José Carbonero dio gioca ai dadi (truccati)

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Dio gioca ai dadi (truccati)

JosĂŠ Carbonero


La confesión es el lenguaje de alguien que no ha borrado su condición de sujeto; es el lenguaje del sujeto en cuanto tal. No son sus sentimientos, ni sus anhelos siquiera, ni aun sus esperanzas; son sencillamente sus conatos de ser Podemos sentirnos vacíos de realidad y aun enemigos de ella. La confesión parte de esta última situación, de sentirse enemistado. Maria Zambrano, La confesión, Género literario

Un golpe de ataúd en tierra es algo perfectamente serio. Antonio Machado. En el entierro de un amigo, in Soledades

...si continua a pensare con teste umane quando si entra nel disumano Eugenio Montale. Nel Disumano, in Quaderno di quattro anni


Haiku Giornata strana Se tu hai perso l'ombrello PerchĂŠ non piove?


Non vorrei essere frainteso Ho spiegato: mi chiamo Giuseppe mi hanno risposto: ma Giuseppe cosa, chi? ma com'è che ti chiami! di quale Giuseppe parli, e poi, innanzitutto, sei sicuro? sii cauto, schiarisciti la voce, sii convincente! Rivolsi il palmo della mia mano sinistra verso il mio petto, cercavo me stesso, mi cercavo quasi che ero e non ero. Perplesso, non sapevo da che parte guardare, dite a me? chiedevo. Pesava essere me stesso, non esserlo mi sarebbe piaciuto in tal caso pensavo mi sarei spiegato, avrei reagito. Misi una mano vuota in una tasca vuota e con il vuoto negli occhi strinsi il passo. Qui non conosco nessuno mi dissi, oggi meglio far finta di niente, solo buon giorno o buona sera, guardare senza vedere e buona giornata a tutti ‌ma pioveva.


Transumanesimo

Sembra che tra non molto sarà possibile trasferire tutto in altre orditure, tutto, intelligenza, timori, pensieri, stupidità, ed evitare la morte, o quanto meno si potrà morire un po' più tranquilli e senza dover smettere di pensare. L'ho scampata per un soffio, forse potrò dire al primo trasferimento anche al secondo e magari al terzo, finché la memoria non ceda e continui ad essere l'intruso, falso amico, fedele e insidioso che è ora. Poi immemori di tutto non si avrà paura più di niente. Il nostro più caro, mai celato timore, l'idea di finitezza, come un impossibile amore, perduto sarà per sempre. Chissà che strana illusione ci sopravviverà, - la mia, tua, nostra, di altri? e saremo, a quanto pare, più vivaci e attivi che mai.


Il custode del teatro

Magro come un pomeriggio piovoso e tanto povero che sarebbe capace di barattare una stretta di mano con un indirizzo sbagliato. Vivo che di più non si può, tra spezzoni di un futuro che fu e di un passato che potrebbe, nonostante tutto, essere certo, è confuso, preso dalla veemenza e dai rimorsi, non se ne accorge mai quando entra o esce di scena. Meglio così pensa, l’incertezza è il volto riluttante del presente, spinge alla perseveranza. E poi lo sa che non è mai riuscito a tornare sui suoi passi. Diffidente come un burattino, buono a nulla, testardo più di un mulo, un pugno di mosche, la schiera dei suoi fedelissimi. Ma è salvo perché sa che chi spia nei retroscena non può mentire, e tace e si rallegra: cosa sarà mai! il finale è fraudolento, la messa in scena foschia lieve pronta a dissiparsi.


Andare dal passato prossimo al passato remoto e poi al futuro

Forse nient'altro che un lieve provvidenziale contrattempo: no potei più leggere, le pagine ingiallite, tarlate, della seconda metà del libro dove la storia diventava sempre più miserevole. (E tant'è, tutto in ogni modo sarebbe finito male) Così cercai di scrivere sui miei progetti, timori, speranze, indugi. Presi perciò un manuale di scrittura per lettere d’amore, di auguri e commerciali. D'immediato fui spinto verso il futuro. No ero più impelagato in quella triste storia, in quel orrendo passato. Con sollievo dissi, è inutile piovere sul passato. Ma un dubbio mi rimase: poiché nel passato minaccia pioggia,


e sempre incerte e contraddittorie sono le previsioni, se avessi finito la lettura, qualcosa sarebbe cambiata?


Schema per elaborare un testamento

Vorrei lasciarti una vita sferica, o rotonda esagonale o rombica, reale come un corpo solido che scivolasse su un piano inclinato, e che tu studiassi le forze risultanti, l'attrito, il calore che si disperde e altre inutili variabili, l'angolo di pendenza, la densitĂ , la durezza del materiale, ecc. Meglio se a metĂ mattina, meglio se a luglio, sotto un cielo vecchio eterno, accigliato, incanutito e forse anche paterno. Vorrei che il mio regalo avesse le magiche barbe di una medusa, la sottana ipocrita di un prete, la veritĂ di qualche tegola crepata dal sole, la amicizia schiva di un gatto, e quella piĂš sincera del topo col formaggio; e fosse sempre di buon umore come un bosco di abeti, o se preferisci betulle, e anche quel bosco vorrei regalarti con tutte le sue ombre ridenti, e le sue aeree radici. Vorrei che fosse la tua vita piena di pendici, andirivieni, saliscendi e giravolte di decisioni


e aiutarti a prepararti a tutto con giornalieri intensi e duri esercizi sul mio inciampatoio. Ma poi vorrei che il mio inciampatoio, dopo di averlo usato, alla fine mi restituissi pieno ricolmo delle scarpinate che ti siano state piĂš care, o piĂš inevitabili e persistenti e anche inspiegabili. Quel inapprezzabile, eterno, miracoloso inciampatoio, vorrei mi restituissi svuotato di tutte le acredini che dal fato ci erano state riservate e dei nostri inconfessati e mal assemblati silenzi e pieno di tutto il resto.


Reading poetico

Quando si spensero le luci la sala era piena, nell’aria, cetaceo grave, maestoso, fluttuava il silenzio. Un colpettino di tosse diede il la, l’attenzione si rivoltò come un calzino. Tutti si smarrirono ognuno mutò in se stesso e gli altri non se ne accorsero. Una nebbia bluastra si avviluppò tra arabeschi e candelabri, o forse era una ragnatela di spettri. Tutto ciò che non fu mai fu perpetrato in quell’istante, l’istante si gonfiò, fu gravido e durò per sempre. Quando però, si arrivò alla fine e d’improvviso le luci si riaccesero, tutto rischiò di finire nel peggiore dei modi. Nell’inesorabile risveglio, qualcuno il cuore in un pugno, spinto


da un si salvi chi può, d'improvviso, si alzo in piedi, gli altri lo imitarono, e tutti a salvo applaudivano commossi. Ma ci fu uno, forse l’unico, in seconda fila che per scaltrezza o forse perchĂŠ integerrimo, non si dava per vinto, con il capo chino continuava a dormire.


Sull’incertezza

Morire, è l’unica certezza che ci è data? Sorveglio le mie incertezze le accolgo con cura appoggio la mano sul tavolo non farò niente, non muoverò un dito nel prossimo istante nell’attesa sarò solo vivo, e nient’altro (è già passato sono rimasto vivo, ne ho la prova) Nelle mie certezze, nei miei propositi più fermi ho deposto i miei più cari fallimenti invece tu sei discreta e non hai mai fatto progetti. Io so di essere stato perseverante quanti propositi e quante mete! alcune perfino le ho raggiunto, e così ho frantumato le mie speranze, le mie più care speranze con cui ero partito, e con rimasugli d’informe realtà ho finito per puntellare la mia vita. Tu, invece, sei esile come un ramoscello come posso avere sostegno da te? dare un passo indietro è in te un’abitudine e sei pronta a spezzarti per un niente.


