Parola di comico di Enrico Giacovelli

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«Gli Album»

PAROLA DI COMICO


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Enrico Giacovelli

PAROLA DI COMICO IL CINEMA COMICO AMERICANO Vol. 3: La “slapstick comedy” negli anni d’oro dei cartoon e della commedia sofisticata (1930-1950)


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Copertina: Patrizia Marrocco In copertina: Stan Laurel e Oliver Hardy in The Flying Deuces (1939), Charlie Chaplin in The Great Dictator (1940), Cary Grant e Katharine Hepburn in Bringing Up Baby (1938), Groucho Marx in una posa degli anni ’30, Bugs Bunny in Slick Hare (1947), Daffy Duck in Duck Amuck (1953), Buster Keaton in Free and Easy (1930). In quarta di copertina: Stan Laurel e Oliver Hardy in A Chump at Oxford (1940), Claire Bloom e Charlie Chaplin in Limelight (1952),The Marx Brothers in Duck Soup (1933). Crediti fotografici: La gran parte delle immagini è tratta da fotogrammi dei film citati e dall’archivio personale dell’Autore. Quanto alle altre foto di questo volume destinato alle discipline universitarie dello spettacolo, per quanto possibile l’Editore ha cercato di risalire al nome del loro autore così da darne la doverosa segnalazione, ma le ricerche si sono rivelate infruttuose. Scusandosi dunque per qualunque eventuale omissione, l’Editore si dichiara disposto sin d’ora a revisioni in sede di eventuali ristampe e al riconoscimento dei relativi diritti ai sensi dell’art. 70 della legge n. 633 del 1941 e successive modifiche. Fotocomposizione: Romano Bottini – Roma Stampa: Peruzzo Arti Grafiche – Mestrino (PD) 2017 © Gremese International s.r.l.s. – Roma Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualunque modo e con qualunque nezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-8440-804-4


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Indice Il fascino indiscreto della borghesia: dal comico muto alla commedia senza parole . . . . . .

La commedia dei sessi * He Comes Up Smiling: Douglas Fairbanks * La crociata antislapstick e le prime sofisticazioni * Lo spettacolo dello spettacolo (Slapstick Memories) La coppia più comica del mondo: Laurel & Hardy sonori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Basta guardarli (La poetica dei fanciullini) * Altri bei pasticci: i cortometraggi sonori * I lungometraggi e il senso dell’amicizia e della morte * Addio amici!: Dagli ultimi lungometraggi ai filmini familiari * I figli dei Figli del Deserto Buster parla (poco) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

La carta perdente * Il garzone di mezza età * La fine di un’epoca finita Harold parla (troppo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Movies Crazies: due fiori comici tardivi * Tanto va la gatta al lardo... * Giù dal cornicione Charlot parla (o quasi) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Il sorriso del silenzio: Luci della città * La ricerca della felicità: Tempi moderni * Una questione di baffi: Il grande dittatore W.C. Fields parla, parla, parla... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Fields of the Sawdust * Il cattivo dal cuore d’oro * L’uomo che odiava i bambini Il (non) senso della vita: i fratelli Marx . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Fratelli di un altro pianeta * Teatro e cinema-teatro * Cinema-cinema: rivoluzione! * Cinema-cinema: restaurazione * Invaders from Marx Gli altri team comici e lo slapstick con musica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Sette note in nero (su bianco): Eddie Cantor * Coppie e fotocoppie * Non c’è due senza tre: Ritz & Stooges * Giaaaanni!!!! (Abbott & Costello, la coppia dei poveri) * Road to Normality: i viaggi musicali di Bob Hope & Bing Crosby Se non son matti non li vogliamo: la screwball comedy . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Screwball vs Sophisticated * Screwball vs Slapstick * Vite svitate: l’età d’oro dello stile screwball * La commedia delle sculacciate e dei ciuffi ribelli * La fine del gioco * P.S. (Preston Sturges) Il regno comico di Cartoonia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Il ruggito del topo: la dittatura diWalt Disney * I primi anti-Disney: Iwerks,Van Beuren, Lantz e i Fleischer * What’s Up Doc? - La libera repubblica della Warner * Tex Avery alla MGM Magia delle luci della ribalta... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Il miglio verde di Charlot * Il clown e la ballerina Indice e videografia dei film . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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PREMESSA Dopo i primi due volumi della nostra storia del cinema comico americano, dedicati esclusivamente all’arte muta, entriamo con questo terzo volume in un regno che per molti è quello del cinema tout court: il lungometraggio sonoro. Si tratta, perlopiù, di film che hanno avuto una distribuzione italiana: la maggior parte su grande schermo; una più piccola parte, negli ultimi anni, in videocassetta, dvd e blu-ray. Per tutti questi lungometraggi – e anche per i pochi lungometraggi muti di cui ancora si parla – ci è sembrato giusto utilizzare di default il titolo italiano (con quello originale tra parentesi soltanto alla sua prima apparizione). È vero che spesso i titoli italiani sono infedeli e brutti, ma quest’opera non intende rivolgersi soltanto agli addetti ai lavori. Per cui preferiamo parlare, sia pure a malincuore, di Mancia competente e C’era una volta un piccolo naviglio, poiché non tutti i lettori li riconoscerebbero dagli originali Trouble in Paradise e Saps at Sea. Fanno eccezione i pochi lungometraggi sonori che non hanno avuto, per quanto ci è dato sapere, una distribuzione italiana (anche se potrebbero averla, da un giorno all’altro, in dvd o blu-ray). In questo caso si userà il solo titolo originale, rimandando agli indici per la sua traduzione letterale. Tuttavia in molti capitoli importanti, come quelli su Laurel & Hardy “sonori” e sui cartoon, sono ancora protagonisti i cortometraggi. Per questi ultimi, proprio come per la maggior parte dei film muti dei precedenti volumi, è spesso difficile avere la certezza di una distribuzione italiana e la disponibilità di un unico e univoco titolo italiano. Molti corti di Stanlio e Ollio, ad esempio, hanno almeno tre o quattro titoli italiani, e spesso nessuno di essi corrisponde all’originale. Quanto ai cartoni animati, ancora oggi appaiono in dvd o in televisione con i titoli italiani più disparati, e talvolta senza un titolo italiano anche quando sono stati doppiati. Per tutti i cortometraggi, dunque, useremo in questo libro solo e soltanto il titolo originale inglese, rimandando all’indice analitico per le sue versioni italiane o la sua traduzione letterale. Per ragioni di spazio e di agilità di lettura, infine, non si riporterà tra parentesi nemmeno alla prima apparizione il titolo originale di quei lungometraggi a cui si accenna nel libro ma che non appartengono al cinema comico americano (o perlomeno non a quello del periodo trattato). Parleremo dunque di Spettacolo di varietà, A qualcuno piace caldo e Prendi i soldi e scappa, non di The Band Wagon, Some Like It Hot e Take the Money and Run. Allo stesso modo in cui, in un saggio italiano di teatro che non sia strettamente destinato agli addetti ai lavori si parla correntemente di Sogno di una notte di mezza estate e non di A Midsummer Night’s Dream. Il cinema può ormai essere accettato, nel ventunesimo secolo, come fenomeno d’arte e di cultura non inferiore agli altri e merita dunque uguale trattamento.


