“IL LATO NERO”
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Massimo Centini
ARTISTI CRIMINALI CRIMINALI ARTISTI I CASI PIÙ ECLATANTI DI FOLLIA OMICIDA E TALENTO CREATIVO
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Copertina: Francesco Partesano In copertina: artwork raffigurante il clown Pogo e un particolare del volto di John Wayne Gacy. Il disegno del clown è di The Orchid Club. Crediti fotografici: per quanto consta all’Autore e all’Editore, le foto pubblicate in questo volume sono di pubblico dominio. Nel caso in cui taluna di esse fosse tutelata da copyright, l’Editore si scusa della relativa, mancata menzione ,dichiarandosi sin d’ora disposto a revisioni in sede di eventuali ristampe e al riconoscimento dei relativi diritti ai sensi dell’art. 70 della legge n. 633 del 1941 e successive modifiche. Stampa: Printonweb – Isola del Liri (FR) 2018 © Gremese International s.r.l.s. – Roma
Tutti i diritti riservati. Nessuna copia di questo libro può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualunque modo e con qualunque mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-6442-319-7
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ÂŤPossiede una bellezza che le viene dal Male, sempre spoglia di spiritualitĂ .Âť Charles Baudelaire Le donne e le mondane
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Sommario Introduzione: Eros e Thanatos ............................................ 9 Paolo Veronese davanti al Tribunale dell’Inquisizione ...... 15 L’omicidio del musicista personale di Maria Stuarda ....... 21 Mi trovavo infiammato, messi mano a un picol coltello che io avevo... ............................................................. 27 Madrigalista e uxoricida ................................................... 33 Caravaggio, maledetto e assassino .................................. 38 Artemisia: vittima della violenza maschilista..................... 44 L’assassinio come una delle belle arti ............................... 51 Questioni tra poeti maledetti ........................................... 57 Parricida e pittore di fate .................................................. 65 Vincent van Gogh: suicidio oppure omicidio? ................. 69 L’“omicidio giustificato” di Eadweard Muybridge ........... 74 Jack lo Squartatore un pittore? ........................................ 77 Gli omicidi dell’anonimo poeta ........................................ 85 Vincenzo Peruggia, ladro idealista ................................... 93 Gli acquerelli del futuro dittatore ................................... 104 Arte, giardinaggio e nazismo ......................................... 114 Il sognatore di Heinrich Maria Davringhausen ............... 121 Il Lustmörd ai tempi di George Grosz e Otto Dix .......... 129 Fritz Lang, Il mostro di Düsseldorf e il serial killer .......... 137 Sangue sulla Beat Generation ........................................ 143 Quando il serial killer è un artista ................................... 150 Scheda: Il crimine seriale ........................................... 160 Charles Manson: hippy, musicista e pittore .................... 170 I clown di John Wayne Gacy .......................................... 176 I demoni di Richard Ramírez ........................................... 180 Dal blocco degli schizzi di Pietro Pacciani ...................... 185 Bibliografia ..................................................................... 193 7
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Introduzione
EROS E THANATOS «Il male è in generale vuoto e senza contenuto, perché da esso non viene nient’altro che lo stesso negativo, distruzione e infelicità, mentre l’autentica arte deve offrirci in sé l’aspetto di un’armonia»… Basterebbero queste poche parole di G.W. Friedrich Hegel (1770-1831) per mettere in crisi il progetto che anima questo libro. In realtà, il punto di vista che verrà seguito consentirà di guardare al rapporto arte-crimine in un’ottica svincolata dalle problematiche specifiche dell’estetica, per privilegiare invece osservazioni antropologiche, psicologiche e naturalmente criminologiche. Nella sostanza, seppure l’arte costituirà il perno intorno al quale