Quante infedeltĂ ci sono volute per reggermi! ma il cedimento si avvicinava, si faceva ogni volta piĂš evidente, piĂš necessario, e ora che a momenti (ma solo a momenti) lo so inevitabile duraturo, inesauribile, Incertezza, attenzione piĂš scrupolosa e tenace, ora so di dover ascoltarti.


Tu eri un’altra

Accadde in un ufficio postale in un’altra città dove forse non sono mai stato o in questa alla quale ogni giorno chiedo: cara città non so come, né da quando nei tuoi lievi meandri ho capito di essere lontano, smarrito, quasi me stesso. Ti vidi vicino ai bollettini dei conti correnti e dietro a una fila di esseri assorti, con lo sguardo volto ai tempi andati forse per le bollette scadute, forse per i versamenti degli arretrati. Ma tu eri un’altra (questo lo so, su questo non ho dubbi) eri inquieta insofferente, ti auspicavi di farla franca, che non ci fossero intoppi e di sbrigarti prima delle undici. Eri un’altra, non eri tu, portavi quei strani occhiali che lo so, non hai bisogno, e non hai mai avuto. Di te ricordo tutto: una calligrafia da vespaio in scompiglio, il francobollo storto che quasi scivolava fuori dell’orlo della busta, le ante delle porte


che sbattevano, la bicicletta con la ruota sbilenca che passando cinguettava, e i capelli viola turchese della vecchietta che nella cassetta della posta, - accigliata, il gesto fu schietto, rapido, necessario- imbucava l’inesorabile notizia di qualche fatto già accaduto. Ed era tutto così terribilmente normale… Fuori, sullo sfondo, la realtà scorreva come in un vecchio film in bianco e nero. Noi in primo piano (tu, io e chissà chi altri) per quanto presi dalla fretta, e indaffarati, non rischiavamo molto. E mi sono chiesto perché, se era tutto, tutto cosi normale, perché non riuscivo ad allontanarmi, non riuscivo a sentirmi come uno qualunque, uno che appena gira l’angolo si distrae e dopo, di sé si dimentica…


Epitaffio in serbo (a un amico ancora non deceduto)

Questa è la sepoltura di un illuso, un irresoluto, tenace solo nel dubitare su tutto fino alla noia. Gioie effimere e banali sconfitte furono per lui una vita colma fino all'orlo. Che alla fine abbia capito che a tentoni si compie l'esistenza, e che è questo l'unico bene che ci è concesso? è poco probabile. Non giudicarlo negligente, né giudicare sprecata, tra titubanze, la sua vita, chi lo conosce sa che si offenderebbe molto.


L'uovo di Schroedinger, o era il gatto di Colombo?

Scrisse uno scienziato eminente su un gatto randagio, orfano di topo, che in una gabbia quantistica fu rinchiuso. Spiegava che essendo tutto vero: vera la storia, vera la l'esistenza, vera l'oscura materia, vero l'universo smisurato, e noi tutti, nonostante i nostri dubbi, le nostre smentite, veri anche, poteva essere al contempo morto del tutto e anche pienamente vivo, perché non era lineare la realtà ma ondulatoria: ciondola la vita sulla morte galleggia la morte sulla vita. Noi guardando dall'altro lato della ragnatela esclamammo con non confessato timore e se fossimo noi gli ingabbiati potremmo saperlo? Allora, forse è meglio non aprire la gabbia? Ma poi come sempre desiderosi di capire, Ma poi come sempre desiderosi di fraintendere, -cosa più sicura, meno angosciosa, riflettevamo, ecco la spiegazione, ecco perché tutto mai potrebbe finire, anche se ebbe inizio e tutto mai ebbe inizio, anche se indubbiamente finirà.


Ecco perché per noi i distratti a non pensarci tutto sembra andar bene ma in fondo se ci pensiamo, molto ci inquieta perché per quanto su tutto, dubbi, teorie, ipotesi e incertezze, abbiamo rotto già tutti i gusci, poi le cose vanno a finire come sappiamo secondo l'ordine pre-stabilito, quale? Discorrevamo, ognuno diceva ciò che gli pareva. Un direttore d'orchestra: provare è necessario, il reale fa le prove prima del concerto ma per la prima non siamo ancora pronti. Il ministro di grazia e giustizia: sigillate la gabbia che nessuno esca, e chi si trovasse fuori sia perseguito e severamente punito. Un curioso che di li per caso passava: fate al gatto la conta delle vite, non si sa mai, qui gatta ci cova. Un altro ansioso di non fare scena muta, per non essere da meno, con aria severa, tono laconico: non è tutto inutile, la gabbia mai è stata chiusa, Oh si, siamo ancora vivi, non dubitate, c'è ancora qualcosa da dire. Era un impegnato pensatore, credeva fosse suo il compito di scrivere il finale apporre la firma e chiudere la questione.


Nevica

Nevica, è tutta la mattina che nevica anzi è da ieri sera, e nell'aria qualcosa tace. Non trovo la mia agendina, avevo preso nota di tutto ciò che ho da fare. Ma su altre cose, tutto il resto, ciò che è, o era più rilevante, non riesco a prendere nota. Molto avrei dovuto dimenticare, e in tempo prima che fosse irrimediabile. Invece ricordo tutto come se fosse ieri. Ho i miei giorni contati, come chiunque tra altro. Non c'è da spaventarsi, succede così quando ci si ostina ad aggiungere ricordi al domani e la memoria si affolla di passato. Ma oggi nevica, e nell'aria qualcosa tace. Spargono sale sulle strade e non si scivola sul avvenire, ed è un sollievo fermarsi ad aspettare.


In memoriam di (.......... scegliere il nome di un poeta oscuro)

Fu una sera in cui per prudenza, prima di uscire, chiudeva porte e finestre. D'improvviso se ne accorse che un giorno tutto sarebbe finito, allora nulla più volle rimandare. Si rallegrò di tutto quel tempo perduto che d'improvviso si trovo tra le mani. Pensò che era meglio non distrarsi, tanto meno adirarsi. (Smorzò i toni, uno a uno e li conservò nelle loro custodie). All'inizio fu un po' offuscato, al buio a tentoni cercò di orientarsi. Poi senza pensarci tanto, né avvilito, né esultante, non molto determinato, e non con il coraggio a due mani, si mise all'opera. Le mani vuote in tasca, niente di inestricabile, niente di inesorabile


che è come aver tanto da dire niente da ridire. BenchÊ qualche volta le capitò di pentirsi, di credersi sconfitto, fu perseverante: ebbe la prudenza di dimenticare vecchie cause inesistenti, vecchi motivi persistenti.


Resistenze quotidiane

Sarei dovuto andare in farmacia stamattina, mi mancavano le aspirine, ma poi visto che mi mancava anche tutto il resto... Mi mancava quell'aria piovigginosa di ieri, d'inizio autunno con il sole che brontolava dietro quelle malcapitate, inopportune nubi. Quella scena dove ti ho vista mentre scendevi dalla bicicletta, la gonna è andata su un po' più del previsto. Dunque già che ero sicuro che l'evento non sarebbe più accaduto, non sono più andato a prendere le aspirine. Sono rimasto senza le aspirine.


