Narratori Francesi Contemporanei
La ragazza dalla macchina rossa
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Philippe Vilain
LA RAGAZZA DALLA MACCHINA ROSSA Romanzo Traduzione dal francese di
MICOL BERTOLAZZI
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Titolo originale: La Fille à la voiture rouge © Éditions Grasset & Fasquelle, 2017 Stampa: Printonweb – Isola del Liri (FR) Copyright dell’edizione italiana: 2018 © Gremese Internationsl s.r.l.s. – Roma Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualunque modo e con qualunque mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore.
ISBN 978-88-6692-008-3
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A colei che ama la notte
«Credimi, non c’è niente di più bello che realizzare idee folli. Io vorrei che la mia vita fosse un susseguirsi di idee folli.» Milan Kundera Il valzer degli addii
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PRIMA PARTE
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L’amore. Io che non smetto mai di scrivere d’amore, a volte mi domando se non sia l’amore a scrivere me, imponendomi le storie, gli intrecci e i romanzi, le gioie e le bugie. Stavo per compiere trentanove anni quando incontrai quella studentessa alla Sorbona, dove avevo preso l’abitudine di andare a scrivere – romanziere smarrito nel prolungamento della propria giovinezza. L’estate stava finendo. L’abbigliamento sobrio nascondeva una silhouette da dancefloor: capelli castani spettinati, occhi verdi, una sahariana beige sulle gambe abbronzate, sandali alla schiava alle caviglie; mi precedeva, quel pomeriggio, nella hall della biblioteca. “Se mi tiene la porta, le parlo, se non me la tiene, significa che vuole evitarmi”, mi ero detto, senza riflettere sull’assurdità di un tale ragionamento, perché, distratta, assorta nei suoi pensieri, la studentessa avrebbe potuto non vedermi, e perché, comunque, tenermi la porta poteva essere solo una semplice gentilezza. Sicuramente non mi sarei fatto domande davanti a una donna della mia età. La studentessa doveva avere sui vent’anni, poco più o poco meno, non avrei saputo dirlo: difficile stabilire con certezza un’età che abbiamo abbandonato da molto tempo. Ho dimenticato le parole che farfugliai quando lei si voltò per tenermi la porta, ma ricordo il suo sorriso che, pensavo, autorizzasse il mio passaggio. Riprese fiato sulle scale, con una lieve agitazione della quale credetti di essere la causa e che, probabilmente, non era più intensa della –9–
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mia, tenuta a bada dall’esperienza. Descrivo con precisione i dettagli di quell’incontro perché mi affascina l’aleatorietà dell’amore e mi diverte pensare quanto la nostra storia dipese da un gesto che lei avrebbe potuto non fare, da una frase che io avrei potuto non dire. Quella porta a vetri, che si apre sulla biblioteca della Sorbona, ormai è sbarrata a seguito di importanti lavori – fatto curioso per chi, come me, ama dare un senso al proprio passato. In seguito, quella porta ha spesso ossessionato i miei sogni. Tra i più drammatici che ricordo, c’è quello, abbastanza strano, in cui la maniglia della porta mi resta in mano e rimango chiuso in biblioteca tutta la notte; c’è anche quello in cui la porta, pericolante, mi cade addosso quando la tiro verso di me. Ma soprattutto, c’è il sogno dell’incendio, in cui una folla di giovani in preda al panico si accalca dietro la porta bloccata, con i vetri infrangibili; dall’altra parte scorgo la studentessa, in piedi accanto a una bicicletta, che mi fissa impassibile, senza urlare, rassegnata, e non posso fare niente per aiutarla.
