Nonna barbara racconta

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NONNA BARBARA RACCONTA


NONNA BARBARA

Cari nipoti e pronipoti,

RACCONTA

Dedico a tutti voi questa raccolta di favole e racconti brevi che, durante tutta la mia “carriera” di nonna, vi ho raccontato in infinite occasioni per farvi addormentare, farvi stare buoni o, semplicemente, per strapparvi un sorriso. Alcune sono edizioni – riviste e corrette da me - dei famosi “cunti” che ci facevano i nostri nonni intorno al fuoco da bambini. Molte sono storie autobiografiche della mia infanzia e della mia vita che pensavo valesse la “penna” di scriverle. Vi amo tutti: dal primo, Luca, all‟ultima, Sofia (dolcetto di Luca) che mi ha reso BIS – nonna. E allora dico a tutti … bene, bravi, BIS! P.S. passate parola ai piccoli quando io non ci sarò più e poi date loro un bacino della buonanotte da parte mia!

Bis – nonna Barbara

2 B.B. (Bisnonna Barbara) con la dolce Sofia


INDICE               

TRE SORELLINE E UN FRATELLINO GRACILINA FRANCHINA LA MAIALINA ROSA LA LADRA MILLEDONNE MAMMA NDO’ NDO’ L’ORSO AMMAESTRATO LUCILLA E IL FIOCCO DI NEVE STORIA DI UN PICCOLO CANE LA LUMACA E LA FORMICA LA FARFALLA DALLE ALI SPEZZATE LA FAVOLA PREFERITA DI BARBARELLA DUE NIPOTINI IN GAMBA GIORGETTO E IL PASSEROTTO VIOLETTA E MARIA

pag. 4 pag. 14 pag. 21 pag. 32 pag. 42 pag. 56 pag. 68 pag. 76 pag. 85 pag. 93 pag. 101 pag. 107 pag. 116 pag. 123 pag. 134

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INDICE 

LA FARFALLA E IL GIRASOLE

pag. 145

IL LINGUAGGIO DEI FIORI

pag. 151

NONTISCORDARDIME

pag. 157

LA NONNA INFELICE

pag. 165

LA TIGRE DI PELUCHE

pag. 171

LUIGINO E LA SVEGLIA

pag. 177

MARIA LUCE

pag. 183

GIORGINO E LO “SPORCO NEGRO”

pag. 192

LASCIATE CHE I BIMBI VENGANO A ME

pag. 201

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TRE SORELLINE E UN FRATELLINO C‟era una volta una famiglia che viveva in un piccolo paesino. La mamma si chiamava Adele e il papà Michele. Avevano avuto tre belle bambine alle quali avevano imposto i nomi di Carmela, Elisabetta e Maria, la più grande delle tre. In questa famiglia, per completare la felicità, ci voleva proprio un maschietto; ma non arrivava mai! La mamma pregava notte e giorno: “Signore mandami un bambino! Lo so: mi hai dato tre femminucce che sono la mia gioia e per questo ti ringrazio infinitamente. Mi sento egoista a chiederti pure un maschietto poiché alcune famiglie non ne hanno per niente! … lo vorrei per continuare la discendenza e fare felice mio marito”.

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Il signore ascoltò le preghiere di quella donna perché era buona, sincera e per niente egoista al punto che aveva detto: “Se mi mandi un maschio, Signore, lo puoi prendere nella tua chiesa per servirti!” Le preghiere fatte con il cuore arrivano sempre al Signore e così nacque il bambino, un mese prima di Natale: che felicità in famiglia! Il bambino era troppo bello, assomigliava a un angioletto caduto dal cielo. La gente del paese faceva la fila per andarlo a vedere, dicevano tutti che era quasi un miracolo perché la mamma era avanti negli anni e difficilmente poteva avere figli. I paesani lo chiamavano proprio “il figlio del miracolo” (a quei tempi la gente credeva ai miracoli essendo buona; anche oggi i miracoli avvengono, ma la gente non li vede perché è distratta da tante cose). La mamma, fra le tante preghiere, aveva fatto anche un voto a Sant‟Antonio: “Se avrò un maschietto, lo chiamerò come te!” Così lo chiamò Antonio (Salvatore come secondo nome per onorare il nonno paterno). Il papà era così felice che offrì da bere a tutto il paese essendo lui persona stimata da tutti. Questo bambino cresceva paffutello, con due occhi profondi, meravigliosi: quando guardava qualcuno sembrava scrutarlo dentro.

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Tornando alla nostra storia dobbiamo precisare che le sorelline di Antonio non erano gelose del nuovo fratellino … tutt‟altro! Lo accolsero con gioia e facevano a gara per accudirlo in modo da aiutare la mamma impegnata a fare la sarta a tempo pieno (essendo l‟unica del paese a prestare quel servizio). Anche il papà faceva il sarto, ma, essendo poliedrico e vulcanico, faceva anche il postino e tanti altri mestieri. Inoltre, per non farsi mancare nulla, suonava l‟organo in chiesa e cantava con una voce che deliziava chi lo ascoltava. Si sentiva moralmente obbligato a non abbandonare gli impegni in chiesa perché era cresciuto proprio nella famiglia del parroco del paese, fin dall‟età di otto anni, essendo un loro lontano parente. Per questo il papà diceva sempre: “Le mie figlie, quando cresceranno, si faranno suore e il maschietto prete!” Voleva che anche i suoi figli servissero il signore come faceva lui. Intanto i bambini crescevano e, nella loro modesta casa, lavoravano tutti come formichine avendo ciascuno il suo compito: Carmela aiutava la mamma e il papà nel lavoro di cucito e anche nei servizi da prestare in chiesa; Elisabetta tesseva la tela e in più faceva la spesa e cucinava (questo accadeva quando avevano rispettivamente quindici e sedici anni).

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Da piccole giocavano come tutti i bambini della loro età, solo che i giocattoli se li costruivano da soli: le bambine si cucivano le bambole di pezza, i maschietti si costruivano i carrettini di legno con delle piccole ruote di ferro che trainavano a vicenda. E Maria? Che cosa faceva la maggiore? Non faceva proprio niente! Lei non viveva con loro perché - fin da piccola – era stata cresciuta dalle tre sorelle del parroco che abitavano vicino alla loro casa … quasi un modo per perpetuare la tradizione iniziata con il papà. Quando Maria era ancora bambina, infatti, le tre sorelle proposero a mamma Adele: “Tu hai giornalmente molto lavoro da fare perché tutto il paese confida nella tua insostituibile opera … la bambina potremmo tenerla noi per darti una mano: sarebbe una gioia accudirla!” Erano tre zitellone: non si erano sposate proprio per stare vicino al fratello. Erano di famiglia nobile, molto ricca e, come tutti i ricchi, erano spilorci! Solo una di loro, Marietta, la più piccola, faceva la carità di nascosto delle altre due: era diversa da loro e aveva un cuore grande. La maggiore, invece, si chiamava Adelina e la seconda Virginia. La loro famiglia era completata da due fratelli: il prete, appunto, che si chiamava Ciccillo e l‟altro, l‟unico che si era sposato e viveva in un‟altra città, si chiamava Guglielmo.

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Avevano una mamma molto avanti con l‟età ma raffinata e gentile; le figlie la tenevano come una bambolina e non le facevano mancare niente. La loro cameriera, sordo-muta, era – se possibile - più avara dei suoi padroni: cacciava da casa tutti quelli che andavano a chiedere l‟elemosina (di quei tempi erano in tanti nella necessità anche solo di un bicchiere di olio). Avevano tanti gatti: quello che più amavano si chiamava Bianchino ed era grasso da fare paura. Aveva due occhi rosso fuoco che spiccavano come brace ardente sulla bianca livrea. Mangiava addirittura a tavola con i padroni, avendo il posto vicino alla nonnina e il piatto come il suo: lei lo imboccava e, a fine pasto, gli puliva il muso con un tovagliolo di stoffa. La piccola Maria, che cresceva in questa famiglia, aveva preso molto del carattere delle tre zitelle, infatti, non era molto disponibile con gli altri. Chiamava il prete papà e alle sue sorelle le chiamava tutte e tre mamma! Per distinguerle chiamava la più grande “mamma nacca” (un‟altra mamma); la seconda “mamma ricchi” (mamma delle orecchie perché le aveva messo gli orecchini); la terza “mamma fiori” (per via di un vestitino a fiori che indossava spesso).

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Al vero papà di Maria non andava giù che sua figlia chiamasse papà il prete e mamma le zitelle ma a niente servivano i suoi richiami: da un orecchio le entrava e dall‟altro le usciva! Maria cresceva molto viziata dato che in quella famiglia non le facevano mancare niente. Questo finiva per influire negativamente sul suo carattere: le piaceva fare i dispetti agli altri bambini e picchiava spesso le sorelline. La sua vittima preferita era Carmela che non taceva mai al papà le sue malefatte e le rimproverava apertamente la sua prepotenza e i suoi modi violenti. Maria, infatti, faceva l‟angioletto solo davanti a papà Michele perché era l‟unico da cui temeva di prenderle … e ogni tanto le prendeva eccome! Tante volte, per vendicarsi delle sonore punizioni del papà, chiamava le sorelline fuori, con la scusa di dare loro delle caramelle, quando le ingenue sorelline uscivano, lei le prendeva per i capelli e poi scappava dalle zitelle che la proteggevano. Mamma Adele era disperata per il carattere che aveva Maria e se la prendeva col marito dicendogli: “La colpa è tutta tua che hai permesso loro di prendersi cura della nostra bambina! Hai visto il risultato? Doveva crescere insieme alle sue sorelle e socializzare con tutti i bambini e non crescere in una famiglia dove tutti sono anziani!”

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La mamma piangeva perché la sua bambina non voleva tornare più da loro: ormai, per lei, era quella la sua vera famiglia. Maria, però, nonostante i frequenti contrasti, era molto affezionata a Carmela: voleva giocare sempre con lei perché sapeva che era buona e, nonostante le angherie subite, era la prima a voler fare pace. Carmela aveva paura di tutto … anche delle ingenue smorfie che le faceva la sorella Elisabetta per dispetto! Elisabetta, conoscendo quel lato del suo carattere, durante la giornata la ricattava spesso dicendole: “Se non mi dai la tua bambola per giocare stanotte non ti abbraccio!” Loro due dormivano, infatti, nello stesso letto e Carmela non riusciva a dormire se la sorella non le metteva un braccio sulla spalla: solo così si sentiva protetta e al sicuro. Carmela aveva un bel carattere, era carina e sapeva fare di tutto … ma era poco capita dalle sorelle e per questo piangeva spesso. E il fratellino? Cresceva proprio come un bambino prodigio! A dirla tutta cresceva anche lui un po‟ viziato perché erano tutti al suo servizio: bastava un cenno che tutti accorrevano a soddisfare i suoi desideri. Il papà, troppo apprensivo nei suoi riguardi, non lo faceva giocare con i suoi coetanei per paura che i monelli del paese gli insegnassero le parolacce o lo picchiassero.

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Alle giuste rimostranze della moglie rispondeva: “Fuori ci sono un sacco di pericoli per i bambini, è meglio che giochi con le sorelline in casa!” Le povere sorelline erano diventate i suoi unici compagni di gioco. Lui, ovviamente, decideva e loro - per amore suo - lo accontentavano. Impararono tutti i giochi tipicamente maschili: il gioco delle carte, salta cavallo, lo schiaffo del soldato e tanti altri fin troppo “virili” per quelle due gracili fanciulle. Lui però non era contento: desiderava giocare con i suoi amici. Finalmente arrivò il tempo per lui di andare a scuola e le sorelle pensavano di prendere un po‟ di respiro dalle sue angherie. Non fu così. Il papà affidò loro un compito ancora più ingrato: dovevano accompagnarlo a scuola tutte le mattine! Non appena giravano l‟angolo e il papà li perdeva di vista, questi raccomandava a gran voce: “Tenetelo per mano fino a dentro la scuola! Non fatelo camminare solo!” Ma Antonio sapeva bene come liberarsi: rifilava alle povere sorelle una quantità industriale di calci negli stinchi! Poi felice correva via come un cerbiatto libero dalla morsa del cacciatore. Loro, tacitamente d‟accordo, tornavano a casa con le gambe doloranti e piene di lividi ma non dicevano niente per paura di prendere il resto dal papà.

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Il fratellino, a sua discolpa, diceva: “Mi vergogno! I miei compagni mi prendono in giro dicendomi che - grande e grosso come sono - mi faccio ancora accompagnare a scuola dalle sorelle … mi dicono che sono un Cocco di Mamma!” Quello che Antonio faceva davvero con piacere era il servizio di chierichetto: gli piaceva proprio stare in chiesa! Da quando aveva cinque anni, andava ripetendo sempre: “Da grande mi voglio fare prete … anzi, direttamente santo! Meglio prete, però, ripensandoci: ho paura che poi i devoti mi accendono le candele e mi brucio!” Tanto zelo religioso e tali aspirazioni non potevano essere disattese: a dodici anni il bambino - tenuto fino a quel punto nell‟ovatta da tutta la famiglia - andò a studiare in un istituto dei missionari Paolini nell‟estremo nord dell‟Italia. A niente servirono gli uffici del padre che sperava fosse assegnato a un seminario più vicino casa. Il Signore lo chiamò alla vocazione missionaria esaudendo così le preghiere della mamma pronunciate prima che nascesse. Le sorelle, un po‟ erano contente perché si erano liberate di un piccolo dolce tiranno (che li ricattava e le picchiava pure), ma piangevano molto perché si era allontanato talmente che lo vedevano solo due volte l‟anno: a Natale e in agosto.

