GRANDI ROMANZI
MORTE NEL GIARDINO DI SOCRATE
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Sascha Berst
MORTE NEL GIARDINO DI SOCRATE Romanzo
Traduzione dal tedesco di Fiammetta Paolantonio
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Titolo originale: Mord im Garten des Sokrates © Sascha Berst-Frediani In copertina: Teseo e Sini, tondo di una coppa attica a figure rosse, 490-480 a.C. (Monaco, Staatliche Antikensammlungen) Per quanto consta all’Editore, la foto utilizzata in copertina è di pubblico dominio. Nel caso in cui la foto fosse coperta da copyright, l’Editore si dichiara disposto sin d’ora a revisioni in sede di stampa e al riconoscimento dei relativi diritti ai sensi dell’art. 70 della legge n. 633 del 1941 e successive modifiche. Stampa: ITL – Roma Copyright dell’edizione italiana 2018 © Gremese International s.r.l.s. - Roma Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-8440-971-3
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a sempre, i miei figli mi pregano di mettere per iscritto gli eventi che hanno condotto al declino della nostra amata città. Ma solo adesso, in vecchiaia, sono pronto a farlo. Riaffiorano in me ricordi e immagini di un passato lontano, ricordi di un’Atene in piena fioritura e proprio per questo sul punto di appassire. Sì, io li conoscevo, li ho incontrati tutti, quegli uomini di cui il mondo parla con ammirazione. Alcuni hanno solo incrociato il mio cammino, altri hanno percorso con me un pezzo di strada, uno mi è stato amico. Tutto ebbe inizio in una calda giornata poco prima del solstizio d’estate con la morte di un campione olimpico.
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Libro Primo
Morte di un caMpione oliMpico
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A Ad Atene era l’anno del governo di Alcibiade. Ero stato nominato per la seconda volta comandante degli arcieri, quando, in una calda giornata poco prima del solstizio d’estate, giunse a casa, trafelato e sudato, il mio giovane amante Licone che mi riferì, ansimando, che lo stratega mi stava cercando. Era successo qualcosa. Negli occhi di Aspasia, la mia donna, balenò un guizzo di rabbia. Era molto gelosa di Licone e normalmente non tollerava la sua presenza in casa. Tuttavia, si alzò dal nostro giaciglio, dove stavamo consumando un pasto leggero, e mi porse le vesti. Anche se non si fidava del ragazzo, intuiva la genuinità della sua agitazione e sapeva che era impossibile ribellarsi a un ordine di Alcibiade e ignorare la sua chiamata. Licone mi precedette. Quando passai dalla camera al cortile, rimasi per un attimo abbagliato dalla luce del sole e il caldo dell’Attica mi tolse il fiato. Sotto il fico che lui stesso aveva piantato, sedeva appisolato mio padre. Nell’attimo in cui mi avvicinai, aprì gli occhi vispi e mi salutò. «Devo andare dal mio signore, mi ha fatto chiamare», dissi, e lui capì. Il signore, per lui, era sempre stato Pericle. Nutriva nei suoi confronti una venerazione assoluta, perché era a lui che la nostra famiglia doveva la propria fama e la propria fortuna. L’ammirazione di mio padre per Pericle si era spinta a tal punto da voler dare a me, primogenito e suo unico figlio maschio, lo stesso nome. Se poi aveva desistito era stato solo perché aveva temuto che l’iniziativa si rivelasse troppo irriverente. Così portai l’appellativo di Pericle solo per i primi tre anni di vita. Con la cerimonia del mio ingresso ufficiale in famiglia assunsi il nome di Nicomaco. Mia madre raccontava che accogliere tale cambiamento era stata per me la cosa più difficile fra quelle che dovetti imparare da bambino. Il cugino di mio padre, Raios, che a