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Non era libera la settimana successiva. Le lezioni non erano cominciate, e ripartiva per le vacanze, a Capri mi pare, da alcuni amici che avevano una villa e una barca. Così le scrivevo di giorno e lei mi rispondeva di notte, dei messaggi brevi in cui rimaneva sul vago, senza foto, senza selfie, senza niente, circondandosi di un alone di mistero – diceva di divertirsi nelle discoteche alla moda dell’isola – nel quale evitavo di indagare. Un periodo allegro. Mi svegliavo ogni mattina con le sue parole, di cui cercavo di decifrare i segreti e gli artifici, i sapienti ritardi e le assenze strategiche, le abbreviazioni, le emoticon e i puntini sospensivi, tutta quella grammatica della seduzione che lei sembrava padroneggiare perfettamente. È così che flirtano le ragazze di oggi, che testano il loro pretendente, lo stuzzicano e lo fanno ingelosire lasciandolo cuocere nel brodo dell’indecisione, con delle faccine puerili, scherzose o imbronciate, diavoletti o animali, con fiori virtuali che non sempre un botanico saprebbe riconoscere, ma che, meglio delle parole, raccontano i loro sentimenti o le loro emozioni. Questa strategia fa guadagnare loro del tempo: e le mette in condizione di capire, piuttosto in fretta, in quale categoria collocare il pretendente – futuro compagno, potenziale grande amore, buon amico, colpo di fulmine o una botta e via? –, e risparmia loro la parata trionfante, virile, del galletto impomatato, i discorsi noiosi e le cene virtuose, con tanto di rose. – 11 –
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Dieci giorni dopo, l’aspettavo a place du Châtelet. Il sole tramontava in lontananza dietro la torre Montparnasse e l’estate attirava nei caffè i suoi volti sereni, arrossati dal sole, floridi o smagriti, sorridenti sotto un paio di Ray-Ban, le carnagioni abbronzate messe in risalto da camicie e abiti chiari. Parigi non mi piace mai così tanto come quando assume quell’aria balneare e io aspetto una donna; c’è sempre, in quest’attesa, qualcosa di miracolosamente bello, che costituisce per me, la poesia dell’avventura. Un incantesimo straordinario, imperioso, mi portava di nuovo verso il mondo. Cercavo il viso della studentessa tra le sagome che uscivano dalla metropolitana, invece la scorsi in lontananza, proveniente da rue de Rivoli, un fuscello in minigonna che volteggiava tra le macchine parcheggiate. Nessuna gentilezza eccessiva tra di noi, neanche imbarazzo, soltanto dei sorrisi incuranti delle convenzioni. Alla studentessa non piacevano i bar di quella piazza, voleva camminare, approfittare della dolcezza della sera. Mi stava bene? Senza guardarmi troppo, con aria divertita, agitava le mani sottili, parlava di Capri, delle vacanze e di tutto quello che le passava per la testa. Era andata in barca, e io, cosa avevo fatto? Niente. Non potevo dirle che avevo passato il tempo ad aspettarla. Era radiosa, la studentessa. Aveva tagliato i capelli, un carré, fino alle spalle – ma quel particolare non l’avevo notato, me lo precisò lei mesi dopo, quando rievocammo quell’incontro. Probabilmente c’era qualcosa di studiato nella sua naturalezza, qualcosa di sofisticato nel suo atteggiamento, che non vedevo. Quella sera, la studentessa seduta davanti a me al secondo piano della Brasserie Castiglione, si chiama– 12 –
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va Emma Parker. Stava seguendo un master in Lettere su Romain Gary. All’inizio, il nome mi sorprese, perché non corrispondeva affatto a quello che avevo immaginato, un nome che, mi aspettvo ingenuamente, avrebbe tradotto l’impressione che la sua discrezione, la riservatezza, l’eleganza parigina, mi avevano ispirato e che sarebbe stato più comune, voglio dire, meno musicale, meno gioioso, mi avrebbe fatto pensare più agli edifici haussmaniani che ai moderni palazzi americani, più alla morbidezza francese che all’aridità californiana, più alle donne di Romain Gary che alle eroine di James Ellroy. «Insomma, non so cos’avete tutti da ridire sul mio nome!», si era infastidita quando, probabilmente dopo molti altri, ne avevo osservato il carattere romanzesco. C’è da dire che la studentessa possedeva l’orgoglio dei vent’anni, la suscettibilità di un’età ancora irriverente, emotiva, in cui si prende tutto di petto, fosse anche un