Tautologie (rischiare per nulla)

Non sapendo come iniziare dico insensatezze che un cane sia un cane, lo si sa e poi lo si può capire da come si rincorre la coda o dall’odio che ha per i gatti, ma un paraipotattico è schivo come un porcospino, timoroso sa di dover attendere con cautela. Certo potrebbe abbaiare come un cane, nessuno si meraviglierebbe o come una pioggerellina estiva bucherellare la sabbia e scioglierti i capelli. E potrebbe far si che un granellino di sabbia ti entrasse nella memoria e girasse a destra e a sinistra tra ricordi già estinti o appena nati. Mi hai interrotto chiedendomi: Perché vuoi mitigare la durezza del rifiuto? la tua caritatevole comprensione è ipocrita, non cancella la pigrizia del disegno, lo sai che non devi tornare sui tuoi passi. So ciò che ti assilla, tu sei un estraneo,


sii prudente, non dare nell’occhio, non tradire la tua colpevolezza, e perfino se tu volessi celarti nella parte del buffone, o del saltimbanchi saresti sempre e comunque un estraneo. Cancella quell’inutile espressione di falsa sofferenza, quell’aria di fingerti smarrito guardandoti nel palmo delle mani. Sapevi che tutto ciò non era inevitabile e tanto meno imprescindibile, queste cose avresti dovuto saperle. Ti ho risposto: ho sempre creduto in tutto ciò che oppone resistenza, so che merita di essere ascoltato. Ti parlavo piano, con cautela, lo sguardo fingeva allontanarsi verso la torre del campanile, è primavera ti ho detto: sono rinati i campanili. Tra me pensavo, ho sempre temuto vedere le mie dita mutarsi in una foce, sono stato tra piccole isole, ho sbriciolato tra le mani zollette di terra, nell’asprezza del chiuderle sento che qualcosa è rimasto. So che avrei dovuto tacere, mi è mancato il contegno. Tu zitta, guardavi dentro di me come so che sai fare, pensavo: le mie vecchie zie megere avevano zoccoli inutilmente rumorosi, è da loro che mi viene questa inesorabile resistenza pronta al salto su una virgola,


su una pausa malferma su una parola scorbutica? vedevo dalla finestra la cittĂ insensata che si rincorreva la coda, mi sentĂŹ sollevato: anche se posso sembrare meschino e povero mi affido a questa salvifica resistenza: conosco il malessere del dovere incompiuto so che mi accompagnerĂ per sempre.


Padre

padre nostro, che sei distratto o forse attento nei cieli o altrove, anche se ricordo solo qualche parola di questa che ora mi sembra una filastrocca infantile, ascoltaci ieri sono entrato in farmacia e ho notato come la malattia fosse più vivace della salute padre avremmo tanto da dire, ma è strano come si arrivi a pensare che è più sensato stare zitti, e dopo, distratti, senza accorgercene prorompiamo a parlare a vanvera la salute si lagnava del suo letto asciutto, del suo sassolino nella scarpa, delle sue chiuse invase dalla fanghiglia, i suoi argini a punto di straripare, la sua acqua stagnante e rugginosa la malattia invece seguiva il suo corso, batteva come una pioggerellina gioiosa e incessante santifichiamo il tuo nome, dubitiamo della tua presenza perché sei uno che origlia a quanto pare sei dappertutto e osservi tutto e come si fa poi a credere,


che padre è uno che non fa altro che origliare? come si fa a credere nella tua presenza? e come faremo noi che non riusciamo a credere alla tua assenza? perché girandoci intorno ci siamo allontanati perché tentando di allontanarci non ci siamo smarriti abbastanza perché noi che a volte siamo tanto lontani non lo siamo mai tanto da non essere soli d’altronde a me mi ci è voluto una vita, questa, tra altro di cui procuro aver cura il meglio che posso, per trovare il modo di dimenticare il padre, con abnegazione ho voluto dimenticare e non ci sono riuscito, si può dimenticare il padre? è vero sono stato ridicolo è vero ho avuto paura e rancore è vero stupidamente mi è sembrato possibile tornare indietro è vero non sono riuscito a pentirmi, non ci riesco mai, né a perdonare, non so che ci si possa fare di un perdono, del mio perdono, a che serve un perdono? è vero quasi niente porterò a buon fine tranne la mia instancabile fiducia a punto di crollare il mio modo di ricavare fondigli, e dai fondigli sembianze, e parvenze da frammenti dispersi ho avuto prove della tua esistenza ma, poi mi sono allontanato, vagabondavo nella mia inesistenza ho avuto prove della tua esistenza, ma mi sono sembrate, come dire, poca cosa,


mi sono guardato intorno per vedere se c’era dell’altro perciò avremmo pensato di essere amanti della vita, anche del nulla che è accanto alla vita amanti degli animali, della terra mai abbastanza nostra delle cose vive e di quelle altre la cui vita è nascosta perché abbiamo creduto, non si sa bene perché, che fosse nostro il dovere di amare -anche del prossimo abbiamo tenuto conto, purché non fosse molto prossimo, neanche molto vicino, il che no sembrava facile perché tutti a volte sembriamo tanto estranei, e gli estranei di solito sono il prossimo e gli estranei di solito tendono ad avvicinarsi tanto vicini da esserci inesorabilmente accanto santifica gli altri, i nostri vicini santifica qualcosa, qualunque cosa santifica gli altri tutti e tanti siamo gli altri, pensaci pensaci, in questo nostro pigro aldilà sulla terra dove siamo impazientemente gli altri guardando all’avvenire, però ci vergogniamo di dover aspettare è rischioso ciò che stenta ad avvenire ed è rischioso aspettare che senso ha aspettare, che cosa è questa dell'attesa padre? sii padre degli altri, tanti e lontani,


gli altri, noialtri tutti ci vergogniamo perché rischiamo di essere tutti sparsi ovunque, copriamo la terra del nostro affanno di passi senza saper dove andare, tutti, tutti e nessuno e dubitiamo che possa essere vero, vivere senza distingui tutti è una enorme dispersa folla, non riusciamo a capire padre, padre, parola che pesa come enorme macigno di nubi avremmo voluto esserne certi del tuo abbandono, padre dacci il nostro abbandono quotidiano che germoglia tra di noi, dacci la solitudine più piccola e completa da poter nasconderla in una mano vuota, padre ma dacci anche il nostro tempo quotidiano il tempo che ci è sfuggito, il tempo in cui abbiamo creduto alla stanchezza e al riposo quello docile sbriciolandosi tra le mani come paglia ciò che sfugge al tuo silenzio, padre affinché possiamo riconoscerci, riconoscerti.


Tu ed io non c'entriamo per niente

Devo dirti una cosa, ho un segreto da svelarti: tutte quelle persone che a volte appaiono in ciò che scrivo io non le conosco, non so chi siano, certo me ne accorgo della loro esistenza, della loro insistenza, bussano alle mie tempie, si affacciano su ciò che guardo, senza di loro non saprei a chi parlare, chi incolpare ma io non so chi sono. Però tu, che sei a metà strada tra te e me, e che sai che alludo a te quando dico noi, e che mi guardi in quei meandri oscuri della memoria dove a volte con imprudenza mi allontano, e quello che io neanche mi azzardo a dire ascolti e credi così, di essere una di quelle indaffarate comparse, sii cauta, potresti sentirti confusa presa da difficili compiti o troppo urgenti, vestita di stracci, indifesa tra ricordi che ormai avevi già scartato. Non pensarci, non è niente, è solo un poco di quello che sono andato conservando per prudenza, per quando


in controluce mi imbatto per caso in un vetro opaco e suppongo sia doveroso riempirlo di ombre, scelgo alcune le più malandate per paura che svaniscano, sono caricature rimasugli di ricordi di ricordi di esistenze di esistenze che non arrivarono in tempo. Sii molto attenta, sono intriganti potrebbero diventare ostili, insofferenti intrecciano congetture, che un'altra vita sarebbe stata possibile perché ciechi, offuscati guardano solo all'indietro. Parlano a vanvera, di tempi precedenti tempi perseveranti, che ci soffocano di cerimonie e salamelecchi come cani fedelissimi. Quindi forse è meglio non dargli retta lasciali a cuocersi nel loro brodo quei bugiardi, certo hanno le loro ragioni per esistere come te ed io ma io non so chi sono, e credimi, né tu né io c'entriamo per niente in tutto questo.