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Col passare del tempo anche per loro giunse il momento di lasciare la casa paterna per sposarsi e mettere su famiglia. Nessuna delle tre si era fatta suora come avrebbe voluto il padre: il Signore aveva per loro altri progetti, la missione della famiglia. Maria la maggiore ha sei figli, Carmela tre e la minore, Elisabetta, due. Oggi le piccole sorelline sono delle mamme felici ma sono ancora orgogliose del fratellino che … indovinate? Naturalmente è diventato un sacerdote pieno di carismi e talenti. “Zio Totò”, come affettuosamente l‟hanno ribattezzato i suoi tanti nipotini è diventato un riferimento per tutti. Il suo talento con i piccoli l‟ha ispirato al punto da fondare un giornalino che è diventato uno dei più amati da tutti i bambini. Per lungo tempo è addirittura stato il portavoce del topo più dolce e amato d‟Italia, Topo Gigio, e premiato schiere di mini cantanti allo Zecchino d‟Oro. Insomma: non è diventato un santo come voleva, ma, a pensarci bene, un miracolo l‟ha già fatto: la moltiplicazione dei nipotini … tutti si facevano in quattro per stargli vicino! Addirittura nascevano nipoti dal nulla perché anche gli amici dei suoi nipoti lo chiamavano zio! La storia si ripete anche oggi con i pronipoti … a pensarci come santo ricorda molto il pittore Raffaello, infatti, è San Zio!

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GRACILINA Gracilina era il suo nome, a causa della sua salute. Era sempre malaticcia, però non si spaventava mai. Era una bambina bella e intelligente: a scuola era la prima della classe e tutti le volevano bene. Sapeva stare in compagnia ed era sempre lei ad animare i giochi, essendo anzi molto fantasiosa, molti l‟inventava lei. Già da piccolina soffriva di mal di testa e la mamma e il papà erano disperati perché la bambina, sempre sofferente, era vittima di tutti i malanni!.

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Gracilina non si lamentava mai, tranne nell‟ora di pranzo perché non voleva mai mangiare e, soprattutto, odiava la carne. I suoi genitori erano scoraggiati perché la bambina aveva bisogno delle proteine contenute in quel cibo essendo un po‟ anemica: in alternativa dovevano ricorrere a quelle odiose punture di vitamina, che facevano tanto male, ma che lei preferiva a una fettina di carne! La mamma, poverina, inventava tanti pranzetti succulenti per amore suo, ma Gracilina storceva la bocca e non ne voleva sapere. Il dottore diceva: “Se la bambina continua così si ammalerà di brutto. Cercate di convincerla a mangiare la carne, altrimenti diventerà ancora più anemica”. Povera Gracilina … Che cosa poteva fare? Non aveva per niente appetito, figuriamoci per la carne che odiava tanto. Il papà della bambina allora escogitò un espediente per farle mangiare la carne: le propose che ogni volta l‟avesse fatto, le avrebbe dato una monetina nuova di zecca con cui comprarsi dei bei giocattoli nuovi. Gracilina sembrava felice e accettò il patto. Così il suo povero stomaco, con grande sforzo, dovette ricevere il nemico numero uno: la carne! Dopo tante smorfie e rischi di rigetto la mangiò: solo per avere quella monetina nuova di zecca che il papà faceva oscillare sotto il suo naso.

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Questa storia durò ben poco perché il papà si accorse che Gracilina lo prendeva in giro: faceva finta di mangiare, masticava la carne ma poi la buttava sotto il tavolo … il suo piccolo stomaco proprio non la tollerava! Il papà la sgridò duramente ma si arrese: non poteva infliggerle quest‟altra sofferenza. Allora decise di fare ricorso alla medicina dandole delle fialette di ferro che Gracilina beveva volentieri poiché avevano un buon sapore. La mamma le diceva: “Vedi figlia mia, tu sei nata già sofferente perché da piccolina ti lamentavi già nella culla! Si vede che il tuo mal di testa è nato con te”. Gracilina, infatti, soffriva di forti mal di testa e spesso doveva stare al buio, con la testa fasciata e con fette di patate sulla fronte come avevano consigliato le comari del paese (rimedi antichi e poco efficaci se non per il temporaneo refrigerio sulle tempie!). Quelli erano i giorni più brutti per Gracilina perché non poteva andare a scuola come lei amava; e, ancor peggio, non poteva giocare insieme agli altri bambini: sentiva il loro vociare giù dalla strada e non poteva raggiungerli … ma era contenta lo stesso perché sapeva che si divertivano con i giochi che lei stessa aveva inventato! Per lei quel vociare era una nenia che pian piano la distendeva e la faceva addormentare.

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Così sognava di stare in mezzo a loro e di saltellare al gioco della campana e a tutti gli altri giochi, riuscendo così a dimenticarsi della sua emicrania. Fra tutti gli amici che aveva, una in particolare era molto attaccata a lei: voleva starle sempre vicino e imparare tutto quello che lei faceva. Si chiamava Stellina e le voleva un sacco di bene. Era più di una sorella per lei, facevano i compiti assieme e quando Gracilina stava male, si metteva vicino al suo letto leggendole le favole che le piacevano tanto. Ogni tanto Stellina le accarezzava i capelli perché sapeva che le piaceva tanto e dolcemente lei si addormentava. Sognava di stare in un parco bellissimo dove gli uccelli, gli alberi, gli animaletti del bosco e i bambini cantavano tutti assieme e lei era rapita da quella melodia. Avvicinandosi sempre di più vedeva tanti bambini che giocavano facendo un girotondo in mezzo ai prati pieni di fiori: più si avvicinava più riconosceva in quei bambini i suoi amici … Gracilina li chiamava tutti per nome ma loro non rispondevano, rimanevano indifferenti, la cosa che le faceva più male era l‟indifferenza di Stellina, la sua migliore amica. Che cosa era successo? Perché non le rispondevano?

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Non avendo risposta si mise a piangere: lo fece così forte che attirò subito l‟attenzione di un piccolo cerbiatto che le si avvicinò e disse: “Perché piangi bambina? Non vuoi giocare con i tuoi amici?” Ma Gracilina sentendo la parola "amici" piangeva ancora più forte. “Non sono più i miei amici! Non mi vogliono più bene!” Diceva fra un singhiozzo e l‟altro. Il cerbiatto la consolava: “Non te la prendere tu sei così buona che troverai subito altri amici”. Gracilina replicava: “Sono questi i miei amici: è loro che voglio e Stellina che adesso non mi vuole più bene. Che cosa le avrò fatto?” Gracilina piangeva sempre più accoratamente che pure il cerbiatto, commosso, si mise a piangere. Poi le porgeva la zampetta dicendo: “Io sarò tuo amico se vuoi. Vieni con me, ti farò conoscere tanti altri amici del bosco!”. Gracilina, sempre piangendo, lo seguiva; mentre si allontanava, posava lo sguardo sui suoi amici che giocavano allegri e felici nel parco. Il cerbiatto per consolarla le raccontava tante storielle buffe, saltellava qua e la e faceva così tante capriole acrobatiche che lei non poteva fare a meno di scoppiare a ridere, dimenticando così il dispiacere di prima. Gracilina rideva sempre di più nel vedere l‟amico cerbiatto saltellare e fare una giostra di piroette.

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Erano arrivati vicino a un ruscello, dove c‟erano tanti altri animaletti: scoiattoli, coniglietti e altri che aspettavano con ansia l‟arrivo del cerbiatto perché lui era il più simpatico di tutti e l‟animatore di tutto il bosco. Il cerbiatto allora disse: “Amici, vi presento Gracilina, una nuova amica che è molto triste e noi dobbiamo fare felice”. “Perché sei triste?” - domandavano in coro tutti gli animaletti - e il cerbiatto: “I suoi amici l‟hanno abbandonata e non le vogliono più bene”. “Poverina! Rimani con noi!” - dicevano ancora tutti in coro – “Nel nostro mondo animale, a differenza del vostro, non abbandoniamo mai i nostri amici!” Gracilina, piangendo diceva: “Non posso stare nel vostro mondo, io appartengo a quello degli uomini, il mio posto è lì, chissà ora quanto stanno soffrendo per me i miei genitori! Amici! Aiutatemi a tornare a casa, io non mi dimenticherò mai di voi!” Gracilina piangeva e si agitava nel sonno finché sentì una voce chiamarla sempre più forte: “Graci, Graci!”. Era la mamma: “Svegliati bambina mia, non piangere … è solo un brutto sogno! Sei qui con la tua mamma e il tuo papà, c‟è pure Stellina accanto a te, è venuta a trovarti per starti vicino perché hai la febbre molto alta … non voleva svegliarti per farti riposare”.

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Gracilina aprì bene gli occhi e si accorse che la sua migliore amica era lì, accanto a lei, con il libro delle favole in mano, pronta a leggere le storielle come faceva sempre quando era costretta a stare nel letto. A quel punto Gracilina capì che aveva fatto un brutto sogno e che i suoi amici le volevano ancora bene, infatti, andarono a trovarla tutti finché fu malata. Durante il decorso della sua malattia, che questa volta era più seria del solito, trattandosi di bronchite, Stellina andava tutti i giorni a trovarla per fare insieme i compiti e per tenerla così aggiornata su quello che succedeva a scuola. Passato il brutto periodo di malattia, Gracilina tornò a scuola indebolita, più magra di prima ma con tanta gioia nel cuore nel vedere la festa che tutti i suoi compagni le fecero appena la videro. Ripresero a giocare come prima, inventando tanti giochi nuovi e Gracilina insegnò ai suoi amici i giochi che il cerbiatto e gli animaletti facevano per lei durante il sogno, comprese le piroette e le giravolte … tutti gli amici le dicevano: “Come sei brava Gracilina! Per favore non ammalarti più!” Lei li abbracciò forte e pianse di gioia vedendo il bene che tutti le volevano. Quello fu il giorno più felice della sua vita.

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FRANCHINA LA MAIALINA In un piccolo paese di pochi abitanti, viveva una contadina che aveva una simpatica maialina pronta per partorire. Giunto il momento del parto diede alla luce tre bellissimi maialini ma, purtroppo, subito dopo morĂŹ.

La contadina, aiutata dal marito, decise di portare nei campi lontani dal paese la triste famigliola per seppellirla: lâ€&#x;atroce destino della mamma sarebbe stato anche quello dei maialini appena nati che, purtroppo, senza la loro mamma o una scrofa che li allattasse, non sarebbero comunque sopravvissuti.

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Tanti bimbi del paese si accodarono al triste trasporto seguendo la carriola spinta dai contadini, curiosi di assistere alla sepoltura della scrofa e dei suoi piccoli. Dopo aver adagiato nella fossa la mamma le misero vicino i maialini che erano così piccoli da somigliare a tre gattini: non avevano ancora il pelo e la loro pelle era tanto rosa da sembrare di seta. Fra tutti quei bambini c‟erano tre cuginette di cui una era la nipotina della contadina si chiamava Teresa come la nonna – e due sorelline di nome Anna e Celeste. Le tre bambine si misero a gridare con quanto fiato avevano in gola: “Non li sotterrate! Sono ancora vivi!” Ma i contadini continuarono a buttare terra sui piccoli per finire in fretta la cosa, incuranti dei pianti delle bambine che li pregavano di darli a loro che li avrebbero certamente salvati dalla morte. Vista la determinazione dei suoi nonni, Teresa si gettò con foga nella fossa; prese i maialini e scuotendogli la terra da dosso li porse, uno dopo l‟altro, alle cuginette che stavano sul bordo della buca. Le sorelline, trepidanti, stavano con le piccole braccia aperte per accogliere i poveri maialini e salvarli da una morte orribile. Poi, veloci come il vento, si misero a correre mentre la nonna di Teresa urlava: “Riportateli qui! … tanto moriranno subito senza la loro mamma !”

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Le bambine, continuando a correre più che potevano, gridarono: “Quando moriranno li seppelliremo … non prima!” Anna e Celeste, con la cuginetta Teresa, arrivarono di corsa a casa loro. Quando la loro mamma li vide arrivare con quei maialini in braccio si mise a urlare contro di loro: “Che cosa avete fatto? Portateli dalla loro mamma, questi non sono giocattoli! Moriranno da un momento all‟altro lo volete capire? Hanno bisogno del latte della mamma per vivere!” Anna, tra un singhiozzo e l‟altro, domandò: “Se daremo loro il latte che beviamo noi non è la stessa cosa?” “No!” - rispose la mamma, e aggiunse con un tono più dolce: “Vedete bambine? Sono così piccoli che devono succhiare dal seno della mamma come i bambini neonati … non sanno mica mangiare col cucchiaio!”. Allora Celeste rispose: “Ho un‟idea! E se li facciamo succhiare col biberon come i bambini piccoli? Teresa tutta entusiasta disse: “È vero, come non pensarci! Vi prego zia dite di si … per favore!” La mamma, visti i pianti a dirotto e l‟insistenza della nipotina, si arrese e acconsentì dicendo: “Va bene, mi avete convinta! Filate a lavarvi e poi vediamo il da fare”. Intanto che le bambine si lavavano, la mamma accarezzava le povere bestiole orfane della mamma e bisognose di calore.