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Torte in faccia e calci nel sedere Il primo volume in 3 pagine e 9 fotografie

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a grande avventura del cinema comico americano inizia ufficialmente, come quella del cinema tout court, fra il 1895 e il 1896. Già la prima proiezione pubblica a New York includeva due film comici, anche se come tutti i film dell’epoca duravano meno di un minuto. Lo stile dei primi quindici anni di cortometraggi è ancora rudimentale, il cinema americano scopiazza quello francese senza riuscire a eguagliarlo. Ma già si intuiscono e si delineano molti temi futuri. Perfino Billy Wilder, nel 1955, si ispirerà per la sua scena più proverbiale a un piccolo film a inquadratura unica del 1901.

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ra trucchi ingenui, cadute nei ruscelli, cappelli al vento e clown a quattro zampe, due elementi diventano la base del nuovo linguaggio e il simbolo di un’intera epoca: le torte in faccia e i calci nel sedere, che i personaggi di quei film si scambiano come noi ci scambiamo saluti e strette di mano. Ma anche le corse a perdifiato, intese soprattutto come inseguimenti, si diffusero rapidamente, dapprima a piedi e poi sempre più spesso in automobile: ne fu re Mack Sennett, che inventò quasi da zero il cinema comico propriamente detto circondandosi di poliziotti stupidi, bellezze al bagno e cascatori abilissimi.

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a sua prima scoperta importante fu anche la sua fidanzata prediletta e la prima e quasi unica diva comica della storia del cinema: Mabel Normand, bella ragazza dagli occhi dolci capace però, al momento giusto, di assestare gli imprescindibili calci nel sedere. La sua carriera e la sua vita si fermeranno a 35 anni, stendendo su quell’allegria forsennata un velo di tristezza postuma.

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uo compagno sullo schermo era stato negli anni migliori il rotondo, paonazzo, fanciullesco Fatty Arbuckle, primo di tanti comici grassi che occuperanno per molti anni inquadrature e film. La sua comicità non fu quasi mai raffinata, il suo modo primario di esprimersi erano i colpi di pancia, e dietro l’ingenuità sembrava covare qualcosa di perverso. Infatti, la sua carriera fu irrimediabilmente compromessa da un evento che niente, o poco, aveva a che vedere con i suoi film.

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alla scuderia di Sennett uscì anche, nel 1914, l’uomo che rivoluzionerà non soltanto il cinema comico ma il cinema tutto, diventandone l’icona per eccellenza e trasformando il divertimento da fiera in forma d’arte: Charlie Chaplin. Benché avesse esordito come cattivo, si calò quasi subito nei panni che lo avrebbero reso famoso: il vagabondo dai pantaloni e dalle scarpe troppo grandi. Anche il suo cuore era molto grande e ne fece un comico universale, amato a tutte le latitudini e perfino da chi dell’America non amava nient’altro. Per la prima volta con lui la comicità rivelò il proprio fondo traggico.

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aranno soprattutto i posteri a contrapporgli, suscitando vere e proprie querele, un omino dalle grandi doti acrobatiche e dal volto di pietra: Buster Keaton. Aveva cominciato come spalla di Fatty Arbuckle, ma il ruolo stava stretto alla sua intelligenza comica e a partire dal 1920 iniziò a fare le cose da solo – o al massimo, in uno dei suoi corti più famosi, in compagnia di altri otto Keaton. Anche se talvolta emerge in lui un americanismo un po’ troppo muscolare, che si andrà accentuando nei lungometraggi, nessun comico uguaglierà le sue doti di regista.

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l terzo genio della comicità americana, Harold Lloyd, portava gli occhiali, sempre e dovunque, ma come il quasi contemporaneo Superman sapeva trasformarsi, al bisogno, in eroe aereo e vincente. Questo lo ha reso meno popolare fuori dall’America, ma i suoi cortometraggi non sono stilisticamente inferiori a quelli di Chaplin e Keaton.

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ncora di più ci si è dimenticati, in America come in Europa, del comico che negli anni d’oro fu secondo soltanto a Chaplin per fama e incassi: Larry Semon, conosciuto in Italia come Ridolini. La sua comicità era fisica e frenetica, fatta di inchiostro e farina, travolgente e infantile. Cadere dalla cima di una torre e rialzarsi fischiettando era il tran tran quotidiano. Pochi oggi ne ricordano il volto, e si attende una giusta rivalutazione. Ma intanto in Italia, scacciato dalle enciclopedie, Ridolini si è appropriato dei dizionari diventando addirittura un modo di dire.

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iniziata da qualche tempo, invece, la rivalutazione del comico che fu definito ‘il quarto clown’, benché la sua comicità fosse più da commedia che da farsa: Charley Chase. I suoi cortometraggi sono tra i migliori dell’epoca per intelligenza e ricchezza di trovate, ma il suo personaggio e il suo volto erano un po’ troppo normali, noiosi, e il suo nome di battesimo comico un po’ troppo inflazionato: due Charlie erano troppi per la storia del cinema, e a breve ne doveva arrivare pure un altro...

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Il silenzio è d’oro Il secondo volume in 3 pagine e 9 fotografie

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ell’esercito del cinema comico americano muto si arruolarono anche centinaia di comici che oggi vengono considerati minori (o non vengono considerati affatto) ma che all’epoca non erano meno noti di quelli più noti: da John Bunny a Lloyd Hamilton, da Ben Turpin a Paul Parrott, da Lupino Lane a Max Davidson, e tanti altri ancora, inclusi cani, scimmie, bambini e addirittura ragazze.

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ppartengono all’universo slapstick anche i primi eroi di cartone: i dinosauri e le zanzare di Winsor McCay, le bambine e i conigli del giovane Disney, il clown Koko che rinasce ad ogni cartoon dal calamaio del suo disegnatore, il gatto Felix così celebre che perfino Lindbergh se lo portò appresso quando sorvolò l’Atlantico.

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l mondo dei cartoni e quello degli umani trova un punto d’incontro (e qualche volta di scontro) negli inconfondibili e irresistibili cortometraggi misti di Charley Bowers, comico e animatore che fu apprezzato tra gli altri da André Breton e Chuck Jones, ma che per circa cinquant’anni verrà completamente rimosso dalla memoria del pubblico e dalle storie del cinema.

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ll’inizio degli anni ’20 è ormai tempo di lungometraggi, anche per il mondo slapstick. Charlie Chaplin vi approda con Il monello e raggiunge poi la perfezione muta con due toccanti e al tempo stesso spassose tragicommedie, La febbre dell’oro e Il circo.

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gnuno ha i propri padri più o meno segreti nel cassetto. Quello di Charlie Chaplin è un comico francese, Max Linder, che era il più celebre del mondo prima che scoppiasse la Grande Guerra e che tentò di rigenerarsi in America con tre cortometraggi e tre lungometraggi. Il successo lo raggiunse a bordo del piroscafo che lo stava riportando definitivamente in Europa.

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er Harold Lloyd il passaggio dal corto al lungometraggio avvenne gradualmente, ma nel corso degli anni ’20 lo portò in cima ai botteghini e soprattutto in cima al palazzo di Preferisco l’ascensore, una delle icone per eccellenza del cinema comico di tutti i tempi.

