Jose carbonero litania e scarabocchi

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Litania e scarabocchi

JosĂŠ Carbonero


Porque la realidad nos cerca y, sin embargo, hay que buscarla, no es suficiente con que esté o quizá no está sino cuando nos hemos colocado en situación de recibirla. Por eso, lo primero en San Agustín, es la aceptación, aceptación sin condiciones... Maria Zambrano, in La confesión: Género literario

La verità è nei rosicchiamenti delle tarme e dei topi, nella polvere ch'esce da casermoni ammuffiti e nelle croste dei 'grana' stagionati.

La verità è la sedimentazione, il ristagno, non la logorrea schifa dei dialettici. È una tela di ragno, può durare, non distruggetela con la scopa.

Eugenio Montale. La Verità, in Quaderno di quattro anni


Oh dolce ruggine che persisti


Un nullaosta con pianticelle di peperoncino, un picchio e un prete.

Anche se la salma non era più in casa il prete venne lo stesso. Aveva fatto il più presto possibile disse, arrivò con mezzora di ritardo. Distratto, sermoneggiò di partenze, esodi, ebrei costretti alla diaspora. Il pianoforte verticale, chiuso in un angolo sembrava l’unico essere vivente, forse tra i convenuti il più afflitto per la dipartita, si offriva come appoggia gomiti per due o tre che erano rimasti in piedi. La voce che veniva dalla sottana slavata e l’odore d’incenso più acre col caldo stordivano a una ventina o poco più. Forse era più fresco alle pompe funebri, nel viale delle palme. Si entrava da un portone rinsecchito, color cioccolato amaro. In fondo attraversando un tetro corridoio celeste ai quattro fianchi del patio interno vi erano le stanze con le bare scoperchiate, le corone di fiori che appassivano, e l’aria che tutti a quell’ora stessero facendo la pennichella. Per noi invece, il primo lutto, la prima morte in famiglia, avvenuta all'alba, verso le sei, al primo chiarore, ma ora sono già le due e mezza del pomeriggio.


Che il prete sapesse che si trattava di emigrati o che nei funerali il rito prescriva di parlare di esili, diaspore, commiati, partenze, non lo capimmo. Destò angoscia tra gli sbadati congiunti, lievemente si rividero morire nel tornare indietro, assaliti dai ricordi. Era eccessivo, dopo più di quarant'anni. Diaspore poi, terre promesse, disse uno... - Cosa centrava quel prete stralunato tra i convenuti dall'aldilà... Fuori la brezza calda viene dal lago, un sole giallo cupo brucia il pavimento. Al di là della porticina di ferro verdino, che cigola più che mai con l'andirivieni, a entrambi i lati dei tre gradini centrali: pianticelle di peperoncino, un orlo a tratti interrotto di margherite, il fiore della savila, buganvillee, begonie due piccoli rosai agli angoli, e difronte sul marciapiede alberato, un Camoruco con un nido scavato nel tronco in alto: un picchio, l’uccello carpentiere.


Fotografia su una scrivania di legno scuro (La dignità dei ricordi)

In alto il lucernario lasciava entrare le nuvole e così come ora la memoria sembra attraversare un amabile banco di nebbia, illuminava una scrivania scura e Giuseppe il giusto, che sedeva a sbagliare il genere dei nomi, che mandava lettere di auguri come se fossero condoglianze, su cartoline bianche con l’orlo nero, perché ne aveva tante di riserva e a mancanza di altre, scriveva su quelle. Di decessi in quel periodo non se ne ricordano tanti. Vicino c’era un divano piccolo, a fiorellini, azzurro, impallidito a causa della luce bianca che infarinava la scena, e ancora poco più in là sulla carta da parati una macchia, accanto al divano dove di solito sedeva Rosa Carmela, magra credo, direi magra ora lo dicono tutti, a fare la maglia, quando lei mori, tutti rimasero a guardare la macchia, - la macchia rimase, benevola condiscendente, Rosa Carmela mori di cancro, nella stanza vicina, un medico amico, medico forense fu per caso, il primo che della sua malattia se ne accorse. Tempo prima quando in morbose circostanze ci fu un suicidio in famiglia


c’era chi, tra gli accorsi al rito delle condoglianze, che vergognandosi guardava la macchia e la macchia si rinnovava, sembrava più chiara con degradazioni di colore tra gli strati della carta da parati. Poi tutto fini per immergersi in fotografie, chiuse in una cassapanca, il matrimonio di Pasquale, lo spintone di Lucia a Antonietta il ruzzolone dalle scale, la nascita di Pinuccio le orecchie a sventola, il pianto di Alberto. E anche la macchia, che ricorda tutto, quanti rimasero pensierosi a guardarla per non vedere altro. E alla fine il colore della parete, in contrasto al bianco nuvola senza peso del salottino celeste si è volto verso un giallo plumbeo intenso, a causa della macchia sorgente. Ci chiede cautela, precisione, dignità per questi ricordi, specie rare in via d’estinzione.


Un atlante nelle linee della mano

Al nord le smisurate radure di suo padre perduto nel presente irascibile e fragile ogni cosa fuori posto. L’aria arrugginita e i cardini delle cancellate a punto di scardinarsi, così iniziò. Più in alto verso sinistra in senso antiorario gli agrumeti ombreggianti dei nonni materni, lei aggrinzita e ferina, morta d’improvviso ma lentamente perché si aggravò - alle volte succede così, perché no ostane tutto è grave morire; lui invece morto infinitamente, come se niente fosse, 99 chili, un'ariosa collina, il giorno in cui seppe di morire si mosse con la leggerezza di una virgola, nel istante in cui ne fu sicuro con premura andò a avvertirlo: Lucia, disse: questa sera vado via e così accadde. Al sud gli scogli scivolosi e notturni di sua madre, madre falena, il sud fosco, la zona delle grotte corrotte dalle risacche. Il recidivo errore il desiderio dell’acqua senza riposo. L’anelito dell’isola senza proda. A est le montagne nude, dove le api striate


pingui come gatti tra le piante di lana, l’aria schietta, i laghi bui come occhiaie, l'alba come un algoritmo e le trote vive come mai altra cosa viva, tutto visto e annotato con precisione. Un sistema chiuso su principi non causali, e tutto ebbe inizio un’altra volta. A ovest suo tempo presente: i passi che non tornano. Rivoli d’oblio mormorando e le insidiose sempreverdi promesse che ancora malgrado tutto si inceneriscono. Succede così perché in ogni caso sarebbe un errore e inutile anche perseverare fino al fallimento.


Ritratto al carboncino

Ero tra amici comuni e ricordavamo il tuo modo di parlare. Si pensava quasi a una lieve malformazione della mandibola, le labbra chiudendosi si stringevano in un rictus all’insù verso la parte destra del viso. Parlavi di traverso, come con riluttanza, sembrava che trattenessi tra i denti, per prudenza, ogni cosa prima di dirla, la masticavi da un lato, misurandola con cautela, con presunzione. Parlando e sperando di essere ascoltato con attenzione perché avresti detto tutto d’un colpo solo e poi saresti rimasto un po’ in disparte ad ascoltare e non avresti ripetuto ne polemizzato. Dopo che ho avuto la notizia della tua morte non ho saputo che dire, come se nelle mani mi fosse rimasto qualcosa d’estraneo e fragile. Cosa cambiare, cosa rischiare, cosa aggiungere in un momento così? Ricordi, parole sono rimaste lì cianfrusaglie da conservare dopo, da qualche parte. Non sapevo più che farmene, né se si potesse modificare punti di vista, e stati d'animo o impressioni. Sei stato il primo di noi a morire non l'avremo mai immaginato, ma forse allora non immaginavamo neanche che si potesse morire.