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Lei che aveva quattro figli conosceva bene il bisogno di cure e amore di quelle piccole creature prossime forse alla morte e, commossa fino alle lacrime, ordina alle bimbe: “Presto! Andate al pascolo e fatevi dare un po‟ di latte, intanto io preparo tre bottigliette col biberon … su, via! Andate!” Le bimbe, correndo felici, capirono che la mamma era loro alleata e le avrebbe aiutate sicuramente a salvare i maialini: ebbero la sensazione che i tre orfanelli ce l‟avrebbero fatta … si sentivano già le loro mammine, responsabili ciascuno del loro cucciolo. Questa volta però non era come con le bambole: loro erano delle creature viventi come i bambini. Intanto la mamma aveva avvolto i tre maialini in una coperta di lana dentro a una cesta per dare calore: i piccoli tremavano come i neonati. Le bimbe tornarono presto con il latte e lei, uno per volta, cominciò a fargli assaporare il latte a goccioline fino poi ad attaccarli alla bottiglia: con gioia vide che si attaccarono avidamente al biberon succhiando con energia. Rinfrancata da quella scena, disse alle bimbe: “Sapete bambine? Se superano la settimana e succhiano così ce la faremo sicuramente!” Le bimbe si abbracciano felici e baciano le mani della mamma promettendo di essere buone e collaborare in tutto e così fecero.

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I maialini sopravvissero grazie alle dolci cure di mamma Adele e alle infinite coccole delle padroncine. Dopo quindici giorni, Teresa prese il suo maialino e lo portò a casa sua: oramai era fuori pericolo e cresceva giorno per giorno. Lo chiamò Franchino - era un maschio - come quello di Anna che chiamò Franco. Quello di Celeste era una femminuccia e la chiamò Franchina. L‟origine di quei nomi, molto simili tra loro, derivava dal fatto che li avevano ottenuti gratuitamente cioè in modo “franco” come si diceva al loro paese. Intanto i maialini incominciavano a mangiare e crescevano a vista d‟occhio perciò si poneva il problema di dove metterli perché nella cesta non c‟entravano più. La mamma, ancora una volta, propose una soluzione sensata: voleva affidarli a una vicina di casa che aveva un orto alla fine del paese. Le bambine potevano vederli ogni volta che lo desiderassero, avrebbero portato loro il cibo, potevano giocare con loro … ma le bambine non ne volevano sapere di separarsi dai loro maialini e iniziarono a piangere. La mamma promise di tenere ancora un po‟ Franchina perché era la più piccola ma Anna si ribellò e pianse tanto. Mamma Adele ricordò allora alle sue bambine che avevano fatto la promessa di comportarsi bene e di essere comprensive.

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Era giunto il momento di mantenere la promessa altrimenti, disse, avrebbe venduto i maialini! Le bambine si consultarono fra loro e, sapendo che la mamma manteneva sempre ciò che diceva, decisero di accettare la proposta. Celeste disse alla sorella: “Non ti preoccupare! Io ti farò giocare con Franchina e ogni giorno andremo a trovare Franchino per portargli il cibo e giocare con lui … vedrai: ci abitueremo!” Intanto a casa prepararono un angolo del laboratorio di sartoria per accogliere la maialina: invece della paglia, misero tanti ritagli di stoffa. La mamma, che era una bravissima sarta, da quel giorno raccomandò a tutte le apprendiste di raccogliere tutti i ritagli ogni giorno perché ne servivano tanti per poterli cambiare più volte e mantenere pulita Franchina. Tutte le ragazze avevano attenzioni per la maialina: ogni mattina, dopo il saluto alla maestra, facevano a gara per coccolarla e poi si dedicavano tutte al proprio lavoro. La piccola Celeste spesso la tirava fuori dal suo angolo e le metteva il guinzaglio come a un cane, poi qualcuno la tratteneva e Celeste puliva l‟angolo con tanta attenzione. Disinfettava con l‟alcool e igienizzava per bene, poi prendeva la maialina e le faceva il bagno in una vasca mezza rotta un giorno sì e uno no.

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Per fortuna era estate e dunque tutte le mattine – dopo averle preparato una buona colazione di pane e latte - poteva metterle un bel fiocco rosso al collo e poi, al guinzaglio, la portava a spasso per il paese. Tutti i bambini facevano a gara per portarla un po‟ col guinzaglio … ci giocavano come fosse un cagnolino! Franchina cresceva sempre più: era pulita e carina ma lo spazio dove dormiva non le bastava: non poteva più abitare in famiglia, aveva bisogno di più spazio e un ambiente adatto a lei, era un maiale dopotutto e non un cane come invece credeva Celeste! La bambina le parlava, Franchina la seguiva ovunque come fosse davvero un cane fissandola con i suoi occhi rossi e grugnendo come se capisse ciò che la bimba diceva. A volte Celeste si nascondeva e diceva alle sue amiche: “Quando mi allontano e mi nascondo liberatela: voglio vedere se mi trova!” La maialina grassottella, muovendo in fretta la coda, la trovava sempre! Solo in Chiesa non aveva il permesso di seguire la padroncina. Tuttavia un pomeriggio, mentre Celeste era al catechismo, sentì il suo inconfondibile grugnito. Tutti i bimbi corsero incontro alla maialina ma lei cercava solo la sua padroncina che, non appena la vide, la prese e la portò a casa.

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Durante tutto il tragitto la rimproverò duramente: se lo avesse fatto ancora, l‟avrebbe portata in campagna dai suoi fratellini! Franchina, abbassando le orecchie, fece capire che aveva appreso la lezione. Ormai non riusciva più a stare senza la padroncina: se qualche volta la lasciava, lei spezzava il guinzaglio e, seguendo l‟odore, proprio come i cani, la trovava sempre! Glielo aveva spiegato anche un vecchio del paese che i maiali erano meglio dei cani in fatto di odorato e che si potevano anche usare per trovare i tartufi! Il papà di Celeste a quel punto decise di risolvere il problema portando Franchina da un suo amico in campagna che a carnevale ne avrebbe fatto delle salsicce per la famiglia … ma come dirlo a Celeste? La mamma si prese l‟onere di preparare la sua bambina a quella situazione quindi chiamò Celeste e le disse: “Vedi figlia mia? Lo so che sei una bambina sensibile, ma so anche che sei molto intelligente e puoi capire che Franchina non è un cane e perciò non possiamo più tenerla in casa. Anche in campagna i maiali non si possono tenere più di un anno: la sorte di questi animali è nutrire la famiglia, assicurando del cibo per molto tempo … anche se sei molto piccola, devi imparare la legge della natura che tu non puoi cambiare … un giorno capirai”.

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Celeste piangeva a dirotto: non poteva accettare che qualcuno facesse del male a quell‟animaletto che lei aveva salvato dalla morte! Nessuno avrebbe mangiato la sua Franchina! La prese per il guinzaglio e corse via con lei. A quel punto la mamma capì che sarebbe stato inutile insistere: per quel giorno non avrebbe ricavato niente; la sua bambina era sconvolta. Il papà cercò un altro modo per farle accettare la situazione: andò da un suo amico vigile e insieme prepararono un piano per convincere Celeste. Era trascorsa una settimana e tutto era tornato alla normalità; non si parlava più di Franchina quando, una mattina, sentirono bussare alla porta: era il vigile che cercava il suo papà. La mamma disse che non era in casa e che poteva riferire a lei. Il vigile allora le chiese minaccioso: “Sapete che è vietato tenere dei maiali in casa perché portano infezioni?” Ma Celeste rispose: “Non di certo la mia Franchina! Io la lavo tutti i giorni, mangia il nostro cibo … è come una persona!” Il vigile rispose, dopo una pausa in cui si mostrò pensieroso: “Va bene bambina … se proprio vuoi tenere il maiale a casa come fosse un cane io dovrò arrestare tuo padre perché tu sei piccolina e non posso arrestarti!”

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La mamma, che conosceva il piano del papà e dell‟amico, pregò il vigile di chiudere un occhio perché la figlia soffriva molto. Lui rispose: “Va bene signora! Vi do una settimana di tempo così la bambina può decidere se far arrestare il padre o no”. La mamma riempiva Celeste di tenerezze perché le dispiaceva vederla soffrire e si addossava la colpa perché aveva acconsentito, irresponsabilmente, a tenere la maialina: “Vedi piccolina … io per amor tuo accettai di aiutarti a tenere la maialina e ora tu, per amore di tuo padre, devi rinunciare a lei per non farlo arrestare. So che tu ami molto papà perciò ora devi sacrificarti per lui … lo sai che lui ti ama tanto e sei la sua prediletta, non merita che tu faccia questo per lui?” Celeste, piangendo addolorata, andò da Franchina e le disse accarezzandola dolcemente: “Tu mi capisci vero? Io ti voglio tanto bene ma non posso rinunciare al mio papà … Se non ti do via, lo arrestano!” Franchina grugniva come se capisse e quasi voleva dirle: “Non ti preoccupare anch‟io al posto tuo farei lo stesso!” Quella sera Celeste andò a letto in lacrime e promise a se stessa di andare sempre a trovare la sua amica e che nessuno le avrebbe fatto del male.

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La mattina dopo andò a salutare Franchina come al solito ma lei non c‟era già più: l‟avevano portata via molto presto per non darle il dispiacere di vedere quella scena. Celeste guardava l‟angolo vuoto con ancora i ritagli di stoffa al loro posto: soffriva tantissimo ma si sentiva orgogliosa di aver salvato il suo papà che era lì vicino a braccia aperte per dimostrarle tutto il suo affetto colmandola di baci. Quel gesto d‟amore le era costato tanto ma aveva dimostrato a tutti quanto amasse il suo papà. Lui, prendendola in braccio, le disse: “Non piangere bambina mia! Franchina è felice perché sta con i suoi fratellini; pian piano si abituerà, tu potrai andare a trovarla quando vorrai. La faremo vendere alla fiera come maiale di razza per fare i maialini così non sarà uccisa, te lo prometto … contenta?” Lei si asciugò le lacrime, lo guardò negli occhi e disse: “Grazie papà, a me basta sapere che tu sei qui con me e mi vuoi tanto bene, sono tanto felice e so che pure Franchina è felice con i suoi fratelli … adesso vive la sua vera vita da maiale e non da cane come volevo io!” Il papà la baciò e le disse: “Sapevo che eri una bambina molto saggia, per questo ti voglio tanto bene!” 32


ROSA LA LADRA Rosa era una gatta ed era una vera ladra, astuta come una volpe! I suoi padroni erano disperati perchÊ i vicini di casa si lamentavano in continuazione, ma non solo i vicini ‌ quasi tutto il paese! Rosa, come tutti i ladri, visitava tutte le case: la refurtiva la portava ai suoi padroni che, poveretti, erano costretti a pagare i danni alle persone derubate. A niente servivano le minacce che i suoi padroni le facevano: la cacciavano perfino da casa per castigarla ma lei era sempre dietro la porta a miagolare ‌ sembrava chiedesse perdono!

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I padroni le erano molto affezionati e la perdonavano per amore della loro bambina che era la sua padroncina. La bambina si chiamava Celina, ma il papà preferiva chiamarla “Musino” perché dava sempre l‟impressione di una bambina imbronciata. Non era molto aperta al sorriso però “Musino” e la sua gatta andavano molto d‟accordo; solo la notte diventavano nemici perché Rosa aveva un brutto vizio: s‟infilava nel suo letto mentre dormiva con Elisa, la sorellina più piccola. Celina si accorgeva della presenza di Rosa dal suo rantolio. La furba gatta aspettava che le bambine si addormentassero poi, con molta delicatezza, s‟infilava in mezzo a loro senza svegliarle. Quando Celina si accorgeva dell‟infiltrata, la afferrava per il collo e la scaraventava a terra, ma lei, astutamente, aspettava che la bambina si riaddormentasse per rituffarsi di nuovo nel letto. Rosa non si accontentava di stare sopra il letto: s‟infilava sotto le lenzuola e rimaneva con la testina di fuori come le bambine! Era questo che dava fastidio a Celina oltre al suo respiro forte che le rimbombava nelle orecchie. Per questo motivo era determinata a buttarla giù dal letto per una, due, tre volte finché stremata dal sonno si addormentava.