sua volta venerava Pericle e come orafo aveva accumulato una fortuna maggiore della nostra, non si era fatto di questi scrupoli. Padre di tre figlie, aveva chiamato, senza esitazione, la primogenita come la seconda moglie di Pericle, Aspasia. La stessa Aspasia che era diventata mia moglie, quasi sempre per la mia gioia, e che in quel momento si stava accomiatando da me con un bacio freddo e distaccato. Mio padre aveva servito e amato Pericle. Ora io servivo Alcibiade, nipote di Pericle, ma non lo amavo. Probabilmente ammiravo l’audacia che aveva dimostrato come generale, ma più di tutto temevo la sua ira e la sua volubilità. 9
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Uscii in strada. Licone mi stava aspettando. Sulla parte destra si levava la maestosa rupe dell’Acropoli e il Partenone brillava nella luce del sole splendente. Lì accanto si ergeva la statua bronzea di Atena che fissava il mare, da dove i pescatori potevano avvistare il suo elmo dorato. Licone e io eravamo soli nei vicoli polverosi; il caldo soffocante aveva costretto gli ateniesi a trovare riparo all’interno delle proprie case. Il bel volto del mio giovane amico aveva un’espressione turbata e tesa. «Non sarai mica geloso anche tu come mia moglie?», domandai. Lui scosse la testa. «No, mi preoccupa che Alcibiade ti abbia fatto chiamare», rispose e aggiunse frettolosamente che aveva incontrato un messo a cui era nota la nostra amicizia e che proprio da lui aveva saputo che Alcibiade mi stava cercando ovunque e che mi voleva vedere immediatamente. Doveva essere accaduto qualcosa la notte precedente se quattro veloci messi erano in giro a setacciare la città. Dirigemmo i nostri passi verso l’Agorà, il mercato principale. Era la via più breve per giungere allo Strategheion che, appena fuori dagli stretti vicoli del quartiere dei vasai, si ergeva maestoso davanti a noi con i suoi portici, templi e tribune. Il centro della città era deserto nella calura del mezzogiorno. Il mercato era vuoto, le bancarelle e le botteghe degli artigiani erano chiuse. Si scorgevano solo un paio di droghieri affannati a bagnare le stuoie di rafia con cui avevano coperto le vivande, nel vano tentativo di mantenerle fresche ed evitare che andassero a male. L’offerta di generi alimentari, nonostante la guerra con Sparta, era ancora ricca. Questo per merito delle Lunghe Mura che si ergevano dalla città al Pireo e che assicuravano ad Atene un facile accesso ai suoi porti. Mentre Licone e io ci avvicinavamo, le mani si alzavano una dopo l’altra in segno di saluto. Conoscevo molti mercanti del posto sin dai tempi in cui mio padre aveva ricevuto il compito di vigilare sull’onestà del commercio e di verificare la regolarità dei pesi e delle misure. Ai tempi di Pericle era stato nominato agoranòmos, ispettore delle merci. Non era un incarico importante, ma per un piccolo commerciante come lui era un onore. Inoltre quel titolo gli aveva dato la possibilità di ampliare i suoi affari e di raggiungere il benessere di cui tuttora godevamo. Lo Strategheion si trovava a metà strada in direzione dell’Acropoli, accanto all’Areopago, la rupe spaventosa e gigantesca del dio della guerra, dov’era situato il tribunale che aveva giurisdizione sui delitti di sangue. Cosa sarebbe successo se fossi stato informato che entro poche settimane avrei dovuto presentarmi dinnanzi ai giudici? Pericle aveva governato dallo Strategheion, e dopo di lui, gli strateghi successivi. Ora il comando supremo era nelle mani di Alcibiade, ma questo 10
