Dialoghi
ELIO PANDOLFI
CHE SPETTACOLO!
ELIO PANDOLFI CHE SPETTACOLO! A cura di
Caterina Taricano Introduzione di
Steve Della Casa
Ringraziamenti Un ringraziamento speciale al nostro compagno d’avventura Claudio De Pasqualis, al gentilissimo Natalino Orioles e a coloro che ci hanno aiutato a realizzare questo libro: Steve Della Casa, Viviana Fulli, Enrico Giacovelli, Roberto Guarino, Alessandro Greggia, Matteo Pollone
Copertina: Francesco Partesano In copertina: Elio Pandolfi tra Anna Mazzamauro e Dane Christal nello spettacolo Che cuccagna (1973). Stampa: Printonweb – Isola del Liri (FR) 2018 © Gremese International s.r.l.s. – Roma Tutti i dirittti riservati. Nessuna copia di questo libro può essere riprodotta, registrata e trasmessa in alcun modo e con qualsiasi mezzo senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-6692-045-8
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INDICE Introduzione (di Steve Della Casa) ... 7 Prologo ... 15 Primo ciak: Io, attore ... 15 Secondo ciak: Il grande appello ... 20 1. Le voci di Fellini, l’ira di Anita Ekberg ... 31 2. Roma dei ricordi ... 35 3. Nato a suon di musica ... 47 4. La scoperta del mondo dello spettacolo ... 55 5. All’ombra della lupa ... 69 6. Anna Magnani, Totò, Aldo Fabrizi e la mia anima d’avanspettacolo ... 73 7. L’Accademia Silvio D’Amico: Bice Valori, Nino Manfredi, Rossella Falk e altri amici ... 81 5
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8. Io, Marcello e gli altri ... 95 9. La Bisarca: si spalancano le porte della radio e della televisione ... 103 10. L’impresario... di Luchino Visconti ... 113 11. Volevo fare il cinema ... 119 12. Mille voci: il mio doppiaggio ... 129 13. “Scanzonatissimi” con Antonella Steni ... 137 14. Alleluja! Brava gente! Ecco a a voi Gigi Proietti ... 145 15. L’opera: un amore ritrovato ... 151
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INTRODUZIONE di Steve Della Casa
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uando parliamo con Elio Pandolfi e di Elio Pandolfi stiamo parlando della storia dello spettacolo in Italia. Può sembrare un gioco di parole, ma è solo la constatazione della realtà. Con Elio Pandolfi si parla di teatro, di opera, di operetta, di cinema, di televisione, di doppiaggio: tutte queste discipline (e molte altre) sono state da lui vissute, praticate, frequentate. Ma c’è un altro aspetto molto importante e inscindibile dal precedente: Elio Pandolfi ama lo spettacolo e nella sua lunga vita non ha mai smesso di frequentare chi come lui praticava quel mestiere che 7
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è un tutt’uno con la passione. Quando Pandolfi racconta è un fiume in piena. Attraverso i suoi ricordi, sempre lucidissimi, si ripercorre la storia dello spettacolo in Italia dagli anni Trenta (ha iniziato davvero giovanissimo) fino ai nostri giorni. Pandolfi ha conosciuto tutti, ha lavorato con tutti, ha vissuto in prima persona momenti storici indimenticabili, ma anche piccole grandi vicende relative alla sua sfera privata. Nel racconto che lui propone, ogni piccola avventura personale si inserisce nella macro storia dell’Italia, pubblico e privato s’intrecciano, i grandi mutamenti del mondo dello spettacolo sono raccontati attraverso la comunità di amici con i quali ha condiviso gran parte del suo percorso. Ad esempio: la guerra e il conseguente embargo per i tanto amati film americani fanno capolino all’interno del racconto di una proiezione privata organizzata per gli alti gerarchi alla quale Pandolfi assistette casualmente; l’avvento della televisione, che tanti cambiamenti procurerà al costume nazionale, sottende il primo lavoro ben pagato dello stesso Pandolfi; il definitivo affermarsi di una nuova generazione di attori (Mastroianni, Manfredi, Valori, Panelli, Pampanini ...) circola attraverso divertentissimi ricordi di scherzi, vacanze, gite. E non finisce qui: la genialità di un regista come Luchino Visconti emerge non solo nei grandi capolavori da lui diretti, ma anche dai dialoghi che ha con il giovane Pandolfi che gli propone filmini amatoriali realizzati con intelligenza, garbo, gusto; il talento creativo di Fellini riluce anche nel lungo e complesso rapporto che ha con Elio stesso e che culmina con l’indispensabile apporto al doppiaggio dei suoi film più 8