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Non si creda, tuttavia, che non amasse Rosa: l‟aveva cresciuta addirittura con il biberon e con le ricottine … era così piccola quando gliela avevano regalato che aveva provato da subito una grande tenerezza! Non le mancava niente … perché allora andava a rubare? Certo non per fame, lo faceva esclusivamente perché era nata ladra! Tutto questo Celina non lo capiva, per lei era un gioco, non pensava che dietro l‟apparente ingenuità della bella gattina tappezzata di marrone e bianco si nascondesse la personalità di una grande ladra, per giunta molto furba! Temeva molto per lei: pensava che qualcuno le potesse fare del male se l‟avesse trovata a rubare in casa. Sapeva che i suoi paesani avevano imparato a conoscerla e le volevano tutti bene … ma ne combinava troppe per essere sempre perdonata: più che una gatta sembrava un cane da caccia! Nelle solitarie battute il suo territorio di razzia erano le case dove cacciava polletti già spennati, conigli pronti da mettere in padella, carni di ogni genere, pesci e tutto quello che la gente si appressava a cucinare (allora non c‟erano i frigoriferi come adesso e le persone erano costrette a posare le pietanze dappertutto). Bastava un po‟ di distrazione o che le persone si allontanassero da casa che lei era lì pronta ad arraffare tutto.

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Nel piccolo paese le case erano basse e le porte davano sulla strada: per lei era tutto facile, non doveva fare neppure le scale! La casa dei padroni di Rosa sembrava l‟ufficio degli oggetti smarriti! Ognuno andava a riprendersi le cose sperando di poterle recuperare: Rosa, infatti, afferrava tutto con i denti e lo trascinava per la strada fino a casa, anche se la preda pesava il suo doppio! Tutte le cose che la gatta portava a casa e non erano più buone da mangiare, il povero padrone era costretto a risarcirle: poi non poteva fare altro che darle a una vicina di casa affinché, almeno, sfamasse i suoi cani. Poi dicono che i gatti non vanno d‟accordo con i cani: grazie a lei quelli erano ingrassati a dismisura! I furti avvenivano preferibilmente di sabato quando i contadini stavano in casa a preparare il lauto pranzo domenicale: portavano dalle campagne i polletti già spennati di loro produzione mentre, durante la settimana, si accontentavano di mangiare gli ortaggi che coltivavano. I padroni di Rosa stavano bene economicamente avendo messo su una sartoria e facendo un piccolo commercio di stoffe: erano conosciuti e molto stimati nel loro piccolo paese … anche per questo la gente tollerava quella piccola ladra e nessuno osava farle del male.

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I padroni la punivano per educarla come si fa con i figli, lei miagolava come per dire che era pentita e che non lo faceva più, ma dopo un giorno, massimo due, cominciava da capo: era nata ladra e non poteva farci nulla! Un giorno il padrone disse alla moglie: “Questa storia non può andare avanti così. Parla tu con Celina e dille che la gatta la diamo alla comare Teresa che se la porta in campagna dove sicuramente si troverà bene. Lì ci sono poche case così gli passa la voglia di rubare e impara pure a cacciare i topi che sarebbe la cosa giusta per i gatti come lei in cerca d‟avventure!”. Volete sapere quanto tempo rimase in campagna Rosa? Un giorno soltanto! Eppure il padrone aveva preso tutte le precauzioni: l‟aveva messa in un sacco scuro in modo che non vedesse la strada per tornare a casa - si faceva così con i gatti indesiderati - ma lei era superiore a queste cose! Non era una semplice gatta: era una supergatta e per giunta ladra! La gatta aveva camminato tenacemente per tutta la notte per ritrovare la strada: la mattina il padrone di casa, che era il primo ad alzarsi, sentì miagolare dietro la porta, aprì con cautela e lei – come lo spiraglio fu sufficiente per farla passare corse come una freccia su per le scale e andò a tuffarsi nel letto delle bambine!

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Figuratevi la gioia della padroncina che, dopo aver pianto tutto il giorno per la sua mancanza, se la vide arrivare come una furia nel letto: se la strinse al petto e schiacciò il suo nasino contro quello ghiacciato della gatta! Stavolta non pensò neanche per idea di buttarla giù dal letto come di solito faceva quando la svegliava col suo fastidioso rantolio. La copriva e cercava di riscaldarla col calore del suo corpo, la nascondeva pure dalla sorellina che continuava a dormire e non si era accorta del ritorno di Rosa la “Ladra”. Celina sperava che nessuno l‟avesse vista tornare: aveva paura che il suo papà la mandasse di nuovo via … non immaginava che invece era stato proprio lui a farla entrare in casa. In fondo pure lui era affezionato a quella gatta e tutta la rabbia gli era passata quando l‟aveva vista tornare con i suoi soliti modi da monella! Il papa pensava che Rosa avesse imparato la lezione e che non avrebbe più rubato. Si sbagliava, perché lo stesso giorno ritornò sul suo “posto di lavoro”. Vicino casa c‟era la comare Maria che aveva una chioccia con venti pulcini … la gatta li prese uno per volta, con molta delicatezza, e li trasferì a casa dei suoi padroni!

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La comare Maria, dopo una giornata di lavoro nei campi, fu costretta a fare una deviazione verso il “covo” di rosa per riprendersi i suoi pulcini e riportarli a casa dalla chioccia. Questo curioso “trasbordo” da quel giorno divenne una consuetudine, tanto che la comare Maria pensò di portare una cesta vuota a casa dei padroni di Rosa per raccogliere i pulcini vivi che ogni giorno la gatta trasportava da una casa all‟altra! Il padrone di Rosa, che amava la selvaggina, aveva alcuni amici che gli procuravano spesso della cacciagione fresca che lui pagava profumatamente … e poi aveva Rosa che a suo modo andava a caccia pure lei! Bastava che le dicesse: “Vai, corri a caccia di uccellini!” che lei di corsa andava sul tetto della loro casa, passava attraverso una piccola finestrella della mansarda e si metteva “alla posta”: non si muoveva finché non passava di lì un uccellino che lei, prontamente, acchiappava al volo e lo portava giù dal suo padrone … Era troppo scaltra! Il padrone, che era un birbone e amava gli scherzi, si divertiva a giocare con lei per fare i dispetti a delle vecchiette che si sedevano sempre sui gradini della loro casa, per prendere il sole d‟inverno e il fresco nelle sere calde d‟estate.

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Quando le comari, infervorate nei loro discorsi formavano capannelli che non lasciavano il passaggio a chi doveva entrare o uscire dalla loro casa, Rosa, seduta lì davanti, le fissava … appena il padrone le faceva un cenno da dentro casa, lei lo raggiungeva saltando sulle spalle delle povere vecchiette lasciandole sbigottite e arrabbiate! Il padrone, tutto felice, le diceva: “Brava Rosa! Continua così, altrimenti queste ci riempiono di pulci!” E lei continuava a saltare da dentro a fuori, da fuori a dentro, finché le vecchie non se ne andavano maledicendo quella gatta che non le lasciava in pace! Un giorno d‟inverno però, la gatta la combinò davvero grossa: c‟era la piccola Lisa a letto con la febbre e la mamma mise a cuocere sul fuoco un pollo per farle un bel brodo. All‟epoca si cucinava col fuoco del camino; le pentole erano di rame per le verdure e di terracotta per la carne e il brodo. Rosa, stava vicino al camino, si riscaldava col fuoco e si deliziava con quel buon odorino di pollo che fuoriusciva dalla pentola che non aveva il coperchio. Tutto a un tratto Rosa, infilò la testa nella pentola di terracotta per rubare il polletto che stava cuocendo, la pentola col brodo bollente le cadde addosso e si ruppe a terra facendo un gran rumore.

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Quando arrivò la padrona, trovò la gatta tutta scottata, miagolante dal dolore: aveva scottature sul tutto il corpo e in particolare sulla testolina che era diventata completamente pelata. Solo dopo tanti giorni e tante cure da parte dei padroni e dei paesani - ormai affezionati anche loro a quella piccola ladra le cui gesta erano diventate mitiche - Rosa guarì e il suo pelo tornò più lucido di prima. Sembrava fosse ringiovanita e addirittura diventata più buona: la lezione era servita, non rubava più, si limitava soltanto ad aprire uno stipetto, chiuso con una chiave un po‟ lenta, dove i suoi padroni le lasciavano le cose da mangiare (ovviamente cucinate perché lei odiava le cose crude) e si teneva così in allenamento. Grazie a quello stipetto la ladra riuscì addirittura a guadagnarsi un encomio. Le cose andarono così: abituata ormai ad aprire il suo stipetto, Rosa mise a frutto quell‟allenamento riuscendo un giorno ad aprire lo stipetto sbagliato … quello in cui la padrona aveva appena riposto un piattone gustosissimo di pesci fritti per la cena. L‟invincibile odorino moltiplicò il suo ardimento e, in meno che non si dica, riuscì a entrare in quel paradiso dei gatti! La sua sfortuna fu però la molla della cerniera che, essendo stata aperta di scatto, altrettanto rapidamente si chiuse dietro se.

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Rosa rimase intrappolata in quella prigione dorata per oltre mezz‟ora! Dalla paura e dalla vergogna per averla combinata grossa, Rosa evitò pure di miagolare: quando la padrona di casa aprì lo stipetto per apparecchiare la cena la trovò rannicchiata vicino al gustoso piatto … non un solo pesce mancava! Tutta la famiglia, superato lo stupore, realizzò quale grande rinuncia avesse fatto Rosa per amore loro: come ricompensa quella sera la ladra gustò il più grande di quei pesci e le coccole da parte di tutti! Rosa visse a lungo e morì dopo tanti anni di vecchiaia … e non mentre rubava, come qualche maligno del paese andava dicendo: “Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino!” Rosa la ladra era al di sopra anche dei proverbi; del resto si sa: “Non dire gatto se non l‟hai nel sacco! 42


MILLEDONNE C‟era una volta una strega di nome Oloferna che aveva una bambina bellissima: era così bella come nessun‟altra. Il nome della bambina era “Milledonne”: così la chiamò la fata buona che la battezzò. La bambina più cresceva più diventava bella e la mamma strega, per paura che qualcuno gliela portasse via, costruì una casa a forma di torre, senza porte, con una sola finestra e la chiuse dentro. Le voleva un sacco di bene e non le faceva mancare niente, però la privò della cosa che in assoluto amava di più: la libertà.

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La bambina voleva correre nei prati e rincorrere i coniglietti nel bosco; raccogliere i fiorellini e portarli alla sua mamma come tutti gli altri bambini ma lei non poteva … doveva rimanere chiusa nella torre e guardare attraverso la finestra il volo degli uccellini e le acrobazie degli scoiattoli che si rincorrevano su e giù tra gli alberi. Tutti gli animaletti del bosco volevano molto bene a Milledonne: le tenevano compagnia e la deliziavano con i giochi che s‟inventavano per farla felice: gli usignoli intonavano melodie stupende in suo onore e tutti gli altri animaletti danzavano al ritmo del loro canto. Lei era felice con i suoi amici e, affacciata all‟unica finestra, cantava insieme con loro. La bimba divideva il suo cibo con i suoi amici e la mamma, non sapendo di questa sua abitudine, era contenta perché pensava che la figlia avesse un buon appetito. Aveva una cosa particolare che le ragazzine della sua età non avevano: i suoi capelli di un bellissimo colore biondo erano lunghissimi e forti; li teneva raccolti in due lunghissime trecce. Questo era un dono che le aveva fatto la sua fata madrina di battesimo. Durante la cerimonia, con la sua bacchetta magica, le toccò la testa e disse: “Tu avrai i capelli più lunghi di tutte le donne del mondo e quando sarai in pericolo, ti salveranno la vita ... Non tagliarli!”

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Milledonne, infatti, non lo fece. Finché era piccola, Oloferna adoperava una scala di corda per entrare e uscire da casa; quando la figlia diventò una signorina, le sue robustissime trecce sostituirono la scala di corda! La scala era, infatti, troppo ingombrante per portarla sempre dietro così la fece sparire del tutto. Oloferna era un donnone grande con modi rozzi e grossolani: annusava tutto come un cane, era selvatica e scontrosa come un orso ma, nonostante il suo orribile aspetto, era dolce con la figlia e le voleva molto bene. Quando tornava dai boschi, dove andava a cacciare e raccogliere cose strane per fare i suoi intrugli magici, da sotto la torre chiamava la figlia: “Milledonne, Milledonne! Fai scendere le tue trecce e fai salire mamma bella!” La fanciulla scioglieva le trecce buttandole giù dalla finestra e lei si arrampicava per i capelli della figlia. La ragazza non si faceva male perché i suoi capelli erano tutti particolari essendo così lunghi e forti che potevano trainare pure un carro pieno di tronchi. I giorni passavano tutti uguali: Oloferna usciva tutte le mattine e la figlia rimaneva a casa a sbrigare le faccende e preparare il pranzo. Una bellissima mattina, dall‟aria tiepida e profumata, il sole splendeva alto e Milledonne si trovava affacciata dalla finestra.