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non prometteva niente di buono. Che cosa avrebbe potuto volere da me? Finora non si era mai interessato né alla mia persona, né al mio incarico. La salita era dura. Parlavamo a fatica, oppressi dal calore e dall’inquietudine. Lo stesso Licone che, leggero come una piuma, normalmente si inerpicava di corsa sui sentieri più scoscesi, mi pregò, a metà tragitto, di fermarci per una pausa. Era pallido, non aveva più fiato. Forse era malato? Il suo volto era sofferente. Cercammo riparo all’ombra di un pino e ci riposammo. Non aveva senso affrettarsi, avrei comunque affrontato il mio destino. «Mio giovane amico, sei troppo stanco», dissi preoccupato, così Licone mi confessò di non aver chiuso occhio tutta la notte per via del caldo. Lo lasciai riprendere fiato, ma ci volle un bel po’ perché riprendesse colorito. Poi proseguimmo più tranquilli e attenti di prima. Giunti al palazzo dello stratega fummo accolti da due schiavi che ci condussero nella stanza da bagno, dove erano state preparate due tinozze di argilla riempite con acqua fresca, e delle vesti. Gli schiavi ci aiutarono a lavarci e a vestirci. Io ricevetti un chitone corto in lino, una stoffa molto rara; Licone invece, un telo leggero da mettere sui fianchi. Poco dopo giunse un funzionario che mi chiese di seguirlo da Alcibiade. Licone, al contrario, dovette rimanere fuori ad attendermi. Lo stratega mi aspettava in una sala enorme. Dall’ingresso fino al trono, dove era seduto con le gambe distese in avanti, contai ben quaranta passi. Nell’avvicinarmi a lui abbassai lo sguardo, come mi aveva insegnato mio padre, e non osai guardarmi intorno. Il funzionario mi seguiva in silenzio. Quel giorno, per la prima volta, vidi Alcibiade da vicino. Era un uomo nel pieno fulgore dell’età, quarantaquattro anni: si trovava nel periodo cruciale in cui si realizza il destino di un uomo, tra la maturità e l’inizio della vecchiaia. I suoi capelli erano ancora corvini e più lunghi rispetto alla moda di Atene; il viso rasato e largo tradiva un carattere un po’ vanesio, ma il naso sottile e adunco, tra gli occhi scuri, era indice di una straordinaria forza di volontà; la bocca e il sorriso gli conferivano un’aria da irresistibile seduttore. Le malelingue sostenevano che Alcibiade fosse fuggito da Sparta e tornato ad Atene per evitare le ire funeste di uno dei due sovrani della città, al quale aveva messo… le corna. Era considerato un bell’uomo, sia dagli uomini che dalle donne, che lo amavano nello stesso modo – e bello lo era, senz’ombra di dubbio –, ma la sua bellezza era quella di un animale feroce e il solo pensiero mi fece rabbrividire. Anche Alcibiade indossava solo un chitone, ma era fatto di una stoffa liscia e lucente che non avevo mai visto, di quel giallo intenso che si ottiene immergendo il tessuto una sola volta nel fluido del murice. Le maniche, 11
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il colletto e l’orlo erano arricchiti da bordure di filo dorato. Sotto le vesti s’indovinava un fisico asciutto e forte. «Oh, Adone!», lo salutai. Non era certo il modo ufficiale di rivolgergli il saluto, ma sapevo che essere eguagliato all’amante di Afrodite lo avrebbe lusingato, e il sorriso con cui mi ricambiò mi dette ragione. Si alzò dal trono e si diresse verso di me. «Salve, arciere, guardiano dell’ordine della città», disse abbracciandomi delicatamente. Mi fissò per un attimo negli occhi ma il suo sguardo era freddo. «Sai perché sei qui, Nicomaco?», mi domandò. Mi meravigliai che conoscesse il mio nome. «No, mio signore!» «Bene, molto bene…», disse pensieroso mentre si riavvicinava lentamente al trono, come in cerca del giusto esordio. «Conosci Periandro?», mi chiese d’un tratto. «Il campione olimpico? Certo. Tutti