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famosi; la censura e le tensioni politiche degli anni Sessanta appaiono in controluce nel racconto del suo più grande successo teatrale, ottenuto in coppia con Antonella Steni e legato a uno straordinario spettacolo di satira politica. Il racconto di Elio Pandolfi è un continuo alternarsi di vicende private e di grandi fatti storici, come si diceva. Ed è una vera e propria delizia per chiunque ami lo spettacolo in Italia, perché non vi è aspetto o disciplina che siano stati trascurati. Si racconta un modo di fare spettacolo che è abbastanza diverso da quello attuale. Oggi si mira molto alla specializzazione, all’approfondimento quasi estenuato da parte dell’artista della singola disciplina. Il crossover, e cioè l’artista che si cimenta anche in campi che non sono quelli che lo hanno reso famoso, non avviene per valorizzazione di altri talenti ma piuttosto per ottimizzazione della sua fama. Cantanti che diventano attori e registi che scrivono un romanzo esistono, senza dubbio, ma la norma è che tale sconfinamento di campo avvenga per valorizzare la fama già acquisita piuttosto che per un tentativo di ampliare i propri orizzonti artistici. Il racconto di Pandolfi ci riporta invece a un’epoca nella quale era normale che gli allievi più promettenti dell’Accademia d’Arte Drammatica si cimentassero nel canto, nel varietà, nelle rappresentazioni leggere. Il già citato Luchino Visconti, che peraltro organizzava nella sua villa lungo via Salaria anche gruppi d’ascolto per sentire il festival di Sanremo, non aveva nessuna remora a firmare la direzione artistica del primo spettacolo di varietà che vede nel cast Pandolfi e l’intramontabile Wanda Osiris come star assoluta. 9
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E lo stesso Pandolfi non deve aspettare l’Accademia per confrontarsi con il teatro, perché fin da giovanissimo ha saputo organizzare spettacoli di arte varia che proponeva a un pubblico sempre più vasto, ottenendo consensi che gli furono utili per superare l’opposizione del padre, che alla carriera artistica preferiva una ben più sicura specializzazione contabile. Il cinema occupa ovviamente gran parte del racconto di Elio Pandolfi, come è normale per l’esponente di una generazione che nella settima arte aveva trovato la forma di spettacolo ideale, lo specchio di quel Novecento che ha trovato nel grande schermo la forma di racconto più consono alla complessità dell’epoca. Nel racconto, però, il cinema è allo stesso tempo il grande amore e la delusione più cocente. E qui il racconto, sempre corretto e misurato, di Pandolfi si tinge di una vena di malinconia, frutto di una grande ingiustizia subita. La poliedricità del personaggio è evidente, incontrovertibile, ricca di sfumature. Ma l’offerta da parte dell’industria del cinema non ha saputo minimamente valorizzare tali potenzialità, e c’è un evidente velo di tristezza quando Pandolfi certifica che gli venivano soprattutto offerti ruoli di effeminato, eunuco, omosessuale. Una scelta miope, oltre che meschina, da parte dell’industria. Perché basta vedere lo Sposino di altri tempi, il film da lui interpretato per Alessandro Blasetti, o lo straordinario alter ego comico di Gian Maria Volonté, da Pandolfi proposto nel favoloso Per qualche dollaro in meno, per capire che le sue doti recitative erano una notevole tavolozza della quale 10