E i cocci sono Suoi

Il mondo è rotto in mille pezzi una finestra, un gatto, una matita non sono altro che briciole di realtà. Una mosca è una scheggia di un'altra vita distante che appena riusciamo a capire. Stamattina ho perso uno sguardo credo lo abbia trovato il cane del mio vicino era particolarmente inquieto, aveva nel suo rauco latrato un non so che di quel strano pessimismo che mi è tanto congeniale. Mi manca tanto quello sguardo, era uno sguardo che vedeva al di là di ciò che è ragionevole. Ciò che è ragionevole non suppone l'insensatezza di perire. Brutta cosa quella! ma come farne a meno, se alla fine non dovessimo morire... (a che pro tutto questo partire, a che pro tutto questo andare e venire) Visto come vanno le cose meglio vederci chiaro


la vita potrebbe rivelarsi incompiuta, aspramente interrotta, protratta distratta o attratta da qualcosa d'altro. Misurarla è inutile, misurarla è il nostro dominicale aldilà, è il nostro tempo perduto. È cosi che oggi vanno le cose. Sono a pezzi il mio fato è fuori sintonia, cosa può un uomo in tale stato? Farò una passeggiata, andrò fino al orlo del mondo, girerò tutto in tondo, andrò su e giù farò un tuffo, giù lungo l'asse delle ordinate. Sono senza fiato, sono un uomo in cattivo stato, cosa mi appartiene? Perché mi trattengo? Non sono già arrivato? Che ore sono? Spero solo che una pioggerellina lieve disegni un amabile pomeriggio, le sarò molto grato, osserverò molto attento le cose illuminate dall'acqua. Rifletterò sul da farsi.


Sulla punta della lingua, sulla vita o qualcosa d'altro

Che sia talmente inusitata, che non vale la pena neanche pensarci che si sbricioli, o si sfili, sembrano tutti d'accordo che sia un andirivieni, un sotterfugio che sia stata presa per qualcosa d'altro che si snodi, si sciolga e dopo si riallacci che la si possa attaccare al muro che basta solo mettere un chiodino o rasparla un po rudemente, anche se inutilmente o scacciarla, mandarla a quel paese o ritagliarla, stagliarla, sminuzzarla ed essere snervati e stanchi e perfino non saper che altro fare. Pur di sopportarla far finta di niente pur di concedersela non farci caso, misconoscerla appena si affaccia, o sbugiardarla o sputtanarla e se ti sfiora o se all'improvviso sbuca fuori ignorarla, che poi sfiati e si sgonfi, per poi svitarla, si sa che appena può si divincola se si agita riallacciarla, e se fosse slacciata legarsela al dito se diventa dolciastra forse meglio glassarla se è in vetrina sventrarla, invitarla se è matta, e meglio se è impudente ma tutto con distacco, con molta cautela perché è permalosa, diffidente, e per un niente le penne ci lascia o se la svigna.


Una grande certezza

La realtà esiste, qualcosa c'è là fuori cosa sia non lo sappiamo... detto dallo scienziato, allegro ma non troppo, sembra un dogma a pensarci, ma gioca a carte coperte, e comunque non sbaglia più di tutti noi. Se così fosse e se la muffa della presunzione o della modestia (falsa, che di altro tipo forse non esiste) non ci obnubilasse una certezza tale avremmo abbastanza da sentirci sollevati, sicuri non di poco, forse di tutto.


Tecniche di laboratorio

spesso ti sei seduto sulla sedia zoppa, quella che traballava te ne sei accorto di essere di traverso, la luce ti faceva ombra, non ostante respiri senza affanno o forse ti rassicura essere ancora in disaccordo credi di non essere stato raggirato e che la tua resistenza è rimasta intatta e questo te lo ripeti ogni tanto, sempre più spesso una cantilena, qualcosa come una inconfessata convinzione un credo cui non sono necessarie preghiere un’ancora di salvezza a mancanza di certezze spesso hai creduto di essere tra i peggiori quelli senza rimpianti, o quelli orfani di sé che di sé fanno un lavoro di deturpazione, e pensavi di essere sordo tra i sordi, uno che senza volerlo voltava lo sguardo per rimandare, per pensarci meglio più tardi, lasciar passare, tornare dopo sul fatto ma non eri dei peggiori, anche se resta la paura dell’assenza del disegno, hai voluto prenderne atto e l’errore era lì, stringere le mani


non è perseverare, ascoltare un pigro mormorio fuori, nell’aria, non dice niente, non da conforto ma non ti eri allontanato abbastanza come credevi, abbastanza da capire che fermezza può anche essere all'orlo e dover accettare, fare una pausa, inciampare, essere fuori tempo, prendere fiato che si può anche guardare a bruciapelo e impotente voler capire e che si può anche voler spiegare, ed è comprensibile voler spiegare, è umano si direbbe senza capire cosa vuole dire, senza sapere cos'altro dire, e alla fine forse qualcuno potrebbe dire perfino di averti visto passare dubitando se avevi fatto il possibile, e che avevi un’aria credibile, schivo, vulnerabile forse, ma credibile.


Non so che dire

Non so che dire, ci sono giorni in cui i miei ricordi sono feroci, nitidi come mani estranee con cui no riesco neanche a coprirmi gli occhi. Chissà quale avarizia mi si è incollata addosso e da quando mi chiedo. La mia memoria allora va a pezzi, e penso con ansia, oggi non ho niente da dire, sono povero di incertezze. E ho davanti tutta la vita, tutta quella che mi resta. E ho davanti tutto ciò che non è stato, senza riuscire a dare un passo. E non ho neanche un istante da perdere, neanche un giorno, un ora, un minuto per fare una pausa.


La memoria marionetta e lo spettatore perplesso

Che l’esistenza dei fili fosse inevitabile sembra cosa scontata ma resistere è ciò che sorprende. Maldestro, inciampa, vacilla, si piega è quasi a punto di cadere, ma resiste. È il teatrino che lo regge? O è solo perché è inetto, insignificante, ed è all'oscuro di tutto e non sa che è inevitabile resistere? - che davvero non si possa cadere senza opporre resistenza? Non pensa al giorno in cui inciamperà, e i fili diventati matassa gli ricorderanno l'inizio, intanto nel suo mondo cubico muove timidi gesti, pochi. Ogni tanto l’allegria di una curva, la paura di un angolo, poco ha da dire al di fuori di tale esigua geometria. Ma non si scoraggia, tutt'a un tratto sorride poi si rattrista, in faccia muove una felicità muta che gli disegna un volto. Guarda d’improvviso un angolo mal illuminato come se fosse un baratro, un inutile baratro, banale.