ruoteranno le vicende, le biografie e gli approfondimenti di questo volume, essa, però, non sarà la protagonista delle storie riportate all’interno dei singoli capitoli. L’intera narrazione seguirà, piuttosto, due direttrici principali: da un lato, i criminali che in qualche modo hanno avuto dei legami con l’arte (il più delle volte cimentandosi in una qualche produzione creativa), dall’altro gli artisti coinvolti, loro malgrado, nel crimine. Ogni singola storia s’inserisce all’interno di una biografia spesso complessa e sfaccettata, caratterizzata, a volte, da punti oscuri o addirittura deformata dalle fantasie dei cronisti, dei biografi, degli storici e non di rado degli stessi diretti interessati. La scelta dei personaggi è, come ogni scelta, soggetta a limiti e passibile di critiche. Si è cercato comunque di soffermarsi 9
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sui casi più emblematici, non solo in sé e per sé considerati, ma anche in relazione alla loro epoca storica: nell’insieme, essi ricoprono un arco di tempo che va dal Cinquecento ai casi più eclatanti del Novecento. Casi che ci permettono di constatare quanto l’arte possa essere anche un utile strumento di analisi criminologica: essa, infatti, oltre a offrire un’ampia serie di suggerimenti analitici sulla relazione che intercorre tra creatività e attività criminale, costituisce anche una testimonianza rilevante sull’influenza del crimine nelle poetiche dei vari periodi storici, e in tal senso consente interessanti approfondimenti socioculturali. Come avremo modo di vedere, già Cesare Lombroso, nei suoi studi sul rapporto tra genio e follia, aveva indicato la correlazione tra la personalità dell’artista e quella del “folle”, inteso in senso molto più ampio di quanto si intenda comunemente. In sintesi, e con una certa approssimazione, possiamo isolare alcune tipologie del binomio arte-crimine: • l’artista è anche criminale, e raffigura nell’opera i suoi crimini; • le opere non rivelano, quantomeno in apparenza, alcun legame con i crimini. In realtà, a un’analisi più approfondita, spesso le stesse fanno intuire, in modo latente, i disturbi riguardanti la personalità, le parafilie e altri problemi dell’autore; • il criminale diventa artista durante la detenzione; • gli artisti vittime di crimini (anche se rimossi) in alcuni casi trasferiscono inconsciamente quanto hanno subito all’interno delle loro opere creative; • alcune forme d’arte che riproducono eventi particolarmente violenti (massacri, sacrifici, omicidi, ecc.) possono dare origine a impulsi omicidi; è il caso, per esempio, di alcuni serial killer; • in alcuni periodi storici, l’attività criminale (in particolare i crimini più efferati) possono influenzare le tematiche degli artisti coevi. Naturalmente, il peso esercitato dal disagio psichico costituisce un importante elemento del processo creativo. Gli studi 10
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effettuati in merito a questo argomento sono molteplici: si parte da quelli innovativi di Sigmund Freud (1856-1939) per arrivare alle ricerche dell’artista Jean Dubuffet (1901-1985), che con l’Art Brut ha portato alla luce tutto un sostrato creativo che, per troppo tempo, era stato aspramente criticato sul piano estetico. Tale percorso consente di guardare con un’ottica diversa, certamente multifocale, a quella che in passato era considerata l’“arte dei folli” e l’“arte psicopatologica” – definizioni figlie del positivismo che si è adagiato sulle scienze umane, sulla medicina e, in particolare, sulla psichiatria. Senza dubbio le avanguardie artistiche hanno svolto un ruolo importante nel mettere in luce gli aspetti estetici – e non solo più psicopatologici, sociali e criminali – di quelle forme di creatività definibili borderline. Importante, in questo senso, fu la prima mostra del movimento artistico del Blaue Reiter (“Cavaliere azzurro”) tenutasi nel 1912 alla Galleria Thannhauser di Monaco, dove si poneva l’accento sulla forte vena creativa insita nelle realizzazioni dei malati mentali, nei disegni infantili e nell’arte delle popolazioni all’epoca ancora definite primitive e selvagge. Da allora, anche la scienza iniziò a guardare diversamente