- la cosa mi stride negli orecchi Di alcuni degli altri ho perso le traccia, di te è assurdo, ma mi sembra di sapere dove trovarti. La tua figura, la tua impostura, si sono fermati nella memoria. (per tutti gli altri –noi, c'è ancora una possibilità di essere ridisegnati su forme effimere e vive). Solo questo posso tratteggiare di una figura che inizia a cristallizzarsi nella memoria: il suo volto appartato lo sguardo esile, dietro gli occhiali spessi, parlava di suo padre catalano ai tempi della resistenza, -urbana chiariva. Con orgoglio di lui ricordava il crollo di paura se ascoltava il fischio di una sirena, anche se fosse solo quella di una fabbrica, che gli era rimasto anche topo tanti anni. E adesso mi rendo conto che anche nell'inutile tentativo di essere fedeli ai ricordi -è inevitabile ingannarsi, tentare di sfuggire e inevitabile, quanto si è meschini pero se non si è sinceri, malgrado tutto.


Come vespe intorno al vespaio

I polpacci duri e nodosi come un pugno le gambe aperte a triangolo piramidale e le cosce, che appena sulle ginocchia d’improvviso si arrotondavano, scoperte fino alle mezzelune crescenti delle natiche. Il vestito slavato e ristretto dall’uso come se a causa della povertà le fosse cresciuta dentro, - vitalità che fuoriusciva dalle cuciture, a punto di strappo, rigonfio di rullini e cuscinetti di carne. Come vespe intorno al vespaio i ragazzi, e peggio se s’inclinava sul bucato sbattendo e frustando, ricci i capelli schizzati e lo sguardo che punzecchiava compiaciuta e procace. Si tentò di toglierle dalla testa quelle cose inutilmente, era felice in quel modo anche se lavorava come una forsennata. Se non ricordo male si chiamava Maria capita a persone come lei di chiamarsi Maria.


Una reazione a catena

Qualcosa come una reazione a catena. Non so come iniziò, eravamo tutti stranamente convinti ci guardammo incuriositi, ognuno frugando dietro la cerniera, e poi pronti! Arnesi in resta iniziò il rito. Ad archi paralleli, sei o sette, tenere bene la mira, misurare la potenza di getto, concentrati sulla macchia a semicircolo sul pavimento. Verso il terriccio orlato di fiori, sulle mattonelle mal livellate, a causa della pendenza il rivoletto si muoveva rapido, filtrava la bordura di cocci rotti conficcati di traverso, dolce argilla rossa e porosa, - chissà se avvelenava le radici. La macchia rimase, il cane la fiutò sospettoso, nessuno fuori della combriccola seppe spiegarsela, finché la pioggia non la cancellò. Maestri di alleanze, seduti in riga sul cornicione, le gambe penzoloni, avevamo dato prova di chissà cosa. Su coalizioni patti ora qualcosa mi sfugge. Ai seguaci invece


bastava uno sguardo per capirsi.


Trapasso, work in progress

Una volta da bambino ebbi una strana malattia delle vie respiratorie, -non ho saputo mai di cosa si trattasse, molto grave sembra. Avevo perso la voce e mi hanno raccontato dopo che la mia vita era in pericolo, che se durante quella notte non la avessi recuperato, avrei potuto morire, o addirittura sarei morto. Dovevo superare quella notte era quello il segnale e secondo loro, lo disse anche un medico che pare mi abbia visitato, medico che io, però, non ricordo. Ricordo un pomeriggio tiepido, nella stanza da letto dei nonni quasi buia del tutto, e con un sole che splendeva dagli spiragli delle finestre socchiuse, e scivolava sui colori pastello delle tende e oscuro e legnoso dei mobili. -Mi viene ancora l’odore un po’ pastoso, aspro, un po’ repellente dei nonniIo ero in mezzo a tutti seduto nel letto non facevo caso ad altro sennonché all’evento inconsueto, ero contento. Ero oggetto più di curiosità che di pietà, non ricordo che nessuno piangesse. Tutti con un viavai e con una curiosa animazione mi guardavano -chi si teneva lontano, chi da vicino, mi gironzolavano intorno,


io da parte mia ero attento a tutto. La sera tardi, accesero dei calderoni con qualcosa per farmi fare delle inalazioni, intrugli che facevano vapore e annebbiavano la stanza, per liberarmi la gola. Una zia con più iniziativa degli altri più che guardarmi mi scrutava, dava perentorie indicazioni e, credo, di tanto in tanto mi misurava la febbre. Era lei, nei momenti più difficili in famiglia chi decideva, era ferma e sapeva agire senza farsi prendere dal panico, sorda a timori, mancanze d’animo, fatalismi, tragedie domestiche. Il suo modo d’impartire educazione, ancora oggi considera innanzi tutto l’esperienza, il confronto diretto: per lei chi ha paura del buio dovrebbe essere costretto a rimanere al buio, chi insiste nei suoi capricci è lasciato allo sbaraglio nel buio delle proprie decisioni, il che da bambini, si sa, è grave e rischioso. Sembra sia stata sempre così, si dice in famiglia, ha saputo toccare con mano ferma la realtà, con praticità. Sorda a banali evenienze, alle fiacchezze altrui, agli intimi e vani misteri che ognuno si trascina con se. Ora a forza di non ascoltare a nessuno, a forza di concretezza e fermezza, ora è diventata proprio sorda, del tutto.


All’alba la zia sedette al mio fianco sul letto, mi chiese qualcosa all’orecchio, io risposi appena, con un filo di voce, ma per quanto ricordo ero ben sveglio e mi sentivo normale, di buon umore e sicuramente abbastanza vivo. Lei fece un cenno agli altri con la testa, affermando: avevo superato la notte, sarei vissuto. Ora mi rendo conto che fu un trapasso comunque, (qualcosa era stata decisa, ma non da me di certo) si aspettava che morissi, tutti ne erano convinti, se lo aspettavano e forse approvavano: inaspettata la nascita, fuori dal matrimonio, se fossi morto si sarebbero normalizzate le cose, -erano altri tempi. Non fu così. Qualcosa di perverso, di malsano mi ha sempre accompagnato (io malvolentieri lo confesso) Mi parla di rinnovati sbagli, e mi recrimina di non saper accettare le effimere vittorie, banali, forse un po’ meschine ma confortanti. L’approdare quotidiano a minute certezze. Dopo ho continuato a sbagliare ad essere insoddisfatto, inappagato, a resistere controcorrente. Mi disapprovano perché parlo troppo e ho l’inclinazione a dare troppe spiegazioni, non so che dire, ma in certi momenti sono convinto di non dover stare zitto. Questo ricordo mi è rimasto fermo nella memoria,


di tanto in tanto me lo ritrovo davanti come una vecchia fotografia.