Ma è il suo, quello che ama, da dove si riprende dove si ritrova e si riconosce. Rimane assorto, fermo sul fondo della scena, sbigottito come se tutto l’inevitabile che cova nel cuore dovesse crollasse in quella nuova certezza che ha appena scoperto, cieca certezza che protegge come il suo bene più temuto. Ma è la sua salvezza crollare che è vivere ed è questa la sua intima certezza. Perché lo sa che la farsa non è quella, ma dubitare riflettere essere certi persistere capire perdonare. I fili ora sono un groviglio e non sa dove si stringono, dove si dipanano. É da tempo ormai che non si capisce se il movente basta per la condanna o se si dovrà aggiungere qualcosa d’altro ancora. Ci si potrebbe chiedere il perché, se fu una stupida distrazione, o se no che altro o cosa? O se a tutti quei fili mancava questo, quest’ultimo, che si doveva aggiungere. Tutto ci si potrebbe chiedere ma non è forse meglio non farlo, non chiedersi nulla ed essere certi? Il burattinaio, fu visto una volta


allontanandosi sembrava una persona normale, zoppicava, ma solo un poco e perfino dei fili con sollievo sembrava dimenticarsi, qualcosa di insanabile o di malsano si trascinava vacillante. PerchĂŠ sembrava cosĂŹ accattivante, mi chiedo, quasi da invogliare a imitarlo?


Tratti continui

Lieve attraverso una luce giallastra il fruscio delle ruote delle macchine sulla strada bagnata trapela dalla finestra. La pioggia ha pulito l’aria. Nella foschia che va diradandosi i tetti sono un intreccio di triangoli, riemergono. I colori delle mura si riaccendono lentamente dal giallo all’ocra. Oscillano, ma impercettibilmente, come alberature con la vela raccolta le antenne delle tv vicine. E le gru poco distanti, per chissà quali lavori sembrano enormi bestie mansuete che riposano. Si scuotono con gli ultimi residui di brezza le foglie bagnate delle pianticelle sui balconi vicini, o forse è solo il luccichio dell'acqua, e le siepi accanto a cancelli e garage e anche il rosmarino sulla nostra finestra. È domenica sera, nessuno parte, se mai ogni tanto qualcuno rientra. Dentro queste case la notte è attesa senza riserve, e anche se non sembra è tutto vero.


Io non ebbi il piacere di conoscerlo

Ogni sera al tramonto accendeva la sua ritrosia e sotto la fioca luce leggeva trattati sulla maldicenza e altre tecniche di rammendo. Neantropo, visse in foreste di false partenze e arrivi veri. Fu severo, acrimonioso nel soppesare tutto (e il contrario di tutto), ma a causa della sua cattiva memoria non serbò mai rancore a nessuno.


Oggi, ma forse anche da alcuni giorni, qualcosa mi inquieta

Oggi è un giorno qualunque... banale, e in un giorno così, qualunque cosa potrebbe accadere, che leggendo il giornale nei necrologi trovassi un parente, o un amico morto, o meglio, deceduto - nel giornale non avrei letto morto… nel giornale avrei letto: estinto, mancato, scomparso si è spento, non è più con noi, e così via… perito, defunto, trapassato, credo non si usino più ne avrei tre o quattro possibili, in attesa, già vicini? (lontani?) a metà strada, a metà di cosa? in un giorno così, qualsiasi... morire? oh non c'è che dire... meglio non dire niente ma anche essere vivo, completamente vivo fino alla fine della giornata... e oltre ovviamente oggi in un giorno così potrebbe accadere che... oggi potrei... senza pensarci più, fare qualunque cosa invece di andare al lavoro, andare a pesca per esempio, forse non c’è cosa più lontana dalla realtà, non saprei neanche da che parte andare se volessi andare a pesca... come si fa ad andare a pesca?


o forse perché mi angoscerebbe andare a pesca: i pesci muoiono di asfissia credo appena qualche momento fa è caduta una pioggerellina volubile, inattesa e in un momento era già sparita non si sa da dove venisse, mi sono affrettato a nascondere un angolino d’ombra che mi era rimasto sulla bocca dello stomaco l’ho messo in tasca perché sono un uomo e non so che potrebbe fare un uomo con un angolino d’ombra tra le mani, no non mi sembra conveniente invece obblighi, impegni, sono cose piuttosto serie, da non mettere nelle tasche, dunque... il sole splende di nuovo, solo cinque minuti fa o dieci si sera nascosto e già ero a punto di franare ho visto abissi e boschi ululanti, dovrò stare attento, molto attento, ma questo una voce me lo ripete da anni, da sempre, ho l’impressione...


Tecniche di sopravvivenza

Se trema toccala a mani nude, senza esitare, respirale vicino (questo la fa arrendevole), poi fa' si che dimentichi, che si fidi, che veda dove la materia perde consistenza, che tocchi dove la memoria si corrompe che veda il riverbero sulle le lacerazioni. Portala dove il desiderio si accende, e stringe il respiro che possa presentire la caduta, immaginarla. La prendi con una mano e ti sfugge dall’altra ma il peggio non è che ti sfugga, neanche che tu ti smarrisca, che ti sia lieve fino all’assenza è il peggio. Poi in disparte, senza che nessuno se ne accorga perché sai che sbagliare è inevitabile prendi nota di tutto. Dove si accumulano impurità e residui e rimane umido e spesso c’è muffa e sporcizia mettici dei segni col pennarello sottolinea, apri parentesi aggiungi richiami, appunti note al margine cancella, riscrivi -metti i punti sulle i!


Non badare a scuciture, strappi, conserva le crepe non volute e aggiungine altre nell’eventualità si rimarginassero. Non rifiutare la morbidezza, le carezze avvicinati, toccala, senti il suo fiato caldo sgusciale dentro, non darle respiro prendila, prendila Infangati, rimescola con le braccia fino ai gomiti! Poi mentile, mentile non farci caso mentile come se niente fosse: fingi di desiderarla, vedrai che cede.


Oh n°2

Oh inutile, inutile, prima la mano si mosse rapida, le dita rivolte all’insù, aperte di scatto come un ombrello sgangherato, ma in vano, …mi sfuggì, spinto dal gesto brusco, rimbalzò alle mie spalle. Poi il braccio, tentando l’impossibile per catturarlo si volse brusco, al indietro sul lato sinistro, che sembrava nuotasse, un'energica bracciata…Ma fu troppo, questa volta lo colpì l’avambraccio. Gli occhi spalancati che non perdevano particolare -contorto il collo per seguire l’evento, videro tutto: una curva dopo l’altra, dal ripiano alla mano, dalla mano al braccio. Ma vedere oh fu inutile, inutile: il bicchiere, vetro rozzo opaco un’etichetta pubblicitaria sul fianco si ruppe, anzi si incrinò soltanto. Fu sostituito con un altro identico d’immediato, come se niente fosse.


Qualcosa ancora in disordine

Leggevi e le pagine migranti, rondini nello spazio immenso tra il tavolo e il soffitto volavano nell'aria una dopo l'altra... poi un niente un picchiettio, nel sangue, un battito nei polsi o nel petto, ingannevole, che distoglieva: - fare una pausa, sollevare il capo, distendersi, arrivò contorto, e dopo anche alle labbra, me ne accorsi che stavi per dire qualcosa e che esitavi. Bastò perché tutto fosse ovvio: scaramuccia o avvisaglia? e che bastava un niente per ritrovarci, per indovinarci o ancora di più: un bisticcio tra quello che c’era tra di noi fino a quel momento, tutto ciò che ci era successo fino allora e la nostra solita insensatezza tenace che ci dava prova chiara di quanto ancora ci sarà, di quanto ancora avverrà? Fu così che, quando stavi per dire qualcosa ti sei interrotta ripensandoci: forse me l'avresti detto dopo, forse non mi riguardava, forse era solo una sciocchezza.