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All‟improvviso, del tutto inaspettato, passò di lì un bellissimo cavaliere accompagnato da altri uomini a cavallo: era il Principe Azzurro! La fanciulla, che per la prima volta vide degli esseri umani passare davanti alla sua torre, rimase a bocca aperta a guardare il principe e il suo seguito recarsi a caccia. Volgendo per caso lo sguardo alla finestra della torre, il giovane principe rimase folgorato dalla sua bellezza e subito s‟innamorò di lei. La fanciulla, dopo averlo guardato ammirata, ebbe paura che tornasse all‟improvviso la madre perciò rientrò di corsa in casa e sbarrò la finestra. Il principe continuò a pensarla tutta la notte: l‟indomani, di buon mattino, decise di tornare nel bosco e trovare la torre per vederla di nuovo. La ragazza però quel giorno non si affacciò: rimase dentro a piangere perché anche lei si era innamorata del principe ma … senza speranza! Era prigioniera nella torre e per giunta figlia di una strega gelosa di lei! Tutto a un tratto sentì il canto degli uccellini, aprì pian piano la finestra ed ecco che gli scoiattoli, i coniglietti e tutti gli animaletti suoi amici, salutandola gioiosi, le chiesero tutti in coro: “Perché piangi? Noi ti vogliamo bene e ti aiuteremo … su non piangere! Lei si asciugò le lacrime e sorrise felice pensando che almeno qualcuno le voleva bene.

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Mentre pensava così, sopraggiunse Oloferna che la fece sobbalzare gridando: “Milledonne, Milledonne! Sciogli i tuoi capelli e fai salire mamma bella!” Appena entrò in casa, la strega incominciò ad annusare l‟aria ma non sentì l‟odore del pranzo … Apriti cielo! Cominciò a sgridare con rabbia la figlia perché non aveva cucinato: “Ma come? Io mi ammazzo di lavoro tutto il giorno per non farti mancare niente e tu non mi fai neanche da mangiare!” La figlia si scusò dicendo che non si era sentita bene. Intanto il principe, che era nascosto da ore aspettando che si affacciasse, assistette a tutta la scena del rientro della strega con la figlia che scendeva le sue trecce per farla salire. Un mistero era dunque svelato: ecco come entrare in quella strana torre senza porte né scale! Escogitò allora un piano per raggiungere la sua bella. Dopo aver aspettato che la strega uscisse nuovamente nei boschi, attese ancora un‟oretta, poi, piazzandosi sotto la finestra imitò la voce della strega: “Milledonne, Milledonne! Sciogli i tuoi capelli e fa salire mamma bella!” La ragazza, convinta che fosse la madre a chiamarla, scese le trecce e … chi vide salire? Non poteva credere ai suoi occhi! Era proprio il bel principe dei suoi sogni che le stava davanti! Stava per urlare dallo spavento e dallo stupore ma il principe le chiuse la bocca con gentilezza.

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Passata la paura, la fanciulla cominciò a raccontare la triste storia della sua vita. Dopo aver ascoltato commosso, il principe disse: “Non temere! Io ti libererò da questa prigione perché ti voglio sposare! Milledonne piangeva disperata: la mamma strega di certo li avrebbe sbranati se avesse scoperto qualcosa. Il principe le fece allora coraggio dicendole che lui aveva un piano che avrebbe funzionato a meraviglia. Oloferna tornò a casa prima del solito perché aveva dimenticato delle pozioni magiche: mentre i due giovani si scambiavano sguardi innamorati e dolcissimi, sentirono la voce della strega che, come sempre, chiamava la figlia ad affacciarsi per farla salire. Immaginate la paura dei due giovani! Milledonne, senza perdersi d‟animo, nascose il suo principe in un armadio raccomandandogli di non fiatare, poi si affacciò alla finestra e sciolse i capelli per far salire la madre. La strega, appena entrata, incominciò ad annusare l‟aria ed esclamò: “Odore di uomo io sento!” La figlia accarezzandola dolcemente le disse: “Ma quale uomo vuoi che venga qua! Nessuno sa della nostra esistenza!” Ma lei continuava a dire sempre più arrabbiata: “Ti ripeto che odore di uomo io sento!”

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La figlia provava a rassicurarla dicendo che era l‟odore del pranzo speciale che le stava preparando e che le spezie segrete davano quell‟odore particolare: solo così Oloferna si calmò, prese le pozioni che aveva scordato e decise di tornare nel bosco. Milledonne si precipitò per far uscire dall‟armadio il suo principe e lo pregò di andarsene alla svelta. Lui la rassicurò che sarebbe tornato l‟indomani portandole un vestito da regina perché sarebbe diventata la sua sposa e la salutò baciandola dolcemente. Era molto felice pensando alla sua libertà ma il pensiero di fare del male alla sua mamma la rattristava fortemente: in fondo lei le voleva molto bene e così, la povera ragazza non sapeva decidersi sul da farsi. Mentre era assorta in quei pensieri, gli amici animaletti si riunirono sotto la sua finestra e intonarono una bella canzone: “Va col principe bambina, non restare lì dov‟eri … tu sarai nostra regina: ne saremo tanto fieri!”. Milledonne allora si convinse e cominciò a mettere in un cestino tutte le cose che avrebbero potuto contrastare l‟azione della mamma: mise un pezzo di sapone, una bottiglietta d‟acqua e un sacchetto di palline di vetro che un giorno lontano aveva ricevuto in dono da un vecchissimo mago amico di Oloferna.

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Questi le aveva predetto: “Un giorno che non sai, queste biglie tu userai, quando infine te ne andrai!” Così decise di portarle con sé. Finalmente arrivò il giorno tanto atteso: Oloferna uscì presto e di lì a poco il bel principe arrivò sotto la sua torre e scoccò, con la sua balestra, una scaletta di corda per farla scendere. La ragazza montò sul cavallo del principe e, al galoppo, si allontanarono … giusto in tempo! La voce della mamma da sotto la torre urlava: “Milledonne, Milledonne! Sciogli i tuoi capelli e fai salire a mamma bella!” Urlò la frase di rito due o tre volte ma la figlia non rispose: intuì subito che era scappata da casa e disperandosi urlò: “Mi ha ingannato, la mia figlia bella e ingrata!” Al colmo dell‟ira si toccò piedi con una bacchetta magica e cominciò a correre come un treno alla ricerca dei fuggiaschi: quasi stava per raggiungerli. Alla vista della furiosa inseguitrice, Milledonne prese il sacchetto con le palline di vetro e lo gettò dietro se: all‟improvviso la strada si trasformò in vetro scivoloso è frenò la folle corsa della strega. Oloferna, strega d‟esperienza secolare, pronunciò l‟incantesimo: “Sulla strada ora di vetro che io non resti molto indietro!” e riprese la sua corsa. 50


Milledonne cominciò a temere per le loro vite e tentò ancora una volta di fermare la madre buttando il pezzo di sapone: la strada diventò ancora più viscida e schiumosa tanto da frenare ulteriormente la corsa della strega. Purtroppo però Oloferna conosceva tanti incantesimi e tirò fuori quello giusto gridando: “Sul sapone e sulla schiuma fa‟ che corra come un puma!” … e riuscì continuò l‟inseguimento senza perdere terreno. Disperata e impaurita, gettò la sua ultima risorsa magica: la bottiglina d‟acqua. La strada si trasformò in un mare pieno di onde ma la strega gridò: “Dentro il mare assai agitato sol chi fugge sia fermato!” Bloccata di colpo dall‟ultimo incantesimo, Milledonne lanciò un urlo disperato: “Siamo perduti!” Improvvisamente le tornò in mente quanto la sua madrina le aveva detto sulle qualità magiche dei suoi capelli che l‟avrebbero salvata se si fosse trovata in difficoltà. Con tutto il fiato che aveva, gridò: “Fata fatina, ti prego implorante! Fa dei capelli un tappeto volante!” Tutto a un tratto i due innamorati si trovarono a volare sui suoi capelli assieme al cavallo bianco … sfrecciavano leggeri nell‟aria come un aquilone! Oloferna – che non aveva potere in cielo come lo aveva sulla terra - borbottò tra sé una maledizione verso il principe che le aveva rubato la figlia:

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“Spero che quando tua madre bacerai Milledonne dimenticherai!” La fanciulla, legata da un sentimento particolare alla madre, riuscì a intuire il senso di quel mugugno. Volando veloci erano intanto arrivati in prossimità del paese, dove c‟era il palazzo reale. Pian piano si abbassarono e toccarono terra nell‟orto di alcuni contadini che, riconoscendo il principe, lo ospitarono di buon grado. Il principe disse felice: “Aspettami qui, vado alla reggia a prendere il vestito reale e preparare i festeggiamenti per le nostre nozze … tornerò fra poche ore”. La fanciulla, che aveva percepito la maledizione della madre, disse al principe di stare attento e di non baciare la madre nel salutarla. Il principe, tranquillizzandola, si avviò alla reggia. Appena giunse a corte, la madre gli corse incontro e cercò di baciarlo ma il principe, ricordando le raccomandazioni di Milledonne, si divincolò e scappò via. La regina rimase turbata da questa cosa, ma cercò di non pensarci e andò a preparargli un bel bagno caldo. Dopo essersi lavato, stanchissimo, il giovane si buttò sul letto e si addormentò velocemente. La madre, vedendolo addormentato, lo baciò teneramente … in quel preciso momento il principe dimenticò la sua amata.

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La fanciulla attese invano il suo ritorno e, non vedendolo arrivare, capì che la maledizione si era compiuta. Cominciò a piangere a dirotto e inutilmente i contadini tentavano di consolarla: iniziò a raccontare la sua triste storia lasciandoli stupefatti. Poiché ormai era rimasta sola, le offrirono il loro aiuto tenendola con loro. Passato un anno da quel giorno a corte già fervevano i preparativi per le nozze del principe con una principessa di un vicino regno. Tutto il paese era in festa mentre la povera Milledonne soffriva e piangeva perché era sempre innamorata del suo principe e non sapeva come fare per raggiungerlo al castello: i contadini non sarebbero mai potuti entrare a corte e neanche lei che tutti credevano una loro parente. Mentre piangeva, un uccellino si posò sulla sua spalla e le disse: “Non piangere … ti ricordi di me? Sono l‟usignolo che ti cantava le serenate, andrò io dal principe!” Rinfrancata la ragazza prese l‟usignolo tra le mani, lo avvicinò al suo viso e lo baciò dicendogli: “Va amico mio! … E portami buone notizie!” Era la mattina del matrimonio; il principe, già vestito per la cerimonia, dietro i vetri della finestra vide l‟uccellino che sembrava volesse entrare. Aprì incuriosito le imposte e l‟uccellino si posò sulla sua spalla cantando:

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“Spero ti baci tua madre e ti dimentichi di Milledonne!” Cantò tante volte quel ritornello fino a che il principe -improvvisamente - si ricordò della sua amata! Prese la carrozza che avevano agghindato per la cerimonia e corse dai contadini dove la trovò ad aspettarlo più bella che mai! Dopo averla pregata di perdonarlo, la fece salire sulla carrozza trainata da dieci cavalli bianchi e raggiunsero di corsa al palazzo reale. Vedendoli arrivare tutti rimasero folgorati dalla sua bellezza … persino la regina e la promessa sposa capirono il grande sentimento d‟amore che li legava tanto che non trovarono nulla da ridire. La principessa del vicino regno rimase anzi assai contenta perché amava la sua libertà e stava per sposarsi solo per interesse. La regina accolse Milledonne con un tenero abbraccio dopo del quale si tolse la corona e gliela posò sul capo dicendo: “Finalmente abbiamo trovato un degno successore nel regno e nel cuore del principe!” Tutti acclamarono la nuova arrivata con gioia. Per completare la felicità della sua sposa, il principe mandò una carrozza per portare i vecchi contadini a corte per assistere al suo matrimonio. Poi, sorridendo, si rivolse alla regina madre e disse:

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“Vedi mamma? Per un tuo bacio ho rischiato di perdere la più bella ragazza del mondo conquistata con tanti sacrifici!” La regina, all‟oscuro dell‟incantesimo, non capiva il senso delle sue parole. Il principe rivolgendo uno sguardo innamorato alla sua bella disse ancora alla madre: “Un giorno ti racconteremo la nostra storia!” La regina chiese alla fanciulla: “Mia cara, almeno puoi anticiparmi cosa significa il tuo strano nome?” Fu a quel punto che nello scintillio di mille stelline comparse la fata madrina che – tra lo stupore dei presenti - rivelò: “Milledonne si chiamò per un grave sortilegio che una strega pronunciò provocando sacrilegio. Son sua madre ed io mi opposi non temendo conseguenza: ora loro sono sposi e finisce la sentenza. Quasi in mille donne, infatti, ero io disintegrata: male entra! – erano i patti - esca il bene dalla fata! Mi sdoppiai con una strega che le fece poi da mamma cuore in mille pezzi sega il rimorso che si danna. “Mai l’amore albergherà dentro il cuor della fanciulla! Se mai questo avverrà … Sarà come detto nulla!” Ora il principe è arrivato Con mia grande meraviglia: il destino è già cambiato e saremo una famiglia!

