Sogno di giacobbe it semidefinitivo

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IL SOGNO DI GIACOBBE

NIK SPATARI ERMENEUSI DELL’OPERA

a cura di Cosimo Griffo

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Pagina lasciata intenzionalmente vuota per inserire l’introduzione di Nik Spatari

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COLLOCAZIONE DELL’OPERA Il Sogno di Giacobbe, uno dei capolavori di Nik Spatari, è stato realizzato fra il 1990 ed il 1995 e ha subito diversi rimaneggiamenti a opera dello stesso artista. L’opera è collocata nella volta e in una parete corta dell’aula della Chiesa di S. Barbara (lunga 14 metri, larga 6 metri ed alta 9 metri), sull’omonimo acrocoro che domina la Vallata del Torbido a Mammola, all’interno dei sette ettari del Parco Museo Laboratorio MuSaBa. L’intero ciclo è rappresentato su una superficie complessiva di circa 240 metri quadrati. Spatari ha studiato a lungo il sito dal punto di vista archeologico e storico, pubblicando nel suo libro, “L’enigma delle arti Asittite”, la storia della sua evoluzione. Da questi studi emerge che il sito, per la sua collocazione, fu luogo di culto precristiano. In periodo paleocristiano (intorno al IV secolo), fu sede della Chiesa Rupestre di Santa Barbara, la cui forma e tipologia risultava molto simile a quella delle prime chiese della Cappadocia. In periodo medievale (intorno al 1193), il sito fu trasformato in una Grangia Certosina (struttura conventuale con annessi granai e depositi), di proprietà dell’Abbazia cistercense di Serra San Bruno. Intorno al 1808, all’abolizione del regime feudale, il sito fu espropriato andando incontro alla sorte di degrado in cui lo trovò Spatari al suo rientro in Calabria. La chiesa, rudere fino al 1969, anno di ritorno di Nik Spatari in Calabria, è stata restaurata dallo stesso artista nel completo rispetto della sua forma originaria, a parte la soluzione a vele triangolari del tetto (funzionale alla realizzazione dell’opera). Dal punto di vista simbolico, l’antica funzione di granaio rivestita in epoca medievale dalla chiesa, riferendosi alla storia di Giacobbe, inoltre, non può sfuggire che l’epopea del figlio Giuseppe in Egitto è saldamente legata all’immagine del granaio: è lui infatti il predestinato che salverà il popolo egiziano e la sua famiglia (dunque il popolo di Israele), dalla tragica carestia durata sette anni. All’esterno della chiesa, la scultura “Fire Man”, dell’altezza di circa 9 metri, protende le mani al cielo nell’atto di carpire la saettante energia di una folgore. Tale simbologia ben si accorda anche all’iconografia cristiana dato che la chiesa è dedicata a Santa Barbara che è la protettrice dal tuono e dalle folgori.

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TECNICA PITTORICA L’opera si presenta come un “bassorilievo aereo” eseguito con mosaico di silouhettes: figure dipinte con acrilici su sagome lignee e sospese su un fondo a fresco. La scelta di tale tecnica innovativa taglia i ponti con ogni precedente tradizione: la sperimentazione ha il sapore di una redentrice nemesi che mette Spatari di fronte alla necessità di esplorare territori artistici sconosciuti. Forse in segno di rispetto per Michelangelo “Astronauta”, capace di “volare” nell’altissimo cielo della Sistina, Spatari intende tracciare un solco di demarcazione forte tra la tecnica della sua opera e quella tradizionale che prevede grandi disegni preparatori e lunghe ore appeso ai ponteggi a testa in su (come gli astronauti nella navicella, appunto). Per Spatari i disegni coincidono con le silouhettes, dipinte a terra e collocate nelle vele triangolari con la stessa sapienza compositiva con cui gli scultori greci inserivano le statue negli angusti spazi dei frontoni dei templi. Ragionando con le tecniche ed i metodi del mosaico a lui congeniali, Spatari dipana la complessa storia componendo, tessera dopo tessera (sagoma dopo sagoma), un mondo ideale, quasi utopico, come quello pensato da Tommaso Campanella nella sua “Città del Sole” (altro riferimento dichiarato), in cui far rivivere l’epopea della Vita, del Sogno e della Morte di Giacobbe. In un tale spazio utopico i riferimenti diventano simbolici: la nudità dei personaggi e il richiamo a spazi reali e vissuti (quelli del MuSaBa) consentono di identificare la vita di Giacobbe con la vita di ciascuno e con quella di Spatari in particolare. Dal punto di vista della tecnica pittorica e dello stile, come per ogni capolavoro, si può affermare che il “Sogno di Giacobbe” rappresenta la summa e la perfetta sintesi di tutti i precedenti lavori di Spatari: si sentono gli echi lontani dell’ espressionismo contemporaneo e del dinamismo concettuale, mistico e drammatico delle sue prime opere giovanili, ma osserviamo anche tratti del dinamismo compositivo e totemico soprattutto nelle scene cosmiche (vedi l’enigmatica figura di Dio della prima scena o la misteriosa figura femminile che incombe nella scena della Morte di Giacobbe).

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ICONOGRAFIA E ICONOLOGIA DELL’OPERA L’effetto dell’opera, all’interno della Chiesa di Santa Barbara è straordinariamente efficace: i contrasti cromatici e le dicotomie materiche offrono allo spettatore una visione sconvolgente che si condensa in una simbiosi perfetta fra pittura e architettura. All’ingresso nella sala ci si trova improvvisamente immersi e totalmente coinvolti in una atmosfera surreale che pure si percepisce come familiare: è la dimensione onirica che, di colpo, si materializza sotto i propri occhi. Non è solo il sogno di Giacobbe che l’opera rende manifesto, bensì il sogno di ogni uomo che anela l’incontro con la dimensione cosmica e spirituale. Nell’irraggiungibile riferimento della Sistina Michelangelo, con grandiosa capacità figurativa, racconta l’origine e la fine del popolo di Dio attraverso la sua superiore conoscenza della luce dei colori e dell’anatomia. Spatari, al pari di Michelangelo, è “astronauta” capace, cioè, di alzare lo sguardo verso gli spazi siderali dell’anima e descrivere - attraverso una perfetta conoscenza della luce, dei colori e dell’anatomia - quelle straordinarie visioni. Spatari da corpo al sogno di Giacobbe, capostipite del popolo eletto che fu ribattezzato “Israele” da Dio. Il sogno avviene nel luogo di Bet-el (“Porta del Cielo”): l’artista non ricorre all’ iconografia biblica della scala e dei cherubini (la scala è sostituita dai raggi solari spettrali), ma descrive un vorticare di Giacobbe fra gli astri. Nel sogno Giacobbe viene catapultato nella dimensione cosmica: ottiene così il privilegio del contatto con Dio. In questa irreale dimensione spazio-temporale non valgono le leggi della fisica: si apre una “Porta del Cielo” in cui il finito confina con l’infinito e la soglia della vita con quella della morte. In un solo istante Giacobbe ha il privilegio, unico fra gli uomini, di conoscere la sua vita, la sua morte e quanto di lui avverrà dopo essa. La geometria del triangolo – forma simbolica della perfezione divina – esprime plasticamente il contatto fra il vertice (Dio) e la base (l’uomo disteso sulla terra). La rotazione suggerita dagli astri inverte i vertici e dunque i ruoli: Giacobbe vede come Dio. Ciò che egli vede è tutta la sua vita in sedici scene triangolari, come sedici sono i petali del poligono stellare che si materializza nella finestra policroma da cui la luce naturale inonda l’opera e la sala.