complimento, come quello che le avevo appena fatto. Quel nome, d’altronde, che diceva di essere così fiera di portare, la studentessa non sapeva bene da dove venisse, sicuramente da un’ascendenza prestigiosa, da antenati, ricchi proprietari di Los Angeles, che magari avevano fatto fortuna con il petrolio. La studentessa era americana da parte di padre, francese da parte di madre, ma non si sentiva né l’una né l’altra, a furia di viaggiare. Diceva di essere apolide: «E poi, a cosa serve sapere da dove veniamo, se non sappiamo dove andiamo?». Emma Parker aveva appena compiuto vent’anni, ma aveva conosciuto diverse vite: aveva viaggiato tanto a seconda delle destinazioni di un padre che lavorava nel campo diplomatico (non ne aveva specificato il ruolo), parlava correntemente tre lingue. Era nata il – 13 –
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giorno della morte di René Char, lo stesso inverno della cantante Rihanna, nel mese in cui l’Europa dell’Est preparava le sue rivoluzioni, quando Gorbačëv aveva annunciato il ritiro dell’Unione Sovietica dall’Afghanistan, e quando Milošević, il nuovo presidente serbo, faceva propaganda per mettere fine all’autonomia del Kosovo; mi direte che tutto questo non c’entra molto, ma è sempre meglio conoscere le stelle sotto le quali nascono le donne che corriamo il rischio di amare. Non vedeva spesso i genitori e viveva in un appartamento a Neuilly che condivideva con due amici. Non sapeva ancora cosa avrebbe fatto della propria vita, era due anni avanti rispetto al piano di studi. In passato, aveva desiderato fare l’attrice e aveva seguito delle lezioni in una scuola rinomata; le piaceva recitare, «essere una commediante», reinventare la sua vita, rinascere e morire continuamente, anche se riteneva di essere «negata», un «po’ affettata», e che le mancasse «il talento». Ma ci avrebbe pensato più in là, al momento era ancora giovane. Di tutto questo, del cinema, dalle speranze disilluse di attrice fino all’orientamento verso gli studi letterari, ne parlava come se non la riguardasse, con lo stesso distacco con il quale guardava alla sua gioventù, sballottata di ambasciata in istituto, dalla Norvegia agli Stati Uniti, passando per la Russia. La studentessa era proustiana senza saperlo, non aveva un io ma più io, non aveva una vita ma più vite, non una gioventù ma più gioventù, disgiunte, sparpagliate come le tessere di un puzzle in giro per il mondo e che, di scalo in scalo, di partenza in arrivo, di scoperta in nostalgia, costituivano il tutto di una sola persona, nelle sfere della borghesia franco-americana: «In fondo, non sono così diversa da uno scrittore, an– 14 –
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che io sono un’espatriata. Non mi sento mai a casa in nessun posto». Era una ragazza vivace e irrequieta, una ragazza dal viso spigoloso, il cui sguardo malinconico poteva diventare ombroso. I capelli ondeggianti, sciolti sulle spalle che ricadevano ai lati del viso, insieme a una certa innocenza, la facevano assomigliare ad Anna Karina quando cantava Sous le soleil exactement. Dal carattere emergeva un certo nervosismo dissimulato dalla sua indole vivace. Non aveva la timidezza che avevo intravisto. Seppure avvertivo una certa insicurezza da parte sua, non aspettava che le facessi delle domande per iniziare una discussione e avventurarcisi; l’incertezza si percepiva appena nel modo rigido di formulare o articolare i pensieri, di argomentarli e di nasconderli dietro quelli di altri: «Ma non sono l’unica a pensarla così!», diceva; ancora, quella stessa esitazione si intravedeva appena nel modo di controllare il linguaggio, da come scandiva distintamente ogni sillaba delle parole, un po’ come quando, a teatro, un’attrice fa attenzione alla propria dizione; oppure dal modo in cui s’interrompeva nel mezzo di un racconto per non pronunciare un’espressione familiare – «Ovvio!», «Ammazza!» o «Figo!» – che credeva non mi sarebbe piaciuta; o nel fatto di non continuare un discorso di cui improvvisamente coglieva la banalità: «Vabbè, ma non è una cosa molto interessante!»; nel modo nervoso e confuso di parlare, anche, di passare da un argomento all’altro senza un vero nesso, il che finiva per farle perdere il filo: «Non ricordo più cosa stavo dicendo!»; rifletteva un po’, sorrideva, si preoccupava per quei vuoti di memoria frequenti, ma non doveva essere importante perché non se lo ricordava, l’argo– 15 –