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uster Keaton non ritrova sempre, nei suoi tredici lungometraggi muti, la perfezione dei corti, e qualche volta indulge a un certo americanismo deteriore (come nel sopravvalutato Come vinsi la guerra). Ma il suo genio comico e il suo talento registico ne fanno comunque l’unico autore comico degli anni ’20 non inferiore a Chaplin.

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l culmine della carriera cinematografica di Harry Langdon, il comico con la faccia da bambino triste, si inscrive in pochissimi anni, tra il 1923 e il 1927, e in tre soli lungometraggi degni di nota: la sua comicità era troppo lenta, indiretta, sembrava quasi lasciar scegliere al pubblico se ridere o no. Ma la sua timida gentilezza ci intenerisce ancor oggi.

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rovenienti da due carriere solistiche interessanti ma non eccezionali, Stan Laurel e Oliver Hardy si incontrano – dopo essersi più volte sfiorati – nel 1927 e diventano la coppia comica per eccellenza e per antonomasia. Se oggi sono più popolari i loro film parlati, quelli senza parole (pur raggruppati nel giro di tre anni soltanto) non sono per nulla inferiori e si possono anzi considerare l’ultimo grande risultato dell’arte comica muta. «Se proprio dovete fare rumore, fatelo in silenzio!».

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a fine del muto sembra per qualche tempo la fine del cinema comico, se non addirittura la fine del cinema. Di certo è la fine di molti comici, che dopo aver tanto scherzato con la vita e con la morte vanno a comporre una sorta di slapstick-Babilonia.Triste destino per chi ci ha fatto tanto ridere. Ma il cinema comico, che combatte la morte fin dai primordi, non ha alcuna intenzione di cedere: infatti c’è ancora un intero libro da leggere...

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Il fascino indiscreto della borghesia: dal comico muto alla commedia senza parole – Sii raffinata. – Da anni mi alleno a esserlo. Una collega alla manicure e aspirante milionaria Carole Lombard: I milioni della manicure, 1935

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uando il cinema muto giunse poco più che trentenne alla fine dei propri giorni, si cercò di seppellirlo il più in fretta possibile come i morti di peste. Improvvisamente sembrò qualcosa di inconcepibile, un’antica colpa da rimuovere, una sorta di medioevo dell’immagine. Purtroppo il pregiudizio è giunto fino a noi e per il pubblico medio di oggi la visione di un film muto suona improponibile come per quello dei primi anni del sonoro. Pochi capirono, e solo Chaplin rimarcò più volte, che insieme al muto fu seppellito anche il cinema comico puro: quelle che noi abbiamo definito slapstick comedies e che ai loro tempi erano chiamate farce comedies, farse. In teoria avrebbero potuto sopravvivere, e in parte lo fecero almeno fino al 1940 in forma di cortometraggi; ma troppo grande era la voglia di parlare e fare musica sullo schermo, quasi si volessero espiare con la sovrabbondanza dei suoni trent’anni di imbarazzante silenzio. Il sonoro partorì due generi che avevano bisogno della musica e della parola per esistere: il musical e la commedia. Quasi tutti i lungometraggi comici dal 1928 in avanti vi rientrano in qualche modo, pur contenendo spesso elementi farseschi che testimoniano i legami di sangue con il genere scomparso. D’altro canto già negli anni d’oro delle farse vi furono film che nonostante l’assenza di parola possiamo definire commedie nel senso moderno del termine: intanto i film comici senza comico, opere farsesche non costruite

però sulla classica figura del comico mattatore; e poi alcuni film in cui la comicità di situazioni e di costruzione conta più delle gag in sé, lo sviluppo della storia più dei suoi intoppi comici. In linea di massima, fin dalle origini, il cinema comico si propone innanzitutto di far ridere (ciò che non esclude automaticamente satira e critica sociale); la commedia di insegnare e fornire esempi morali – in qualche raro caso anche immorali – attraverso il sorriso e una visione umoristica della vita. La commedia accetta il mondo com’è, il cinema comico lo contesta a priori. La commedia è borghese, e

«Falli ridere e li farai felici»: il regista William Haines e l’aspirante attrice drammatica Marion Davies guardano un film comico in Maschere di celluloide (1928).

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nel giro di una ventina d’anni diverrà piccoloborghese; il cinema comico nasce e muore anarchico. Da qui in avanti la nostra breve storia si sdoppierà in due rami: quello principale dei film in cui continuano a prevalere gli elementi comici; e quello secondario – almeno ai fini del presente lavoro – delle commedie brillanti, opere in cui gli elementi comici restano rilevanti ma sono soltanto un mezzo, non più il fine della narrazione. A quest’ultimo filone appartengono, prima della rivoluzione sonora, anche i numerosi film muti che anticipano la fioritura della commedia borghese e parlata degli anni ’30 (quella che raffinerà i propri meccanismi a discapito della comicità più immediata e anche per questo, oltre che per le ambientazioni lussuose, verrà definita “sofisticata”). Non ci si stupisca troppo se questi film muti rientrano in un volume dedicato al sonoro e intitolato Parola di comico: benché siano ridotte per ora al rango di servizio delle didascalie, le parole iniziano a diventare protagoniste e a considerarsi – con una punta di snobismo – più importanti delle immagini. LA

COMMEDIA DEI SESSI

Già prima del 1910 la Vitagraph si era specializzata nelle cosiddette “scene di vita reale”, che utilizzavano spesso piani ravvicinati puntando su una recitazione sobria e su vere e proprie trame. Molti di questi film si possono definire con il senno di poi commedie: raccontavano sempre la stessa storia, quella di due giovani di sesso diverso e razza bianca che si incontrano, si innamorano, si sposano; e per la prima volta l’happy end, frequente ma non necessario nei film dei primordi, divenne quasi obbligatorio. Fu però alla Biograph, dal 1909, che alcuni registi – fra cui Griffith – iniziarono a sfornare pellicole di una decina di minuti che raccontavano con toni umoristici la vita dell’epoca e i rapporti tra uomo e donna. Se nelle farse regnano gli uomini e le donne

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sono soltanto prede o tappezzeria, in queste commedie di costume esse diventano le vere protagoniste, sia che si ironizzi su di loro sia che si tenti di sposarne il punto di vista. Potremmo arrivare alla conclusione, sostanzialmente valida per i successivi cento anni di film, che il cinema comico è maschio, la commedia femmina, come risulta dai due termini in italiano ma anche in francese, tedesco e spagnolo. Insieme alla donna emerge una classe sociale che ne rispecchia gli orizzonti esistenziali e sentimentali: la borghesia. Nei film comici di inizio secolo le figure più diffuse erano il vagabondo e il campagnolo, adesso crescono di importanza – come nella società reale – i borghesi di città con la loro divisa identificativa: l’eleganza esteriore. Tutti questi elementi si ritrovano in un divertente cortometraggio di Griffith del 1909, Those Awful Hats, dove la pace di un cinematografo è turbata dall’arrivo di alcune signore con cappelli di ogni sorta, tutti molto ingombranti, che tolgono la visuale a chi sta dietro: si viene a creare un’enorme confusione in sala, finché una gru cala dall’alto come gli antichi dei ex machina e strappa il copricapo di una signora tra gli applausi del pubblico maschile; le altre si tolgono il loro, ma una si ostina a tenerlo, allora la gru giustiziera torna giù e si porta via cappello e relativa signora. La breve pellicola si riallaccia a quelle dei primordi sulle reazioni degli spettatori di fronte al nuovo prodigio tecnologico, ma la meraviglia per ciò che accade sullo schermo sembra già finita: le cose che contano accadono in sala, nessuno più si cura delle vicende del film proiettato. Se questa perfida situation farce è più misogina di una vignetta da Settimana enigmistica, altri film di Griffith dello stesso anno guardano la battaglia dei sessi dal punto di vista dell’amorevole nemico. In The Gibson Goddess l’intera popolazione maschile di una località balneare corteggia una bella dama senza darle un attimo di tregua (c’è anche la solita panchina, che ospita non uno ma una decina di spasimanti): la donna, esausta, compra allora un paio di calze