Lo zio dei fichi

Lo zio dei fichi ha quasi novant’anni mangia la pasta asciutta in un piatto fondo che sembra la scodella del cane. È appena tornato, quattro peli le rimangono al vento, l’aria di sfida, con la catena assicura il motorino. Così non te lo graffiano dalla mano un graffio gli sfugge nell'aria, negli occhi se la ride: cose che succedono. Lucchetto e catenaccio in torno alla porta sgangherata dell’orto: così non entrano tutti e ci rovinano gli alberi. Che viva, come si crede facciano i vecchi, rimuginando il passato, smarrito nel vago dondolio della memoria, solo come un cane? non si direbbe... È l’unico che è rimasto ricco dopo tutte le sconfitte degli altri. Contadino & proprietaria terriera tornava ubriaco la sera, c’è ancora qualche briciola di odio tra loro, le faceva le corna alla zia.


Lei è già morta, lui, ora che ci penso, forse anche, ora come ora sarà già morto. Certo perché la cosa non dipendeva da lui che se non fosse stato così sarebbe ancora vivo, c’è da scommetterci.


Incrostazioni

Acidule, di un giallo scuro profumate di corteccia verde di terra umida di sudore disse insofferente mio padre passera dicevamo tra di noi. Facevano i vermi appena mature, andavano giù di un solo boccone vermi, buccia e polpa. Da non crederci! È strano come si è già dall’inizio avidi, pronti a vivere, con ferocia… - Quando è che iniziano i malintesi, i tradimenti, mi sono chiesto. Dopo, dopo vengono i dubbi iniziano i preparativi, gli attrezzi inutili: diventati adulti allora, ci si crede pronti, armati fino ai denti. Pronti a perdere pezzi, a sbandare a spezzarci, tentando un volgare gioco di incastri, ma i pezzi erano già incompleti, spaiati. Certo vivevamo e basta, convinti niente da spiegare, proprio niente. Qualcosa da dire hanno invece quei rimasugli


ingombranti che ci troviamo dopo Sono come un preambolo ci prendono in contropiede, preparano ad altro e s’inizia a voler prendere nota di tutto. Perché, pare che di colpo si sia fatto tardi. Ci si distrasse forse, è passato tutto quel tempo è quello che si crede è quello che viene da dire. Perché ora sì che si ha qualcosa da dire. E che dire? Spiegare sembra poco decoroso. Può essere utile cercare tra residui, cortecce, fondigli, quel peschereccio, per esempio, sulla sabbia in un’acqua mattutina, e il vecchio pescatore che si vantava, aveva mangiato carne di balena, carne di squalo, carne di leone e poi al pomeriggio quei granchi nei nascondigli sommersi e riemersi dallo sciabordio delle onde. E dopo tu ed io nascosti e talmente impauriti e stretti che non riuscivi neanche ad allungare le gambe per sfilarti le mutandine. Incrostazioni, trovate qua e là, irrequiete bestioline, sfuggenti, che vivono sugli occhi. Disegnati chissà quando, chissà da chi, ma persistono e vanno e vengono come una sorta di risacca.


Litania e scarabocchi


Litania alle crepe

Sorella dei margini fa che in certi giorni si possa entrare di soppiatto nei ricordi come un estraneo, come un visitante, come uno smemorato. Sorella dei rimorsi spiega perché si sono rotti i sigilli, e il letto è asciutto e la risacca si è appena addormentata sulla riva. Sorella delle anelate consuetudini svela come ogni Pietro e Paolo apre porte e finestre, arieggia la casa e poi annaffia le pianticelle degli oblii appena germogliati. Sorella delle gambe sbilenche fa che ci si possa adeguare al tuo ritmo zoppo ed essere fermo, perseverante, sicuro della meta già dimenticata, quasi raggiunta. Sorella delle mani assenti fa che si dimentichino i commiati, che i gesti più fermi solo servano a impedire le decisioni impellenti, improrogabili. Sorella delle verità inconfessabili fa che si possa camminare sulle acque, sulle acque stagnanti. Sorella dei presentimenti fa che ogni indugio sia uno spettacolo di saltimbanchi e imbroglioni. Sorella degli infidi e dei bugiardi fa che almeno loro non stiano zitti. Sorella degli offesi fa che siano loro a tenere i fili delle marionette e aiutaci a scoprire il mistero dei loro teatrini eterni. Sorella dei dubbiosi fa che la fievole fiammella del dubbio bruci voragini tra virgolette, misfatti dopo un accento equivoco, anni d’esperienza tra una parola e l’altra.


Sorella dei distratti, degli assorti, affidaci alle loro scorribande mute. Sorella degli orli consunti fa che siano fili d’aria a rammendare l’amarezza degli ostinati, la cui colpa è di non essere mai tornati sui loro passi. Sorella dei confini, dei valichi, delle frontiere ascolta, ascolta ciò che prima era una voce, dopo rimbombo, poi fruscio tra i rami e infine soprassalto, indugio, titubanza, tamburellare delle dita.


Scarabocchio su un fazzolettino di carta

che dove tutto brucia rimanga nonostante un attrito d’argilla, un brulicare di spiriti che dove tutto manca perduri tuttavia un odore di aria salmastra, un filtrare di sabbia e foglie che malgrado sia vesperale la fronte che si inclina resti un vespaio di sguardi un nido di parole che non sia vero non importi nulla che tra scogli salti o s’infranga, ma che non volti pagina che si stato appena un accenno, un frainteso o con la coda dell'occhio, o solo di sfuggita che sia di carta, cartone o residui di sibillina polvere che siano matite, lapis o tagliaferro che gli tremino le mani o balbetti o con la voce strozzata che sia solito insistere, andare fuori strada, sbandare che tra presentimenti o strane coincidenze o per sentito dire o averlo origliato o perfino per averlo solo creduto o desiderato o perchÊ fu detto e poi smentito, e nonostante, aver creduto che fosse vero che a dispetto di tutto, della fermezza, l’incertezza,


lo sgomento, la convinzione, il timore, l’indifferenza, perduri il sospetto che sia tutto vero e nient’altro.


Sarà un giorno piovoso, ma poi schiarì

Quando avvenne, quando avverrà o se avvenisse - a patto che me ne accorga, (o se invece sarò distratto, la sconfitta sarà lieve, durò un batter d’occhio) Prima di esserne pienamente convinto ci penserò due volte, o anche di più quasi uscivo di senno, o forse potrei smarrire solamente un poco il buonsenso; - chissà se avrei mai potuto capire una cosa simile. Sicuramente non mi rassegnerò, certo avrei dei dubbi. Anche se, ovviamente ora come ora, non fui ancora ben preparato. Oggi come oggi se fosse per me feci finta di niente, in quel momento però direbbero che sembravo confuso, preso in contropiede, (che idiota!) Perciò per prudenza da ora in poi mi eserciterò a sembrare coscienzioso, serio, leggermente pensoso come colto da una cieca aspettata certezza.