alla produzione delle categorie marginali. Nel 1922 lo psichiatra tedesco Hans Prinzhorn (1886-1933) pubblicò un testo emblematico, L’attività plastica dei malati di mente, che metteva fine, di fatto, alle teorie positiviste. A trarre vantaggio da questa nuova concezione dell’arte sarà la cosiddetta arte naïf, con Antonio Ligabue (1899-1965) in testa, che riuscirà a liberarsi dei ceppi di convenzioni estetiche ormai logore e anacronistiche. Nel 1945 sarà il già citato Jean Dubuffet che, coniando la definizione di Art Brut (“Arte grezza”), aprirà la strada verso un mondo capace di proporre prospettive molteplici, in cui trovano spazio culture, personalità, situazioni, patologie e problematiche epistemologiche di grande interesse per i vari ambiti delle scienze sociali. Come già spiegato in precedenza, la relazione tra arte e pazzia ha coinvolto per un lungo periodo anche la sfera del crimine, in ragione soprattutto delle presupposte connessioni 11
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tra malattia mentale e propensione al crimine. Con il passare degli anni questi legami si sono man mano allentati fino a farsi sottilissimi. Oggi il discorso è cambiato, anche se l’inquietante triangolazione tra arte, follia e crimine riaffiora di tanto in tanto, magari trovando il proprio humus più fertile nei luoghi comuni. Per la psicoanalisi, l’attività artistica è segno di un disagio interiore (proprio come il ricorso alla magia e al pensiero magico, secondo la critica razionalista): «Possiamo affermare che le persone felici non fantasticano mai; lo fanno solo gli insoddisfatti. Le forze motrici delle fantasie sono desideri insoddisfatti, e ogni singola fantasia è la realizzazione di un desiderio, una correzione della realtà insoddisfacente». Così Sigmund Freud stigmatizzava, nel suo saggio Il poeta e la fantasia (1908), le istanze poste alla base della ricerca creativa: un’insoddisfazione determinata incosciamente a ricercare appagamento laddove anche l’apparenza e le certezze inalienabili possano essere messe in discussione e se necessario ricostruite. Probabilmente, come sosteneva Marcel Proust (1871-1922) ne Il tempo ritrovato, «senza malattia nervosa non si è grandi artisti»... Ed è forse a causa di questo status che «soltanto grazie all’arte possiamo uscire da noi stessi, sapere ciò che un altro vede di questo universo, che non coincide con il nostro, e i cui paesaggi sarebbero rimasti per noi sconosciuti quanto quelli che potrebbero esserci sulla luna». La questione fu ulteriormente analizzata da Carl Gustav Jung (1875-1961) nel saggio Psicologia e poesia (1930), in cui dichiarava che: «All’interno dell’opera d’arte la visione rappresenta un’esperienza più profonda e più forte della passione umana [...] Nel sentimento viviamo ciò che è noto; ma l’intuizione ci conduce verso l’ignoto e il nascosto verso cose per natura occulte; che, se anche sono state conosciute, sono state poi intenzionalmente mascherate e rese misteriose, e perciò fin dai tempi più antichi considerate enigmatiche, conturbanti e ingannevoli». In seguito, Jung giungeva a una conclusione importante, che ancora oggi possiamo fare nostra: «Il mistero della creatività, come quello del libero arbitrio, è un problema trascendentale che la psicologia non può risolvere, ma soltanto 12
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descrivere. Anche la personalità creatrice è un enigma la cui soluzione si cercherà in molti modi, ma sempre invano». Forse, se ci rifacciamo a Georges Braque (1882-1963), è quasi certo che «l’arte è fatta per turbare, la scienza per rassicurare»… E l’arte, da sempre ma in particolare tra XIX e XX secolo, ha saputo turbarci con tutta una serie di trasfigurazioni in cui a dominare sono il sangue, la sofferenza, la morte, la distruzione… Facendo un salto indietro nel tempo, troviamo temi simili all’interno delle raffigurazioni artistiche del XIV-XVI secolo, in cui dominavano le rappresentazioni della fine del mondo e delle epidemie di peste, senza dimenticare il proto-surrealismo di Hieronymus Bosch o quella straordinaria estrinsecazione del senso della fine e della distruzione che è Il trionfo della morte (1562) di Pieter Bruegel il