lo conoscono ad Atene. Negli ultimi giochi ha vinto l’importante gara di corsa, per la nostra gloria, arrivando prima di tre spartani e di un tebano.» «Vedo che lo conosci. Sai dunque anche che appartiene a una delle più ricche e potenti famiglie della città e che è famoso anche per non amare la democrazia?», disse Alcibiade avvicinandosi a me. «Periandro è morto, caro Nicomaco, purtroppo – ammazzato. È stato trovato stamane da alcuni soldati alla porta Itonia.» Tacque per un momento e si mise a contemplare il fregio sopra di noi: raffigurava una corsa di carri da guerra dorati, tirati da stalloni dal manto nero, guidati da aurighi temerari. «Siamo in guerra», aggiunse, dopo un lungo silenzio. «Siamo in guerra contro Sparta e contro noi stessi. La guerra contro Sparta la potremmo vincere se solo fossimo più uniti, come abbiamo vinto la guerra contro i persiani, quando a Sparta ci legava una sincera amicizia. Come sai, noi ateniesi non siamo mai uniti fra di noi… le antiche e potenti famiglie farebbero cadere volentieri la democrazia, anche subito, senza remore, né scrupolo alcuno. Ma non sono pronte. Anch’esse non sono d’accordo tra di loro. Alcuni vogliono un conflitto aperto, altri aspettano, e continuano intanto a fare i loro interessi. Guai però a dar loro un pretesto per intervenire. Basta un solo evento che li possa ferire e far indignare, per unirli… Sei mai stato in un bosco, in piena estate, quando non piove da mesi? Gli alberi e i cespugli sono secchi. L’aria vibra per il caldo feroce. Lo sai, basta una piccola scintilla per far divampare un incendio. Così è nella nostra città. Atene è come un bosco secco, basta una scintilla – e schioccò le dita – per far scoppiare il più devastante degli incendi: la guerra civile, la guerra fratricida. Gli aristocratici armano i loro schiavi, si alleano con Sparta e aprono le porte al nemico.» 12
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S’interruppe per una lunga pausa. Riavvicinatosi, mi prese il volto tra le mani, come a volermi baciare, e mi guardò intensamente negli occhi. Anche questa volta dal suo sguardo non trapelò alcuna emozione. «La morte di Periandro, il campione olimpico, il loro pupillo più promettente, mio caro arciere, può essere questa scintilla. Nei prossimi giorni saranno paralizzati dal dolore e dallo spavento, ma presto il loro lutto si trasformerà in rabbia. Daranno la responsabilità della sua morte a noi e alla democrazia…», fece di nuovo una pausa durante la quale non mi tolse gli occhi di dosso. Mi stava così vicino che sentivo il calore del suo fiato. «Solo tu, Nicomaco, puoi evitare tutto ciò.» Le mie ginocchia cominciarono a tremare. «Come devo fare, mio Signore?», chiesi abbassando il capo. «Cercherai l’assassino, lo troverai e lo consegnerai alla famiglia. Ecco cosa farai, mio caro Nicomaco. Gli dimostreremo che la loro perdita è la nostra perdita, il loro dolore il nostro dolore, la loro vendetta la nostra vendetta. Ciò li acquieterà nei nostri confronti.» Rimase immobile davanti a me come una statua. Il cuore mi batteva in gola, la lingua si appiccicò al palato e non riuscii a staccarla. Alcibiade sorrise soddisfatto, si allontanò e si sedette sul trono. Non osavo quasi respirare. «Non hai domande?», mi chiese dopo un po’. «Certo», balbettai e feci ricorso a tutto il mio residuo coraggio. «Cosa succede se l’assassino è un democratico?» Alcibiade rimase calmo: «In questo caso, a maggior ragione, lo consegniamo alla famiglia. In modo che possano vedere che siamo in grado di scovare l’uccisore fra la massa del popolo. È l’unica strada percorribile». Capii, e incoraggiato dalla sua gentilezza, aggiunsi: «E se non lo dovessi trovare, mio Signore?». L’egemone s’irrigidì. Socchiuse gli occhi, il suo sguardo si fece lucido, quasi febbrile. «Questo non succederà», rispose a bassa voce, e non chiesi altro. Alcibiade fece un segno al funzionario che mi aveva condotto da lui. Questo si avvicinò a noi, senza sollevare lo sguardo da terra. «Lui è Anaxos», disse Alcibiade. «Ti illustrerà tutto ciò che devi sapere. Dovrai fargli rapporto regolarmente. Da lui riceverai tutte le deleghe di cui necessiti; nessuna porta e nessuna bocca rimarranno chiuse dinnanzi a te e nessun segreto ti sarà celato. Anaxos ti darà tutti i soldi di cui avrai bisogno. Se devi corrompere, corrompi. Se devi uccidere, uccidi. Nicomaco, trova l’assassino e sarai debitamente compensato. Trovalo!» Oppure inventatelo, pensai tra me e me, altrimenti morirai e con te i tuoi figli. Il colloquio era terminato. Anaxos s’inchinò dinnanzi ad Alcibiade e mi prese la mano per condurmi fuori. 13
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Anch’io m’inchinai e insieme ci incamminammo verso l’uscita della sala. Solo allora riuscii a contemplarla e a riconoscere i dipinti che ne ornavano le pareti: erano, senza ombra di dubbio, le gesta eroiche di Eracle, ma questo Eracle aveva le sembianze di Alcibiade. Il cuore mi batteva all’impazzata nel petto. Mi sembrò che chiunque potesse sentirlo. Anaxos mi condusse lungo i corridoi fino alla cancelleria, una stanza senza finestre suddivisa in più ambienti, dove lavoravano quattro scrivani. Era un uomo grassoccio, basso di statura, già in età avanzata, con i capelli mossi e grigi e gli occhi acquosi. I suoi movimenti erano lenti e prudenti, il vestiario semplice, quasi modesto. Allora, non sarei mai riuscito a immaginare di cosa fosse capace quell’ometto così cortese. Lo avrei appreso in seguito, molto presto. Il suo regno era una stanzetta buia, illuminata solo dalle lampade a olio e da una piccola apertura sul soffitto; l’odore d’innumerevoli pergamene e dell’olio bruciato si mescolava a quello del sudore del vecchio. Lungo le pareti vi erano degli scaffali e nel mezzo della stanza c’era un tavolo enorme con più ripiani. Le fiammelle delle lanterne tremolavano e proiettavano ombre guizzanti sulle pareti. «Hai sentito Alcibiade», esordì con una voce insolitamente soave, dopo essersi seduto alla scrivania, «sai cosa c’è da fare. Non devo essere io a spiegarti ancora una volta quanto sia importante che tu abbia successo». Poi, sorridendo, mi porse una piccola pergamena e un sacchettino nel quale tintinnavano alcune monete. «Qui hai il mandato e i soldi», continuò, «sei stato nominato emissario speciale, ogni funzionario e ogni soldato della città dovranno ubbidirti. Ciò che farai con questo denaro è affare tuo, noi non pretendiamo alcun resoconto. Se avrai bisogno di più soldi non dovrai fare altro che chiedere. Ci sono mille dracme pronte per te. Un cenno e sono tue». Mi strizzò l’occhio e si sfregò le mani. «Avrai sicuramente altre domande da fare oltre a quelle che già sei riuscito a porre all’egemone.» «Sì, certo», ammisi e per un momento credetti di potermi fidare di Anaxos. «Perché Alcibiade ha scelto proprio me? Gli arcieri non si occupano di delitti, ma controllano le strade e la quiete pubblica.» «Per due motiv», rispose Anaxos in un tono così amabile da far pensare che fossimo amici da una vita. «Sappiamo che sei stato tu a rendere efficiente l’attuale corpo degli arcieri. I toxòtai sono rispettati in città e ti saranno di grande aiuto nelle indagini. Questo è il primo motivo. Tu stesso, inoltre, rappresenti il secondo. Hai una reputazione irreprensibile e sei incorruttibile; sono qualità molto rare ai nostri giorni. Sappiamo anche che non ami Alcibiade – sì, i muri hanno orecchie, caro Nicomaco – ma proprio 14