O forse fui sbadato, o avrò ancora un residuo di speranza o di rancore, o potrei essere consapevole dell’attesa? E se l’attesa fu di qualche ora, giorno, mese, avrò il tempo o vorrei descriverlo, presi qualche appunto? Un patto perdura tra la cosa scritta e l’intenzione di chi la scrive; si scrive dell’incertezza di vivere solo quando si ebbe qualcosa su cui pattuire? È l’imperfezione della cosa scritta, la fragilità della cosa vissuta che si lega al presente malfermo, mendace? Che fare quando si è insicuri del patto e allora si crede sia meglio rimandare? Ma in un caso così? se è bastato un passo solo per varcare la soglia, che altra certezza servì? Ora direi che ho perso tanto ma in quel istante quanto, veramente mi sembrò di aver perso? È l’incertezza di esistere che si ha vivendo a mani piene, l'unica pienezza che sembrava poter covarsi tra nelle mani? Potrei pentirmi di tutto ciò che non è stato. Quanto inutile fu pensarci. Quanto inutile è pensarci? Sono ancora in tempo, forse? In un momento così si dovrebbe essere pronti o avversi o restii? Avere qualcosa, in serbo


architettata a lungo, che possa mettersi alla prova? Di una cosa cosi drastica, elementare non dovremo aver preparato un oblio precoce, anticipato la promessa di un intrinseco radicale conforto? Di una cosa cosi non dovremo nascondere una carta nella manica, l'oblio felice del accordo che avverrà, qualcosa nel retroscena, che il pubblico non vide? Sarà un giorno, uno dei tanti, pochi, giorni in cui si sente un po’ d’umidità, verso sera. All’ora di cena si udiva la nebbia che parlottava. Certo se potessi scegliere preferirei un sole sfavillante un caldo tramonto di argilla o forse potrò trarre sollievo da un freddo rigido, asciutto purché sia solo nelle ossa. Tutto accadde in un giorno cupo lievemente piovoso, ma ho saputo che dopo schiarirà.


Viottoli, mulattiere, scorciatoie

Una voce stridula che urla sopra le righe. Una voce aspra come spago, legata tra le righe; tra espunzioni, note al margine, cancellature prende fiato e s’infiamma. Tre fiammelle traballando in un mare d’ombra quella più snella bisbiglia, quell’altra ossequiosa s’inclina servile, l’ultima indecisa tra i colori del fuoco sfiora il nero e si spegne. Vibra una coda di lucertola strappata, frusta che muore in un universo di polvere e foglie. Una mosca ne approfitta e fugge dalla ragnatela. I necrologi in biblioteca, nei giornali ingialliti i morti scaduti, i vivi ormai risuscitati. Il buio si china, dal buco della serratura spia nella stanza accanto la farsa che si recita alla luce del giorno. Una tragedia famigliare, un sospetto di adulterio tra la pigrizia e il desiderio (macchiato d’inchiostro). Nella povertà il sale brucia sulla vita nella povertà il sale della vita rimane sulla lingua nella povertà si soglie la vita nell'acqua salina nella povertà la lingua non conosce la vastità dell'acqua. Nella povertà un campanaccio di mucca si confonde con la danza delle ore.


L’estraneo, l’ospite che non è mai arrivato è avvilito vuole gridare, a stento riesce a balbettare, era tutto vero, l’ha appena capito perché ha letto tra le righe. Ora che sa leggere tra le righe niente sarà più come prima. Ora sa che ciò che si legge tra le righe è sempre vero. Un rigagnolo d’acqua nera all’altura del marciapiede. A certa distanza la luce dell’acqua riverbera sul tombino. Guizza ogni tanto il pesce lattina o il pesce cartastraccia. Nell’ora di chiusura il bastone di un cieco inciampa sui gradini defunti di una scala mobile appena spenta.


Tutto a puttane

Mi piace mandare tutto a puttane è una frase gioiosa. Belle quelle che s’innamorano, docili e tenere, pigre e lascive, materne o sorelle dell’ordine della beata condiscendenza. Mi piace battere il ferro quando è caldo, cogliere l’occasione, (per non essere coglione) Per non essere di meno, anche se essere di meno è essere tra una folla di persone Non si sta male tra la folla è cordiale la folla, si sta come se tutto fosse in tutti. Allegria della folla: che uno qualunque cioè tutti, possano essere nessuno. (Qualcosa ha retto fino qui non si può negare, abbiate fede! Qualcosa fino qui ha resistito!) Mi piace non essere secondo a nessuno meglio terzo, ottavo, qualcosa mi dice però


non ultimo: un inutile eccesso, uno spreco. So che chi siede ultimo ride ultimo non direi meglio, ma da solo. Mi dissero dio aggiunge, io pero tendo a separare, sminuzzare ecco cosa faccio quando non so che fare: Sbriciolare, dividere, sezionare, al nulla ci si arriva come niente solo per capire ho i miei dubbi, che in questo modo si possa capire ma anch’io sono uno che vuole capire. Certo non arrivare a raschiare il fondo del barile, per pudore, non è proprio il caso, a che serve tanta veemenza? E non m’importa se sono tra ferro è fuoco, e anche quando sono sfinito non la smetto, e insisto. Ma è proprio quando sono più disperato e abbattuto che sono più attento, giro l'angolo del verosimile fino alla punta dei capelli.


Esercizi per dire qualcosa

ti hanno cavato un occhio spaccato la faccia hai sputato tre denti e il peggio non hai saputo cosa dire avevi un nodo alla gola, le mani contorcevi con ansia, non sapevi che fare, e malgrado pensavi non so che dire insensato e imprudente, nei guai ti sei trovato, una vergogna, come un cretino, non hai fatto altro che balbettare ti sentivi un nodo alla gola, un vuoto nello stomaco, ti tremava la voce abbassavi lo sguardo, e neanche sei riuscito a spiegarti no sapevi da dove cominciare, nĂŠ se fosse il momento opportuno, ti sentivi smarrito, farneticavi e perfino credevi che era inutile parlare faccia da tonto, quante beffe, eri appena arrivato, e a calci in culo si ti sei visto cacciare, ma era proprio allora che ti veniva in mente, cosa avevi da dire


stavi soffocando, sentivi le parole strette in gola, la lingua, come un baccalĂ morta tra i denti, e gli occhi a punto di schizzarti fuori dalle orbite, si che ho da dire, avresti voluto dire, certo che ho da dire, certo che ho qualcosa da dire avresti dovuto dire.


Blackout

Queste candele ricoperte di gobbe e scarabocchi sognano uno spazio di neri riflessi, una natura (non direi) morta ma tramortita: mele incipriate, pere effeminate, un mandolino rovesciato, il culo bombato per aria, e drappi e cristalli, specchi e chiavistelli e un urlo che urta uno specchio e dopo tace. Queste candele ricoperte di scarabocchi e gobbe di cera sognano una chiesa disordinata e oscura come un ripostiglio, e tra fantasmi guardinghi e polvere d’ossa e tarme nei confessionali vecchie cocciute e implacabili che pregano inginocchiate e si rimpiccioliscono e si annodano come matasse di rughe. Queste candele ricoperte di lacrime di circostanza sognano turbinii di foglie, stracci di vento tende ansimanti, una finestra che sbatte un vaso spinto dal nulla che cade e si frantuma e l’Irrimediabile che siede in un angolo in disparte poggia la guancia sulla mano, riflette e di tanto in tanto si gratta la barba. Queste candele servili e ossequiose si spengono quando rinviene una luce carica di cose il buio, lingua di vipera, pulce nell’orecchio, impaurito sparisce porta con sé vuoti a perdere pieni di memoria si riaccende tutto, anche la televisione rimane nell’aria una toccata e fuga per quattro piedi e uno sbadiglio.