Vecchio. Giudizi universali da un lato, memento mori o danza macabra dall’altro, l’arte del passato è trafitta come da una lancia che ferisce senza consentire la rimarginazione, il senso del poetico è frammisto di visioni e di corpi spesso massacrati in scenografie apocalittiche, in cui la violenza e la morte passano da un piano antropologico a uno cosmico. L’ansia che attanaglia l’uomo, e soprattutto la consapevolezza della sua fragilità, si manifestano con il linguaggio dell’arte, impregnano il nostro quotidiano e trovano terreno fertile nell’inconscio da cui gli artisti traggono spesso la vivida linfa della loro – a tratti visionaria – esperienza creativa. Sono “I disastri della guerra” (1810-’11) di Francisco Goya a mostrare, attraverso la rappresentazione pittorica, i risvolti psicologici più profondi della sofferenza e della morte, ma anche del crimine perpetrato e agevolato dall’assenza di giustizia. Fino a giungere all’errata convinzione che il male agisca autonomamente nel quotidiano umano e che sia in grado di articolarsi con il potere di oscure forze soprannaturali, come si evince dalla serie delle “Pitture nere” dipinte dal pittore spagnolo tra il 1819 e il 1823. Il senso di impotenza davanti all’egemonia del male ha la sua icona ne L’urlo (1893) di Edvar Munch: manifesto di un’an13
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goscia apparentemente individuale, ma che di fatto è collettiva. Il senso della morte, del crimine contro il singolo o contro l’umanità, della catastrofe forse prossima, evidenziata dalla certezza heideggeriana che “il terribile è già accaduto”, traspare in maniera decisiva nell’arte del Novecento: affiora dagli artisti che furono testimoni della spaventosa impennata criminale verificatasi durante la Repubblica di Weimar, in Guernica (1937) di Pablo Picasso, e poi ancora più avanti, in Tre studi per una crocifissione (1962) di Francis Bacon, nel celebre, preziosissimo teschio di Damien Hirst, For the Love of God (2007), e in quelli di Marlene Dumas della serie “Skulls” (2013). La simbiosi tra violenza, peccato e crimine, divenuto quasi necessario mezzo di sopravvivenza nella dimensione apocalittica post-umana, è mostrata in Fucking Hell (2008) dei fratelli Jake e Dinos Chapman: un mondo zombificato, in cui trovano spazio tutte le paure insanabili che travolgono la nostra condizione e che ci condannano all’ansia. L’arte non è solo specchio di questa situazione angosciante in cui ci dibattiamo, ma territorio fertile per la nascita di qualunque trascrizione e reinterpretazione della realtà, accondiscendente amante pronta a prestarsi a qualunque stravolgimento, a qualunque visione dell’artista. Stravolgimenti e visioni indotte, come abbiamo accennato, da condizioni e fasi correlabili alla personalità individuale, a volte alla malattia dell’artista, ma anche alla dimensione storico-sociale del periodo. La creatività nasconde violenza? Forse. Ma se da un lato la nasconde, dall’altro la lascia sfuggire tra le larghe maglie dell’inconscio: può succedere che essa non trovi ostacoli inibitori e si estrinsechi in tutta la sua natura criminale, come negli infantili ma terribili disegni di Pietro Pacciani; oppure può proporre visioni diverse e cristallizzarsi nei tagli di Franco Fontana, o negli universi allucinati di Lorenzo Alessandri. Il nostro obiettivo è quello di illuminare alcuni dei tratti più interessanti dell’inesauribile binomio “arte e “crimine”. È un percorso affascinante e complesso. Talora anche disturbante, come sempre accade quando ci si muova alla scoperta di impulsi e bisogni che sfuggono al controllo della ragione. 14
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Paolo Veronese davanti al Tribunale dell'Inquisizione