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per questo la famiglia di Periandro avrà fiducia in te e da ciò dipendono molte cose. Devono credere che vogliamo scovare l’assassino di Periandro e tu sei parte della nostra credibilità. Lo vuoi trovare, non è vero?» «Certo che lo voglio», risposi con il coraggio di un coniglio in trappola. Cos’altro potevo fare? Anaxos mi guardava dritto negli occhi, senza smettere di sorridere. Aveva qualcosa che ricordava un nonno gentile dalla voce chiara e morbida… «Dove si trova ora il cadavere di Periandro? Ancora nei pressi della porta Itonia?» «No», rispose Anaxos, «l’abbiamo portato a casa dei suoi genitori, davanti alla porta ci sono due guardie che fanno in modo che nessuno tocchi nulla». «Dove si trova la casa?», chiesi, facendo scorrere lo sguardo nella piccola stanza. Gradualmente i miei occhi si erano abituati al buio. Gli scaffali intorno a noi erano stipati di pergamene con sigilli in terracotta; riconobbi l’emblema del Re di Persia e i sigilli di Tebe e di Sparta. Anaxos si schiarì la gola. Intendeva richiamare la mia attenzione. «Fuori dalle mura della città», rispose. «La famiglia risiede nelle vicinanze della strada che porta a Kephisia. Ti indicherò la via. Avrai bisogno di un carro.» «Ci sono testimoni?», chiesi. «Finora non ne abbiamo trovati. Non sappiamo ancora nulla», rispose rammaricato, «per questo è molto importante che inizi immediatamente il tuo lavoro. E fai in modo che la famiglia di Periandro lo venga a sapere il più presto possibile». Con un gesto della mano mi fece capire che dovevo congedarmi. «Bene», conclusi, «andrò prima alla porta e controllerò il luogo del ritrovamento del corpo. Poi andrò a casa della famiglia. Puoi mandare un medico a visitare la salma?». «Lo farò», rispose un po’ stupito. «Ti manderò il migliore che abbiamo.» Anaxos si alzò, mi sfiorò appena le spalle, come aveva fatto Alcibiade nel salutarmi, e mi augurò buona fortuna. Poi mi condusse lungo i corridoi dello Strategheion fino al portale principale, dove mi aspettava Licone. Accanto al mio amico c’erano i nostri vestiti, piegati, lavati e profumati. Anaxos ci diede il tempo di cambiarci, poi si congedò. «Se hai bisogno di aiuto o hai domande da fare rivolgiti a noi», disse. «In questo palazzo siamo a conoscenza di molti fatti che ad altri sono celati. Non ti dimenticare di fare rapporto ogni tre giorni. Non scrivere, riferisci solo a me e a nessun altro. Hai capito? Le guardie ti faranno passare in qualsiasi momento.» Annuii. «Sì, signore.» «Ora vai.» 15
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Pronunciate queste parole si girò e scomparve nei corridoi. Licone sembrò sollevato. Gli feci cenno di uscire e di tacere. Fuori, le ombre si erano allungate e le strade e le piazze di Atene si erano animate. Gli schiavi si dirigevano con grandi cesti verso l’Agorà per fare gli acquisti serali; gruppi di uomini erano riuniti a chiacchierare. Due dei miei arcieri facevano la ronda di fronte all’Areopago. Li chiamai. Erano persone affidabili. A uno chiesi di andare a casa mia e di avvisare mia moglie e mio padre che sarei rientrato tardi, ma che non dovevano preoccuparsi. A un altro ordinai di avvertire i sottoufficiali che volevo incontrarli l’indomani mattina presto. I due soldati annuirono, salutarono e andarono via. Davanti alla scalinata dello Strategheion ci aspettava un magnifico carro trainato da due destrieri neri dal manto lucido e dalle forme agili. Alcibiade possedeva sempre e comunque i