Pause

(gli Capitò) ...un giorno di avvertire che la barba gli cresceva sul viso - come cresce! disse, a nessun altro può crescere così. Tremava, a stento tratteneva la gioia in petto. Ora tutto avrebbe potuto attendere, tutto si sarebbe compiuto. ...una volta, stretto tra dubbi, di toccarsi il mento con cautela, per un istante si sentì a salvo. Dunque sono qui e non altrove, pensò rassicurato. ...distratto di ritrovare d’improvviso se stesso si sentì più povero, volle distrarsi un'altra volta e gioioso non seppe se tornare in sé subito, più tardi o mai. ...di non saper cosa desiderare, di sentirsi indegno azzardò: forse la donna dell’altro o al meno l’erba del vicino, Mentì, desidero tanto, disse tutto, ogni cosa, tutto desidero. ...per un inezia de volgere lo sguardo verso se stesso, ebbe paura, si accorse delle sue mani chiuse, strette, le aprì, si vide aprirle, erano vuote, ammutolì. Ora non ho più niente balbettò desolato. ...assillato dal desiderio di una soffocante vendetta, di voler riposare per un instante, ma poi non trovando di meglio da fare, si rimise a covarla, pensò: sono molto occupato ora


ho tanto da fare, mai avuto così tanto da fare. ...incerto del rancore che nutriva di sentirsi pigro, inconcludente, buono a nulla. Volle essere convinto di se, volle essere severo. Non dimenticherò mai la mia offesa, mai, mai deporrò il mio rancore. ...dalla paura, di sentirsi scoperto si vide tremare, pensò: ma sono io colui che tu temi, e perciò tremo. ...distratto, che un’ombra gli apparisse, che lo guardava, indaffarata l'ombra estraeva dal tutto il niente e lo riempiva, parlava l’ombra e nessuno l'ascoltava. è uno di quelli che si soffermano a riflettere ma è inevitabile, tenace o incostante, malridotto o illeso, prima o poi, sui suoi passi dovrà tornare, essere ciò che è, e ciò che sarà e perfino ciò che sa che non è e ciò che non sa che è, dovrà dovrà resistere, insistere, proseguire neanche per quelli come lui, pensierosi, titubanti, ci sarà scampo.


Della privatezza, dopo di avere spedito una email

Avevo firmato gc; caro gc ma chi sei? Chi sono? Nome, età, dove vivo? Da dove vengo? Come mi guadagno da vivere, dici? Oh gli anni son passati, (non tutti) non sempre me ne sono accorto alcuni mi sono sfuggiti. Certo avrei dovuto, certamente, avrei dovuto, avrei dovuto, lo so! O forse no, perché se ho ben capito si può anche essere distratti. Ma chissà se fossi stato un altro, chissà, forse...se fossi stato un altro. Il mio lavoro, come vivo come mi guadagno da vivere? Sprechi, sfortune, inibizioni, sbagli passi falsi, decisioni errate, ineluttabilità, paure. No non è stato facile! no. Non è stato facile! - ma per il resto poi, tutto sommato, non mi è andata tanto male. Certo, lo so, può essere, sono d’accordo


ma... me ne sarei accorto? Avrei potuto capirlo, in tempo dico? E se pure così, avrei potuto evitarlo? No, non è stato facile. Ovviamente qualche volta ho avuto fortuna. Certo l’ho sprecata, altrimenti non lo ricorderei neanche! Poi mi sono pentito, ma... no, non proprio, almeno non del tutto. Perché sono qui? perché sono qui... Mi guardo intorno... Certo, certo, pensandoci bene, ma, dov’altro sarei dovuto andare? Ovviamente dalla vita... certamente dalla vita ho avuto tutto, - chi mai potrebbe non avere tutto dalla vita, moglie a mio fianco, figli? Anche! In loro ho depositato il mo dolore di vivere, (o forse solo un leve malessere forse solo timori, pregiudizi, presunzione) Parenti quanto basta, e amici: molti quelli lontani, lontani i più vicini. Sogni, mete, aspirazioni, tante! Tutte, tutte tranne alcune. Ma sono piccole, piccine, appena nate. Per lo più le ho tenute per me,


è che, mi è sembrato, fossero le mie profonde verità, ho temuto malversarle. Desideri, altrettanto, ma anche questi li ho conservati, ho avuto paura di perderli, ne ho di riserva per i miei momenti di magra. Poi ho studiato, riflettuto, tanto, ho tanto soppesato, attentamente, tanto, tanto poco, sempre, ho saputo perciò che sbagliavo. Ho sbagliato molto, anche se in certi casi devo dire... E poi cosa avevo davvero da sbagliare? Certo ho dovuto correggere la rotta (che, ora che ci penso non conoscevo, che non conosco, ora che ci penso) E pure, e pure, nonostante tutto, perciò, magari, malgrado tutto...benché, sebbene, a dispetto di... avrei potuto, avrei potuto senza curarmi di null'altro avrei potuto... Ma cos’altro dovrei dire? Il mio nome? dimenticavo Tizio mi chiamo, Caio per gli amici e Sempronio è il mio pseudonimo.


Un abisso che sembra un gatto

Ho un abisso nella conca della mano stringo le dita per non perderlo, è un abisso minuscolo silenzioso si fa vedere poco, ma so che assomiglia a un gatto, e questo lo so perché se lo lascio libero mi gironzola tra i piedi e mi slega i lacci delle scarpe. Dalle fessure dei suoi occhi verdi in un instante che dura un batter d'occhio escono in volo rapide scintille stormi di infimi pipistrelli per guardare tutto, sempre, in ogni momento allora sbadiglia, sembra addormentato, ma sbatte la coda di tanto in tanto, per farsi notare. Se lo accarezzi ti lascia nelle mani un sentore di muffa e di chiuso come di stracci e cose vecchie che inermi annidano in soffitta, e inaspettatamente sbucano fuori quando ormai non si sapeva più che esistessero. D’improvviso volta lo sguardo, fissa, tra l’armadio e una gamba del letto, un angolo vuoto: so che ha visto un altro abisso e penso che parlino del più e del meno che è di cui, di solito, parlano gli abissi.


Si avvicina facendo fusa profonde e lunghe come se si fosse ingoiato una caverna con due o tre speleologi e di colpo è come se tutto si fermasse, e la realtà si ribaltasse e il mondo fosse fatto per finta, ed è una cosa tremenda perché in quei momenti qualunque cosa potrebbe essere vera. Da quando me ne sono accorto, mi sembra di avere come un nodo alla gola o una pagliuzza nell’occhio e tra le mani qualcosa di cui né io né gli altri sappiamo nulla ma che soprattutto non vorrei perdere. Per non contrariarlo salgo e scendo le scale sempre a piedi, e lentamente, non prendo più gli ascensori so che agli abissi gli ascensori non piacciono sussultano e sono avversi alle alture (anche alle bassure) e alle volte, addirittura, un tantino distratti.