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Se la signora non si toglie il cappello in sala, non resta che rimuovere meccanicamente il cappello. O la signora. (Those Awful Hats, 1909).

che le deformano le gambe e in men che non si dica allontana tutti i corteggiatori tranne uno – evidentemente sincero, o mezzo cieco, o più furbo degli altri. Le potenziali situazioni comiche non vengono spinte alle estreme conseguenze, le psicologie dei personaggi e le schermaglie uomo-donna contano più delle corse e dei ruzzoloni: benché tutto si risolva in una sola gag, poco più che una barzelletta, il tono di fondo è da commedia, più divertito che comico.

E in Politician’s Love Story si affaccia timidamente la satira: un politicante corrotto, impersonato da Mack Sennett, scova su un quotidiano una vignetta che lo mette in burla e si precipita nella redazione del giornale con la rivoltella in mano, deciso a punirne l’autore; ma quando scopre che si tratta di una bella donna cambia di punto in bianco atteggiamento, inizia a corteggiarla e poche inquadrature dopo ne è innamorato. Lo vediamo angustiarsi, seduto da solo sulle panchine di Central Park, nel guardare le coppie felici che passeggiano, e con il senno di poi ci sembra già di vedere Jack Lemmon nell’Appartamento di Billy Wilder. Ma come in ogni commedia che si rispetti, c’è dietro l’angolo il finale lieto con bacio, pacifica-

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Central Park per soli uomini, o meglio per uomini soli, nel 1909 (Politician’s Love Story) come nel 1960 (L’appartamento).

zione sociale e probabile matrimonio tra uomo e donna nonché tra stampa e politica. Griffith aveva uno scarso senso dell’umorismo e all’epoca sfornava a getto continuo commedie e melodrammi, polizieschi e western, senza troppo badare alle differenze. Ma non è troppo azzardato attribuirgli, tra le varie invenzioni più o meno involontarie, quella della commedia sofisticata. Anche una delle prime donne-regista, la francese Alice Guy emigrata in America nel 1907, prediligeva le commedie sui sessi, con tutto che fosse partita dalle féeries parigine in cui i bimbi nascono sotto i cavoli. A House Divided (1913) potrebbe già essere, nel soggetto e in parte perfino nello stile, una commedia di Lubitsch, con due giovani coniugi che sospettano reciproci tradimenti e decidono di fare i separati in casa comunicando soltanto per iscritto. Non basta l’happy end di routine a farci sentire del tutto tranquilli. Nello stesso anno Matrimony’s Speed Limit presenta una situazione riproposta poi da svariate farse e commedie: l’uomo che erediterà una cifra da capogiro a patto di ammogliarsi entro poche ore. Diversamente che nei futuri classici slapstick, in questi corti diretti da una donna traspare il punto di vista delle donne e spesso le protagoniste sono equiparate narrativamente ai partner maschili. In Making an American Citizen (1912), sulla vita americana di una coppia di immigrati russi, le rivendicazioni femministe assumono connotati quasi drammatici; in A Severe Test (1913) vediamo con gli occhi di una

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moglie la differenza tra i primi giorni di un matrimonio e la vita che viene poi, non tutta rose e baci. E da donna, per di più francese, la Guy poté permettersi anche le prime trasgressioni gay. In Cupid and the Comet (1911) una ragazza è costretta a fuggire di casa in abiti maschili con

Gli inizi e le fini dei matrimoni: A Severe Test (1913).


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per buona parte del film le movenze effeminate del protagonista ci hanno fornito ben altre e più maliziose indicazioni. C’è già qualcosa del futuro spirito “screwball” in questo cortometraggio anticonformista più per natura che per scelta. Il cinema comico puro si apprestava a operare trasgressioni sull’intero universo; la commedia le avrebbe operate, nei limiti concessi prima dal gusto e poi dalla censura, sul piccolo universo privato dell’amore e del sesso.

HE COMES UP FAIRBANKS

Algie e i rudi maschiacci del Far West: Algie the Miner (1912).

il proprio spasimante, sicché un bizzarro prete effeminato si ritrova a dover sposare quelli che lui crede due uomini. In Officer Henderson (1913) un poliziotto si traveste da donna per mischiarsi alle commesse di un negozio e aiutarle a individuare i responsabili di alcuni furti: già è divertente che lui ci prenda gusto, ma la commedia si fa davvero intrigante quando la moglie trova in un armadio gli abiti femminili del marito, pensa che abbia un’altra donna e incontrandolo travestito lo prende a borsettate perché lo crede la sua amante. L’ambiguità regna sovrana anche in Algie the Miner (1912), dove il protagonista Billy Quirk deve provare al padre della fidanzata e al mondo di essere un uomo, nel senso di macho; ma ai rudi maschiacci che lo accolgono sul luogo della prova – il selvaggio West – dispensa bacetti e sguardi furtivi. Il finale eterosessuale cerca di rimettere le cose al loro posto, ma

SMILING:

DOUGLAS

A cavallo tra farsa e commedia, saldamente appeso a un cornicione pencolante, trova posto nella storia del cinema comico anche Douglas Fairbanks, ricordato dai più soltanto come protagonista di film avventurosi tutti ottimismo e acrobazie. In fondo le commedie erano acrobazie dell’ottimismo e Fairbanks ne interpretò una trentina fra il 1915 e il 1920 portando nel nascente genere declinato al femminile una carica baldanzosamente maschile. Rispetto alle coeve farse di Sennett questi film ricchi di azione e azioni, spesso scritti da Anita Loos e diretti dal suo futuro marito John Emerson, possono sembrare perfino abbottonati: anziché mettere sottosopra il mondo ci giocherellano senza scomporlo. La comicità qui non si prende troppo sul serio; e se talvolta è il mezzo, non è mai il fine. Molto di più contano le bravate atletiche del protagonista, che se deve entrare in una casa opta per la finestra e se deve oltrepassare uno steccato nemmeno ci prova ad aprirlo: preferisce saltarlo a piè pari come un fantino – o meglio come un cavallo – in un torneo di equitazione. Oggi, a mito estinto da quasi un secolo, il mitico Fairbanks ci appare un uomo di mezza età anche da giovane (al tempo di questi film aveva poco più di trent’anni), tozzo, sgraziato e con la faccia da zia. Ma agli albori del divismo folgorò il pubblico sia maschile che femminile: non per la bellezza, e meno che mai per la comicità, ma in quanto espressione di ottimi-

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Ordinaria, tranquilla vita quotidiana di Douglas Fairbanks lontano dal set (da solo e con la moglie Mary Pickford).