cavalli più belli. Licone mi chiese che cosa l’egemone avesse voluto da me e gli raccontai brevemente della morte di Periandro e del mio incarico. Non gli svelai le ragioni di Alcibiade e Licone non mi chiese nulla in proposito. «Pensi di essere in pericolo?», domandò preoccupato. «Sì», risposi. Ci avvicinammo al carro in silenzio e salimmo. Il cocchiere fece un cenno col capo e partì. Era un tipo rozzo, con una cicatrice che gli divideva a metà quasi tutta la faccia. Partiva dall’occhio destro e passava sopra il naso fino alla guancia sinistra, conferendo alle sue già sgradevoli sembianze un’espressione brutale. La sua guida non era da meno. Sfrecciava all’impazzata per le strade e per i vicoli in direzione della porta Itonia senza il minimo riguardo per le persone: donne, bambini, anziani, giovani dovevano scansarsi al suo violento passaggio. A un tratto quasi investimmo una vecchia. La poveretta riuscì a salvarsi per un pelo, buttandosi in un angolo pieno di immondizia. Il nostro cocchiere rimase imperturbabile e continuò a frustare i cavalli come se nulla fosse. Alla porta Itonia ci aspettavano due efebi in armatura. I due giovani militari al servizio di leva sorvegliavano, con le lance incrociate e le facce severe, tutta l’area, dalla porta fino alla dogana attigua e tenevano lontani i passanti curiosi. Scesi dal carro, la gente s’inchinò e mi fece largo. Cercai di ispezionare il terreno, ma non c’era molto da vedere: sul suolo d’argilla secco e duro s’intravedevano a mala pena delle impronte. Solo una chiazza di sangue scuro e coagulato rivelava il punto dov’era stato ritrovato il corpo di Periandro. «Siete voi che avete trovato il morto?», chiesi ai due giovani. No, erano stati chiamati per aiutare a caricare il corpo senza vita su un carro. Ma erano riusciti a vedere il morto ancora nella stessa posizione in cui era stato rinvenuto. Il sangue era il suo. Il cadavere giaceva rigido in 16
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posizione supina, la nuca, la bocca e il naso erano pieni di sangue. Oltre al corpo del morto non era stato trovato nulla. «Nessuna fiaccola o lume?», volli sapere. In teoria Periandro doveva avere una luce con sé di notte, le strade erano buie, c’era la luna nuova. Ma no, nessuna fiaccola, nessun lume. «Com’era vestito?» «Indossava un chitone chiaro», rispose il più alto dei due. Nessun mantello, né copricapo, nessuna scarpa o sandalo. I due non sapevano altro. Li lasciai in pace e osservai con più attenzione le impronte. La maggior parte di esse era di semplici sandali che potevano appartenere sia ai soccorritori, sia all’assassino. Non servivano a nulla. Solo un’orma fra tutte era difficile da attribuire e sembrava appartenere più a una scarpa con la punta rialzata che a un sandalo. Chiamai Licone e gli chiesi di analizzare ancora una volta con me il suolo, ma nemmeno lui riuscì a scoprire nulla. Non c’erano né segni di colluttazione né impronte di carri. Se Periandro era stato assassinato qui, era successo rapidamente, senza che avesse nemmeno il tempo di difendersi. Se invece l’avevano portato qui, l’avevano trasportato a braccia. «Cosa ne pensi», chiesi a Licone, «Periandro è stato ucciso qui?». Licone annuì. Vidi i suoi occhi riempirsi di lacrime; la cosa sembrava colpirlo. Decisi di proseguire con l’indagine e congedai i giovani soldati. Ormai non c’era più nulla da sorvegliare e noi non avevamo più nulla da scoprire. «Alla casa paterna di Periandro, ma lentamente e in silenzio», ordinai al conducente salendo nel carro. Mi guardò come se gli avessi chiesto qualcosa di sconveniente.
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