Fisiognomica

Avere una faccia è inevitabile, ovvero l’esistenza non ha lineamenti, ma una faccia comunque ci sembra utile, ce la portiamo dietro e la usiamo più di ogni altra cosa. Pochi ce l’hanno convincente attagliata alla propria vita da sembrare proprio quello che sono. Poche ne ho visto come quella di quel poeta dalla faccia da calzolaio al quale mancano solo le puntine in bocca l’odore di colla e le dita pestate dalle martellate. Il logorio della vita quotidiana è il tema ricorrente (ovvio) della sua poesia. E le sue parole sono consunte di vita e riguardano lui tanto come le sue mani, (questo pero è meno ovvio). Oggi,17 di maggio anno 2003 questo impareggiabile maestro se mi leggesse temo si riconoscerebbe in queste parole e forse si offenderebbe.


Oggi la sera cala con un lieve rullo di tamburi

Oggi al di là della finestra si è aperta un’insolita distanza. Dopo un silenzioso volo i tetti con urgenza sono rientrati nel disegno. Il volo di una colomba mette una virgola, appena una pausa e tutto riprende. Oggi è indeciso il pomeriggio, si trattiene un po’ più del previsto, il tramonto è di un colore grigio topo. I camini fumano, un campanile dietro respira il fumo biancastro, tossisce e gli alberi che emergono stretti tra le mura delle case distanti sembrano passanti impensieriti in cerca di un indirizzo. È strano che me ne accorga, ma tutto questo c'era già ieri, è una persistenza che stringe, opprime il petto. Che tenace è oggi il pomeriggio! non si da per vinto, bussa alle porte, insiste. Io con inquietudine mi nascondo, origlio dal buco della serratura. Avrei voluto allontanarmi prima che tutto questo succedesse.


Oggi forse perché dormivo

oggi forse perché mi ero addormentato (o forse ero sveglio) ho con terrore intravisto… come in una stanza al buio crescere a dismisura un angolo socchiudersi una porta, un ombra sfuggente, di passi sotto l’uscio …un rumore sordo, sbattere in silenzio e anni mi hanno assalito urlando, moltitudini di ore minuti istanti esasperati dalla rabbia di essere già passati io con lo sguardo soffocato appena riuscivo a vederli irraggiungibili, che arrivavano.


Bozzetti a matita


Persistenze

Sai che se sfiori quell'aria di filo ogni cosa ti si disfa in parole. Ăˆ cosĂŹ tutto si ingarbuglia e perde la forma che ci accoglie, che ci consente. Va cosi l'oblio coltivando i suoi oscuri formicai e tu non lo capisci, ridi e ignori la sua compassione. Lui infila il filo nella cruna quando tu ti addormenti cuoce miele e parsimonia e tu, tu non lo sai.


Bassorilievo quasi cancellato La tessitrice

Il vestito sembra di stoffa grezza calca con pochi e lunghi tratti le forme sensuali, distese. Lei seduta tesse, distratta, senza badare alla tela. Sulla lastra appena rinvenuta tra detriti, si ricompongono frammenti di un'altra memoria. Parlano di persistenza, di iniziali promesse. Del resto della scena si è perso quasi tutto, Ora mi sembra di capire, anche tu quando ti senti assillata ti ostini. Pensi la memoria è una stretta maglia e sempre potremmo riprenderla dall’erosione, ritrovarla. L’ordito lo vedo nei tuoi occhi il disegno si cancella, la tela si sfila, ma, si sa, è irrilevante.


Non sei solo questo ma altro

Tra ciò che non mi appartiene ma risiede in me tu sei una voce che ascolto. Prima che tu inizi a parlare scopro i tuoi disappunti, prima di ascoltarti so che mi sei vicina. Se mi allontanassi so che ti raggiungerei, e anche se tornassi sui miei passi so che solo insieme saremo un andirivieni, incessante.


Preliminari

Sembri un'ombra, svelta a punto di svanire -incerta tra la soglia e la bocca spalancata della porta, Ma tu ridi, e ti volti da un’altra parte e con le braccia, le gambe nella tua impostura vai da un gesto all’altro sei tu, oramai non ti nascondi. Ti strappi negli occhi, me ne accorgo, non vedi che è ora di voltare pagina? Sebbene non hai voluto ascoltarmi, sai che appena un momento dopo, nulla più avverrebbe, perciò non dubitare, fa sì che accada, non disporti alle evenienze. Tu lo sai bene: niente è più fermo di ciò che in frantumi perdura, vuoi scappare, sfuggirmi? Sbagli! fa sì che succeda: che tu sia reticolato che tra le mie dita si disfa. Perché lo so che non è vero, che tu menti.


Per il tuo compleanno

Ti meriti un temperamatite e anche un filo di spago, che legato tra le dita ti faccia tessere la altera dignità di una corteccia sgretolata, forse come quella di quell’albero che proprio ieri notte hai sognato. Anche qualche cespuglio rinsecchito e una pozzanghera ma con l‘impronta di uno scarpone e che ti faccia ridere e pentire, e il fischio di un osso e pure il saltellare tra te e me di un batter d’occhio che ci avverte che un nulla di niente di nulla ci è appena sfuggito. E in più meriti di sfiorare il vuoto tra una bugia e una candela e quel infido colpettino di tosse che nel vicolo di un'ombra spaventa; e perfino un gesto, un gesto indimenticabile, come quello che ora hai appena veduto, immaginato, intravisto o ignorato.


Tra ruggine e rancore

Puntellare e nei puntigli incepparsi nel girare carrucole imbrogliare poi nella bozzolaia andare a finire sulla pagina bianca tra ruggine e rancore. Poi ritentare da stracci, da schegge squarci e andare a inciampare sulla pagina vuota tra elusioni e detriti, cosa ci rimane, è trascendenza questa? Tremiamo, forse perché ci amiamo, tuttavia sulla pagina neanche una grinza però tu dici senza di te, io non vorrei neanche... t’interrompi, vivere, esistere? giungo in tuo aiuto, più nel mio, credo. Toccava a me, lo so, dire per pudore, l’ultima parola. (Ora però io mi taccio e tu, per favore, stai zitta) Esasperati torniamo in noi squali, cinghiali, i grugni duri, ma celandoci indifesi, impauriti; per non saper che fare, non saper che dire. Ma sulla carta è la vita che conta (conta le sillabe, sposta gli accenti) sulla scena è la vita che finge, - ora però, siamo nell’intervallo. Se dunque è tutto sforzo vano può darsi, temo


che sia certa la morte, ecco ciò che mi dici, io ti rispondo: è questo che davvero m’incuriosisce: che sia vero, che si possa morire veramente e per di più da soli? Se una volta si, certo, ma a noi è toccata più di una, siamo salvi.


Sentieri, viottoli, mulattiere, scorciatoie


Cinte murarie

Ora abbracciano città smemorate, ma hanno saputo insistere, insistere è il pregio di queste pietre. Sono nate da gesti sgarbati, eccessivi, violenza nuda, violenza presagio di altra violenza. Nulla dicono, dormono nel loro presente in rovina. Nulla vogliono più ricordare. Sono gesti che fa l'oblio a nessuno. È l'oblio che ci muta, ci fa infidi. L'oblio ha l’aria di un passante nella città affollata, è inutile soffermasi a pensare gli si sente dire, è inutile. È inutile la stanchezza, è inutile il riposo... Ma esistono queste foglie secche sui marciapiedi, lievi, fragili come preghiere. Con i gesti di un cieco che disegna curve nell’aria descrive l'oblio le sue scene pomeridiane, La distanza è un solo proseguire è cosa da niente, una sciocchezza, un inganno... quando cala la luce e l'aria ci avvicina a un freddo distacco da tutto ciò che esiste. Ma rimangono questi gesti che portano a volti, volti che portano a nomi, che a oltranza possediamo, che persistono.