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sono stati utilizzati pochissimi colori. Basta ascoltare le tonalità di voci che egli presta agli attori più diversi (durante la sua carriera ha doppiato tra gli altri Donald O’Connor nella parte cantata di Cantando sotto la pioggia, Charles Laughton e un giovanissimo Tomas Milian) per capire come sappia modulare non solo la voce, ma anche lo sforzo recitativo nelle direzioni più impensate. Senza contare quanto abbiamo già ricordato, e cioè la straordinaria performance che lo porta a riassumere in sé tutte le voci della scena della conferenza stampa nel capolavoro di Fellini La dolce vita. Dal cinema interpretato le soddisfazioni quindi non sono nemmeno paragonabili a quelle che provengono dal cinema visto. Come si diceva, Pandolfi appartiene a una generazione per la quale il cinema è stato tutto. Forse è per questo che oggi è un appassionato collezionista di pellicole italiane e americane, ma anche inglesi, francesi, tedesche. Per ogni film visto o rivisto ha aneddoti, curiosità, rilievi critici. E l’entusiasmo dei suoi racconti scivola verso la commozione quando ricorda che, ben prima di doppiarlo per l’edizione televisiva, aveva ammirato da bambino le avventure noir di Charlie Chan sul grande schermo. Pandolfi è un flusso continuo di ispirazione, di dare e di avere, ed è capace di trasformare i suoi ricordi cinematografici in uno sguardo unico nei riguardi di quella che Giuseppe Bertolucci ha definito giustamente “l’arte del secolo breve”. E le stesse corde vocali, che tanta soddisfazione hanno dato nel doppiaggio, ritornano protagoniste quando Pandolfi parla di musica. Anche qui i rac11
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conti iniziano presto, molto presto, e percorrono la totalità della sua vita. Si parte dall’eccitazione, nello scoprire che la Tosca è ambientata in luoghi che lui può visitare quotidianamente allontanandosi di pochi passi da casa sua, per giungere alla passione per l’operetta, che condivide con il suo grande amico Marco Scolastra. Un percorso che è fatto di citazioni, di approfondimenti e soprattutto di passione: una passione che Elio racconta risalire addirittura a prima della nascita, quando era ancora nel grembo della madre. Il racconto di Pandolfi è leggero, frizzante, divertente; la sua maniera di narrare è entusiasta, ricca di notazioni ironiche. Tra le pieghe del suo racconto troviamo come si è modificata Roma, la città che lo ha visto nascere e che ha sempre amato, anche durante il periodo buio del Ventennio, quando la retorica del fascismo l’aveva profondamente trasformata. Troviamo un mondo nel quale i maggiori artisti si frequentavano con grande piacere, troviamo il gusto di Marcello Mastroianni per i fagioli e la passione di Bice Valori per gli scherzi. Troviamo le vacanze a Castiglioncello e le gite a Ostia. Non troviamo i riti pubblici della “dolce vita”, cui Pandolfi preferiva la compagnia selezionata degli amici di sempre. E soprattutto non troviamo le tossine della politica, da sempre ritenuta da Pandolfi un corpo estraneo, che fa capolino nei suoi racconti solo in funzione dei suoi spettacoli, quando racconta di interventi censori o di spettatori che si offendono per parodie proposte peraltro sempre con grazia e misura. Incontriamo il teatro, la prosa radiofonica e quella 12
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televisiva. Immaginiamo i suoi ruoli nei varietà più lontani nel tempo, rivivendoli con lo spirito che abbiamo imparato ad apprezzare nelle sue conduzioni di Hollywood Party, lo zibaldone cult di Rai-Radio3, che ha fatto uscire il cinema dalle secche del racconto critico tradizionale, privilegiando invece la passione e la competenza che sanno tenere lontani i rigori rigidi dell’accademia. La fluidità del suo racconto e dei suoi ricordi, insomma, nasce dalla piacevole attitudine a vivere lo spettacolo come una grazia di Dio, non come un luogo di affermazione competitiva. Raccontando se stesso, Pandolfi racconta lo spettacolo italiano del Novecento, i suoi riti, le sue usanze. Non è una visione ostentatamente rosea e ottimista, qua e là emergono con chiarezza riserve, rimpianti, occasioni mancate. Ma di queste è fatta imprescindibilmente la vita di tutti noi. E per Pandolfi lo spettacolo è soprattutto vita. Una vita da vivere con passione, con trasporto: anch’essa, come diceva William Shakespeare nella Tempesta, è fatta della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni.
