Gli ultimi giorni di Gérard Philipe

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Narratori Francesi Contemporanei

Gli ultimi giorni di GĂŠrard Philipe


NARRATORI FRANCESI CONTEMPORANEI

Collana diretta da Philippe Vilain


Jérôme Garcin

GLI ULTIMI GIORNI DI GÉRARD PHILIPE Romanzo Traduzione dal francese di

MARIELLA FENOGLIO


Titolo originale: Le dernier hiver du Cid © Éditions Gallimard, 2019 Collaborazione redazionale: Dominique Taralon Stampa: AGL – Pomezia (Rm) Copyright dell’edizione italiana: 2020 © Gremese International s.r.l.s. – Roma Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualunque modo e con qualunque mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-6692-106-6


Ad Anne-Marie, l’Infanta del Cid, figlia di re, con tutto il mio amore.



«– Qual è il suo pensiero dominante? – L’urgenza delle cose da fare. – Che cosa la stupisce di più della vita? – La sua brevità.» GÉRARD PHILIPE «Arts», 1958

«La morte ha colpito in alto.» JEAN VILAR, Chaillot, 25 novembre 1959



RAMATUELLE Agosto 1959

Non è la dolce stanchezza dei giorni felici, che lui spesso sogna, di cui conosce i minimi accenni, e che già rimpiange. Quella si manifesta sempre alla stessa ora, quando il sole si accuccia sbadigliando dietro alla collina. L’aria soffusa libera allora i suoi profumi di resina e di mimosa, emana odore di lavoro compiuto. A torso nudo, fin dall’alba ha portato a turno sulle spalle due bambinetti focosi, mai soddisfatti, ha giocato con loro sulla sabbia bionda di Pampelonne, ha esultato in un mare liscio come l’olio, con le pietre a secco ha costruito davanti a casa dei piccoli terrazzamenti, per prevenire gli incendi ha pulito la sterpaglia sotto ai pini che si ergono in fondo alla terrazza, ha strappato le erbacce ingiallite, innaffiato gli oleandri e i giovani eucalipti, ispezionato le vigne fino al vecchio lavatoio, traballando sul –9–


JÉRÔME GARCIN

sedile rappezzato del trattore, uno scoppiettante modello di prima della guerra. Dopo essersi tanto speso, tanto donato, tanto trascurato, dopo essere stato amorevole, gioioso, ostinato e utile, il giovane padre si arrende con una voluttà che è la sua ricompensa. Riprende fiato come un manovale in un cantiere animato, in mezzo ai calcinacci ancora caldi. No, a La Rouillière, in quell’estate del 1959, la stanchezza non ha per lui il gusto acidulo della felicità quotidiana. Ogni giorno, il canto ossessionante delle cicale, il calore cocente di mezzogiorno e la sua luce troppo bianca sembrano esasperarlo. La mattina, quando scende, dopo una notte agitata, dalla grande stanza piastrellata di rosso le cui finestre si aprono sul fogliame del platano centenario, che ha resistito a tutti i venti di scirocco e di maestrale, è già estenuato. Come sdoppiato. Una parte reale, l’altra spettrale. Senza specchio tra le due. Perfino il suo bel sorriso sembra forzato. Come fissato in bianco e nero da un fotografo nascosto dello studio Harcourt. E quegli strani dolori al ventre, che lo trafiggono e che nessun analgesico riesce decisamente a placare. Senza piacere, beve un caffè nero all’aperto, tra i due nespoli e i due cachi, là dove Valentine Schlegel, la cognata costumista, trovarobe di Jean

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GLI ULTIMI GIORNI DI GÉRARD PHILIPE

Vilar, disegnerà presto un tavolo in pietra al quale la ceramista di Sète ha voluto dare la vaga forma di un pino marittimo, lasciando nello stesso tempo una piccola traccia del festival d’Avignone sotto il cielo di Ramatuelle. I bambini, Anne-Marie, quattro anni e mezzo, e Olivier, tre anni, saltano sulle sue ginocchia e chiedono quale sarà il programma dei divertimenti per quel giorno: mercato a Saint-Tropez, sulla place des Lices trasformata in un immenso quadro d’Arcimboldo, bagno a L’Escalet o raccolta di verdure nell’orto creato al centro del vallone dal signor Cauvière, il gentile proprietario del Café de l’Ormeau, sempre in canottiera e con una Gauloise senza filtro tra le labbra? Anne chiede loro di calmarsi, di non disturbare il padre. Ha diritto anche lui alle vacanze. Lei sola non si fa trarre in inganno, e si preoccupa. Non si fida dell’enigmatica fiacchezza di cui suo marito, che ha l’aspetto di un ragazzo, è preda da qualche settimana, né dei suoi lancinanti bruciori addominali. Di solito, trova che è resistente come una quercia. Non lo ha mai sentito lamentarsi. La debolezza del principe di Homburg lo ha sempre risparmiato. Lo ha visto interpretare Il Cid ad Avignone con una gamba ingessata e i legamenti delle ginocchia rotti, dopo una caduta da due metri e mezzo durante una prova, capace di dominare i dolori – 11 –


JÉRÔME GARCIN

durante tutto lo spettacolo, di far bella figura, di vendicare suo padre e implorare Chimena senza mai lasciare la poltrona. Era là quando, durante i weekend artistici di Suresnes, lui eseguiva uno dopo l’altro Homburg e Lorenzaccio, impersonava poi, con eguale fervore, Rodrigo, Ruy Blas o Riccardo II, e non veniva mai meno al proprio compito, né appariva minimamente sovraffaticato. Aveva ammirato il suo modo di galoppare a briglia sciolta in Fanfan la Tulipe, lui che non era un cavallerizzo («ma recitava così bene – ammetteva Christian-Jaques – che perfino il cavallo credeva che sapesse cavalcare»), o quello di saltare, con la sciabola in pugno e il sorriso sulle labbra, dall’alto di un tetto, lui che era così poco sportivo – a dire il vero, lo era, ma senza volere, lo diventava a sua insaputa, a seconda dei ruoli, nel corso della vita e delle sue imprese. Lo conosce temerario, focoso, indomabile, insensibile ai comuni mali e segnato da una grazia che lei vuole ancora credere sarà capace di proteggerlo a lungo dai temporali e dalle tempeste. Eppure, mentre cammina all’ombra, con le spalle basse, il suo metro e ottantatré reso ancora più evidente dalla postura ricurva, quasi non sembra più lui. Senza dubbio, pensa lei, avrà contratto una brutta dissenteria amebica ad Acapulco, dove ha appena girato, insieme a Buñuel, un film mala-

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