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Milledonne abbracciò sua madre e dalla gioia non stava più nei suoi panni … infatti le fecero indossare presto quelli da regina! Si sposarono alla presenza di tutti i sudditi festanti e degli amici animaletti del bosco e finalmente la festa ebbe inizio. Durò intere settimane fra la gioia generale di tutti i partecipanti e soprattutto dei due giovani innamorati. Vissero per sempre felici e contenti e – quando diventarono vecchi – i suoi tanti nipotini la ribattezzarono “Millenonne” perché dava a tutti loro l‟affetto che solo mille dolci nonnine potevano dare!

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MAMMA NDO‟ NDO‟ C‟era una volta una famiglia in cui vivevano due figlie: la più grande era bellina e buona, la più piccola era bruttina e cattiva. Il papà – data la sua esuberanza preferiva leggermente la piccola alla grande, ma la mamma le amava tutte e due ugualmente. Per via dei loro capelli, alla piccola avevano imposto il nome Nerina, alla maggiore, invece, Biondina. Nerina era anche sgarbata con tutti e per questo non aveva amici: nessuno voleva giocare con lei perché finiva sempre che picchiava tutti.

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Biondina, la sorella maggiore, era al contrario molto dolce e per questo aveva un sacco di amici che però non poteva frequentare perché doveva giocare sempre con la dispotica sorella. Il padre le diceva: “Devi giocare con tua sorella e non con le altre bambine che non le vogliono bene!” Siccome era molto buona, faceva sempre quello che il papà le ordinava. Invece la sorella non ascoltava nemmeno il papà, nonostante le volesse tanto bene. A lei, il papà comprava sempre le cose più belle, mentre a Biondina non le comprava quasi niente, ma lei non gli portava rancore: l‟importante per lei era vedere felice Nerina che non era mai contenta di niente mentre lei si accontentava con poco. A soffrire di più in quella casa era la povera mamma: vedeva che il padre era ingiusto verso la sua bambina buona ma non poteva farci niente perché in quella casa chi comandava era il marito. Quello che poteva fare era dare tanto amore e tanti bacini teneri a Biondina come solo una mamma sa fare. Biondina era felicissima: per lei l‟amore della mamma era tutto mentre per la sorella quello che contava di più erano i regali che le faceva il papà e non l‟amore della mamma. Arrivò il tempo che le bambine crebbero e andarono a scuola.

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Biondina era più grande della sorella di un anno, quindi cominciò la scuola prima della sorella: finalmente si liberava per qualche ora della sorella ed era libera anche d‟incontrare tanti bambini! Questa sua buona predisposizione verso la scuola la fece diventare ancora più amata da tutti i suoi compagni e da tutte le maestre. I compagni stravedevano per lei e non vedevano l‟ora di giocarci insieme, scambiarsi le merendine, aiutarsi nei compiti più difficili: Biondina era davvero molto felice. Questa felicità durava solo mezza giornata, giusto il tempo della scuola, perché tornando a casa, c‟era Nerina che la aspettava tutta piangente e tutta arrabbiata perché era rimasta sola senza nessuno con cui giocare. La mamma, infatti, non poteva giocare con lei perché doveva preparare il pranzo e sbrigare le faccende di casa. Biondina, pazientemente, faceva subito i compiti per avere poi del tempo da dedicare ai giochi con la sorellina. Adesso che andava a scuola, però, Biondina si sentiva più grande e voleva cambiare un po‟ i giochi. Le diceva: “Vuoi che giochiamo alla maestra?” Lei rispondeva di si … però voleva fare lei la maestra! Come poteva – pensava Biondina - se ancora non andava a scuola? Alla fine faceva tutto quel che voleva pur di accontentarla … altrimenti erano guai!!

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Finalmente arrivò il giorno in cui anche Nerina iniziò la scuola … Il papà era così felice che decise di accompagnarla lui stesso (come invece non faceva con Biondina). Alla piccola brontolona non piaceva doversi svegliare così presto! Aveva un grembiulino azzurro con un grande colletto bianco: sembrava più carina ma il carattere era addirittura peggiorato! Ai bimbi che le sorridevano, rispondeva con una brutta smorfia. Il papà cercò di raccomandarla alla maestra dicendole che Nerina non aveva un carattere facile ma che, in fondo in fondo, era buona. La maestra le sorrise, la afferrò per mano per accompagnarla al banco ma … gliela morse come fosse un cane! La maestra cercò di controllarsi e non la sgridò: cercò anzi di prenderla con le buone visto che era il primo giorno di scuola. Durante tutta la lezione non partecipò per niente, anzi: quando la maestra le ordinava di svolgere un qualsiasi semplice compito lei rispondeva sempre: “NO!” La maestra per i primi giorni moltiplicò i suoi sforzi per tentare di aiutarla ma non poteva andare avanti così: non voleva imparare niente e disturbava tutta la classe. Disperata convocò il papà e gli disse: “Questa bambina è troppo cattiva: non solo non vuole imparare ma disturba tutti i compagni facendo loro delle smorfie e picchiandoli …

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Si può sapere com‟è stata educata? A me sembra una selvaggia! Cercate di convincere qualche altra maestra a prenderla nella sua classe … io non voglio vederla più!” Il padre provò a portarla da altre maestre ma anche loro, dopo averla tenuta un giorno, massimo due, non volevano più saperne di lei. Una maestra addirittura disse: “Vi consiglio di portarla in un riformatorio, lì sarebbe il posto giusto per lei, dove ci sono tutti i bambini cattivi: mangiano solo pane e acqua, non hanno i giocattoli e stanno lontano dai genitori finché non diventano buoni”. Il papà non la portò in quel collegio perché era troppo legato alla sua bambina e la tenne in casa. Povera Biondina! Quante ne avrebbero dovuto ancora passare con quella sorellina: cercava di educarla, voleva insegnarle a scrivere ma lei strappava tutti i quaderni … voleva solo giocare con i giochi strampalati che inventava. La mamma e Biondina erano disperate e pregavano il Signore che la facesse diventare buona. Il papà non vedeva tutte le marachelle che combinava: tutto il giorno lo trascorreva nei campi a lavorare e tornava a casa la sera, mangiava qualcosa, poi andava all‟osteria con gli amici e quando tornava a casa, era così stanco che si metteva a letto e si addormentava subito.

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Erano dunque la mamma e la sorella a doverla sopportare. Passarono gli anni … Nerina era sempre la stessa: non voleva vedere nessuno e nessuno voleva vederla. Stava sempre chiusa in casa. Un giorno la mamma sentì da una signora che in un paese vicino c‟era una bellissima donna che tutti supponevano fosse una fata. Questa signora le disse: “Perché non provate a portarle vostra figlia per farla diventare più buona”? La mamma vide un barlume di speranza: senza dire niente al marito, chiamò Biondina e le raccontò tutto quello che aveva sentito. La ragazza con gli occhi pieni di gioia disse: “Andiamoci mamma! Portiamola subito dalla fata, ti prego!” La mamma raccomandò Biondina di non parlare della fata alla sorella ma di dirle che andavano a trovare una sua vecchia amica. Così si misero in viaggio. Il paese non era molto lontano dal loro, distava solo pochi chilometri. Arrivate davanti alla casa della fata, suonarono al cancello e dopo pochi secondi videro davanti a loro una donna di una bellezza abbagliante. Biondina esclamò stupita: “Quant‟è bella signora”! E, allo stesso tempo, sentiva una vocina da lontano che diceva: “Bella tu diventerai più di quanto già non sei!”… e Biondina, infatti, diventava sempre più bella.

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“Che bella casa che ha signora!” - diceva Biondina - e la vocina replicava: “Tu bella sei e sempre più bella diventerai!” Mentre Biondina si meravigliava di tutte quelle cose belle che vedeva, Nerina continuava a brontolare annoiata e diceva, al contrario della sorella, che era tutto brutto. Anche Nerina sentiva una vocina da lontano che però diceva: “Senza speranza rimarrai: sarai brutta più che mai!”… era diventata così brutta che non si poteva più guardare! Allora la fata si avvicinò alle due sorelle e le fece vedere una collana: “Di cosa è fatta questa collana?” Biondina rispose: “Di pietre preziose!” La fata disse: “Gemme preziose avrai sulla testa e una stella d‟oro stia sulla tua fronte!” All‟improvviso una splendida corona di diamanti le comparse sulla testa e un diadema con una stella d‟oro le pendeva sulla fronte. Poi la fata rivolse la stessa domanda a Nerina: “ Di cosa è fatta questa collana”? Dispettosa, rispose: “Per me è fatta di brutti animaletti!” La fata disse: “… Brutti animaletti avrai sulla tua testa e una coda di asino ti si attacchi sulla fronte!” … Come diventò brutta per la sua cattiveria! Biondina splendeva come il sole e lei era più brutta di un mostro. La mamma piangendo implorava la fata di sciogliere l‟incantesimo e di farla tornare come prima.

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La fata rispose: “Questa è la giusta punizione per le persone cattive. Quando si pentirà di essere cattiva io la trasformerò a somiglianza della sua anima!”. La mamma le prese per mano e tornarono a casa, con Biondina splendente e Nerina ancora più brutta, la prima con una stella d‟oro e la seconda con una coda d‟asino sulla fronte (erano diventate, come si dice, la bella e la bestia!). Nonostante le urla e i tentativi disperati di staccare quell‟orribile coda e quegli gli animaletti dalla testa non c‟era verso di farlo: anche il tentativo di strappare la corona e il diadema dalla sorella erano stati vani … la magia aveva fatto il suo corso! Quando tornarono in paese, tutti rimasero sorpresi vedendo Biondina ancora più bella e Nerina più brutta che mai. Dopo l‟incontro con la fata e lo choc subito, Nerina non sapeva più parlare, riusciva a dire solo una frase: “Mamma ndò-ndò, mamma ndò-ndò … la coda dell‟asino mi si attaccò!”. Quello che successe la sera, quando il padre tornò a casa, non si può descrivere a parole: cadde a terra tramortito vedendo com‟era diventata la sua figlia preferita. “Cosa le è successo?” - Domandò furioso il padre - la moglie fu costretta a raccontargli l‟accaduto. Alla fine del racconto disse ancora più furioso: “Andiamo da questa maledetta fata!

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Voglio che la mia bambina torni come prima!” La moglie spiegò al marito che l‟incantesimo sarebbe finito solo quando Nerina sarebbe diventata buona, altrimenti sarebbe rimasta così per sempre. “Povera bambina mia!” - diceva il papà piangendo – “Cosa ti hanno fatto?” Lei rispondeva: “Mamma ndò-ndò, mamma ndò-ndò … la coda dell‟asino mi si attaccò!” Da quella sera in casa tolsero tutti gli specchi per paura della terribile reazione di Nerina quando si guardava riflessa. Passavano le giornate dentro casa, senza uscire mai: nemmeno Biondina usciva perché, essendo così bella, la gente del paese non riusciva a evitare di starle sempre dietro. Preferiva, ormai, stare in casa ad aiutare la mamma nelle faccende domestiche. Nerina, passava il suo tempo dondolando la coda e pronunciando sempre la stessa frase: “Mamma ndò-ndò, mamma ndò-ndò … la coda dell‟asino mi si attaccò!” Passarono i giorni, le settimane, i mesi. In una mattina di primavera in cui splendeva un bellissimo sole, gli uccellini cinguettavano festosi e nell‟aria si sentiva un profumo di fiori e di erba fresca, i bambini giocavano allegri nelle strade e le ragazze passeggiavano con i loro fidanzati.

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La mamma rivolgendosi a Biondina disse: “Perché non esci e ti fai una passeggiata anche tu come le ragazze della tua età? Sono tanti mesi che stai chiusa in casa … non devi piangere tu le colpe di tua sorella! Tu sei stata sempre buona e non devi aver paura della gente che ti guarda perché sei bella, anzi devi essere da esempio perché i buoni sono sempre premiati”. Così Biondina si convinse a prepararsi e prese lo specchio per guardarsi (non lo faceva da più di un anno da quando la mamma li aveva nascosti per Nerina). Mentre si specchiava, un raggio della sua bellezza abbagliò il volto della sorella che stava sempre a testa in giù per via della coda sulla fronte che le pesava. Si accorse solo allora di quanto fosse diventata bella la sorella e le chiese – con il linguaggio dei segni - lo specchio per guardarsi. Biondina non voleva darglielo per paura che alla vista della sua bruttezza ricadesse in depressione. Nerina però insisteva così che Biondina decise – a malincuore - di accontentarla. Quando vide la sua immagine riflessa, cadde a terra svenuta; la mamma e la sorella la soccorsero prontamente e lei si riprese. Con le lacrime che scendevano a fiumi, finalmente riuscì a dire: “Perché sono così brutta?”