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GEOMETRIA DELL’OPERA Come in un nastro, il sogno, la vita e la morte di Giacobbe si svolgono nei quattordici metri della volta della chiesa divisa in diciotto vele triangolari di diversa grandezza, forma e orientamento e nella grande scena del sogno (l’unica di forma rettangolare) che si prolunga, in alto, nel triangolo che ospita la figura divina. Il ciclo di bassorilievi aerei è diviso in tre scene “cosmiche” e in sedici scene “terrene”:

A: (Prima scena cosmica) Dio emana il Sogno a Giacobbe; B: Giacobbe sogna; C: Morte di Giacobbe; 1: (Prima scena terrena) Nascita di Giacobbe; 2: Esaù rinuncia alla primogenitura; 3: Giacobbe carpisce la benedizione paterna; 4: Giacobbe incontra Rachele; 5: Labano inganna Giacobbe (sposalizio con Lea); 6: Giacobbe sposa Rachele; 7: Giacobbe giace con Zilpa (serva di Lia); 8: Giacobbe giace con Bila (serva di Rachele); 9: Rachele ruba gli idoli paterni; 10: Giacobbe fa pace con Labano; 11: Giacobbe lotta con l’Angelo; 12: Esaù fa pace con Giacobbe; 13: Sichen rapisce Dina; 14: Giuseppe interpreta il sogno del Faraone 15: Giacobbe distrugge gli idoli; 16: Giacobbe ritrova Giuseppe in Egitto. 10


PRIMA SCENA COSMICA: DIO EMANA IL SOGNO A GIACOBBE Dio, assiso fra i corpi celesti (la Terra è sul ginocchio sinistro), è raffigurato in una posa triangolare che ricorda la posizione del Loto indù (segno di ecumenismo spirituale) e sembra fluttuare entro uno spazio conico. Il volto di Dio, l’Inconoscibile, è un romboide formato da schegge di specchi colorati. Laddove dovremmo trovare un volto Spatari mette uno specchio per ricordare a tutti gli uomini che Dio ha il volto di chi riesce a specchiarsi in Lui. Il volto, genesi della composizione, ricorda il prisma di rifrazione ottico: l’essenza stessa di Dio è la luce (giova ricordare, a tal proposito, che Spatari è l’inventore del Prismatismo Pittorico). Dio, emanazione di pura luce, è Cronos e Chrôma (tempo e colore), la sua perfezione è rappresentata dalla totalità delle tinte cromatiche come dall’eternità del tempo. Dio emana dal suo volto un fascio triangolare di raggi solari spettrali (al posto, come detto, dell’immagine biblica della scala celeste) che si posano sul patriarca dormiente come segno dell’alleanza tra il cielo e la terra, tra Dio e Giacobbe. La scena in cui troviamo il patriarca addormentato è l’unica impostata in un rettangolo (schema proporzionale umano) ed è anche l’unica scena terrena che si svolge nel tempo presente di Giacobbe. Il patriarca è nudo, disteso nell’orizzontalità simboleggiante la terra ed è pervaso dal sogno emanato da Dio. Le fasce cromatiche provenienti dalla figura divina rappresentano il messaggio inviato a Giacobbe dormiente.

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Al centro del fascio policromo triangolare, appena sospesa sullo skyline del paesaggio, appare una stella poligonale ad otto punte e sedici raggi: è, in realtà, una finestra dalla cui posizione strategica Spatari de-materializzando il muro, fa piovere sull’opera e nella sala una mistica luce policroma. Al di sotto della scena, in corrispondenza con la stella, l’altro varco luminoso presente nella parete (un’alta e stretta monofora divisa in fasce cromatiche), sembra trafiggere la figura di Giacobbe affinché la luce divina possa giungere fino allo spazio degli spettatori che sono destinatari dello stesso messaggio. Con la sua forma (due quadrati ruotati) la stella luminosa allude ad una dimensione spirituale olistica capace di superare la stessa storia di Israele (il cui simbolo è la stella a sei punte formata da due triangoli ruotati) per approdare ad un credo universale. Il contatto fra Dio e Giacobbe è avvenuto: questi è risucchiato in un vorticoso turbine che lo strappa dalla dimensione terrena per proiettarlo negli spazi siderali governati da Dio. La figura di Giacobbe, vista in tre diverse, drammatiche, posizioni si agita nel cielo: adesso vola al pari degli angeli (che nella scena hanno le fattezze di Harman, nipote di Hiske). Giacobbe vuole opporsi a questo vortice e cerca disperatamente di limitare il suo irrefrenabile moto. Nella prima versione dell’opera, in seguito rimaneggiata dallo stesso Spatari ma ancora visibile nel catalogo “Nik Spatari – il trasumante del Post Dinamismo”, Giacobbe si oppone alla forza divina compiendo un gesto coraggioso e drammatico: con la pianta del piede destro cerca di frenare il suo moto vorticoso lasciando un profondo solco sulla superficie di Saturno. L’uomo si oppone alla volontà divina come è successo quando ha lottato con il misterioso angelo procurandosi un danno al nervo della gamba destra ma riuscendo a tenere testa alla forza divina. Questo fiero atteggiamento di Giacobbe (per cui ha meritato da Dio l’appellativo di “Israele”) viene premiato. Nel sogno, Dio gli promette la terra sulla quale sta dormendo ed un'immensa discendenza in cui saranno benedette tutte le famiglie della terra. L’apparizione della stella luminosa a sedici raggi è un segno premonitore: Dio concederà a Giacobbe il privilegio di conoscere in anteprima gli episodi salienti della sua vita terrena che Spatari descrive nelle sedici vele triangolari della volta.