Paolo Caliari detto il Veronese (1528-1588) è un pittore che ha lasciato un’impronta rilevante nella storia dell’arte rinascimentale: come dimostra il suo linguaggio poetico sorretto da un notevole livello tecnico. Nativo di Verona, trascorse il periodo più fecondo della sua vita artistica a Venezia, dove è ancora possibile visitare la sua abitazione nella zona di San Samuele. Le notizie biografiche non sono molte, ma ci permettono comunque di avere un’idea abbastanza chiara della sua esperienza artistica ed esistenziale, quest’ultima basata su un modus vivendi scandito dal lavoro e dalle normali occupazioni di un buon padre di famiglia. Molte le committenze ricevute per una rilevante serie di pitture che, per la maggior parte, trattavano tematiche mitologiche e racconti presi dall’Antico e Nuovo Testamento. Stranamente, Giorgio Vasari (1511-1574), nella sua nota opera Vita de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti italiani (1550-’68), non ha dedicato neanche un capitolo al Veronese, ma si è limitato a farne qualche accenno all’interno di quello dedicato al pittore veneziano Battista Franco. Nel catalogo del Veronese occupano un posto importante le “Cene”, tra le quali vi è quella che suscitò l’interesse dei giudici del Tribunale dell’Inquisizione e che analizzeremo a breve. Le “Cene” del Veronese sono caratterizzate da un impianto che privilegia la rappresentazione scenografica, con ridondanze destinate a rendere particolarmente vive e reali le ricostruzioni che si ispirano alla tradizione evangelica e cristiana. 15
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Quattro sono dedicate alla Cena a casa di Simone il Fariseo (1556-1572), una alle Nozze di Cana (1562-’63), una alla Cena di San Gregorio Magno (1572) e l’ultima alla Cena in casa Levi (1573), originariamente chiamata “L’ultima cena”: titolo che fu all’origine della comparizione di Paolo Veronese al cospetto degli inquisitori. Il tribunale più temuto di tutti i tempi fu attivo nella città lagunare a partire dalla seconda metà del XIII secolo e affidato alla guida dei francescani. Fino all’inizio del XVI secolo, la sua azione non si rivelò particolarmente cruenta, con un’impostazione caratterizzata da una maggiore tolleranza rispetto alle prerogative dell’Inquisizione medievale. Le sue caratteristiche però cambiarono in concomitanza con la riorganizzazione dell’Inquisizione romana e con l’istituzione del Sant’Uffizio a seguito delle problematiche innescate dalla Riforma protestante. Ne conseguì una ripartizione del potere dell’Inquisizione da un lato tra il nunzio e l’inquisitore capo (di fatto referenti del papa), dall’altro tra il patriarca e i cosiddetti “Savi sopra l’eresia” (una sorta di magistratura il cui ruolo era quello di perseguire, appunto, l’eresia). Davanti a quel tribunale, il 18 luglio 1537, comparve Paolo Veronese. La sua convocazione, presumibilmente al cospetto dell’inquisitore capo Aurelio Schilino da Brescia, fu dovuta alla tela L’ultima cena: un olio di notevoli dimensioni (5,55 x 12,80 m), attualmente conservato nella Galleria dell’Accademia di Venezia, commissionato all’artista dai domenicani della basilica dei Santi Giovanni e Paolo della città lagunare. I giudici ritenevano che l’eccessiva presenza di personaggi secondari, poco adatti al soggetto dell’opera, contribuisse a sminuirne le valenze teologiche e devozionali, che invece avrebbero dovuto essere dominanti nell’illustrazione di un evento come l’Ultima Cena. Contestata, per esempio, la presenza di soldati lanzichenecchi, giullari e invitati al convivio con atteggiamenti più adatti a una festa; fu oggetto di accese critiche anche la raffigurazione di un servitore colpito da emorragia al naso. Dieci anni prima, il Concilio di Trento aveva precisato quale ruolo dovessero avere le immagini sacre e quale uso farne, ri16
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Paolo Veronese davanti al Tribunale dell’Inquisizione
spondendo in questo modo alle accuse di idolatria mosse dai protestanti; era evidente, dunque, che l’occhio critico dei giudici inquisitori si fosse ulteriormente affinato, mosso anche dalla volontà di non offrire il fianco alle accuse eterodosse. L’arte sacra aveva il compito e il dovere di allinearsi perfettamente agli indirizzi canonici, e gli inquisitori dovevano vigilare su di essa al fine di garantire la conservazione dell’ortodossia. Dal verbale del processo a Paolo Caliari – pervenutoci integralmente – abbiamo modo di ripercorrere le fasi di un dibattito, oggi ovviamente anacronistico, che mette in evidenza la grande attenzione mostrata dalla Chiesa per il linguaggio artistico, e che ci offre anche interessanti