, anni in cui si è convinti e non ci vergogna delle certezze ora sbagliare è il mistero che ti è rimasto tra le mani tu che avresti desiderato lasciarti alle spalle qualunque cosa fosse in quella pagina scritto, ora per decenza hai voluto imparare a essere fragile come un ramoscello secco? non guardare indietro, in quell’antro di dubbi dove credi di avere tanto da chiederti, tanto da dimenticare non risvegliare quella pigra fertilità, feconda inquietudine: la inconsapevolezza vivace, gioiosa di quelli anni contraffatti e tanto certi, quelli che ancora sono nelle tue ossa, incrostati con timore sai di averli, li ricordi con cautela, non demordi e insisti nell’errore di attenderli la tua memoria si regge su poche cose impreviste, spesso non volute, di scarso significato ricordi un cancello sgangherato o era forse fermo e accogliente l’intimità che separava? ricordi due o tre gradini sgretolati e la patina scura verdastra della muffa che ti macchiava le dita, ti sedevi lì in qualunque momento e ti lasciavi andare?… ma forse quei momenti non sono mai esistiti già allora sapevi di avere un’eredità scarna già compiuta, ti fu consegnata senza cura appannata come vetro slavato dall’acqua corrente hai sempre avuto la certezza che guardarti da lontano 83


fosse una falsa via d’uscita, perciò inconsapevolmente hai cifrato speranze in qualcosa che era come una feritoia una stradina a metta luce, un iride di muschio l’inspiegabile fermezza che anno le pietre nei muri a secco e il loro chiuso viavai serpeggiante su coline consunte perciò hai guardato offuscato dalla rabbia o con esasperata attenzione le offese, le umiliazioni, le rovine, con un’ansia che ti si sbriciolava tra le dita e te lo rimproveri, ma non demordi protrarre con dedizione, con accanimento ti ha sopraffatto sei come un cavo sciolto hai le mani dissodate da un’insidiosa latenza sei il mio simile e una sorta di alibi io che ho gli occhi carichi di concretezze cerco in te i giorni in cui l’esistenza e tenuta da un solo filo di conseguenze senza causa e la speranza è un gesto recidivo un gesto più grande di quanti si possano compiere.

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Oh N° 4 sull'eternità

Sia dunque, visto che ora lo so che non ho più niente da perdere, per una volta andrò a fondo piazza pulita di tutto! nulla resti in soffitta solo un’assenza tenace, felice incomprensibile come uno starnuto, e siano le tenui ombre cancellate finalmente, dall'efferato mai abbattuto bianchetto. Ciò che è mi sfugge, io più non attendo, cosa è che prima non lo fosse? Ciò che non è, che mi si allontanava, io più neanche ricordo, nullità, niente è della memoria più strano. Mi rimanga solo il cancellino in mano e la gioia di chi neppure sa cosa ha cancellato: Via le sdolcinate ombre: le rondini sui tralicci le colombe sotto le gronde, i solchi sulla terra rinsecchita, anche quelli che la pioggia ha appena bagnato. Via i treni in partenza sibilanti nella nebbia: non sono mai arrivati a nessuna parte. Erano fermi, con la nebbia svaniva anche la distanza. Via l’uomo che volta l’angolo e per sempre sparisce basta un altro angolo per farlo riapparire. Via lo strofinare dei passi nelle chiese ombrose vecchie signore fanno le pulizie, starnutano i santi: c’è polvere.

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Niente mi rimanga neanche le briciole nelle tasche, via i campi di grano, (anche di spinaci o bietole…) le foglie ingiallite del premonitore autunno (anche quelle verdi) la perplessità del aria mattutina. Adesso capisco: ero nascosto, mi ero sommerso per un istante nello sgomento ed è bastato appena un batter d’occhio per riprendermi. Già altre volte mi ero perso, e ogni volta ho voluto ritrovarmi, ma il perché ora mi sfugge. Ora vorrei solo, che mi restasse un tic da conservare, da nascondere sotto la lingua o nel taschino. Ma, che sia oh inesorabile, che sia solo un tic, nitido, cristallino. - Mi spiego: un tic che al seguito non abbia un tac.

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Indice

Pagina

M acchina per Incisioni Puzzle di paesaggio incompleto Illazioni Queste poche parole (In re ipsa) Riscritture Appunti sul senso della distanza Ricercare Quasi niente Intorno al presente So di dverti qualcosa Un altro modo di restare o di non tornare indietro Incipit Cosi era gioiosa la notte Per il CV, in terza persona e al passato

1 4 23 24 26 33 35 37 39 42 44 45 46

Polariscopio

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Oh n.3 - La mosca nella ragnatela. Maria Bagattella votiva Esercizi Tra stranieri, vecchi amici sconosciuti. Nella confusione dell’alba i versi di Ungaretti Io Consigli a me stesso (di scrittura e d’altro) Avevi qualcosa a mano? Sulla temperanza Domenica. Tempo di spolverare ossa e pensieri Misure (a modo di canzonetta) Oh n.º 4 sull'eternità

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