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SECONDA SCENA COSMICA: GIACOBBE SOGNA Nell’unica scena rettangolare, il corpo dormiente di Giacobbe è percosso da fremiti: il sogno che lo vede vorticare fra gli astri gli tende spasmodicamente tutti i muscoli. La figura di Giacobbe-Spatari è adagiata sulla terra: lo sfondo, chiaramente individuabile, è la Vallata del Torbido che si snoda con le sue anse fra le due catene di rilievi. Sull’acrocoro di Santa Barbara giace la figura dormiente; il luogo su cui avviene la visione è dunque sacro, è la Bet-el (Porta del Cielo) che Spatari ha costruito: il MuSaBa. Giacobbe è disteso fra due donne: quella a destra, bocconi fra due cespugli di agave, simboleggia l’Est e l’Oriente e raffigura la sua prima sposa, la meno amata Lia. Spatari attribuisce a questa donna le fattezze della sua prima moglie, Irene Halouin, proveniente dalla Russia ed avente nobili origini (sua nonna era stata maestra di musica delle Zarine, sfuggita all’eccidio della famiglia reale grazie ad una provvidenziale fuga in Libano). La donna accovacciata a sinistra, vicina ai fichi d’india, simboleggia l’Ovest e l’Occidente e rappresenta l’amata Rachele (alla quale Spatari da il volto di Hiske Maas, amatissima compagna della sua vita, proveniente dall’occidentale Olanda). La donna a sinistra della scena si cinge pensierosa il tallone con le mani: anche lei, così come Giacobbe ha fatto con il fratello Esaù, è destinata a soppiantare la rivale (nella bibbia la simbologia di “prendere per il tallone” significa “soppiantare”). Hiske (l’occidentale) prevarrà su Irene (l’0rientale) e prenderà il suo posto nel cuore di Spatari. A giustificare tale affermazione, al centro e in basso alla composizione, troviamo un cuore con le iniziali N e H (Nik e Hiske), al disotto della scritta “Love”. La posizione di questo cuore sembra una promessa biblica (si trova infatti sotto la coscia di Giacobbe come si usava fare negli antichi giuramenti) e rende eterna la promessa con la data del 1990.

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PRIMA SCENA TERRENA: NASCITA DI GIACOBBE La prima scena terrena mostra la nascita dei due gemelli Esaù e Giacobbe quasi per sottolineare subito la connessione dell’uomo, essere mortale, alla terra e al dolore connesso alla sua realtà. Isacco, padre di Giacobbe (che ha le fattezze di Antonio, padre di Nik Spatari), assiste al parto di Rebecca, sua moglie (che ha le fattezze di Giovanna, madre di Nik). L’uomo, rannicchiato in una posa plastica, cinge teneramente con un braccio la moglie distesa sostenendo il peso della sua testa. La sua partecipazione emotiva è grande: avvicina il suo volto a Rebecca fino a sfiorarle la fronte e stringe con forza la sua mano destra per trasmettergli coraggio nel momento culminante del parto. Dalle gambe completamente divaricate di Rebecca, dopo l’ultimo sforzo, nasce Giacobbe: secondogenito dei gemelli. Il neonato tiene il primogenito dal calcagno (il nome di Giacobbe in ebraico significa “il Soppiantatore” in quanto gli toglierà la primogenitura), mentre il primo, Esaù (che in ebraico significa il Rosso” dato che era fulvo di capelli) è già stato afferrato saldamente dalle mani dalla serva di Rebecca (le fattezze di questo personaggio sono quelle di Francesca, nonna di Nik, che svolgeva la professione di ostetrica). La composizione è costruita secondo una circolarità di contatti che genera pathos e commozione: tutti i presenti sono legati fra loro fisicamente e non solo. Gli unici elementi naturali non umani raffigurati nella scena sono una rana in basso a destra con le gambe divaricate (quasi a mimare la posa innaturale di Rebecca) ed un’agave fiorita a sinistra, simbolo di nascita difficile (un fiore nasce da una pianta spinosa).

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SECONDA SCENA TERRENA: ESAU’ RINUNCIA ALLA PRIMOGENITURA Raggiunta l’età della ragione, Esaù mostra predilezione per la caccia, Giacobbe per la pastorizia. Il primogenito Esaù è il preferito di Isacco proprio a motivo della sua abilità di cacciatore e per il suo carattere forte e determinato. La scena, sullo sfondo di un tramonto rosato, mostra una vaga presenza naturale, un albero sullo sfondo ed un cespuglio in primo piano, e descrive l’incontro dei due fratelli. Esaù torna esausto e affamato dalla caccia e si accovaccia davanti al fratello intento a preparare un succulento piatto di lenticchie. Patito dalla fame, Esaù ne chiede un piatto e l’ottiene, ma al caro prezzo della promessa di cedere al fratello Giacobbe i diritti della primogenitura. Alla sinistra del cacciatore Esaù è poggiato il pesante arco con cui ha procacciato uno splendido fagiano pronto per essere offerto come trofeo di caccia all’amato padre Isacco. Giacobbe, di indole più schiva ed infinitamente meno forte e coraggioso del fratello, è raffigurato di spalle (come per sottolineare il suo intento ingannevole) nell’atto di porgere ad Esaù il famigerato piatto di lenticchie: la promessa della primogenitura è stata estorta a causa della fame, il raggiro si compie.