Distolto lo sguardo, con la mano cancellavi una piega sulla gonna, o stavi per alzarti o per appoggiarti su un gomito perché la luce di dava di traverso, o avevi dimenticato qualcosa e d’improvviso stavi per andare a prenderla, un pensiero ti calò negli occhi e prima di svanire tra gesti incerti, per poco ancora ti rimase accanto. Per me fu visibile, lampante con un po’ di premura, perché so che potrebbe esercì utile, lo annoto. C'è l'ho ancora negli occhi non vorrei che mi sfuggisse. Non è molto, qualcosa che con leggerezza quasi accadde, un rimasuglio appena, un sedimento, ma una conferma in qualche modo.


Alcune cose si muovono d’improvviso

Alcune cose si muovono d’improvviso la cui causa è… (è lo sguardo che disturba l’esistenza?) una manica del vento per un soffio il becco di una gallina per un lombrico la coda di una mucca per una mosca. Altre con moto periodico ma la cui periodicità non ci è svelata: il martello sul dito (che fugge dal chiodo) la tegola sulla testa, (disegno o scarabocchio che sia) la pulce nell’orecchio (di cui per convenienza si dà colpa a l’orecchio anfiteatro, e alla sua acustica perfetta) Invece in termodinamica si afferma che non è impossibile che tutte le molecole d'aria dentro una stanza, d’improvviso, si raggruppino in un piccolissimo angolino, ma solo altamente improbabile. Se cosi fosse, allora dell’amore le briciole, particelle frenetiche del disumano desiderio di possedersi per sempre... e i crampi, in frammenti piccolissimi dell’abbandono di chi abbiamo da sempre amato infinitesimali, raggruppandosi inspiegabilmente, negli interstizi tra due esseri mortali, mostrerebbero un’anomala diminuzione dell’entropia?


smentirebbero del tutto e nel nulla dell'avvenire il naturale inclinarsi, inevitabile, al disordine finale o iniziale, evidente o apparente? E poi che dire delle nostre care insondabili miserie, c'è chi dice - ma nessuno lo confermerebbe, perlomeno non del tutto, che sono come un impellente, necessario mettere nero su bianco –e in lettere cubitali, cose che in ogni modo rimangono incomprensibili, refrattarie a teorie, grafici, opinioni, previsioni statistiche, empirismo delle osservazioni. Si parla perfino di una sorta di verità dei sistemi chiusi, certi sistemi chiusi. Una, a quanto pare, inconfutabile verità, sulla quale a volte ci scommettiamo la speranza. Dunque sciagure, stermini, genocidi, calamità, disgrazie, catastrofi... determinismo di un sistema chiuso? Che per alcuni si dia per assodato o che sia ovvio per altri o perfino che spunti il solito stralunato che pensi anche a leggi, che spieghino che nell’indescrivibile caos non possa non esserci una esplicazione, uno scarabocchio scritto ai margini o a pie di pagina anche se a caratteri piccolissimi illeggibili, e che se si riuscisse a leggere...


Può darsi, ma, un’assoluzione, l’estinzione del debito, una pausa, un piccolissimo condono, o quanto meno l’inizio dell’era felice delle scorciatoie. No, quello non per ora, o almeno non ancora.


L'astuto, il furfante

Un tale trambusto fecero quei monti quando il famigerato, inatteso e non desiderato, topolino partorirono. Che era tutt'altro che insignificante, dopo tutto, l'astuto, il furfante. Si ebbero conseguenze inaspettate. Lieve cresceva l'erba dappertutto nelle aiuole soprattutto e accanto a quelle belle acacie dalle foglie bipennate e a quegli alti pini, alteri e dagli aghi pungenti. E nelle fughe, perfino, tra le mattonelle. Poi al mattino, tra nubi che di lÏ non per caso passavano, spuntò il sole in tutta fretta, quasi con affanno. Di furti, truffe, malefatte si parlò in quei giorni nei giornali, di cattiva amministrazione, cattive intenzioni e brutte situazioni. E di morire addirittura gli venne in mente a qualcuno; o per malattia, o per accidente, o per causa naturale. E la sua dipartita fu o triste, o un sollievo, o tormentata,


ma per tutti del tutto inaspettata. Ogni cosa sembrava andar male anzi di male in peggio, e a dir il vero non mancò il cretino, o il furbastro o l'immancabile illuso, che avrebbe voluto saperlo prima per rifletterci, o difendersi al meglio, o persino fuggire. E alla fine sebbene ci fu chi di niente fece finta, e chi, invece, disse di aver subito tutto dimenticato, tutti un grande spavento si presero e, non solo, rimasero di stucco, esterrefatti.


Certo non è poca cosa

Certo non è poca cosa dire ho tutto questo fardello da morire, da portare a compimento, sarebbe meglio andarci a mani vuote. Dico, sarebbe meglio, se si potesse, senza la speranza ingombro che pero non cede, e io so che malgrado tutto sono incredulo, distratto, anche allergico. Spero, in quel frangente non starnutire troppo. Spero in un momento così deliziosamente unico, indimenticabile, non fingere come se si potesse cambiare idea. Porterei con me l’anno in cui cominciai a prendere nota di tutto ciò che non mi era mai successo, mi è molto affezionato, io, per quanto mi riguarda, le sono grato. Fu un anno clemente, inizio male, dopo peggiorò, e alla fine condiscendente decise di finire un 31 dicembre. Anche se allora, abituato come ero ad averlo accanto, non me ne accorsi.


Porterei anche uno di quegli altri anni i più incerti, quelli in cui inavvertitamente imparavo l’inutilità dei sotterfugi. Ho troppo mentito, ho indugiato molto, ho troppo atteso ma ero felice, mi preme dirlo - lo dico di sfuggita, si sa, è nei sotterfugi la felicità. Quanto persi in quegli anni, indaffarato a farli passare. Dopo capì perché il protrarre è vergognoso. Oggi mi sorprendono, mi spaventano quegli anni come se fossero anni non consumati. O forse di quelli ne porterei più di uno, se dipendesse da me, li porterei tutti. Sono in buono stato, quasi nuovi, appena usati, potrebbero essermi di alcuna utilità. Sono i più facili a rievocare, i più docili a essere consumati a forza di memoria. A essere usarti per esempio come fermacarte, o meglio ferm’attese, ferma indugi. Sono anni resistenti massicci. Ora come ora sono divenuti i più concreti, quegli anni evanescenti, labili, rarefatti. Un leggera smemoratezza, nella valigia non guasta non si sa mai, non occupa poi tanto spazio, veste bene, ed è sempre opportuna. Serve a non abbassare la guardia, a non crederci troppo.


Come si fa a credere quando a momenti ci si dimentica, ci si distrae, e tutto come se niente fosse ricomincia? Come potrebbe mai, ci si chiede, finire tutto così, se dopo tutto è stata solo una lieve svista? Volente o nolente porterò anche gli occhi stanchi che ho verso le undici e mezzo di sera. Fingo di leggere a quell’ora ed essendo molto stanco sono molto lucido, ho il senso delle cose. Penso e faccio riassunti, compendi. Rinnovo ogni tradimento. Rinnovo la mia unica fedeltà, questa, di cui mi è vietato parlare perché si spaventerebbe, è ancora inesperta, fuggirebbe per pudore. Ma anche queste mani gravate da tutti questi gesti, accumulati lungo tutto questo tempo, porterei. Come farei a lasciarle? sono ciò di cui più pesante ho guadagnato. Cosa fare di questi rimasugli ingombranti, e di quest’ansia costruita passo a passo con tenacia sugli occhi come se fosse fascio di lumi, lucerne, fiaccola, torcia. Spegnerla non serve a nulla, non serve a non guardare. Tenerla accesa, scrutare


a volte sembra così poca cosa, in certi casi pura presunzione. Guardare non è sempre un aldilà di tutto? Allora, nell’incertezza, che fare? quando si ha così tanto da fare. Che fare quando si ha così tanto da fare? Porta con te anche un poco di quel tuo incompiuto daffare, mi hai risposto niente ci è più intimamente caro di quel tuo incompiuto daffare, che si accumula come polvere sui mobili.