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mento le sarebbe tornato in mente. Io, almeno, capivo quello che voleva dire? Era loquace, Emma Parker, ma loquace per insicurezza, non aveva paura di parlare, di «dire sciocchezze», aveva solo paura dei silenzi. A volte, esitava a dire qualcosa, ma si riprendeva, preveniva, finiva per scusarsi di dire cose intelligenti – «Può sembrare pretenzioso, lo so…» o «È vero che può sembrare da intellettuale dire queste cose, cosa che non sono per niente e che addirittura detesto…». Mi sembrava di percepire un certo turbamento quando rievocava il suo passato sentimentale, disseminando le frasi di «ecco», per scusarsi di non raccontare abbastanza, sebbene il suo imbarazzo già dicesse tanto. Non insistevo. Con grande serietà, senza accennare il minimo sorriso, si definiva «scherzosa», «maldestra, anche un po’ selvaggia». Assicurava anche di non essere «necessariamente una donna dolce». Una certa durezza emanava dallo sguardo, ma anche dal viso, pallido, appena truccato, esaltato da un rossetto lucido e marcato su metà palpebre da un tratto di matita che s’interrompeva bruscamente, forse per segnare la sua età sulla linea del tempo, la strada percorsa, quella che le restava ancora da fare, o per comunicare, come i tatuaggi di certe popolazioni, che il suo tempo si era fermato. Immaginavo che fosse il trucco da battaglia e che la minigonna, che scopriva le lunghe gambe nude accavallate al lato del tavolo, fosse anch’essa la tenuta da uscita, quella con cui si sentiva più se stessa, giovane donna del suo tempo. – E tu quanti anni hai? – chiese la studentessa. – Trentatré, – risposi scherzoso, immaginando che si fosse informata su Internet e conoscesse la mia età. – Sorridi, non mi credi? – 16 –
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– Diciamo che a partire da una certa età, s’impara a smascherare i bugiardi! Emma Parker era molto diversa dalle donne che avevo conosciuto fino a quel momento, anche se non avrei saputo dire perché. Forse perché era giovane, perché non sembrava affatto cosciente dell’effetto che aveva sugli uomini e perché c’era qualcosa d’innocente nella sua sicurezza che la rendeva accattivante. Non aveva alcuna civetteria fuori posto né vanità, niente di troppo, talvolta solo un bisogno orgoglioso di verità, un desiderio puerile di avere ragione, di sfidarmi: «Non credo sia così facile come sostieni tu!», diceva con convinzione. Non era un tipo presuntuoso, e per questo, non era tipo da volersi mettere in mostra, da esibire la propria bellezza, non era tipo da inserire l’inglese nei discorsi per darsi un’aria parigina, non era il tipo che diceva «So, what?» per sottolineare le frasi, bevendo con la cannuccia da un’ultima coppa di champagne rosé, o sniffando un po’ di eroina, come la sua migliore amica modella, Anne-Sophie. Si definiva «piuttosto assennata». Qualunque altra ragazza che avesse rivelato tanto in fretta, durante una conversazione, la sua giovinezza privilegiata – diceva anche di possedere una Porsche – mi avrebbe fatto una cattiva impressione: ma non lei, per la quale il lusso era naturale. Non sentivo né vanto né fatuità nelle sue parole, nessun desiderio di lasciarmi a bocca aperta. La studentessa mi ispirava fiducia; guardandomi come faceva lei, apertamente, con sospetto ma senza sfacciataggine, con un sorriso indagatore né veramente timido né veramente sicuro di sé, un sorriso che esita a essere tale, un sorriso particolare che non saprei bene come definire, mi seduceva senza volerlo. Quando parlava, – 17 –
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una ciocca di capelli le copriva l’occhio destro: la spostava solo dopo avere risposto a una domanda, con un gesto destinato per forza al fallimento. «In realtà – diceva – io sono una ragazza molto semplice, accomodante, eppure, le mie relazioni con gli uomini sono sempre complicate.» Quella sera, la studentessa non aveva fame. Parlando, lasciò metà del dolce al cioccolato che aveva ordinato, non perché fosse a dieta, ma perché temeva, come mi avrebbe confidato più tardi, che dei pezzi le restassero incollati sui denti e le disegnassero «un sorriso da uomo delle caverne». Avevo l’impressione che ci conoscessimo da tanto, che nell’arco di