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TERZA SCENA TERRENA: GIACOBBE CARPISCE LA BENEDIZIONE PATERNA Isacco, sazio di anni e cieco, sentendo la sua fine vicina, chiede ad Esaù di cacciare per lui della selvaggina con cui preparargli una squisita pietanza. Alla fine del pasto impartirà l’ultima benedizione al suo prediletto primogenito. Mentre Esaù è a caccia, Rebecca, che preferisce Giacobbe, lo aiuta a carpire la benedizione al posto del fratello: lei sa che il figlio minore ha ottenuto la primogenitura da Esaù. Il suo intento trova giustificazione nelle parole che Dio le ha detto in sogno: quando i due gemelli si combattevano nel suo grembo, le aveva rivelato che da lei sarebbero nate due grandi nazioni e che la maggiore avrebbe servito la minore. Per gabbare Isacco, ormai cieco, basterà ingannarne il tatto e l’odorato (Rebecca fa indossare a Giacobbe un peloso vello intriso dell’odore di Esaù). Il giorno è avanzato: Isacco ha mangiato la pietanza preparata da quello che crede il suo primogenito e si appresta a dargli la benedizione finale; ma il tono della voce lo fa insospettire e cerca dal tatto il conforto al suo dubbio. Egli vuole sapere se davanti a se si trova proprio il maggiore dei due gemelli, il rosso e peloso Esaù suo prediletto: le sue mani tastano febbrilmente le mani e le braccia di Giacobbe traendolo a sé e facendolo inginocchiare. Spatari accentua la drammaticità di questo contatto del ginocchio di Giacobbe con la terra quasi a significare il momento gravido di tensione. Il piano di Rebecca, accovacciata alla sinistra di Isacco, ha un felice esito: Isacco ottiene la sospirata benedizione e si appresta a diventare la grande nazione, il primogenito del popolo del Dio di Abramo e di Isacco. Saputo dell’accaduto, Esaù, pazzo di rabbia, vuole uccidere il fratello, ma Rebecca si affretta a mandare in salvo Giacobbe nella terra di suo zio Labano.

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QUARTA SCENA TERRENA: GIACOBBE INCONTRA RACHELE Prossimo alla meta del viaggio, Giacobbe incontra nei campi una fanciulla (sua cugina Rachele, figlia dello zio Labano). La giovane pastorella, nel tentativo di far abbeverare il suo gregge, è disturbata con la forza da altri pastori che vogliono impedirglielo. Il provvidenziale intervento di Giacobbe, che ingaggia uno scontro fisico con gli intrusi, permette alla bella fanciulla di abbeverare il suo bestiame e a Giacobbe di mettersi in ottima luce ai suoi occhi. L’amore reciproco scoppia quasi immediatamente fra i due che, insieme, s’incamminano verso la casa di Labano. La scena è ambientata nell’albeggiare di un nuovo giorno come suggeriscono alcune sfumature rosate sul lontano sfondo del paesaggio. In quel punto, che diventa fuga prospettica della composizione, il cielo incontra la terra ed un fiume sembra esaurire il suo corso sinuoso fra due catene di rilievi (citazione della Vallata del Torbido). Nello sfondo i due pastori messi fuori combattimento da Giacobbe: il più vicino giace riverso a terra incosciente; l’altro si cinge il capo con un braccio per tentare di lenire il dolore dei colpi ricevuti. In primo piano i due giovani, accovacciati, mostrano già una grande intesa: il corpo di Rachele si tende verso quello di Giacobbe e la torsione della testa della fanciulla ne accentua lo slancio. Giacobbe, per pudore, copre parte del suo corpo con un vello e Rachele avvicina a sé una delle sue caprette in un gesto di tenerezza che intende rassicurare dopo la scena cruenta della lotta.

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QUINTA SCENA TERRENA: LABANO INGANNA GIACOBBE Raggiunta la casa dello zio Labano, Giacobbe chiede in sposa Rachele. L’accordo matrimoniale prevede che Giacobbe pascoli gli armenti di Labano per sette anni. Un intenso e greve cielo di colore viola scuro fa da sfondo alla scena in cui Giacobbe, l’ingannatore del padre Isacco, viene a sua volta ingannato da Labano. Egli ha lavorato, per ben sette anni, come custode delle greggi dello zio: la contropartita attesa è quella di ricevere in sposa l’amata Rachele, figlia secondogenita. La vicenda ha un inatteso epilogo perché Labano - secondo le usanze – decide di accasare prima la figlia maggiore Lia (ancora zitella perché meno attraente della giovane sorella). Giacobbe ha giaciuto con Lia per tutta la notte non sospettando lo scambio con Rachele a causa di un velo che la sposa ha tenuto per falso pudore; non può più tirarsi indietro: secondo la legge dovrà tenerla come sua sposa. Nella scena osserviamo il gesto eloquente di Lia (avente le fattezze di Irene, prima moglie di Nik) che cinge il collo di Giacobbe con la mano quasi a reclamarne il possesso, e quello di Labano che apre la mano sinistra quasi a giustificarsi dell’espediente. Alle spalle di Labano, in posizione volutamente defilata troviamo Rachele. La giovane, delusa, è accovacciata a terra e con la mano si cinge un tallone come per significare di essere stata temporaneamente soppiantata. Alle spalle di Giacobbe notiamo altre due donne che avranno un ruolo importante nella sua vita: sono Bila (la serva di Rachele), dispiaciuta per la sua padrona e Zilpa (la serva di Lia) che, da dietro, la sorregge cingendole un braccio e posandole la mano sulla spalla. Un gatto nero accovacciato dietro Zilpa ne mima quasi la posizione e chiude geometricamente la composizione della vela. Anche la natura è parte in causa e assegna il suo premio: fra i due cespugli presenti vicino alle due rivali l’unico fiorito è quello che si trova dalla parte di Rachele: il primo round non è vinto dall’amore ma la giovane amata da Giacobbe avrà la sua rivincita.

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SESTA SCENA TERRENA: GIACOBBE SPOSA RACHELE Trascorsi i sette anni, il furbo Labano, considerato lo zelo ed il valore di Giacobbe, decide di concedergli in sposa anche Rachele dietro l’accordo di altri sette anni di lavoro. Nella scena il Cielo esibisce tinte verdi-dorate che si contrappongono gioiosamente al viola scuro della scena opposta, la natura partecipa della gioia di Giacobbe. Giacobbe (Nik) e Rachele (Hiske) sono attorniati da Labano e sua moglie (che hanno le fattezze di Bob e Hin, genitori di Hiske) e da una supplicante Lia, accovacciata vicino alle gambe di Giacobbe, che tenta di tirare a sé. Altri sette anni di lavoro sono stati prestati per Labano che a Giacobbe sembrano essere volati dato il suo amore per Rachele. Il luogo in cui si corona la storia d’amore tra Giacobbe (Nik) e Rachele (Hiske) è, chiaramente, il MuSaBa: lo rivelano la presenza della scultura “Concetto Universale” posto in alto a sinistra nella scena (simbolo del MuSaBa) e del cane che compare anche nel pannello “Nik Hiske e MuSaBa”. Il cane, simbolo di fedeltà, non a caso è posto alle spalle di Lia che implora Giacobbe di non tradire il suo patto nuziale. Rachele, dal suo canto, si rende protagonista di un gesto tenero e amoroso nei confronti di Giacobbe: cerca entrambi le mani dello sposo per fargli sentire che è tutta per lui. Labano, dietro Rachele, soddisfatto dell’ulteriore impegno estorto a Giacobbe, con un gesto plateale gli offre la sua secondogenita quasi spingendola nelle braccia di lui. In basso a destra, in una posa meditabonda, c’è seduta la moglie di Labano; fra le sue gambe c’è Ruben 1, il primogenito che Lia ha partorito a Giacobbe, che mangia una mandragola. Sarà proprio questo frutto che offrirà l’occasione a Lia di prevalere ancora sulla sorella Rachele: la voglia di quest’ultima di mangiarne le strapperà la promessa di saltare il suo turno di dormire con Giacobbe (unione da cui le nascerà un altro figlio). 1