Consapevolezza

So di essere un cane, ma è strano perché ultimamente non mi va di rincorrermi la coda credo di averla persa. Avendola persa, ci provo col sedere e se non trovo neanche quello allora no mi resta che l'ombelico. Che abbia perso tutto tranne l'ombelico? È importante il mio ombelico, è mio, è capiente, dentro ci sto perfino tutto io. Ho capito di essere un cane ma un tipo strano di cane la luna no mi affascinare più, i gatti a dir il vero mi sono simpatici. Dunque anche se sono sicuro di essere un cane, mi sento strano. Certo, marco il territorio con vani desideri, con inutili speranze ma, non piscio ovunque, né sui pali della luce, né tra i cespugli. A quanto pare, sono proprio un tipo strano di cane, un tipo morigerato, curioso, sospettoso, un po incerto, un po confuso. Perdo i miei istinti, ne guadagno altri


divento un po randagio, un po umano. Vorrei avere una giacca, un golf di cachemire, anche un capotto, color cammello e RaiBan scuri, ogni tanto indossare la cravatta e se potessi una fine barbetta elegante e baffetti sottili ritagliati sulle labbra. Ho paura di essere diventato troppo umano, scodinzolare pero ancora mi piace, oggi come oggi è necessario, e per fortuna non disdice, (rincorrersi la coda e se la si ha perso il sedere o meglio ancora l'ombelico, è utile, e oggi come oggi, molto efficace). Non sono del tutto fuori strada dunque, scodinzolare come un cane, un cane randagio, ma non per questo a disagio, per fare strada oggi, è di grande vantaggio.


Roba da matti

Da un momento all'altro morirò. No, non che io sia malato e stia per morire, o che disperato lo desideri, no. Per quanto ne so, sono quasi sano o il più possibile, poi sono sereno, fiducioso, e molto lieto di tutto, e sopratutto più di qualunque altra cosa mi piace sopravvivere. Ma è una strana idea che mi si è ficcata in testa, prima o poi morirò, (roba da matti, non c'è che dire)

II.

Dico, non vorrei essere frainteso: sono un essere vivente, uno che vive per vivere. E che vive a più non posso, il più che può. Che è come dire...vivere assiduamente, tenacemente, ma certo con un po di cautela, con cura, (un po' di paura anche). E non che so... per non morire, e non come dire... uno che a mala pena


si avvicina al morire. Certo, uno come chiunque, tra altro, ma non uno qualunque che sa che ineluttabilmente morirà . Tutt'altro, sono un vivente molto convinto del tutto, pienamente, non ho dubbi. Si ma dopo? mi chiedi. Poi, lo si sa, si sa come va a finire. Lo sanno tutti. O forse no? o forse no, questo chissà ... se mai ti racconterò.


Pochissimo, il burattinaio maldestro e la memoria burattino

Posso fare così poco, muovo le dita con leggerezza, sento il peso non vedo i fili, temo che il burattino si muova prima di me. Ma forse non ho altro che il peso e non la grazia dei gesti. Però, di tutto quello che faccio, gli chiedo cosa mi rimane? cosa potrebbe salvarmi? Di questo che è il mio quotidiano lavoro, cosa dimentico? cosa ricordo? che differenza c’è tra ciò che ricordo e ciò che dimentico? Cosa porterò con me finalmente? Il burattino che non ebbi, o che mai crebbe, Il fantoccio che mi precede, o una figura malcerta da pattuire al momento opportuno? Salta, salta, gli dico, tu che sei di legno, goffo, sgarbato e non hai nulla da temere. Gioca, fa’ le capriole, non arrenderti! Rischia, buttati giù, i fili si sono rotti tu neanche li ricordi, sei solo ormai?


Affacciati all'orlo, rischia di cadere vedi se qualcosa ti trattiene, guardagli in faccia, prova a sentire la Sua presenza -a te è concesso? Vedi se la Sua faccia è inerte, rassegnata o se è invece attenta e tradisce un barlume di pietà, di paura… paura per tutti noi? Che si possa sospettare di qualcosa, di qualcuno ancora più lontano?


Darwiniana

Così ora l’animale estraneo, maldestro colleziona ossicini di topo. Prima li trovava interrati dal gatto e con cauta pietà li puliva dai brandelli di carne inverminita. Poiché erano stridenti come ottavini in questa o in un’altra vita ultraterrena o sottoterrena crede sarebbe meglio che la liturgia fosse la più silenziosa possibile. Per lo più cerca di rasserenarsi, a modo suo: fa stupidi gesti da saltimbanco, spera una volta per tutte di aver nascosto bene quel garbuglio di pifferi, tanto da non poter più ritrovarli: preferisce fare trucchi a mani nude. Aspetta, aspetta! potresti morire di buon ora! Sii più serio, vedi il tempo che hai perso girandoti intorno: i tuoi gesti ti si erano quasi dolcemente calati nelle mani a che serve ora pendere da precetti? Una voce girandola, legata a un filo, glielo ripete. Colleziona istanti in cui crede morirà, in altri invece preferisce non pensarci e rimane solo, in silenzio, a non pensarci.


Non più pesanti di quelli ossicini cavi sono i momenti in cui crede di poter tornare sui suoi passi, è strano: se è così attento, come crede, perché malgrado ci ricade, appena gli capita di voltare l’angolo diviene talmente determinato, smemorato, che non ascolta neanche il digrignare delle sue ore più fedeli, perciò... Per non muoversi medita fare passi da gigante. Certo è che quando è più deciso e si raccoglie pronto alla partenza, felice dell’affanno, prega affinché si confondano le acque per scongiurare la paura di approdare. Si intrattiene a fare gesti da non vedente che da lontano gli sembrano tramonti boreali. Fare il funambolo della memoria giustifica la caduta ripete a se stesso e ci riprova. Dopo gli viene sonno, si addormenta e sogna lo scafo eroso dalle ombre di un presente che verrà, seriamente si prepara pensa ad allacciarsi le scarpe. Tuttavia nel bene o nel male si fida della vela rattoppata e dell’ancora che stamattina ha ricavato da uno spazzolino da denti, di questo sono sicuro.


Sconcezze grammaticali e di pensiero rivolte ad alcune reliquie sotto elencate e scelte le più povere e improbabili. Più una spuria preghiera, si crede aggiunta dall’amanuense. Reliquie a cui è rivolta la preghiera L’odore di muffa del feretro di Santa Timotea di Trinitapoli imprigionato in una delle narici del naso lebbroso del beato Olofrene che si preserva miracolosamente incorrotta curata dal morbo, custodita in un’urna d’oro sigillata e minuscola come la rotula di un bambino, che non è stata mai aperta e che è severamente vietato rimuovere dalla sua nicchia, o perfino sfiorarla lievemente per paura che il miracoloso odore sfugga e si disperda nell’aria. Un’unghia strappata nel martirio a Santo Frastuono martire, con residui di scorza di formaggio, suo solo nutrimento nella cattività che caritatevole grattava per darlo ai topolini compagni di cella, dottorali con le facoltà della parola e del raziocinio, virtù che furono a tali umili creature concesse grazie all’incessante preghiera del santo che, secondo quanto è stato tramandato, nel fervoroso soliloquio della sua umile supplica, adduceva quale motivo della grazia domandata la necessità di discutere con essi il principio della fratellanza tra roditori, o per meglio dire, tra coloro che davanti alle evenienze dell’esistenza sono costretti ad agire rodendo le difficoltà, non avendo né forza nelle membra né vigore nel pensiero per soverchiarle con agili stratagemmi, ben ideati e riflettuti, e con astuzia e svelta e ferrea determinazione. La puzza di trementina di Santa Eulalia dei miracoli delle sei dita in ogni mano, forte e acre odore sprigionatosi inspiegabilmente quando le furono bruciate le mani in quanto fu ritenuto da santi uomini versati nelle scienze di devozione che solo il demonio poteva avere mani con tante dita e tutte insolitamente sottili ed elastiche di cui la Santa si serviva per illustrare ai poveri orfanelli gli intrecci che nell’animo pio tessono le virtù della temperanza, il riserbo e la tolleranza, così come per insegnare loro alcune