La resistenza è imprevista e leggera come un ape. Sono i giorni più lontani che sono soliti starci accanto, si accaniscono fino a farci dubitare, vorrebbero che ci rassegnassimo alla solitudine delle evenienze. La resistenza sbuca da chissà dove e sbatte sui vetri chiusi finché trova l'uscita. Come nelle ringhiere fioriscono i segni della ruggine, come nelle foglie secche si mostrano le nervature, Nel guardarci ci intessiamo di memoria. La nostra memoria è memoria di mani in attesa di occhi traditi dallo sguardo, la nostra memoria è memoria di affanni. Accolgo un desiderio di cose concrete mostrami il giorno prestabilito, il giorno tanto atteso, affinché possa tradirlo. E dopo mostrami gli altri giorni, tutta la sequela, il tenue declino delle slealtà, affinché possa cancellarli. La più ambita fermezza è respirare docilmente, Non distogliersi da niente è l’alibi di vivere. Ho avuto la mia parte di fragilità non mi è mancata, l'ho custodita, non mi ha tradito. Mi ha accompagnato con lealtà. Ho nascosto tra le mani la stanchezza di continuare,


Che povero è stato il mio non saper che dire, che misero è stato il mio ho poco da dire. Non so se mi è capitato di dover voltare pagina malvolentieri ho ceduto. Gli animali cambiano pelle, si addormentano svernano, migrano, niente devono attendere. Io ho perso le mani, non l’avevo capito e ho dovuto insistere, ho dovuto resistere a mani piene.


Autodafé

appena un momento fa avevo in mente qualche parola, una frase... ho creduto fosse un verso, era vivace come un malinteso, vivace come un controsenso aggiungeva qualcosa, altro scartava, tutto il resto scartava si ha l’impressione di dover attendere un perché, ma il motivo no si intravede, non si sa, sfugge o non c'è, o forse era solo un impressione era qualcosa come pensare che strano che io sia qui ora e che in tutto questo tempo mi sia avventurato tanto lontano da non essere niente ovunque, da nessuna parte, e così lontano mi ha fatto pensare che strano! che io ora sia qui e cosi distante, che avendomi lasciato tutto alle spalle tanto mi sia allontanato, e dopotutto non mi è sembrato tanto lo sforzo, né tanti i passi, né tanta la distanza, e non sembra che il tempo passato, già lontano, - quanto! sia già passato


- o forse, se non per altro, era che mi aiutava a distogliermi da tutti quei momenti, tutti quanti in mente ora mi vengono fino ad oggi e tante altre cose anche che fin qui mi hanno occupato e di cui ora è inutile parlare, ma non vorrei aggiungere incertezze o tanto meno suscitare pietà o angoscia vorrei solo spiegarmi meglio non saprei come, se non che girarci intorno, andare da ora al tempo passato e dal passato al oggi, e ritornare a mani piene che è come dire senza distanza, o poca e con le mani leggere giro, mi raggiro, m'inganno, per prudenza mi trattengo, e nell'attesa, con riserbo inutilmente vado a capo, rileggo, tolgo, metto qualche virgola cambio tono, perdo il filo, sono a disaggio mi pento, penso rinunciare, non so che altro fare: so che è una rilettura so che è piovere sul bagnato mi rendo conto nonostante che pentirsi è inutile, che non è mettersi in disparte o sottrarsi, ma è come tenere in serbo, aspettare che passi, o si fermi o si allontani e dopo torni in sÊ, ceda, ritorni


è inutile dunque, il fatto è che forse, il fatto è che mi era sembrato strano quel lieve impercettibile scricchiolio, - ho pensato mi avvisasse della mia distrazione, che potrebbe essere il motivo della mia trascuratezza, del mio erbario di piante risicate, appena un momento fa, credo venisse dalla finestra socchiusa, come se la realtà, quella difficile, la realtà, quella estranea per un momento ritornasse che niente giustifica, che per niente è ovvio, ma che però mi induce a continuare, a insistere a mettere da parte, a conservare ciò che credo sia oltre la mia vita, o accanto o nelle vicinanze ma non estraneo alla mia vita.


Appunti

Reggersi su concretezze, fatti, far sì che siano alla mano a fior di pelle. Riprendersi da, disporsi a, cose vere, quelle che in fondo sono inattese, non imprescindibili effimere, che ingombrano e inquietano anche qualche volta, pero le più verosimili, trovate qui e là strada facendo, la propria strada o quella che sembra sia la propria. Della quale a volte ci si stanca, altre ci si vergogna, o si dimentica lo scopo e perfino ci si rallegra, nonostante tutto, soprattutto, molto spesso (perché negarlo). Su traguardi, indecifrabili raggiunti e non raggiunti, prendere solo appunti con cautela, preventivamente, controversi perché è inevitabile ma, non troppo confusi, come una delle tante possibilità, un'improbabile impalcatura, una rilettura, un'ammissione di incertezze.


Sbagli, passi falsi, rischi inutili, falsi allarmi, misfatti temuti e non commessi, colpe prese in prestito e mai restituite non siano altro che note al margine, sottolineature rimandi ad altre letture. E se cosi fosse, se si riuscisse a non dimenticare e se si considerasse la morte la piĂš inapprendibile e vera delle evenienze alla vita, allora, non resterebbe che essere la piĂš ingannevole e la piĂš plausibile.


Nel giorno di tutti i morti

Se in una giornata di autunno, distratto, ti viene di sfogliare un albero come se fosse un giornale, le foglie sono ingiallite cadenti, come vecchi fatti, notizie già consumate, eventi risaputi futili e rimaneggiati come tutto ciò che è dimenticabile ed eterno, mentre passeggi distratto costeggiando il muro di un piccolo cimitero; eri andato a trovare i tuoi familiari alcuni di loro già morti e le ombre degli altri, quelli vivi, e senti senza poter spiegartelo che non è stato tutto in vano non è troppo tardi, non è tutto perduto, in quel momento ti accorgi che ti manca solo una cosa che a momenti dimentichi, sai cosa è e sai che forse puoi dimenticare tutto il resto, ma quello, lo sai bene che è meno rischioso non dimenticarlo. Cosa hai dimenticato? quel giorno in cui hai girato l'angolo, da quando hai cominciato a credere che stavi tornando


ma non sai bene da dove, sai che in quel passo incerto qualcosa è rimasta scritta, e allora ti convinci che qualcosa persiste, e con certezza, ci pensi e ripensi, no è troppo tardi, non è tutto perduto.