stica e contagiosa energia vitale. Il suo sorriso largo, ipervitaminico, carico più di esuberanza che di cordialità, anticipa di una trentina d’anni quello di Gene Kelly. Il segreto del suo successo è racchiuso nel titolo di una commedia del 1918, He Comes Up Smiling, dove pure lo vediamo, all’inizio, chiuso in una grande gabbia da uccelli (è un impiegato di banca): ne esce naturalmente con un sorriso. Questa era la sua natura, fin da quando si agitava sui palcoscenici di Broadway e l’impresario William A. Brady diceva di lui: «Trabocca di energia al punto tale che mi stanco anche soltanto a guardarlo mentre sta seduto». Ancora in una deliziosa commedia russosovietica del 1926, Il bacio di Mary Pickford (Poceluy Meri Pikford) di Sergej Komarov, la protagonista Anjus˘ka Sudakevic˘ vorrebbe che il corteggiatore tontolone Igor Il’ins˘kij assomigliasse a Douglas Fairbanks, allora lo spasimante inizia a saltarle per casa e ballarle sui tavoli devastando una festa di compleanno. La ricetta Fairbanks era un insieme di eccezionalità e normalità, come a dire che chiunque in America è potenzialmente Superman: all’inizio di The Americano (1916), dove già il titolo si incarica di mettere le cose in chiaro, questo supereroe della porta accanto, che sale su per i muri come fossero scalini, viene definito «the

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regular American». Non manca mai l’ironia nei suoi film, e in qualche caso la comicità è esplicita e di carattere satirico; ma ridere non conta quanto riconoscersi sorridendo in un modello social-familiare preconfezionato, nei cui confini perfino la trasgressione è finalizzata alla conquista della normalità. Anche i film di Fairbanks stanno su un cornicione, in difficile ma quasi sempre vincente equilibrio: un piede nel passato e uno nel futuro, uno nell’America rurale e l’altro nella nascente civiltà cittadina. Sembra delinearsi, prima che sia legittimo e scontato coltivarla, una nostalgia anticipata del modello di vita in via di estinzione: il protagonista di Manhattan Madness (1916), parodia dei serial di azione, è un newyorkese che se n’è andato al West in cerca di avventure e quando torna a casa ne riempie la testa degli amici fino alla noia; il suo concittadino di Wild and Woolly (1917), che sogna da Manhattan il Far West, per sognarlo meglio se n’è costruito uno su misura in ufficio e fa il cowboy a cavallo a Central Park. Perfino il vegetariano salutista di His Picture in the Papers (1916) non vede l’ora in realtà di farsi una bella bistecca come un qualunque guardiamucche delle praterie. Ma il futuro è in agguato e anche cinematograficamente Fairbanks imbocca la strada che porta alla commedia sofisticata e allo screwball


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Douglas Fairbanks in posizione di riposo: The Matrimaniac (1916).

da salotto. In American Aristocracy (1916), la cui didascalia iniziale si domanda se esista davvero un’aristocrazia americana, Douglas non si nega qualche piccolo esercizio quotidiano come salire sul cofano di un’auto in corsa o appendersi ai fili della luce; ma per colpire la ragazza di cui è innamorato non bastano le doti atletiche, deve ricorrere a un’arma più sofisticata e da commedia: il travestimento. E la prima parte di Down to Earth (1917) è ambientata in un sanatorio per malati di mente: il luogo più consono per i futuri protagonisti della screwball comedy. Reaching for the Moon (1917), già quasi un’operetta alla Lubitsch, ambientata nell’immaginaria Vulgaria, è lo specchio della nuova ideologia che pone un freno allo spirito spaccamon-

tagne dei comici puri: la vicenda di principi e re risulta alla fine un sogno del protagonista, impiegato qualunque che al risveglio scopre il valore della vita anonima, normale, americana, e ottiene un aumento di stipendio e il cuore della bella dattilografa. Finisce, sorridendo, in pantofole. Erede delle vecchie comiche di inseguimento, Fairbanks trasforma spesso la loro energia pura in energia finalizzata. Un altro film che lo esprime fin dal titolo è The Matrimaniac (1916), inseguimento lungo un’ora dove però la fuga per la fuga tipica del mondo slapstick diventa fuga d’amore come nelle future commedie di caratteri e sentimenti: se all’inizio Douglas cerca di sposarsi al volo inseguendo con un reverendo in accappatoio il treno su cui si trova la fidanzata, alla fine le nozze vengono celebrate per telefono, con lei già sistemata fra quattro mura borghesi e lui appeso a un palo del telegrafo. Il loro è anche uno dei primi matrimoni tra slapstick e screwball. Ma se i film avventurosi degli anni ’20 e il conseguente immaginario comune faranno di lui soprattutto un D’Artagnan, un Pirata Nero, un Robin Hood, le commedie presofisticate del primo Fairbanks non sono lontane dai lungometraggi slapstick di Keaton e Lloyd, peraltro posteriori. La parentela è confermata dall’ultima delle sue commedie in senso stretto, che appartiene già al nuovo decennio: Un pulcino nella stoppa (The Mollycoddle, 1920), bizzarra vicenda di spionaggio con un’ultima parte western ambientata e girata in un’autentica tribù di indiani. L’entrata in scena di Douglas è un’inquadratura a inganno tipica di Harold Lloyd: lo crediamo a cavallo di un cavallo, invece si tratta soltanto del cavalluccio di una giostra. Anche l’ideologia di fondo, benché più esplicita, non si discosta molto da quella dei comici all american: alla fine il buono a nulla del titolo, rammollito dalla lontananza dagli States, torna in patria e da antieroe si trasforma banalmente in eroe, come Keaton e Lloyd nella maggior parte dei loro lungometraggi. Gli è bastato rimettere piede sul suolo americano per recuperare prodigiosamente la capacità di prendere parte a risse ed esprimersi essenzial-

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Droga, televisione e automobili a scacchi: futuro e futurismo di The Mystery of the Leaping Fish (1916).

mente a pugni. Il ventesimo secolo è avvisato. D’altro canto certe tendenze stanno scritte nel DNA. Già il primo film di Fairbanks (The Lamb, 1915), basato sullo stessa pièce da cui sarà tratto nel 1920 Lo sciocco (The Saphead) con Buster Keaton, presenta una trama e un’evoluzione del personaggio che precedono smaccatamente quelle di Un pulcino nella stoppa. E proprio nel 1920 il film che lancerà Fairbanks come eroe avventuroso, Il segno di Zorro (The Mark of Zorro), si basa su uno schema simile: il rammollito Don Diego de la Vega è in realtà l’intrepido Zorro, anche se la commedia passa in secondo piano dinnanzi all’azione e i sederi si beccano, al posto dei proverbiali calci, qualche più ficcante e oltraggiosa “Z”. Tuttavia Fairbanks, che era amico di Chaplin e dal 1919 sarà anche suo socio, non tralasciò imprese più esplicitamente slapstick, avvalorando in parte l’opinione di Griffith che a inizio carriera gli aveva pronosticato un futuro da comico. Almeno tre suoi film tengono i piedi nello slapstick molto più che nella commedia o nell’avventura. In The Mystery of the Leaping Fish (1916), prodotto dalla Triangle Film Corporation proprio come le comiche Keystone, Fairbanks è uno “scientific detective” che si fa di cocaina, viaggia su un’automobile a scacchi e si circonda di bizzarri marchingegni tra cui una sorta di videocitofono-periscopio. Più che uno Sherlock Holmes è già un ispettore Clouseau, che si getta in mare per salvare una ragazza e alla fine deve essere salvato lui. Nell’ultima sequenza scopriremo, con una carrellata all’indietro dal film,