delle regole dell’aritmetica, acre e benefico olezzo che si avverte in un angolo della sacristia della cappella a lei consacrata nel paese che le diede il natale Monte di Scavalcagalli, e che è più aspro e intenso in quei giorni di inizio delle freddi nebbie e delle lievi e pertinaci piogge dove il rimpicciolirsi dei giorni e della luce accorcia nello sguardo il senso di lontananza e di segreto che è nella gioia di vivere, inculca nell'animo degli uomini il senso dell'irrimediabile finitezza della vita terrena, riduce di conseguenza il vigore delle funzioni respiratorie, impedisce la espansione naturale e forte del torace, e in tal modo propizia il contagio dei fluidi corporali inspessendoli, aumentandone la umidità e suscitando l'infiammazione delle orecchie, del naso e gola, e languore e tristezza nella determinazione e nell'animo. Gli affanni e ansimi della beata Suor Pulcrizia di Antiochia patrona degli starnuti silenti e soffocati pratica a cui era votata nella solitudine della sua cella durante l’obbligo della preghiera e le consuetudini del suo lavoro di ricamo e rammendo, così come tra la folla e l’agitazione nei giorni in cui era solita recarsi al mercato e che aveva lo scopo di mostrare la fermezza del suo carattere, della sua fede, e la severità della prescrizione a cui era dedita in tutti i momenti della sua esistenza e che non aveva altra spiegazione o altro motivo che non fosse quello di reiterare la sincera supplica di pietà per gli uomini ultimi, gli umiliati, i tiepidi, che non sono né freddi né caldi, che si tacciono e che voltando lo sguardo da un'altra parte desiderano passare inosservati cercando di smorzare perfino il rumore dei propri passi e che ricusando tutto per vizio di tristizia e pusillanimità con misero rimpianto si trascinano dietro le intricate matasse dei loro cavi sciolti, e che è miracolosamente possibile ascoltare nelle piazze e mercati affollati nei giorni di festa patronale se si scuotono forte vicino alle orecchie alcuni dei fazzolettini da lei fittamente ricamati, impregnati, zeppi di quelle sue soffocate suppliche. Una piega dell'ombelico di San Romualdo patrizio germanico eremita, coriacea e talmente sottile e tagliente che si ebbe il sospetto che, in tempi remoti, prima che si rivelasse la sua insigne origine, fosse stata empiamente impiegata come strumento chirurgico da curatori e ciarlatani girovaganti, la cui rigidità e durezza è dovuta al fatto che il santo anacoreta riusciva a nutrirsi solo di licheni essiccati e del effluvio che effondevano certi tuberi da lui conosciuti se immersi per diversi giorni in una miscela pestilente di succo di viscere di lombrico nero e acqua di un certo pozzo tetro e sleale dove si crede


le giovani vedove penitenti gettassero le loro vergognose bramosie e lui, invece, i suoi più recalcitranti ricordi che lo assoggettavano alla memoria della sua vita anteriore e ai sui più cari e tenaci rimpianti; pozzo d’infinita spregevolezza dal cui ignobile ed inesausto imo non si riesce a udire il tonfo di una pietra o di qualunque altra cosa pesante che si lasciasse inabissare nella sua paurosa gola neanche se lo si attendesse per intere settimane, mesi o addirittura anni. La lingua rigida e annerita di Santa Cristofelia da Norck, che se è veduta da individui ignoranti, privi di alcuna istruzione, ispira a queste anime semplici e feribili veementi soliloqui di elevatissima saggezza e di profondissimo e accorato desiderio di vita eterna tanto da far smarrire loro il sano discernimento e che per tale ragione è conservata in luogo segreto e inaccessibile ed è oggetto di diligente e pertinace, ma alquanto inutile, studio da parte di dottori sapientissimi ai quali la chiarissima scienza e integerrima avvedutezza schermisce di ogni manifestazione infra-sensibile non sortendo, pertanto malauguratamente, su di essi nessun effetto, e che a causa della somiglianza naturale del colore e anche della sottigliezza, rigidità e logorio del suo aspetto, fu per molto tempo creduto che fosse invece un lembo della suola di uno dei sandali del beato Preliodoro consuntosi durante il viaggio che il sant'uomo fece come penitenza a una regione a noi sconosciuta, e a quanto si crede remotissima, di una inesorabile e inimmaginabile remotità, aldilà del lungo e maestoso Eridanus e che oggigiorno congetturasi sia a poca distanza dalle primi valli al piè di quei monti sempreverdi chiamati Prealpini, vallata stranamente concava e dalle nebbie perenni dove in alcuni manoscritti attribuiti al Beato viandante racconta di come abitanti taciturni e intensamente abbarbicati in quelle terre si cibino nei giorni festivi di strani frutti nati, secondo quanto è stato possibile congetturare, da piante sub - terrene o che crescono in senso inverso verso le interiorità delle croste terrestri e per tale motivo hanno un’apparenza esteriore come di baluginanti gemme, un sapore dolcissimo ma anche minerale, pastoso e molto pungente, causato forse dagli numerosissimi rivoli di viva lava che solcano quelle suddette profondità, e da dove il Santo viandante non torno mai già che in quei stessi suoi scritti spiega che per aumentare le difficoltà, i sacrifici e la gioia della sua penitenza smarrì volontariamente la strada di ritorno tante volte, tante, finché alla fine perse la cognizione del luogo in cui si trovava e capì perciò che non era più necessario tornare.


La Preghiera Io che per la mia intiera vita fui nella mia mente e nelle mie evenienze smarrito senza riuscire a capire chi ero e anche convinto di essere un altro diverso da me stesso e per tale motivo tante volte, tante per non dire sempre, presi decisioni che ad altri forse avrebbero portato a conseguenze felici e al compimento delle loro aspirazioni e desideri, e invece a me non portarono ad altro che a farmi sbattere contro la viva realtà come un burattino governato con maldestra o nessuna perizia e i cui fili, ciò mi fece pensare, si fossero rotti o imbrogliati o non fossero addirittura mai esistiti, tanto da farmi credere che la provvidenza o il destino e la vita stessa non fossero altro che una sorta di sbilenco marchingegno a corda e che essa si fosse o inceppata o addirittura stesse miserevolmente a punto di esaurirsi… Che come consolazione e al contempo castigo delle mie azzardie sia io ineluttabilmente per sempre fedele ai miei errori, che perseverando in essi li ripeta in variazioni e forme diverse tante e tali che non mi conducano ad altro senonché a irrobustire il disegno di creatura che è nella sua natura la perseveranza nel vacillare, l’inciampare e l’accanirsi nel abbaglio dei propri inganni. E che mai possa io, in nessun momento, per nessun motivo, o con ausilio di nessuno, tornare indietro sui miei passi, neanche se fosse il più piccolo, futile e insignificante di tutti i miei già compiuti e stolti passi.


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