I figli di Giacobbe sono tredici in tutto: figli di Giacobbe avuti con Lia: Ruben, Simeone, Levi, Giuda, Issacar, Zabulon, Dina; figli avuti con Zilpa (serva di Lia): Gad, Aser; figli avuti con Bila (serva di Rachele): Dan, Neftali; figli avuti con Rachele: Giuseppe, Beniamino. Da loro nasceranno le dodici tribù d’Israele (Dina esclusa perché donna).

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SETTIMA SCENA TERRENA: GIACOBBE GIACE CON ZILPA Dopo l’unione matrimoniale, Lia risulta sterile e, per il desiderio di avere dei figli da Giacobbe, gli concede l’ancella Zilpa (nella legge ebraica bastava che le ancelle partorissero sulle gambe della padrona affinché il figlio diventasse a tutti gli effetti della padrona stessa). Anche Rachele è, inizialmente, sterile e decide anche lei di concedere la sua ancella Bila per avere dei figli da Giacobbe. Da questi quattro fecondi incontri, sortirono i dodici capi della tribù di Israele. La scena è ambientata ai piedi della grangia certosina del MuSaBa (una prospettiva dal basso ne rivela la sagoma in alto sullo sfondo): l’amplesso non si svolge sull’acrocoro, inteso come luogo sacro, bensì in un luogo defilato che ne sminuisce l’importanza. Giacobbe-Nik, è vinto dai sensi ed avvicina voluttuosamente a sé Zilpa mentre Lia, poco distante, dorme rannicchiata a sinistra della scena avendo per giaciglio una pietra. Nella scena prevalgono, sulle figure, le tonalità del verde: lo stesso colore della piccola rana, presente in un angolo della vela, anche lei dedita ad un accoppiamento “improprio” (la compagna è una rana più grande e di colore diverso). Il significato appare evidente: la natura annulla le differenze rendendo lecito ciò che non appare come tale e benedice il frutto delle unioni diverse (anche i figli nati da questo rapporto reggeranno delle tribù del popolo di Dio).

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OTTAVA SCENA TERRENA: GIACOBBE GIACE CON BILA Rachele non riesce a generare dei figli a Giacobbe e, per consolarlo, gli chiede di giacere con Bilba, sua ancella. Solo in tarda età Dio rese Rachele feconda e partorì Giuseppe (che diventa il preferito di Giacobbe) e Beniamino. L’ambientazione della scena è, questa volta, sull’acrocoro del MuSaBa, lo si deduce dalla prospettiva con cui Spatari raffigura, sullo sfondo, alcune parti del complesso conventuale della Chiesa di Santa Barbara. Il coinvolgimento degli amanti è evidente: Giacobbe avvicina a sé voluttuosamente la testa di Bila e la bacia con trasporto, l’ancella risponde con qualche ritrosia; tutto ciò che è intorno a loro non può distrarli, semplicemente scompare. In alto, incombente sui due amanti, troviamo la sagoma di Rachele che sembra fluttuare in uno spazio indefinito: ella assiste, impotente e pensierosa, alla scena appollaiata su un albero. Con una mano si tinge il tallone destro: ancora una volta è stata soppiantata. Alla sinistra della scena due neri galli da combattimento si accoppiano a loro volta mimando la foga mostrata da Giacobbe.

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NONA SCENA TERRENA: RACHELE RUBA GLI IDOLI PATERNI Dopo i quattordici anni trascorsi alle dipendenze di Labano, Giacobbe riunisce tutti i suoi con gli schiavi e il bestiame per far ritorno alla terra natia. Dio, in sogno, lo ha messo in guardia dalla gelosia che la tribù del suocero cova contro di lui a causa del suo arricchimento che credono sia stato ottenuto a loro spese (in effetti è la benevolenza di Dio verso Giacobbe a moltiplicare prodigiosamente i suoi armenti). Labano, li insegue con cattive intenzioni ma Dio, in sogno, lo dissuade dal fare del male a suo genero. La carovana di Giacobbe è raggiunta dopo sette giorni di cammino presso i monti di Galaad. Qui Labano lo accusa di aver rubato i suoi idoli di famiglia. La scena è ambientata nella complice oscurità della notte. Allo sgarbo della fuga si è aggiunto lo sfregio del trafugamento degli idoli di famiglia ad opera di Rachele. Giacobbe, all’oscuro del furto, discute animatamente con Labano sullo sfondo della scena giurando l’onestà della sua gente ed invitando il suocero a controllare di persona in tutte le tende del suo accampamento. In primo piano la figura di Rachele si stende guardinga e preoccupata per afferrare gli idoli e nasconderli. Le scritture narrano il furbo espediente con cui Rachele riesce a gabbare il padre: all’ingresso di questi nella sua tenda lei si siede sul basto del suo cammello (sotto il quale ha nascosto gli idoli) sostenendo di non potersi alzare perché si trova “nei suoi giorni”. Con uno scarto temporale Spatari sdoppia la figura di Rachele: in alto la vediamo far finta di dormire sulla groppa di un cammello. La seconda sagoma di Rachele forma, con l’orizzontalità di quella in primo piano, il triangolo necessario a comporre armonicamente la scena nel riquadro obbligato.