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PROLOGO
Primo ciak: Io, attore Io sono nato attore, credo di essere stato predestinato alla recitazione. Sono il terzo figlio di mia mamma e l’unico dei fratelli Pandolfi a possedere questa dote. Mi sentivo attore sin da quando ero bambino. E forse ero attore già prima di nascere. Non lo dico a caso. Mia madre conosceva una persona molto colta, un certo dottor Pasquali: padroneggiava diverse materie e soprattutto credeva nella reincarnazione. Nel mio ricordo, casa Pandolfi era spesso frequentata da gente che credeva nella reincarnazione, penso che questo argomento affascinasse molto mia madre. 15
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A ogni buon conto il signor Pasquali toccò la pancia di mia madre, che era incinta di me, e le disse: «Dentro di te hai un mimo». Sta di fatto che già quando ero piccolissimo, quando sapevo appena camminare, passavo il mio tempo cercando di imitare tutto e tutti, proprio come deve fare un mimo. Imitavo le persone ma anche, per dire, le tartarughe e lo facevo mettendomi in testa una giacca che fungeva da guscio, da carapace. Mi incuriosivano soprattutto i difetti delle persone; io le imitavo bonariamente e tutti ridevano, però la grande paura dei miei era che qualcuno si offendesse. In ogni caso, per me la vita è sempre stata un palcoscenico fin dalla più tenera età. Ovviamente non ero solo un mimo. Forse non sapevo neanche io quale fosse il mio vero talento, e forse non l’ho capito bene nemmeno adesso che ho compiuto novant’anni e che su di me e sulla mia carriera sono state scritte addirittura due tesi di laurea. Ogni tanto penso che a danneggiarmi sia stata proprio la mia poliedricità. So cantare molto bene e anche questo è un ricordo che fa capolino tra gli altri se ripenso ai vari momenti della mia infanzia. Mia madre cantava spesso, amava Puccini sopra ogni altra cosa, lo cantava anche quando lavava i panni ed era incinta di me. Probabilmente questo ha fatto sì che le melodie siano state una componente essenziale dei miei primi anni. C’era un signore amico di famiglia, un certo Giannelli, che mi portava ogni tanto con sé a teatro a vedere l’opera ma anche l’avanspettacolo. Io ero come una spugna, assorbivo tutto e poi mi appassionavo, facevo delle ricerche. 16
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Quale fu il mio stupore quando capii che il librettista di Puccini faceva morire Tosca mentre Sardou, che aveva scritto la storia, la lasciava vivere. Tosca non è stata la prima opera che ho visto (credo fosse invece il Rigoletto) ma è sicuramente quella che ho amato di più. Era ambientata a pochi passi dalla casa in cui ero nato e vivevo. Era come se mi appartenesse un po’, come se fosse una cosa anche mia. Non lo dico con ambizione, ma con amore, quell’amore per lo spettacolo che mi ha accompagnato per tutta la vita. Ma le mie doti non si limitano solo al canto. Ad esempio, avevo una certa attitudine al ballo tant’è vero che la danza sarà un elemento importante della mia carriera. Ricordo con precisione quando, già da piccolissimo, mi cimentavo nella mia stanza con La danza delle ore, il famoso ballabile della Gioconda di Ponchielli, mentre mia madre mi chiamava con voce sempre più esasperata perché era pronto da mangiare. Facevo anche degli spettacoli in playback, nel senso che mettevo un disco, muovevo la bocca e mi muovevo a passo di danza. Una passione irrefrenabile. Io all’epoca non sapevo ovviamente che cosa fosse il “fuoco sacro” che scorre nelle vene degli artisti. Ma oggi credo che quel fuoco ardesse dentro di me, fin dalla più tenera età. Un altro sintomo di questa passione fu una risposta che diedi da ragazzo a un insegnante che mi chiese di declamare una poesia che mi era stata assegnata come compito a casa. Con l’ingenuità ma anche la fermezza tipica dell’età, e con la forza di quella passione ancora non del tutto compresa, risposi deciso: 17