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che questa parodia di un genere non ancora codificato è soltanto la sceneggiatura che un regista cerca di vendere a un produttore 1. Nel 1919 sarà lo stesso Fairbanks a firmare il soggetto del bizzarro e geniale Quando le nuvole se ne vanno (When the Clouds Roll By) di Victor Fleming, che fonde elementi slapstick, elementi drammatici e soluzioni stilistiche da pura avanguardia – c’è anche l’incontro di una cipolla con lo stomaco in cui è finita e la sua zuffa con un’aragosta. Spunto di partenza sono le vicissitudini di un uomo superstizioso, ma alla fine lo stile conta più dei contenuti e sembra guardarsi allo specchio: come quando il protagonista in crisi sogna l’Ironia, vestita da giullare, che sconfigge la Disperazione a suon di cazzotti e riporta la Ragione sul trono. A parte i cazzotti, concessione alla mentalità americana, la metafora dell’arte della commedia non poteva essere più trasparente. E se non basta, viene ribadita da un happy end così lieto e impossibile da essere quasi la parodia di se stesso: nella valle allagata il matrimonio dei protagonisti è a rischio, ma la chiesetta con il prete se ne arriva da sola portata dalla corrente... Fairbanks collaborò anche alla sceneggiatura di The Nut (1921), per la regia di Theodore Reed: farsa scatenata che non sfigura a fianco dei capolavori in lungo di Keaton o Lloyd e cronologicamente li precede. Douglas è un inventore che nella prima sequenza si sveglia in una stanza automatica tipo quelle di Keaton e fa 1

Sceneggiatura di grande prestigio, visto che fuor di finzione è firmata da Griffith (nell’anno di Intolerance) e dal futuro maestro horror Tod Browning.


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Il fascino indiscreto della borghesia: dal comico muto alla commedia senza parole Le nuvole se ne sono andate, ma per le acque ci vuole ancora un po’ di tempo: Quando le nuvole se ne vanno (1919).

il bagno in una primordiale vasca a idromassaggio. Ma più della trama contano le bizzarrie di passaggio, come il diavolo e Cupido che intercettano le telefonate della gente, e alcune gag irresistibili: l’uomo in mutande che si copre con un abito di cartone ritagliato dai cartelloni pubblicitari, il manichino del poliziotto che viene mollato per sbaglio in mezzo alla strada e crea un colossale ingorgo, il Museo delle Cere dove è pressoché impossibile – per il protagonista come per gli spettatori – stabilire chi è di cera e chi di carne e ossa. Tutte moderne, spiritose variazioni sui temi del finto e del doppio. Certamente Fairbanks non è buffo di per sé come Chaplin o Keaton e mantiene sempre un distacco accomodante nei confronti delle vicende comiche a cui partecipa: quando va a fuoco insieme a una casa e scappa in mutande per le vie della città, il gesto atletico sembra venire prima dell’effetto comico; e quando rifila un calcio nel sedere al poliziotto che crede di cera, lo fa con spensierata leggerezza, senza il gusto di rivalsa tipico di Charlot. Ma i riferimenti espliciti al mondo slapstick non mancano, e per mandare a gambe all’aria un uomo a cui deve a ogni costo parlare Douglas cosparge il marciapiede di bucce di banana.

I due Fairbanks: il buffone e l’eroe. Il pubblico sempre più omologato degli anni ’20 chi sceglierà? (The Mystery of the Leaping Fish, 1916, e Il segno di Zorro, 1920).

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Non a caso, in una spassosa sequenza di finti travestimenti alla Fregoli, appare per qualche secondo un sosia di Charlot (e resta ancora oggi il dubbio che fosse Chaplin in persona). Purtroppo questo film originale e spassoso fu un clamoroso insuccesso. Nel frattempo era uscito sugli schermi Il segno di Zorro e il pubblico si aspettava ormai da Fairbanks qualcos’altro, capitomboli seri, credibilità dell’incredibile, avventura pura che non fosse diminuita da risvolti troppo comici: la finta serietà che a partire dagli anni ’20 diventerà il marchio di fabbrica di una Hollywood sempre più seriosa e sempre meno libera. LA CROCIATA ANTISLAPSTICK E LE PRIME SOFISTICAZIONI Già nel 1917, in effetti, il regista di comiche Hampton Del Ruth dichiarava a una rivista di cinema che era finito il tempo della comicità puramente meccanica, quello in cui «un attore viene buttato a calci fuori dalla cucina in giardino, dove un tipo con un tubo di gomma gli fa una bella doccia: una sequela di sprizzi e sprazzi che non diverte più» 2. E già da qualche anno i primi critici lanciavano i propri strali contro lo slapstick propugnando una comicità più garbata, raffinata, borghese. Avevano capito che le comiche costituivano un pericolo per l’ordine sociale. È lecito tuttavia pensare, come faceva Louis Delluc nel 1920, che alle origini della commedia sofisticata vi siano anche precisi input politici. Alla fine della guerra tutta Hollywood era stata coinvolta in una nuova chiamata alle armi, questa volta contro Lenin e il bolscevismo. Poiché una satira esplicita contro i comunisti russi non avrebbe divertito il pubblico americano, che amava riconoscersi in quel che vedeva, si pensò a una propaganda più tranquilla e persuasiva: mostrare al mondo come si viveva bene in America e quali opportunità offriva il capitalismo americano. Il ministro dell’interno Lane invitò gli esercenti a programmare film «che esaltino le gran2

Moving Picture World, 9 giugno 1917.

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di possibilità offerte dal nostro paese agli immigrati volonterosi, che raccontino storie di uomini che hanno fatto fortuna». Ecco spiegata la commedia “dalle stalle alle stelle”, poi riciclata anche, all’avvento del sonoro, in forma di musical. La storia più frequentemente raccontata sarà proprio questa: un uomo o una donna qualunque che partono dalla povertà e dalla solitudine per arrivare alla ricchezza e all’amore. Tutto questo poteva avere sfumature umoristiche, e anche qualche risvolto esplicitamente comico, ma il tono di fondo e la morale finale dovevano essere seri. Alla fine le varie linee di trasgressioni convergevano verso un unico capolinea: il matrimonio. Qualora poi questo fosse non già un punto di arrivo ma un punto di partenza, si faceva in modo che alla fine tornasse punto di arrivo, a costo di arrampicamenti sui vetri, contraddizioni, svolte brusche, rimatrimoni. In questo senso girano ad esempio le commedie mondane di Cecil B. DeMille, da Perché cambiate marito? (Don’t Change Your Husband, 1919) a Perché cambiate moglie? (Why Change Your Wife, 1919) da Fragilità, sei femmina (The Affairs of Anatole, 1921) a Saturday Night (1922): eleganti, allusive, noiose, con frequenti slittamenti nel melodramma. La commedia, pur cercando di rimanere tale, sembra prendere le distanze dal

Nel mondo che si sta imborghesendo sempre più, Gloria Swanson sogna un’altra vita, più vicina alla vita (e al cinema) delle origini: Perché cambiate marito?, 1919.