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DECIMA SCENA TERRENA: GIACOBBE FA PACE CON LABANO Su un’altura dei monti di Galaad Giacobbe e Labano, chiariti i motivi del loro contrasto, si riconciliano. Per suggellare il patto erigono anche una stele sopra un mucchio di pietre. Labano da alla stele il nome di “Mucchio della Testimonianza” e Giacobbe “Galed” ed anche “Masfà” (che significa “Vendetta”). Il rituale serve a suggellare il patto di non belligeranza fra la tribù di Labano e quella di Giacobbe. Sul cippo Spatari disegna la stella a sei punte che è il simbolo della nazione di Israele che – da li a poco – sarebbe sorta da Lui. Giacobbe è steso alla sinistra del cippo, rilassato, con gesto parlante delle mani aperte giustifica il suo operato davanti a Labano; questi, al lato opposto del cippo, sta in ascolto di Giacobbe in una posizione accovacciata come a simboleggiare la scomodità del patto che è costretto a suggellare con il genero.

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UNDICESIMA SCENA TERRENA: GIACOBBE LOTTA CON L’ANGELO Dopo essersi congedato da Labano Giacobbe è quasi in vista della terra di suo padre Isacco, quando riceve la notizia che suo fratello Esaù gli sta andando incontro con quattrocento uomini. Ecco che, prima del tramonto, un misterioso uomo (nella scena il personaggio ha le fattezze di Bobo, fratello di Hiske) intraprende con lui una furiosa lotta fino allo spuntare del sole all’alba. La scena che Spatari costruisce ha lo sfondo avvolgente delle spire di luce dell’aurora che inondano il cielo e sembrano assecondare il movimento dei corpi in lotta dei due contendenti. Giacobbe lotta con furore essendo preso dal collo dal misterioso personaggio contro il quale brandisce il suo poderoso pugno. Un colorato galletto, simbolo del combattimento, assiste alla prodigiosa resistenza di Giacobbe che, pur essendo stato colpito con violenza al nervo sciatico (si noti l’innaturale piegamento della gamba destra), combatte e vince l’antagonista che si rivelerà essere un angelo del Signore. In basso a destra rispetto ai contendenti, vicino a un cespuglio, una donna della tribù di Giacobbe assiste meditabonda alla furiosa contesa. Alla richiesta del misterioso personaggio di lasciarlo andare Giacobbe mette la condizione di essere da lui benedetto. L’angelo, oltre a benedirlo lo ribattezza Israele perché “ha combattuto con Dio e con gli uomini ed ha vinto”. Giacobbe chiamò quel luogo “Penuèl” (“Faccia di Dio”) perché aveva visto Dio faccia a faccia ed aveva avuta salva la vita. 25


DODICESIMA SCENA TERRENA: ESAU’ FA PACE CON GIACOBBE Il desiderio di vendetta del fratello Esaù nei confronti di Giacobbe non è ancora sopito: alla testa di quattrocento uomini si mette in marcia contro di lui. Preso dallo sgomento Giacobbe divide la sua gente in due carovane (in modo che se una fosse stata attaccata l’altra sarebbe rimasta illesa). Guada il torrente Jabbok con la parte più cara della sua famiglia (Rachele ed i suoi figli) rimanendo nelle retrovie per proteggerli. Per tentare di rabbonire il fratello manda verso di lui diversi emissari della sua tribù con il meglio del bestiame e ricchi doni per offriglieli in segno di sottomissione, prostrandosi ai suoi piedi. Quando Giacobbe vede giungere le schiere del fratello Esaù tiene vicino a sé i suoi figli più cari e Rachele per timore di rappresaglie. Ma il fratello, correndogli incontro, lo abbraccia. La scena è ambientata nel far della sera: un perplesso ed incredulo Giacobbe sta per essere abbracciato dal temuto fratello Esaù. La sua unica figlia femmina, Dina (che ha le fattezze di una ragazza di San Luca presa come modella da Nik), abbraccia con timore Giacobbe. La moglie Rachele, impaurita, è seduta ai suoi piedi e cerca un contatto rassicurante con i suoi cari mentre Lia, spaventata, si porta le mani alla testa temendo il peggio. Al centro della scena, in secondo piano, si nota una coppia che si abbraccia con tenerezza (Spatari ha voluto ancora rappresentare se stesso con Hiske come spettatori compiaciuti di una scena altamente drammatica e commovente).

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TREDICESIMA SCENA TERRENA: SICHEN RAPISCE DINA Sichen, figlio di Henor (re di una vicina regione), rapisce Dina, figlia di Giacobbe e Lia, mentre i fratelli sono assenti. Per evitare lo scontro fra le due tribù, i figli di Giacobbe propongono una riconciliazione, chiedendo in cambio che tutto il paese abbracci la religione di Abramo. Viene dunque praticata a tutti i maschi della tribù di Henor l’incisione del prepuzio e, essendo ancora sotto l’effetto del doloroso taglio e impossibilitati a combattere, i fratelli mettono mano alla spada, li decimano, li traggono in schiavitù e si riprendono la sorella. Sullo sfondo di un cielo multicolore, si staglia la scena violenta del rapimento di Dina da parte di Sichen. Il rapitore corre reggendo Dina come un oggetto, a testa in giù, inseguito vanamente da uno dei figli di Giacobbe che poi riferirà l’accaduto alla sua famiglia radunata. Un cane domestico appartenente alla tribù di Giacobbe (con le fattezze dell’amato cane di Nik ed Hiske barbaramente ucciso da spregevoli individui), cerca d’inseguire il rapitore minacciandolo con la bocca aperta. Tuttavia, il fatale ratto si compirà ugualmente (nella scena il rapitore e Dina hanno le fattezze di due coniugi dottori, lui olandese di Amsterdam, lei di Gioiosa Superiore).