spunti storici e psicologici. Certamente meno grave di altri processi celebrati dal temuto Tribunale, quello contro il Veronese se da un lato rivela la volontà inquisitoria di imprigionare l’arte all’interno del dogmatismo religioso, dall’altro dimostra – attraverso le risposte fornite ai giudici dall’inquisito – la necessità dell’artista di mantenere la propria libertà creativa, quella stessa libertà che il Veronese definiva “licenza”, prerogativa “dei pittori, dei poeti e dei matti”. Si consideri che l’artista, oltre a essere un pittore tra i più importanti della città, era noto per essere particolarmente attento all’ortodossia, e aveva sempre cercato di non alterare i principi cristiani adeguandosi alle direttive sull’arte religiosa del suo tempo. Pertanto, quella convocazione presso la chiesa di San Teodoro – sede del Tribunale dell’Inquisizione – risultava enigmatica e certamente anche piuttosto inquietante… Osserviamo adesso il contenuto del verbale per cercare di capire in quale misura il Veronese rischiò di essere riconosciuto, se non eretico, quantomeno colpevole di grave blasfemia. Al cospetto dell’inquisitore, il pittore indicò la sua professione: «Io dipingo et fazzo delle figure». Inoltre, rispondendo al giudice, affermò di non conoscere le motivazioni della convocazione. Quando gli si chiese se, però, potesse immaginarle, rispose così: «Per quello, che mi fu detto dalli Reverendi Padri, cioè il Prior de San Zuan Polo, del qual non so il nome, il qual mi disse, che l’era stato quì, et che Vo17
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stre Signorie Ill.me gli aveva dato commission ch’ei dovesse far far la Maddalena in luogo del un Can, et mi ghe risposi, che volentiera averia fatto quello et altro per onor mio e del quadro; ma che non sentiva che tal figura della Maddalena podesse parer che la stesse bene per molte ragioni, le quali dirò sempre che mi sia dato occasion che le possa dir». Dunque, al consiglio di sostituire il cane con la Maddalena, datogli dal priore del convento di San Giovanni, il Veronese aveva replicato di essere poco propenso per motivi compositivi, esclusivamente tecnici. A quel punto il giudice domandò lumi sull’opera che il pittore descrisse rispondendo puntualmente, ma ammettendo: «Ghe sono molte figure, le quali per esser molto che ho messo suo il quadro, non me le ricordo». Poi, sempre in risposta al suo interlocutore, confermò di avere eseguito altre “Cene” che, come abbiamo visto, rappresentano le opere più importanti della sua produzione. Il giudice quindi si soffermò su alcuni soggetti della pittura: «Ei dictum: In questa Cena, che avete fatto in S. Giovanni Paolo che significa la pittura di colui che li esce il sangue dal naso?». La risposta giunse spontanea: «L’ho fatto per un servo, che per qualche accidente, li possa esser venuto il sangue dal naso». Quando gli si chiese quale fosse il ruolo di «quelli armati alla Todesca vestiti [cioè “alla tedesca”, N.d.A.] con una lambarda per uno in mano?», l’artista disse di aver bisogno di un po’ di tempo per fornire una risposta esaustiva: «El fa bisogno che dica qui vinti parole!». Ottenuta l’autorizzazione dichiarò: «Noi pittori ci pigliamo la licenza che si pigliano i poeti e i matti, e ho fatto quelli dui Alabardieri uno che beve, et l’altro che magna appresso una scala morta, i quali son messi là, che possino far qualche officio parendomi conveniente che ‘l patron della casa che era grande e richo, secondo che mi è stato detto, dovesse aver tal servitori». Poi l’inquisitore volle conoscere il significato di «quel vestito da buffon con il pappagallo in pugno, a che effetto l’avete depento in quel telaro?». Ancora una volta la risposta fu semplice e immediata: «Per ornamento, come si fa». 18
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Paolo Veronese davanti al Tribunale dell’Inquisizione