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… dopo un attimo di stupore la mamma e la sorella esclamarono all‟unisono: “Finalmente parli di nuovo!” e la abbracciarono con amore mentre piangevano di gioia. Nerina commossa disse: “Vi voglio tanto bene! Sono stata per anni solo una stupida bambina viziata … ho avuto ciò che meritavo!”. Finalmente l‟incantesimo si avviava alla sua conclusione e le tre corsero a perdifiato dalla fata. Bussarono con vigore alla sua porta e sentirono una voce soave dire: “Entrate, vi stavo aspettando!”. Quando Nerina vide con occhi nuovi la fata disse: “Quanto sei bella!” La fata rispose: “Brava cara mia donzella, già adesso sei più bella!”. Guardandosi intorno poi esclamò: “Ma qui è tutto così bello!” La fata pronunciò di nuovo la frase di prima. Nerina allora vide la collana preziosa che aveva la fata e disse: “Che meraviglia! Quanto è bello questo gioiello!” La fata disse: “Queste pietre preziose al posto delle bestioline schifose!” … cadde la coda che aveva attaccata sulla fronte … era diventata bella come la sorella! La mamma, felicissima, abbracciò le due figlie e s‟inginocchiò per ringraziare il Signore. La fata disse: “Andate ora! Credo che questa lezione non la scorderà per la vita: da oggi in poi sarà bella e brava come la sorella”.

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Arrivate a casa, la mamma organizzò una grande festa e invitò tutta la gente del paese. Il padre stava nei campi a lavorare quando degli amici lo chiamarono dicendogli: “Sei un uomo fortunato, hai due figlie belle come il sole!” Ma il papà non capì finché non arrivò a casa e vide con i suoi occhi quello che era successo. Abbracciò felice la moglie e le due figlie e pianse … ma finalmente erano lacrime di gioia

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L‟ORSO AMMAESTRATO C‟era una volta – e c‟è ancora oggi – il paesino in cui abitavo: allora era così piccolo da essere privo di tutti i confort (a parte le case e la piccola chiesetta beninteso!). L‟unica attrazione era la fiera che si svolgeva, una volta l‟anno in un paesino vicino! Una sera, che non dimenticherò mai, come premio per i miei buoni risultati scolastici, andai con il mio papà a visitare quella fiera.

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Eccitato e attratto da tutte quelle luci colorate, sentì, a un tratto, una voce così forte che sembrava un tuono. Con tanta enfasi diceva: “Grandi e bambini! Venite a vedere l‟orso ammaestrato! Balla canta e fa ogni genere di ginnastica! Avvicinatevi signore e signori! Portate i vostri bambini a vedere l‟orso ammaestrato!” La gente si precipitava per vedere quel fenomeno da baraccone. I primi ad arrivare erano, ovviamente, i bambini. Il mio papà afferrò la mia mano e mi chiese: “Vuoi che andiamo anche noi?” ”Si papà, voglio vederlo!”, risposi tutto contento. Raggiungemmo allora l‟angolo della fiera, dove c‟era già assiepata tanta gente che rideva a crepapelle. Io, essendo piccolino (avevo appena otto anni), non riuscivo a vedere l‟esibizione dell‟orso tanta era la folla! Mi liberai dalle mani di mio padre per farmi spazio tra la gente, infilandomi, addirittura, sotto le gambe di qualche signore più alto del mio papà. Gridavo: “Fatemi largo! Voglio vedere anch‟io!” Fu così, occupando posto tra una gamba e un‟altra, che riuscì a vedere l‟orso. Il mio povero papà, disperò presto di raggiungermi: io guizzavo come un pesce ... non per niente il mio soprannome era anguilla! Il mio vero nome è, in realtà, Albertino ma, all‟epoca, nessuno mi chiamava mai così: per tutti ero “anguilla” e basta.

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Ero un bambino molto vivace e, quando facevo le marachelle come tutti i bambini vispi, non riuscivano mai a prendermi … anche se le meritavo, non prendevo mai le botte! Ero un bambino molto intelligente, e di questo i miei genitori erano orgogliosi (un po‟ meno del fatto che io fossi una birba!). Quella volta alla fiera, però, ne feci una giusta. Arrivai, sgomitando di qua e di là, fino alla pista dove si esibiva l‟animale: era un bellissimo orso bianco e sembrava prestare molta attenzione a quello che faceva. Non appena il suo padrone scoccava la frusta lui saltava come un pazzo e faceva dei versi: alla gente pareva che cantasse ma a me sembravano grida di dolore! In realtà non ballava: saltava per non prendere le frustate e non cantava ma piangeva disperato. Stavo lì, con gli occhi sbarrati per la rabbia, perché avevo capito che l‟orso non si divertiva per niente a fare quello spettacolo, ma soffriva terribilmente. A spettacolo finito, il domatore uscì col cappello per raccogliere i soldi che la gente, divertita, gli elargiva. Poi, sempre con quel vocione cattivo, ringraziava e fissava appuntamento per il giorno seguente alla stessa ora. Diceva: “Grazie Signore e Signori! … Mi raccomando: domani vi vorrò ancora più numerosi!”.

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Mentre la gente si dileguava, io rimasi lì impalato a guardare il domatore che metteva il guinzaglio all‟orso e lo tirava con rabbia senza badare alla sua stanchezza … nemmeno si accorgeva che stava zoppicando! Lo spinse dentro un carrozzone fermo dietro l„angolo. Le luci della fiera mi sembravano adesso tristi mentre la gente, lentamente, guadagnava la strada delle proprie case per cenare. Io guardai con la coda dell‟occhio per vedere dove il domatore portasse l‟orso e mi accorsi che il carrozzone non era ben custodito: la porta non era chiusa a chiave, ma era bloccata da una sbarra di ferro. Notai che il carrozzone aveva anche una piccola finestra. Aspettai che il domatore uscisse e mi arrampicai alla finestrella per guardarci dentro. Era un po‟ alta per un bambino piccolo allora pensai tra me: “Mi chiamo o no anguilla?” Iniziai così ad arrampicarmi e finalmente riuscì a sbirciare all‟interno. Ciò che vidi non mi piacque per niente: l‟orso, buttato in un angolo, si lamentava e piangeva … sì, pareva proprio piangesse! Perché dai suoi grandi occhi tristi venivano giù lacrime vere! Era stanco e dolorante. Mi venne una fitta al cuore e, spontaneamente, mi rivolsi a lui: “Non piangere mio caro orso! Io ti aiuterò … sono tuo amico!

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Io amo gli animali, specialmente gli orsi … pensa: a casa ne custodisco tre! Ho anche un piccolo panda!” Ma l‟orso, piangendo, disse: “Povero bambino mio! Tu non distingui che io sono un orso vero e soffro da morire sotto la frusta del mio padrone. I tuoi orsi sono di peluche, loro non soffrono perché non hanno un cuore che batte. Hai visto lo spettacolo? Sarà così tutti i giorni finché non morirò! Il mio padrone vuole tanti soldi e mi fa lavorare anche più di una volta al giorno. Non ce la faccio più … sono molto stanco e vecchio”. Dopo aver pronunciato quelle parole, l‟orso proruppe in un pianto a dirotto, ed io assieme a lui, ma poi presi coraggio e dissi: “Come posso aiutarti? Dimmi cosa devo fare!”. L‟orso rispose: “Guarda se viene il mio padrone”. Guardai intorno e non vidi nessuno. “Di solito” continuò l‟orso – “Torna tardi: passa prima dall‟osteria con i suoi compari a mangiare e ubriacarsi, al ritorno mi augura la buona notte frustandomi. Mi dà troppo poco da mangiare e pretende, oltretutto, che abbia la forza per i numerosi spettacoli del giorno dopo. I soldi non gli bastano mai, così ci spostiamo di fiera in fiera: lì ci sono i bambini che mi aspettano, e a me tocca farli divertire soffrendo”. Io allora replicai: “Che cosa posso fare per aiutarti?” L‟orso rispose: “Davvero vuoi fare qualcosa per me?”

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“Con tutto il cuore!”- risposi asciugandomi le lacrime - Disse l‟orso: “Liberami da questa tortura e portami allo zoo”. “Come potrò farlo … Io sono troppo piccolo!” “Fatti aiutare da tuo padre, vedrai che ce la faremo!” Subito scivolai giù dalla finestra e corsi a cercarlo. Nel frattempo lui era in pena per me e continuava vagare per tutta la fiera come un disperato per cercarmi. Quando mi vide mi corse incontro e mi abbracciò, poi mi prese in braccio, e dolcemente disse: “Questa volta l‟hai combinata grossa, mi hai fatto morire di paura! Pensavo ti fossi perso in mezzo a tutta questa gente! Grazie a Dio ti ho trovato e sono tanto felice!” Non persi tempo e tutto di un fiato gli raccontai la storia dell‟orso. Poi gli dissi: “Vero che mi aiuterai papà a liberarlo?” prontamente rispose: ”Sarà molto rischioso ma lo farò! … Facciamo presto, prima che torni il domatore e approfittiamo del buio ora che le strade sono deserte: all‟ora di cena tutta la gente rimane in casa!” Arrivammo al carrozzone, dove mio padre, usando la forza, spostò la sbarra che teneva chiusa la porta. L‟orso era lì che ci aspettava in silenzio; appena ci vide fece un gesto silenzioso di felicità con il suo testone e prese a seguirci. Prendemmo una stradina di campagna e di li arrivammo a un vecchio casale abbandonato.

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Lasciammo lì l‟orso raccomandandogli di stare tranquillo perché di lì a poco saremmo tornati. Tornammo a casa per tranquillizzare mia madre che stava in pena per noi poiché mancavamo da tutto il pomeriggio: si era fatta già notte e non le avevamo comunicato nessuna nostra notizia. Appena ci vide sembrò sollevata, ma, subito dopo, ci rimproverò di santa ragione. Tuttavia, sentendo cosa c‟era capitato, si calmò e disse: “Liberate quel povero orso dalle grinfie del padrone e correte subito a portarlo allo zoo della città più vicina!”. Non ci fu bisogno di ripetere la cosa due volte: mio papà accese il suo piccolo motocarro e, a tutta velocità, nel buio della notte, ci precipitammo dal direttore dello zoo per raccontargli tutto. Il direttore si rallegrò molto per la segnalazione perché aveva già ricevuto altre notizie su quell‟orso che era stato rubato dallo zoo di un‟altra città. Allertò un suo assistente che procurò un mezzo adatto per trasportare l‟orso che, tranquillo e fiducioso, ci aspettava nel casolare abbandonato. Appena ci vide l‟orso tirò un sospiro di sollievo e mi disse: “Grazie amico mio! Non dimenticherò mai quello che hai fatto per me. Tu sei buono e generoso, per questo capisci il linguaggio degli animali, ma non tutti i bambini lo capiscono.

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Vedi? La gente ride quando si maltratta un animale, vuole solo divertirsi, e uomini crudeli ne approfittano per guadagnare! Nessuno si è accorto che io non ballavo ma saltavo dal dolore; non cantavo, ma piangevo. Solo tu te ne sei accorto, perché sei un bambino speciale: forse sei davvero un po‟ anguilla! Sono contento se i bambini mi verranno a trovare allo zoo: meglio stare in una gabbia che nelle grinfie di un domatore! Sono finalmente libero di non fare più la danza della morte sotto la minaccia della sua frusta! Dì agli uomini, amico mio, di non costringere gli animali a fare quello che vogliono loro. Dio ci ha creati liberi, ognuno nel suo ambiente: facciamo parte della natura e dobbiamo avere rispetto l‟uno dell‟atro. Vieni a trovarmi quando vuoi ed io ne sarò molto felice. Finalmente sorriderò ricordando quello che tu hai fatto per me. Ciao Anguilla ti aspetto!”

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LUCILLA E IL FIOCCO DI NEVE Lucilla era una bambina distratta, aveva sempre l‟aria stanca e non le piaceva giocare con i bambini della sua età. Per questo la mamma era preoccupata, pensava che la sua bambina fosse ammalata e pregò il papà di accompagnarla dal medico per controllare il suo stato di salute. Il medico, dopo averla visitata, le assicurò che la bambina era sana come un pesce e che quell‟aria di stanchezza faceva parte semplicemente del suo carattere.

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“Com‟è possibile?” - chiese la mamma - “il fratellino è così vispo che non sta fermo un attimo, lei, invece, così rilassata e assente … sembra viva in un altro pianeta!” Il dottore rispose: “Sua figlia è una sognatrice, le piace stare con la testa fra le nuvole, vedrà … crescendo cambierà!” La mamma ringraziò il dottore e, nel congedarsi disse: “La cosa importante è che stia bene, il resto non ha importanza”. Il fratello di Lucilla, di due anni più grande di lei, la chiamava “Nuvolina” perché sembrava avesse sempre la testa fra le nuvole. Ogni tanto la sgridava dicendole: “Ehi tu! Scendi dalla tua nuvola e vieni a giocare con me!” Ma lei nemmeno gli rispondeva, continuava a guardare il soffitto sdraiata sul suo lettino. Era una bambina normale, andava bene a scuola ma stava assieme alle compagne soltanto per studiare e non per giocare: preferiva starsene da sola e sognare ad occhi aperti. Che cosa sognava? Di tutto! S‟immedesimava in ogni cosa, per esempio: se guardava un quadro, lei cominciava a fantasticare come se vivesse davvero dentro quel paesaggio; se pioveva, si sentiva una goccia d‟acqua che sbatteva sui vetri; quando sentiva un uccellino cantare immaginava di avere le ali e volare con lui; e così via.