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QUATTORDICESIMA SCENA TERRENA: GIUSEPPE INTERPRETA IL SOGNO DEL FARAONE Giuseppe, figlioprediletto di Giacobbe, venduto dai suoi fratelli invidiosi e fatto schiavo in Egitto, dopo alterne vicende, si trova nelle carceri del Faraone dove acquisisce fama di saper interpretare i sogni. Il Faraone, avendo fatto un sogno inquietante, che i suoi indovini non avevano saputo interpretare, convoca Giuseppe. Questi riesce a interpretare il sogno delle sette vacche magre che divorano sette vacche grasse e dei sette steli di grano aridi che divorano i sette steli fertili: l’Egitto avrà sette anni di grande abbondanza cui seguiranno sette anni di devastante carestia di grano. Il Faraone, entusiasta, gli tributa altissimi onori nominandolo reggente di tutto l’Egitto. Nella scena, in cui un cielo fumoso rappresenta la qualità eterea del sogno, in primo piano, vediamo Giuseppe inginocchiato con le mani alzate verso il cielo per trarre ispirazione da Dio. Alla sua sinistra il Faraone, incrociando sul petto le insegne della regalità, rivolge la testa al cielo. Accovacciata fra le sue gambe è la sua favorita che porta una fascia con dei simboli sulla fronte e le mani ad incorniciarsi il viso (il faraone e la sua favorita hanno le fattezze di un assessore alla Cultura di Vienna e della sua consorte). Sullo sfondo s’intravedono le tre piramidi di Giza. Ai piedi delle figure si nota una tipica imbarcazione del Nilo: è proprio dal fiume sacro che, nel sogno del Faraone, si materializzano le sette vacche magre. In primo piano Spatari raffigura la scena dello sbranamento, da parte di una vacca scheletrica, di una vacca corpulenta la cui testa è insidiata da steli di grano neri e rinsecchiti. 28


QUINDICESIMA SCENA TERRENA: GIACOBBE RITROVA GIUSEPPE IN EGITTO Il cielo che fa da sfondo alla scena è di un rosso tramonto infuocato: volge al termine la pirotecnica vita di Giacobbe senza risparmiare il colpo di scena finale. L’amato figlio Giuseppe non solo non è morto divorato dalle belve (come gli avevano fatto credere gli altri figli quando lo vendettero ai commercianti di schiavi), ma è diventato reggente di tutto l’Egitto e, come tale, salverà lui e tutto il popolo d’Israele dalla carestia che distrugge tutta la terra. Nella scena, delle piramidi sullo sfondo contestualizzano l’evento, mentre, in primo piano, le figure del padre e del figlio ritrovato formano un gruppo molto commuovente. Giacobbe danza per la felicità e Giuseppe poggia con tenerezza il suo capo sul collo del padre. L’abbraccio è coinvolgente e contrasta con l’immobilità della figura femminile seduta sulla destra: Rachele provata dal lungo viaggio si appoggia sulla ruota di uno dei carri messi a disposizione dal Faraone per portare l’intera famiglia d’Israele al sicuro in terra d’Egitto.

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SEDICESIMA SCENA TERRENA: GIACOBBE DISTRUGGE GLI IDOLI Dio comanda in visione a Giacobbe di recarsi a Bet-el (luogo sacro della prima visione) per costruirgli un altare. Giacobbe, radunata tutta la sua famiglia, comanda loro di distruggere tutti gli idoli degli dei stranieri e di purificarsi per rendere grazie al Dio che li aveva protetti fino a quel punto: nasce il patto tra il popolo di Dio (Israeliti) e la loro unica divinità. Nella vela triangolare la figura di Giacobbe si erge con il corpo verticale e leggermente inarcato nell’atto di sferrare un poderoso colpo d’ascia sui simulacri appoggiati ai suoi piedi. Dietro lui, accovacciata, una donna (che rappresenta la negazione del vero Dio, cioè il clero egiziano) piange per la separazione dai cimeli amati. Questa figura è la personificazione dell’infedeltà del popolo d’Israele che, nonostante i prodigi operati dall’unico Dio, ricadrà spesso nel tradimento del patto solenne per adorare nuovamente gli idoli pagani. Sullo sfondo una sfinge - simbolo di divinità pagana – prefigura la destinazione egizia del popolo d’Israele e dei patimenti che dovrà subire in quel luogo. 30


TERZA SCENA COSMICA: MORTE DI GIACOBBE La morte coglie il patriarca nel pieno dei suoi anni, pianto e commemorato da tutti, compresi la corte e il popolo d’Egitto e, naturalmente, dai suoi figli destinati a divenire i capostipiti delle dodici tribù d’Israele. Spatari affida a questa scena il compito di chiudere il ciclo aperto dal Sogno di Giacobbe: la morte è simile al sogno poiché consente di accedere agli spazi infiniti prefigurati nel sogno. La scena è duale: si svolge su due vele triangolari che, pur giacenti su differenti inclinazioni, offrono la loro superficie come luogo di un’unica vicenda. Nella scena Il corpo di Giacobbe, che giace esanime a terra leggermente piegato sul suo fianco destro, lega le due parti della composizione una con ambientazione diurna e l’altra notturna per suggerire un’eterna circolarità temporale. Quattro donne lo circondano e lo piangono, come ancora si usa in Oriente (a destra, la figura che si esprime gesticolando con le mani, ha le fattezze di Annarosa Macrì, giornalista e scrittrice). Il vertice della scena è occupato da una donna sciamano che ha le sembianze di Hiske e rappresenta Rachele (morta prima di Giacobbe e seppellita sotto la quercia di Bet-el). Dietro lei troviamo, infatti, un solido albero che diventa asse della scena. La misteriosa donna, inginocchiata davanti al cadavere di Giacobbe, mette le dita davanti agli occhi formando la figura di un romboide: la stessa forma data al volto di Dio, con il quale cerca un contatto visivo guardando verso gli spazi infiniti; l’eternità. Dietro lei s’intravede, sullo sfondo, la Vallata del Torbido dove tutto ha inizio e fine. Il suo gesto, alla fine del ciclo dell’opera, sembra dunque evocare una nuova nascita ed il perpetuarsi della vita: la morte è solo un confine con il sogno. La donna intende ricongiungere Giacobbe a Dio (rappresentato dal timpano triangolare colorato sottostante) per farlo rivivere eternamente nel suo sogno.

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La conclusione dell’impianto scenografico è affidata alla pura geometria del triangolo: l’anima di Giacobbe torna a Dio, simbolizzato da un frontone colorato che sembra poggiare su una colonna di luce. L’emanazione pura dei tre colori fondamentali, segno della rivelazione di Dio, collega il tetto con il pavimento (il cielo con la terra), riportando l’attenzione - dopo il “viaggio” del fascio colorato dall’abside, al pavimento, alla fascia cromatica della parete opposta - sulla scena del sogno. Questa costruzione scenica fa sentire lo stupito spettatore come parte attiva di quella rivelazione nonché destinatario dello stesso messaggio perché discendente del popolo eletto.