tempo trascorso tra il nostro primo incontro e quell’ultimo, ogni imbarazzo fosse svanito in una profondità di messaggini complici, forse di speranze comuni. Non cercavamo di sedurci, mi sembra, come se la differenza d’età, i nostri diciannove anni di scarto, ci preservasse da un gioco di seduzione artificiale, da un’esibizione in cui la diffidenza mette alla prova l’altro per scoprirlo. Mi stupivo persino che la differenza d’età ci mettesse d’accordo su tante cose, tante opinioni: condividevamo una stessa visione del mondo, una stessa sensibilità, un gusto simile per la letteratura, i viaggi e lo sport. C’era qualcosa di originale in lei, un non so che d’anacronistico che la legava alla mia giovinezza, persino il suo desiderio di scrivere che sembrava nascerle allo stesso modo in cui era nato in me, da un sentimento di solitudine e di abbandono, da una certo impaccio che, da un’età all’altra, da un mondo all’altro, ci univano. Quelle radici invisibili tra di noi, quelle affinità che mi facevano vedere in lei un mio doppio, la fatalità che mi aveva attirato verso quella sconosciuta, il fatto che, – 18 –
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proprio come me, la studentessa sembrasse smarrita nella sua epoca, non potevano che turbarmi. Era notte quando uscimmo dal ristorante. Non volevo separarmi da lei ma esitavo a invitarla a casa mia, non per paura di un rifiuto – immaginavo che si aspettasse una proposta, e che si fosse preparata delle frasi fatte, delle risposte pronte all’uso, educate, per quel genere di domande maschili, per dissuadere gli uni, o mettere al loro posto gli altri –, ma perché sentivo che non avrebbe detto di no, che probabilmente avrebbe accettato per non deludermi, non per un reale desiderio. Quanto all’indelicatezza della proposta, in riferimento alla nostra differenza d’età, non sapevo, non avevo molte idee al riguardo! Le convenzioni sentimentali che impongono un tempo di corteggiamento di diverse settimane, o mesi, con un essere simile a noi, libero, di età vicina alla nostra, appartenente alla stessa sfera culturale, dal quale sarebbe facile farsi amare e con il quale ci prepariamo una vita confortevole ma prevedibile, già scritta, non mi riguardavano; avevo sempre preferito le cose difficili scegliendo donne lontane dal mio mondo, o troppo belle per me, o molto più giovani, o straniere, o sposate, come se il mio amore dovesse provare il proprio valore, la sua autenticità nelle difficoltà e come se, senza queste cose, senza ostacoli per riuscire ad amare ed essere amato, senza un prezzo da pagare, tutte le donne che sarei stato in grado di conquistare tranquillamente non avrebbero potuto soddisfarmi, tutte le relazioni che avrei potuto facilmente stringere si sarebbero condannate da sole a un piacere inferiore. Più di una volta, questo principio ha diretto la mia vita sentimentale: inizio, mio malgrado, una relazione con una donna – 19 –
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poco accessibile, che ha tutte le ragioni per respingermi e che mi mette in una situazione in cui le possibilità che io riesca a sedurla sono minime; poi, prendo coscienza della difficoltà ma persevero per ottenere i favori di questa donna; alla fine, basta che intraveda la riuscita dei miei tentativi di seduzione perché mi assalga il dubbio e mi prenda il panico; non parlo della paura di fallire, ma di un terrore assurdo, incomprensibile, contro il quale non riesco neanche a lottare, la stessa paura che fa tremare un tennista al momento di concludere in suo favore una partita contro un avversario classificato molto meglio di lui: la paura di vincere. La studentessa accettò. Sento ancora il suo «sì», e rivedo la sua disinvoltura, quando appoggiò la borsa sulla mia scrivania e aprì la finestra per ammirare la vista sulla Senna. Quella naturalezza, che non avevo visto in nessun’altra ragazza, mi piacque; non era la disinvoltura volgare della sfacciata che si trova sempre su un terreno ormai conquistato, ma quella, spontanea, del bambino che sente familiare un luogo e non si pone domande da adulto: ad esempio, quando vede una finestra, non chiede il permesso per aprirla, e se la cosa può dare fastidio, ma la apre, semplicemente, perché lo vuole fare. Non ricordo bene quello che ci siamo detti sul balcone, qualcosa sulla paura del vuoto, credo, sulle vertigini che lei non aveva e che, invece, costringevano me a non sporgermi, a evitare di guardare la strada sottostante; ho dimenticato anche il nostro primo bacio, i nostri gesti, il suo sguardo, i miei pensieri di allora e c’è, giustamente, un vuoto tra la scena del balcone e quella in cui, nel letto, incredulo, le bacio i seni. Quello che mi aveva colpito, tuttavia, quello che mi – 20 –