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La vita è un charleston, perlomeno nell’età del jazz: Lilyan Tashman nella più brillante commedia del Lubitsch muto americano (1926).

cinema comico: come la protagonista della maggior parte di questi film, Gloria Swanson, che aveva iniziato dalla farsa ma voleva lasciarsela per sempre alle spalle. Lo spirito di finta trasgressione di queste finte commedie è già tutto in Perché cambiate marito?, dove la Swanson molla il coniu-

ge ma alla fine torna da lui essendosi accorta che gli uomini sono tutti uguali. La morale è molto cattolica: tanto vale tenersi, dopo aver peccato un po’ in giro, le proprie mogli e i propri mariti, il proprio matrimonio. Anche nelle commedie mute di Ernst Lubitsch, emigrato in America dalla Germania senza nemmeno aspettare il trionfo del nazismo, c’è più fumo che arrosto, con tutto che Lubitsch sappia dare a questo fumo un sapore prelibato. Matrimonio in quattro (The Marriage Circle, 1924) è una sorta di ronde, con un pizzico di sano cinismo nel sorriso che si disegna sul volto di Adolphe Menjou quando pensa che la moglie lo stia tradendo; ma in realtà, in questa atmosfera di peccato incombente e imminente, nessuno pecca davvero e il nucleo matrimoniale originario non viene smembrato. Più malizioso La vita è un charleston (So This Is Paris, 1926), trionfo della menzogna, dunque dello spirito di commedia allo stato puro, dove l’amore viene preso con divina leggerezza e il tradimento è un gioco che diventa passione. Ma in linea di massima le commedie mute di Lubitsch, come la maggior parte di quelle sonore, sono capolavori di stile più che di comicità: lo stile, anzi, risulta ingombrante rispetto alla comicità, e la sofisticazione consiste

Una moderna ragazza da scrivania: Clara Bow, con Antonio Moreno, in Cosetta (1927).

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proprio in questo, nel separare il divertimento dal proprio oggetto. Tuttavia anche registi medi, molto meno raffinati e molto più americani, prendono gusto alla commedia nuova, legata più delle farse agli orizzonti borghesi. Quasi sempre questi film vengono costruiti intorno a personaggi di giovani donne e relative dive: il genere afferma la propria specificità femminile, pur badando di non farla mai diventare troppo femminista. Soprattutto Clara Bow incarnò nei ruggenti anni ’20 questa ragazza tipica della commedia: moderatamente spregiudicata, moderatamente svitata, piena di iniziative, sempre allegra e maliziosa con la sua bocca a cuore e i capelli alla maschietta. Impersonava perlopiù lavoratrici in grado di agganciare gli uomini con uno sguardo e di condurre poi il gioco amoroso, ma con l’obiettivo finale del matrimonio. In uno dei suoi film più tipici, Mantrap (1926) di Victor Fleming, è una manicure di città che grazie al proprio lavoro può giocare di mani e toccare in questo modo il cuore di un campagnolo di mezza età: lo sposa e lo segue tra i boschi del Canada, giusto per farlo disperare e per poter scappare in città con un altro, poi però torna all’ovile perché in fondo è una ragazza perbene in una commedia perbene.

A farne una diva e un mito fu Cosetta (It, 1927, di Clarence Badger), che nonostante qualche sbandata nel melò esprime bene l’età del jazz giunta al culmine e alla fine. Questo “it” assomiglia allo “knack” del futuro Non tutti ce l’hanno di Richard Lester: un qualcosa di innato, speciale e indefinibile che semplificando si potrebbe tradurre “sex-appeal”. Qui più che mai la commedia sofisticata all american incomincia a prendere forma nelle situazioni, nelle didascalie, nell’ironia che sfiora la comicità senza concedervisi mai del tutto, nelle ragazze da marito scatenate fuori e brave dentro. Infatti anche la “fidanzatina d’America” Mary Pickford, nota ai posteri soprattutto per i polpettoni strappalacrime, fu protagonista di varie commedie. Era stata lei a interpretare intorno al 1910, a diciotto anni, i primi cortometraggi comici di Griffith che prendevano le distanze dalla farsa. Sarà lei nel 1923, ormai diva americana numero uno, a chiamare Lubitsch dalla Germania, sia pure per un film non tra i più riusciti per entrambi (Rosita). E fu lei, nel 1918, a portare al successo una delle primissime commedie che si possano definire sofisticate: Amarilly of Clothes-Line Alley, gradevole e spiritosa nel mettere a confronto il mondo proletario (quello delle farce comedies) e il mondo borghesearistocratico (quello delle sophisticated comedies).

Mary Pickford svela il suo lato comico in Mary del mio cuore (1927). Ma due settimane prima è uscito Il cantante di jazz: per la diva numero 1 del muto è ormai prossimo il tempo del silenzio.

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L’infornata di marmocchi dell’ultima inquadratura diverrà un luogo narrativo, per non dire un luogo comune, della commedia media. Almeno un paio di successi della Pickford anni ’20 sono commedie: Suds (1920) e Mary del mio cuore (My Best Girl, 1927), film che pur nell’autocontrollo di fondo contenevano qualche momento slapstick. Ma l’immagine della fidanzatina d’America era legata più alle lacrime che ai sorrisi e quanto a carica sexy la piccola Maryacqua-e-sapone non poteva competere con una Bow o una Brooks: quando alla fine di Mary del mio cuore si propone come fatalona e non più come ragazza della porta accanto, distrugge la propria carriera. La bisbetica domata (The Taming of the Shrew, 1929) sarà la sua prima e ultima commedia sonora 3 e tenterà la carta estrema di un soggettista diverso dal solito e meno appiattito sugli orizzonti piccolo-borghesi: William Shakespeare. Sarà un insuccesso, com’era stata un insuccesso l’ultima commedia del marito Douglas Fairbanks. Anche il loro matrimonio reale si rivelerà di lì a poco un insuccesso. Non tutto è commedia, nel cinema come nella vita. LO SPETTACOLO DELLO SPETTACOLO (SLAPSTICK MEMORIES) Ma il cinema in sé, quello sì è essenzialmente commedia, secondo la definizione di molti anni dopo di Angela Carter («La commedia è la tragedia che capita ad altri»). Il matrimonio tra farce comedy e sophisticated comedy, tra slapstick e screwball, si celebra in alcuni film che raccontano il mondo del cinema: a partire da quella sorta di Effetto notte che è almeno nella prima parte A Girl’s Folly (1917) di Maurice Tourneur. Nel 1923 The Extra Girl di F. Richard Jones, una delle ultime produzioni rilevanti di Sennett, ricicla la ragazza slapstick degli anni ruggenti, Mabel Normand, come attrice di commedia; e lo fa rendendo omaggio ai film semplici e sbottonati del tempo che fu. Finché si trova nella sua cittadina di provincia a sognare il cinema da lontano, la protagonista vive in un clima di melodramma familiare; giunta a Hollywood a causa di uno scambio di fotografie (come Harold Lloyd