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L’eterna circolarità tra la vita e la morte è superbamente rappresentata dalla ciclicità implicita nel Sogno di Giacobbe: a Dio, inizio e fine di tutte le cose, Giacobbe si affida nel sogno come nella morte. I muscoli che fremevano nel corpo disteso durante il sogno sono una metafora dell’attività dell’anima immortale. La luce, sostanza stessa dell’anima, è l’unica arma per contrastare il buio dell’universo (comparso come tale solo dopo l’esplosione iniziale che genera la luce). Nella Chiesa di santa Barbara, il luminoso progetto di Nik Spatari rende evidente tutto questo sia attraverso la forza prorompente delle immagini che con la sapiente regia architettonica che da corpo a questo straordinario racconto della luce. Tutta l’aula diventa una “camera oscura” in cui i raggi di luce, penetrando da fonti scelte con sapienza, inondano l’opera e gli spettatori secondo uno straordinario percorso ciclico in grado di fare vibrare l’anima di chi l’osserva.

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NIK SPATARI Biografia breve

Nato alla fine degli venti a Mammola, mostra precocemente il suo interessamento alle arti visive, quando all'età di nove anni vince il premio internazionale di pittura dell'Asse Roma-Tokio-Berlino. Per un trauma subìto nel 1940, l'artista perde l'udito, cosa che gli ha impedito di frequentare le scuole d'arte, divenendo dunque un autodidatta che ha sviluppato le proprie capacità anche in campo scultoreo e architettonico, partendo dal confronto immediato con i materiali. Durante gli anni cinquanta e sessanta la sua passione per l'arte e l'architettura lo porta a viaggiare in Europa. Nel 1958 viene invitato alla Biennale di Venezia, dove riceve riconoscimenti internazionali. Alla fine degli anni cinquanta, Spatari si stabilisce a Losanna, dove crea il “Prismatismo". Qui incontra una giovane collezionista russa che lo invita a Parigi dove i due si sposeranno stabilendovisi per qualche tempo. A Parigi l'artista entra in contatto con il mondo artistico e culturale, e dove il suo lavoro pittorico è molto apprezzato. Qui frequenta per circa due anni lo studio di Le Corbusier, il cui apprendistato è molto congeniale alla sua inclinazione verso il primitivismo, e dove ha inoltre modo di conoscere anche Jean Cocteau, il quale ad una mostra personale di Spatari, prende un'opera dalla parete e la porta via lasciandovi un biglietto di ringraziamento firmato: inizio di un'amicizia e il consolidamento del successo dell'artista calabrese. L'artista incontra Picasso e Max Ernst, e aderisce al gruppo di artisti gravitanti intorno alla Galleria Cigaps (Centre International de Groupement d'Artistes Peintres, Sculpteurs). Tornato in Italia nel 1966, si stabilisce per un periodo a Milano dove, insieme a Hiske Maas, apre e gestisce la galleria d'arte Studio Hiske, in via Solferino nel cuore di Brera che rimarrà attiva fino al 1978. Alla ricerca di nuove esperienze, nel 1970 Spatari decide di tornare in Calabria insieme ad Hiske Maas, con l'intento di lavorare ad un suo progetto: la realizzazione di un museo-laboratorio d'arte contemporanea. Il Parco Museo Santa Barbara Il Parco Museo Santa Barbara (Mu.Sa.Ba) sorge nella Vallata del Torbido nella Locride, nel territorio di Mammola (in provincia di Reggio Calabria) tra il mar Jonio ed il Tirreno, lungo la Strada Grande Comunicazione Jonio-Tirreno del valico della Limina, immerso in un’isola collinare di macchia mediterranea tra la confluenza della Fiumara Neblà e il Fiume Torbido anticamente navigabile, attorno ai resti dell’antico Monastero di Santa Barbara del sec. XI. Al suo interno è custodito l'affresco Il Sogno di Giacobbe, monumentale opera tridimensionale che narra la vita di Giacobbe nella quale si possono trovare analogie con l'esistenza di Spatari. Da molti storici e critici d’arte il Parco Museo Santa Barbara è considerato uno dei più importati Musei di Arte Moderna a livello internazionale. Il Parco-Museo è stato completamente progettato da Nik Spatari il quale ha ricevuto, per l'opera eseguita, l'apprezzamento di Bruno Zevi. Ospita opere di artisti come Mimmo Rotella, Italo Sganga, Chen Jin Jong, Barbara Quinn, Cristina Brandi, Motoaki Ozumi, Albert Coluccio e Maita. Nel 2002 esce la prima edizione del libro L'enigma delle arti asittite (neologismo formato da asiatiche + ittite), volume con il quale Spatari espone la sua teoria sull'evoluzione artistica delle arti mediterranee.

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COSIMO GRIFFO Nasce il 6 Gennaio 1966 a Catanzaro, dove tuttora vive e lavora in qualità di Architetto e docente di Disegno e Storia dell’Arte nella scuola secondaria di secondo grado. Consegue la laurea con lode in Architettura presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria dove, nel decennio 1995/2005 svolge il ruolo di ricercatore e docente all’interno del Corso di Laurea in Pianificazione Territoriale Urbanistica e Ambientale. Consegue il Dottorato in Rilievo e Rappresentazione dell’Architettura Mediterranea presso il Dipartimento di Scienze Territoriali e Ambientali (XVI Ciclo settore scientifico disciplinare ICAR 17)1. Attualmente è membro della Commissione per l’Arte Sacra e i Beni Culturali Ecclesiastici per l’Arcidiocesi di Catanzaro-Squillace e ricopre la carica di Segretario Nazionale dell’Associazione Centro Culturale Cassiodoro. Per la stessa associazione riveste il ruolo di Direttore Artistico del prestigioso “Premio Cassiodoro il Grande” giunto alla sua IV edizione. Nel mese di Giugno 2012, in qualità di esperto esterno del progetto PON “Territorio e cultura locale” coordina gli alunni del Liceo Scientifico “E. Fermi” di Catanzaro in una ricerca dedicata a Nik Spatari e al MuSaBa; da quell’occasione nasce un rapporto di grande amicizia e collaborazione con il Maestro e con Hiske Maas dal quale nasce il progetto di questa critica d’arte al Sogno di Giacobbe. 1

È registrato nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze il suo libro “Proiettare/progettare: teorie e metodo per un rilievo estetico: la rappresentazione delle isole minori del Mediterraneo attraverso la cinematografia dell’ultimo decennio” relativo al lavoro prodotto nella sua tesi di dottorato (classificazione: 712 Paesistica/Architettura del Paesaggio numero standard BN 2005-6682T, numero di record BNI0010507).

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