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«Io non la declamo, la recito». Lui rimase a bocca aperta, anche perché la recitai per davvero. Mandare a memoria le cose che mi interessavano era per me un fatto naturale. Forse anche questo è un talento che madre natura mi ha dato. E poi c’è stato l’incontro con il cinema, che vi racconterò dettagliatamente. Qui mi interessa dire che il cinema è stato un punto di svolta fondamentale per la mia vita. Per la verità, penso fosse una componente essenziale della vita di tutte le persone della mia generazione, di quella precedente e di quella successiva, nel senso che il cinema era all’epoca il passatempo preferito dagli italiani. Nel 1954 in Italia si vendettero quasi novecento milioni di ingressi nelle sale cinematografiche, e questo vuol dire che ogni italiano (compresi i neonati, i malati e i vecchi) entravano in una sala circa venti volte l’anno. Le cifre erano queste, e credo diano davvero la percezione di che cosa fosse quel fenomeno e quali dimensioni avesse. Ma al di là delle statistiche, il cinema mi affascinava tanto. Ho letto che Bertolucci chiama il cinema “l’arte delle arti” perché nel cinema convergono scrittura, recitazione, musica, fotografia… Ecco, penso che sia stato proprio questo il motivo di quella passione che è iniziata in tenera età e che mi accompagna ancora oggi, quando passo ore e ore a vedere e rivedere film che per me sono stati importanti, ma anche pellicole completamente sconosciute. Da piccolo per me il cinema era fatto di “quadri parlanti”, una definizione che ancora oggi mi piace molto e che forse era un po’ figlia dell’amore che mia 18
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madre nutriva per l’arte e che lei stessa mi trasmetteva. Come più tardi vi racconterò, le mie passioni variavano molto: adoravo la Garbo che Fellini definiva «una fata benigna», ma mi commuovevo anche per i film che vedevo in parrocchia, tipo Golgota o Don Bosco o Il piccolo alpino di Marco Elter. Mi divertivo con Deanna Durbin, ma credo che la mia vita non sia stata più la stessa quando, poco più che ragazzo, vidi I nibelunghi di Fritz Lang. Ogni tempo ha il suo modo di narrare e, per il mio tempo, la narrazione era soprattutto il cinema. Cinema, cinema, cinema. Ma il cinema tanto amato è forse quello che mi ha dato meno soddisfazione di tutti nella mia carriera. E qui torniamo al “problema” delle doti. Tutte quelle che oggi mi vengono riconosciute, come dicevo, sono state paradossalmente un freno alla mia carriera. Hanno creato, di fatto, una sorta di pregiudizio nei miei confronti. Molti dicevano che io ero soprattutto un imitatore, oppure un “cantattore”, e a causa di questo mi venivano offerti solo piccoli ruoli in film leggeri. In più, per quella sorta di maschilismo che da sempre circola nel nostro cinema (e non solo nel nostro cinema), spesso mi vedevo affidare ruoli da checca. Questa era la cosa che mi amareggiava di più. Io ho fatto, come vi racconterò, l’Accademia di Arte Drammatica e l’ho terminata con ottime votazioni e giudizi favorevoli. Se poi vogliamo scendere a un livello più terra-terra, vi posso anche confessare di aver intrecciato relazioni sentimentali con alcune attrici molto importanti. 19
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Per fare tombola, aggiungerò che tra i tanti amici che mi stimavano annovero due nomi che dovrebbero far “tremare le vene e i polsi”, quelli di Luchino Visconti e di Federico Fellini. Di questi vi racconterò, mentre delle signore tacerò perché sono un gentiluomo. Resta il fatto che ruoli drammatici, belli, importanti nella mia filmografia ne troverete pochi: ne ho avuti molti di più come doppiatore che come attore. Non rimprovero nessuno per questo, ma continuo ancora oggi a vivere questa situazione come una vera ingiustizia. Ma, come dicevo prima, forse anche quest’ultima è dovuta alla mia poliedricità, e al fatto che chi avrebbe dovuto valorizzare questa mia caratteristica non è stato in grado di farlo. Talenti e pregiudizi: un cocktail micidiale, e a farne le spese sono stato io.
Secondo ciak: Il grande appello Nella mia carriera ci sono tante storie, tante persone che ho conosciuto, tanti cimenti, tanti successi e tante delusioni. Ve li racconterò dettagliatamente più avanti. Qui, invece, mi piacerebbe proporvi il mio programma di sala. Il programma di sala, a teatro (soprattutto nella lirica) è una sorta di breve riassunto dell’argomento, una descrizione dei protagonisti. Immaginate che la sala sia la mia vita e che i vari atti siano le forme di spettacolo che ho praticato, mentre i personaggi saranno le persone che ho incontrato, quelle che ho amato e quelle con le quali magari non mi sono trovato bene. 20