dieci anni dopo in Follie del cinema), respira aria slapstick fin dalla prima inquadratura e finisce in situazioni da Sennett dei primordi, come la passeggiata con il leone al guinzaglio che lei crede un cane travestito. Ella Cinders (1926, di Alfred E. Green) offre invece alla scatenata Colleen Moore, musa di Scott Fitzgerald, il ruolo per eccellenza della commedia cinematografica di ogni tempo: quello di Cenerentola 4. Soltanto che qui Cenerentola va nella nuova capitale della fiaba, Hollywood: dove si cercano facce divertenti, più rare di quelle belle, perché «non è da tutti far ridere la gente». La commedia in cui si viene a trovare pullula di gag vecchio stile, compresi secchi di vernice in faccia; e vi appare, sul set di un proprio film, Harry Langdon in persona. Né manca il solito leone-slapstick, che però insegue quasi seriamente la protagonista e la spaventa così tanto da trasformarla in un’eccellente attrice drammatica. Alla fine Cenerentola diventa effettivamente una diva, ma torna a indossare, da protagonista di un film che racconta una storia simile alla sua, i panni di Cenerentola. Il cinema chiude il cerchio della vita. All’orizzonte spunta però un marmocchio: è la fine del gioco, sono le prime forti avvisaglie della commedia pre-familiare degli anni a venire. Anche i film sul teatro si fanno particolarmente brillanti e spigliati negli ultimi anni del muto: a cominciare da Exit Smiling (1926, di Sam Taylor), in cui la cameriera di una modesta compagnia di giro sogna di diventare prim’attrice. Il mondo del teatro minore e senza pretese, così familiare ai pionieri del cinema, è rievocato con gusto anche in Il teatro di Minnie (The Matinee Idol, 1928), che insieme ai coevi That Certain Thing e So This Is Love segna il passaggio di Frank Capra dal mondo dello slapstick a quello della commedia. Nella sequenza culminante gli scalcagnati attori di provincia giungono in città e vi recitano un dramma, ma lo recitano così male da trasformarlo in commedia e ottenere un inatteso sucA non voler considerare tale il pur divertente Kiki (1931), che è soprattutto un musical. 4 Come si può desumere anche dal titolo, che invertendo nome e cognome della protagonista suona “Cinders Ella”: Cinderella, Cenerentola. 3

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Cipolle, cappelli e leoni al guinzaglio: ultimi echi del mondo slapstick per la sua regina detronizzata Mabel Normand (The Extra Girl, 1923).

cesso: come gli attori dilettanti del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare; come Buster Keaton in diversi film sia muti che sonori. Ma è di nuovo un film sul cinema a chiudere un’epoca e aprirne un’altra: Maschere di celluloide (Show People, 1928) di King Vidor, autore di film drammatici chiamato alla commedia dal magnate William Randolph Hearst per lanciarvi la sua pupilla Marion Davies (in realtà molto più brava di quanto non dica la raccomandazione). Hearst non voleva che la carriera dell’amante finisse a torte in faccia e impose a Vidor, che all’inizio della carriera aveva diretto anche qualche farsa, di limitare i toni slapstick. Il film che ne venne fuori è tuttavia uno degli ultimi capolavori del muto e una prima difesa postuma del genere condannato a morte dal sonoro. La quasi signora Hearst era una commediante spiritosa e si deve anche a lei la riuscita di questa storia di un’aspirante attrice che arriva a Hollywood sognando di interpretare ruoli drammatici e finisce nelle farse delle torte in faccia. C’è qualcosa di speciale in

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queste torte, la semplicità, l’immediatezza, che alla fine hanno la meglio sulla presunzione, sulle pretese drammatiche, sulle lacrime a tutti i costi. Vidor non seguì troppo alla lettera le indicazioni di Hearst; e Marion Davies si prese, se non proprio torte, qualche spruzzo di selz in faccia. Più che di un film sul cinema si tratta di un film sulla mitologia del cinema: non tanto metacinema quanto metaHollywood, visto che la Mecca del cinema ne è la vera protagonista, radiografata con divertente cattiveria e una punta di autocompiacimento. I divi vengono evocati come dei dell’Olimpo, appaiono in brevi cameo fintamente involontari: c’è Charlie Chaplin che nel ruolo di se stesso chiede un autografo all’attrice rampante e non viene riconosciuto («Chi è quel piccoletto?»); c’è lo stesso Vidor che appare nelle vesti di regista mentre sta girando una sequenza del suo film più famoso, La grande parata; c’è perfino Marion Davies che si incontra e non si riconosce... Ma soprattutto, Maschere di celluloide è un


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Colleen Moore in Ella Cinders (1926), l’ennesima Cenerentola.

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«Chi è quel piccoletto?». Marion Davies non riconosce Charlie Chaplin che in abiti borghesi chiede un autografo al divo del momento William Haines: tempi nuovi, il passaggio del testimone dall’età slapstick all’età sofisticata (Maschere di celluloide, 1928).

canto del cigno del cinema comico puro, una sorta di Vecchia America (Peter Bogdanovich, 1976) realizzato in tempo quasi reale senza i crepuscolarismi del poi: vi si trovano, come in un museo contemporaneo all’aria aperta, le ultime grandi scene slapstick del cinema muto, a cominciare da una surreale parata di clown che si direbbero piovuti dal cielo delle avanguardie europee. L’attrice che sale la china del successo parla dello slapstick come fanno e faranno molti critici impegnati e definisce il vecchio compagno di comicità «povero clown». Eppure alla fine lo slapstick diventa chiave di interpretazione del mondo, entra nella vita reale, che a volte è dramma ma a volte per fortuna soltanto farsa: il matrimonio semiaristocratico della Grande Attrice e del Grande Attore finisce a torte in faccia, con buona pace di Hearst. E in un’altra sequenza fondamentale la prota-

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Fine anni ’20: la commedia sofisticata è al centro dell’inquadratura: western e slapstick sono ormai relegati ai margini (Marion Davies e Dell Henderson in Maschere di celluloide, 1928).


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gonista, anticipando di quasi sessant’anni il Woody Allen di Hannah e le sue sorelle, si deprime guardando in un cinema le immagini del proprio film, quasi le viene da piangere nel vedersi correre e ruzzolare come una scema sullo schermo, poi però incomincia a divertirsi, a vedere la vita da quest’altro punto di vista, e allora inizia a ridere, ridere, felice, come faranno tredici anni dopo i derelitti della commedia-manifesto di Preston Sturges, I dimenticati, perché quelle scemenze non saranno forse la vita ma certamente aiutano a viverla meglio. «Falli ridere e li farai felici» ricorda l’attor comico William Haines alla Davies che fa inizialmente la difficile, la sofisticata, e in questa massima c’è lo spirito insieme candido e aggressivo di quella Hollywood che si fondava sul disimpe-

gno ma cercava di farne una Weltanschauung, un ammaestramento utile all’uomo: la Hollywood, un giorno, di Cantando sotto la pioggia e Spettacolo di varietà. Del resto alla fine di una delle commedie semisofisticate con Douglas Fairbanks, The Habit of Happiness (1916), satira della filantropia sociale, il protagonista scopre che il vero modo di aiutare la gente è insegnarle a ridere. E già il finale di La folla (1928), capolavoro muto di Vidor, che commedia non si può certamente definire, era un omaggio esplicito all’arte comica: il protagonista James Murray ha perso la sua bambina, è in crisi economica ed esistenziale, ha pensato al suicidio; ma guardando uno spettacolo di clown in un teatro di varietà inizia a ridere, ridere, e ridendo ritrova la fiducia nella gente e nella vita.

Le risate non finiscono mai: Eleanor Boardman, James Murray e il pubblico nel finale del drammatico ma non totalmente pessimistico La folla (1928).

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