Lo sguardo indagatore del giudice si concentrò sulla tavola e specificatamente sull’identità dei commensali; Veronese li indicò nei dodici apostoli. Per l’inquisitore l’atteggiamento di alcuni di quei personaggi non sembrava però consono al tema della pittura; in effetti, anche dalla descrizione dell’artista traspare che l’aura mistica di alcuni soggetti era piuttosto limitata. Pietro «el guarda l’agnello per darlo all’altro Capo della tola». Un altro «che ha un piron [“forchetta”, N.d.A], che si cura i denti». Inoltre, per il giudice, nella tela vi erano troppe persone e lo sfarzo globale risultava sproporzionato; ma per l’artista, le figure avevano un ruolo prevalentemente pratico prima che simbolico: «Se nel quadro li avanza spazio io l’adorno di figure, secondo le invenzioni». Per l’inquisitore mancavano le dramatis personae che avrebbero dovuto essere protagoniste della ricostruzione della scena evangelica e che invece risultavano quasi soffocate dalla grande quantità di personaggi privi di aderenze al testo sacro. Inoltre, anche la scenografia, con le quinte architettoniche che rimandavano alle realizzazioni palladiane, non aveva nulla a che vedere con l’ambiente raccolto che avrebbe dovuto sottolineare i sentimenti devozionali che animavano l’Ultima Cena. L’interrogante avanzò l’ipotesi che alcuni dei soggetti inseriti fossero stati richiesti dalla committenza: «Se da alcuna persona vi è stato commesso che Voi dipingeste in quel quadro Todeschi et buffoni et simili cose». In realtà il pittore dichiarò di avere dipinto rispondendo esclusivamente alla propria vena creativa. Per il giudice però non era ammissibile che «alla Cena ultima del Signore si convenga dipingere buffoni, imbriachi, Todeschi, nani et simili scurrilità». Veronese convenne che il giudice aveva ragione, in fondo non aveva altra possibilità. L’inquisitore mise in evidenza che certe aperture eccessivamente laiche, inserite in una pittura a tema religioso, potessero facilmente scivolare nell’eresia: «Non sapete voi, che in Alemagna et altri luoghi infetti di eresia sogliono con le pitture diverse et piene di scurrilità et simili invenzioni dileggiare, vituperar et far scherno delle cose della 19
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Santissima Chiesa Cattolica per insegnare mala dottrina alle genti idiote et ignoranti». Il dibattimento si concluse con una parziale ammissione di colpa da parte del Veronese, anche se l’artista, di fatto, difese fino alla fine le ragioni della pittura: «Signor Illustrissimo che non lo voglio defender; ma pensava di far bene. Et che non ho considerato tante cose, pensando di non far disordine nisuno, tanto più che quelle figure di Buffoni sono di fuora del luogo dove è il nostro Signore». La sentenza fu meno gravosa del previsto: la correzione degli errori al fine di emendare ogni possibile apertura in direzione anticattolica. Di certo la libertà dell’artista ne risentì, riportata nell’alveo controriformista, così come pure i buffoni, i pappagalli, gli ubriachi, i nani e i “todeschi”, che tanto disturbavano i difensori dell’ortodossia. La trasformazione si manifestò in modo inatteso: sulla balaustra dipinta in primo piano e dominante la struttura architettonica che inquadra la scena principale troneggia il cartiglio con il nuovo titolo della grande pittura Cena in casa Levi. Si tratta del convito in casa del pubblicano destinato a diventare l’apostolo Matteo. Con l’ausilio della magia delle parole, Veronese, almeno parzialmente, riuscì a conciliare le imposizioni del Tribunale dell’Inquisizione con la libertà creativa dell’artista. Soprattutto riuscì a salvare un’opera immortale, sottraendola al vortice demonizzante di chi la voleva rinchiudere tra gli “errori” dell’eresia. In chiusura, a titolo di curiosità, ricordiamo che, soprattutto in campo letterario, furono migliaia gli scrittori inseriti nell’Index librorum prohibitorum a partire dall’anno della sua nascita (1559): da Giordano Bruno a Galilei, da Montaigne a Montesquieu, da Cartesio a Defoe, da Stendhal a Hugo. Tra gli autori recidivi, un posto d’onore spetta a Gabriele d’Annunzio: dal 1911, quando fu rappresentato il suo Il martirio di San Sebastiano fino a Solus ad solam, fu processato quattro volte. I rischi per gli scrittori di “essere messi all’indice” si dissiparono completamente nel 1966, quando Paolo VI riformò profondamente la Congregazione del Santo Uffizio cambiandone il nome in Congregazione per la dottrina della fede. 20
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