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ricordo, è il distacco che manifestava nei confronti del suo corpo, il modo naturale di lasciarsi spogliare, il modo lascivo, meccanico, direi obbediente, impacciato, di fare l’amore; lasciava fare, senza complimenti, non iniziava né chiedeva niente, sembrava arrendersi. La studentessa faceva l’amore senza parole, senza sussurri, senza grida, senza niente. La sua sottomissione era la sua sensualità; le parole, i gesti e il resto arrivarono dopo. Ricordo che la notte trasportava la sua dolcezza estiva, il brusio, le discussioni al bar da dove s’innalzavano voci, canti improvvisati e risate, il ronzio dei motori in sosta, lo sbattere delle portiere e dei cancelli: tutto mi arrivava da lontano. Ricordo che era il rumore della nostra prima volta, forse il rumore di tutte le prime volte. Al mattino, la studentessa era distante. Indossava la maschera della durezza per non farmi capire di essere una sentimentale. L’avevo delusa? Si pentiva, si sentiva in colpa per essere venuta a letto con me la prima sera? Avrebbe preferito ritrovarsi da sola? Era soltanto pudore? – Non dici niente, – dissi. – Nemmeno tu, – replicò senza guardarmi. – Va tutto bene? – Sì, tutto bene! – Vuoi fermarti un po’? – No. La sua freddezza mi aveva trattenuto dall’abbracciarla come avrei voluto, come forse lei desiderava. Di solito, la tenerezza del mattino mi spaventa, le confidenze, le carezze e i sorrisi, la favola che inizia a scriversi, penso solo al momento in cui mi ritroverò da solo. Non quella volta. Fu quel mattino che seppi che – 21 –
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l’avrei amata. È al mattino che lo so. Non è facendo l’amore, ma è svegliandomi, è scorgendo la donna nel mio letto, è parlandole, che so se l’amerò. La notte è la lotteria che fa girare i sogni fino al numero buono. Per Emma, lo sapevo. Ma lasciai che si rivestisse, rapidamente, in silenzio. Ebbe uno sguardo interrogativo, lo stesso che le avrei visto in seguito quando era preoccupata o inquieta, quando non osava chiedermi qualcosa. Ciò che avrebbe voluto chiedermi quella mattina non lo saprò mai. «Ciao», fece quando tentai di baciarla. Perché, a distanza di anni, l’evocazione di quel ricordo mi provoca tanta tristezza? Non credo che sia soltanto perché si tratta di un bel ricordo, perché la felicità si nostalgizza, ma perché, ora che lo scrivo, mi sembra di capire ciò che allora non riuscivo a comprendere: cioè che la sua freddezza non era rivolta a me, come avevo creduto, e probabilmente la sua indifferenza, invece che delusione o rimpianto, non era che il pudore di una ragazza incerta, il timore, immagino, di essere rifiutata da me, cui i miei romanzi avevano affibbiato un’orribile reputazione da dongiovanni. Se quel ricordo mi fa tanta tristezza, è anche perché immaginavo che avesse fatto l’amore con me per interpretare un ruolo, quello della studentessa emancipata, e perché le volte successive percepii qualcosa d’infantile dietro quella sicurezza, una certa innocenza. La studentessa era ancora una ragazzina, me n’ero reso conto dal suo spirito giocoso, dalle sue provocazioni graziose; e sospettavo che fosse stato per misurare il suo potere di seduzione, la sua femminilità, che si era lasciata sedurre da un uomo navigato, la cui comprensione avrebbe, al contempo, saputo giustificare la sua goffaggine, prendere sul serio il suo pudore e la sua mancanza di – 22 –
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iniziativa e, se possibile, renderla più donna di quanto non avrebbe saputo fare un ragazzo della sua età, preoccupato soltanto del proprio piacere. Avevo l’impressione che avesse fatto l’amore per educazione, e che avrebbe potuto anche farne a meno; oggi so che ciò che aveva cercato quella sera venendo a letto con me, concedendosi, era amore, un amore vero, voglio dire il grande amore.
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