Tessiture

So che in certe cose non è necessario essere di parte non ci tengo a dire la mia su tutto, però certe volte se penso a trame, intrichi, orditi, lavori d'intreccio, tessuti, il cachemire per esempio mi piace poco, leggero, morbido, sdolcinato. … Forse neanche il lino grezzo, bianco paglia o bianco sporco, ma sporco raffinato. Preferisco le ringhiere in ferro battuto, anche quelle in ferro combattuto e il rimuginare maldicente della ruggine che ha l’alito pesante e sfalda il metallo. Forse perché sempre mi sono sentito umiliato e molto ferito nell’amor proprio, che dopo tutto di quelle impalpabili baluginanti ferite del rancore ora come ora non so più che farmene. Meglio quelle inflitte sul petto tiepide, morbide, fragranti, appena sfornate, quasi fossero quelle del odio e del amore. Bene riuscite anche quelle conficcate tra una vertebra e l’altra, di chi tradisce, violenta, irrompe


nelle fauci inesauste del divenire destano qualcosa di nostalgico da film gialli in bianco e nero dal finale incerto e a proseguire. Senza dimenticare una molto nota: nel costato, la ultima e anche la prima tra le ferite inflitta per interrompere l'agonia efficace a chiudere la morte tanto aspettata, utile a svelare l'incombente spaventosa attesa, della fine inevitabile e assurda, a indicare la follia, lo scandalo della vita vissuta nella attesa atroce che redime a chi nulla diede a cambio che avvisa di cose che stringono a oltranza la vita alla vita.


Oh n° 1

Amare la vita? Oh si, è ovvio, non c’è che dire, certo si tratta di essere vivi a tutti gli effetti e non solo, anche nei tempi morti e perfino quando tutto sembra vero e niente più possibile e tutto inevitabile. Ah c’era un aria di fine autunno che chiudeva e sigillava ogni giornata, un aria stringente, il freddo che ci accarezzava i capelli, una nebbia di stracci che quasi ci cancellava, ci chiesero: siete per caso di quelli che va di scherzare su tutto o magari non volete dare nell’occhio, non farvi notare, o forse siete di quelli che vorrebbero tornare indietro, che soffrono l'angoscia, l’angoscia di continuare? Andate svelti allora, camminate, camminate, camminate celati, zitti, cauti camminate a contropiede, con parsimonia, con fermezza, senza pensarci troppo, camminate. Per spirito di contraddizione dissi a me stesso: oh ascolta,


ascolta il controcanto: successe così in fretta, nessuno poté evitarlo un nodo alla gola oh un turpe presentimento oh se non fosse mai accaduto oh se non fosse mai successo oh come stride quel che accade… Ma i secondi… un clic clic dal rubinetto o disturbando dalla grondaia cadevano – fuori scena, è vero! ma accadevano tutti, senza che mai ne mancassi uno! Io, invece, distratto guardavo i cambi di scena, belle le scene interrotte e ancora di più quelle appena abbozzate… strazianti! Oh sopratutto i retroscena... oh i retroscena, che sforzi non si fanno nei retroscena. Quanta vita v'è nei retroscena, commovente e quanta si perde invece a scena aperta. Il finale? un epilogo penoso: il volto turbato le braccia si stringono nel vuoto la voce è soffocata, lacrime: è tutto finito! È inutile, è tutto finito! - un’ombra o una luce zampilla dall’ignoto (l’ignoto è fuori inquadratura è lì che le cose possono prendere un'altra piega)


Prendere una piega! bella o brutta che sia, ma prenderla! prenderla di traverso spiarla, trarla in inganno e prenderla o meglio catturarla, e poi possederla …per e poi sbagliare strada! ecco una cosa sensata da fare di tanto in tanto, è un modo come un altro di non tornare indietro. Farfugliando, imprecando, essere fuori strada è sempre un’alternativa. Tornavo sui miei passi, la strada era deserta, non c’è un cane per strada, pensavo forse ho sbagliato, non avrei dovuto prendere questa cattiva strada. Vuoti pensieri, non miei, randeggiavano nei vicoli, tra aiuole e panchine, nei giardini...


Tappetino con un angolino sfilacciato

quando me ne sono accorto era lì accanto al telefono, sul tavolo, fuori luogo come un fazzolettino sporco o una matita tra le posate vibrava d’impazienza pronta a precipitare come un bicchiere troppo all’orlo o a sbattere sul vetro della finestra chiusa un ottuso moscone che tenta di uscire poi stanco di guardarla, appena l’avevo dimenticata me la sono ritrovata tra le mani, lì dove proprio, proprio non avrebbe mai dovuto essere, e pensavo, quante cose mi sono sfuggite, quante stringendole con inquietudine ho rotto senza volerlo era così strana, forse per farmi capire che mi apparteneva, - non sono sicuro di quanto ciò m’importi, e che con me era sempre stata limpida malgrado qualche incrinatura (ma forse un po' usurata lo era già da prima) per quel che mi riguarda ho imparato a riconoscere i suoi imbrogli portata al guinzaglio vorrebbe fingere la fedeltà di un cane sotto la pioggia la docile resistenza di una tegola guardata con indifferenza lo scricchiolio del legno, l’autunno che inizia sotto i porticati se tu la desiderassi, allora senza dubbio, farebbe finta di essere


una folata di foglie secche, vicino a un albero tra croste sparse della corteccia tra spruzzi di pioggia e un ramo spezzato che non finisce di staccarsi e resiste, e nella frattura tra le fibre rinsecchite quell’infernale insensato viavai di formiche se invece fossi io a volerla, come mordersi la lingua in mezzo a una discussione accalorata o un mal di denti in una notte d’estate quando il caldo pachiderma passa trotterellando sulla città tamburo so che se la guardo incuriosito mi colma gli occhi fino al batticuore, ma io continuo a guardarla con insistenza penso che ora mi è più vicina e non avrò più bisogno di trattenerla credo che finalmente mi abbia perdonato a patto che tu stia zitto mi dice, a patto che tu stia zitto.


Ingorgo dove si ascolta il ronzio di un’ape Solo l’ansa esitante di qualche paludoso giuncheto, qualche specchio che riluca tra folte sterpaglie e borraccina può svelare che l’acqua come noi pensa se stessa prima di farsi vortice e rapina E. Montale

origliando perché non la trovavo ho scoperto la (mia?) anima svolazzando tra i panni distesi a una corda tra i gesti sgarbati di camice e pantaloni, suggeriti dalla brezza e la luce acerba della mattina forse minaccia di pioggia inetta si misurava con i rumori di un’officina meccanica il rigurgito di un’aspiratrice per l’olio bruciato e la fuliggine gallo segnavento, cartina al tornasole orlo di muffa, spariva e riappariva, cosa avrei dovuto aspettarmi oggi? non sapevo dove guardare e ho guardato nel sacchetto della spazzatura tra bucce d’arancia resti della cena, batuffoli sporchi di polvere, capelli e filacce di lana preoccupato che non si occupasse di cose trascendenti volevo riprenderla se ne è accorta, mi è sfuggita


ho sentito sbattere la porta fuori un mondo informe borbottava, tutt’un tratto si era intasato, sul marciapiede una fascia gialla interrompeva il passaggio, tubazioni sviscerate un cartello avvertiva lavori di cablatura per la fibra ottica il giorno si sfaldava, sparsi dovunque cerano pezzi di realtà la (mia) anima assuefatta sembrava immersa nel furioso percuotere di un martello pneumatico, inesorabile sfracellava il pavimento.


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