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Trovava sempre un posto durante il giorno dove collocarsi con la sua fantasia. Era felice così perché scopriva sempre mondi nuovi viaggiando con la sua mente. Fu così che una mattina di dicembre la mamma svegliò i bambini dicendo loro: “Luca, Lucilla venite a guardare … Fuori c‟è la neve!” Nevicava così forte e la neve era così tanta da coprire già tutto e non far vedere più le cose. Era uno spettacolo bellissimo! Luca, come tutti i bimbi alla vista della neve, diventò più allegro e corse dietro ai vetri per vedere quei fiocchi cadere fitti e coprire tutto di bianco: desiderava scendere giù attirato dalle grida festose degli altri bimbi che già giocavano per strada. Così disse alla sorella: “Ti prego! Andiamo anche noi fuori a giocare con la neve?” Ma Nuvolina non gli rispose: stava lì, con il nasino schiacciato contro il vetro, ammirando quei grossi fiocchi di neve che scendevano dal cielo e pensava da dove venissero e dove andavano. “Vorrei essere un fiocco di neve!” – pensava - e incominciò così a fantasticare. Si sentiva leggera, proiettata fuori dalla finestra in mezzo a quei fiocchi di neve: lei era un grande fiocco bianco e si sentiva spinta nell‟aria, allontanandosi così dalla sua casa.

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Si accorgeva che, mentre gli altri fiocchi di neve scendevano, lei saliva sempre più in alto. Non riusciva a capire il perché! Nell‟aria c‟era un grande silenzio, i fiocchi scendevano così ordinati che non si urtavano fra loro, si posavano dolcemente ognuno nel loro posto senza creare confusione. Lei continuava a salire e a sentirsi più leggera mentre s‟inebriava carezzata da tanti piccoli fiocchi. A un certo punto sentì una vocina che la chiamava: “Nuvolina, Nuvolina! Sali dalle tue amiche! Vedi da dove veniamo?” Era una nuvoletta che voleva spiegarle come si formano i fiocchi di neve. “Noi siamo le gocce d‟acqua che tu hai visto tante volte cadere in modo scrosciante per irrigare la terra … la stessa acqua poi diventa vapore e forma di nuovo le nuvole tornando a salire. In inverno, le temperature più basse a volte trasformano le gocce d‟acqua in fiocchi di neve. Ora scenderai assieme agli altri fiocchi e deciderai tu dove posarti, sulle case o sugli alberi, sui prati o sulle strade dove farai felice i bambini, scegli tu dove vuoi fermarti. Attenta però a non fermarti sui comignoli fumanti oppure sull‟acqua che per voi fiocchi di neve, sono posti pericolosi perché vi fanno sciogliere subito … Adesso vai!”

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E così Nuvolina, nella versione “fiocco di neve”, scendeva leggera ma sentiva tanto freddo, voleva dirlo a qualcuno … ma quei fiocchi erano troppo silenziosi! Pensavano solo a dove posarsi, e ognuno di loro aveva fatto già una scelta precisa. Solo lei non sapeva ancora dove posarsi, voleva sentire la voce di qualche fiocco di neve che la consigliasse, ma attorno a lei c‟era un forte silenzio che cominciava a pesarle. Mentre continuava a scendere, pensava dove posarsi: “Sugli alberi no perché poi sarò coperta da altri fiocchi di neve e morirò di freddo; sui prati nemmeno perché andrò a finire sotto gli sci e mi farò molto male; sulla strada neppure, altrimenti i bambini mi appallottoleranno e mi lanceranno addosso ad altri bambini e ci faremo male entrambi. Come farò? Dove mi poserò?” Pensava Fiocco di Neve infreddolita. All‟improvviso, mentre volava leggera, vide una finestra mezza aperta dove c‟era un bambino curioso che voleva ammirare la neve oltre i vetri. La mamma di quel bambino lo sgridò dicendo: “Chiudi la finestra altrimenti entra tutta la neve in casa!”. Nuvolina, insieme con altri fiocchi di neve, fece appena in tempo a infilarsi dentro prima che il bambino riuscisse a chiudere la finestra. Così, cadendo ai piedi del bambino, si trasformò in una bella goccia d‟acqua.

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La mamma del bambino lo sgridò: “Vedi? Si è bagnato tutto il pavimento … adesso mi tocca asciugarlo altrimenti si scivola.”. La donna prese uno straccio e raccolse quell‟acqua che, assieme a quella che già c‟era dentro, buttò nel water. Nuvolina si trovò a viaggiare nel buio della fognatura, in mezzo a tanta acqua sporca e altre cose che non voleva nemmeno immaginare … Piangeva, pensava che fosse meglio soffrire il freddo e rimanere nell‟aria pura piuttosto che trovarsi in quella situazione schifosa. La corsa fu molto lunga. Finalmente si trovò all‟aperto: era finita nel mare. “Sempre meglio di prima!” pensò soddisfatta Nuvolina - tirando un sospiro di sollievo. Nemmeno lì, tuttavia, ebbe vita facile (nonostante si fosse ambientata, come sua abitudine, prendendo la forma di un pesce). Tutti i pesciolini, infatti, le giravano attorno dicendo: “Ma che razza di pesce è questo? Quant‟è brutto!” E scappavano lasciandola sola. Lei voleva raccontare ai pesciolini la sua storia, da dove veniva e chi era, ma nessuno di loro le dava retta. Si avvicinò un pesce palla e le disse: “Non dargli ascolto, non è vero che sei brutta. Sei solo diversa da noi.” Così Nuvolina si calmò e chiede al pesce palla: “Come posso uscire da qui? Voglio tornare a casa mia!”.

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E si mise a piangere. Allora il pesce palla le ricordò: “Quando eri a casa, volevi trovarti sempre in tanti posti diversi e non ti accontentavi di stare nel tuo mondo e di giocare con i bambini della tua età. Ora hai capito che ognuno deve stare nel posto dove si trova e non calarsi al posto degli altri! I pesci devono stare nel mare, la neve nel cielo e i bambini nelle loro case!” Prima di andar via il pesce palla le disse: “Speriamo che ti sia servita questa lezione!”. Vedendo allontanarsi la sua unica speranza gridò con quanto fiato aveva in gola: “Ti prego, torna indietro! Aiutami a tornare a casa!”. Il pesce palla - che era tanto buono (ma non da mangiare!) - tornò indietro e le disse: “Vedi quella rete? Tra poco il pescatore la viene a tirare … infilati dentro e buona fortuna!”. Nuvolina, impaurita, si mise in un cantuccio insieme agli altri pesci che stavano nella rete e aspettò di essere tirata fuori dal pescatore. Finalmente la rete fu tirata su e il pescatore la portò, assieme agli altri pesci, al mercato. Conosceva bene quel mercato, tante volte era andata lì con la mamma per comprare il pesce. Adesso, invece, era finita lì per essere venduta insieme agli altri pesci e non riusciva a smettere di piangere. Non credeva ai suoi occhi quando vide avvicinarsi un cliente: era suo padre!

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“Papà, papà!” gridò … ma nessuno capiva il linguaggio dei pesci e così si rassegnò al suo destino e pensava: “Chissà in quale padella andrò a finire se non mi compra mio padre”. Mentre il padre comprava il pesce, lei scivolò con astuzia nella bilancia. Il papà disse al pescivendolo: “Questo pesce è molto fresco! C‟è ne uno che si muove ancora. Con questo freddo, una bella frittura è proprio quello che ci vuole per i miei bambini!” Finalmente così tornò a casa felice assieme al papà. Da quanto tempo mancava da casa? Il papà si era accorto che quello strano pesce era proprio lei? Che cosa stava succedendo? Arrivati a casa, il papà chiamò la mamma e le disse: “Guarda che bel pesce fresco ho comprato oggi al mercato: uno è addirittura vivo ma ha una forma un po‟ strana. Chiama i bambini perché lo vedano!” Il fratellino, che aveva giocato per strada tutta la mattinata, rientrò a casa tutto pieno di neve. La mamma allora gli disse: “Cambiati le scarpe e scrollati la neve da dosso, poi chiama tua sorella che vi faccio vedere un pesciolino curioso.” Luca si avvicinò alla sorella e la chiamò: “Nuvolina, Nuvolina! Stai ancora appiccicata a quella finestra con la testa tra le nuvole a guardare la neve? Vuoi vedere un pesciolino curioso? Svegliati, parlo con te!”

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Si girò, guardò il fratello, e, come se lo vedesse per la prima volta dopo tanto tempo, lo abbracciò e lo baciò così forte da lasciarlo stupefatto. Poi corse dalla mamma e dal papà e, dopo avergli dato la porzione mancante di baci e abbracci, esclamò felice: “Vi voglio tanto bene! Vi amo tutti: la mia casa e tutto quello che mi circonda!” La mamma, vedendo questo comportamento insolito di Nuvolina, si preoccupò e le toccò con la mano la fronte pensando avesse preso la febbre a causa del freddo … ma la sua fronte era ghiacciata a causa del prolungato appoggio al vetro gelato. Allora la mamma le disse: “Sei fredda! Vieni subito a scaldarti! Sei stata tutta la mattina dietro quei vetri a guardare di fuori la neve. Era meglio se andavi a giocare per strada con tuo fratello, di sicuro saresti tornata più calda!” La mamma se la strinse al petto colmandola di baci.

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STORIA DI UN PICCOLO CANE C‟era una volta una bambina vispa e intelligente che però aveva un brutto vizio: tirava sempre la coda al gatto! La mamma la sgridava sempre: “Non si fa! Gli fai male e s‟innervosisce!” “Lo faccio solo per gioco, non gli voglio fare del male, però lui non vuole giocare con me! 86


Voglio un gatto tutto mio che mi segua dappertutto, abbia voglia d giocare con me e si lasci tirare la coda!”. “Ricordati”diceva la mamma – “Il fatto che tu tiri la coda non piace ai gattini”. “Allora” - replicò la bambina –“Comprami un altro animale … magari un asinello cosi gli tirerò la coda quanto voglio! Vedo sempre gli uomini attaccati alla coda dell‟asino quando camminano!” La mamma rise così forte che la bambina ci rimase male. La mamma allora la prese in braccio e le disse: “Non piangere bambina mia, non volevo offenderti! Mi è venuto da ridere per la tua strana richiesta dell‟asinello. Quelli sono animali da soma, aiutano gli uomini nei lavori pesanti portando in groppa il carico … servono a questo gli asinelli, non a giocare con i bimbi!”. Poi, per tranquillizzarla, la mamma aggiunse: “Ti compreremo un cagnolino, va bene?”. La bambina, tutta felice, scivolò dalle braccia della mamma e corse dal papà. “Papà, papà!” - gridò tutta contenta – “ È vero che mi comprate un cagnolino? Che bello! Così faremo un dispetto al gatto!”. Il papà, un po‟ preoccupato, pensò: ”Questa bambina con il cane mi combinerà sicuramente un sacco di guai!” La mamma, si rivolse al marito e disse:

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“Non preoccuparti, le compreremo un cagnolino piccolo … quello così minuscolo che è soprannominato „cane mosca‟. Vedrai: piacerà alla nostra bambina e la faremo contenta”. La bambina si chiamava Lory, diminutivo di Loretta, ma tutti la chiamavano col suo soprannome, Batuffolina, perché era piccola e rotondetta. Aveva i capelli rossi e un po‟ di lentiggini sulla guancia, che le stavano molto bene. Portava i capelli raccolti a coda di cavallo e aveva due occhi molto grandi e spaziosi che incantavano chi li guardava. I suoi genitori visitarono tutti i negozi di animali, andarono anche in un allevamento specializzato, ma non riuscirono a trovare il piccolo cane per la loro bimba ... erano tutti troppo grandi! La mamma fu molto dispiaciuta, il papà meno: non gli andava tanto a genio questa storia del cane, ma per la felicità della sua bambina faceva qualsiasi sacrificio essendo figlia unica. Il papà disse allora alla mamma: “É meglio tornare a casa e provare un altro giorno, forse avremo più fortuna”. Mentre tornavano a casa dispiaciuti, videro, da lontano, una bella signora, vestita di modo bizzarro che veniva verso di loro. Quando fu alla loro portata, la strana e bella signora si rivolse alla mamma di Lori dicendo: “Buongiorno, sono una sua „micina di casa‟. Posso sapere perché è così triste?”

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La mamma di Lory pensò: “Che strano mi sembra abbia detto „micina di casa‟ anziché „vicina di casa‟” … che buffo, avrà sbagliato!”. Riavuta dal suo pensiero, le raccontò la storia del cane. Dopo averla ascoltata, la bella signora disse: “Lei è proprio una brava donna e le persone buone vanno premiate! Le regalo io il cagnolino per la sua bambina!” “Grazie” - rispose la mamma – “ma noi cercavamo un cane piccolo, perché la nostra bambina è troppo vivace e abbiamo paura che si faccia male con un cane di grossa taglia. Per questo cercavamo un cane mosca … è il più piccolo che esiste!” La signora scrutò bene la mamma di Lori negli occhi e capì il grande amore che provava per la figlia. Prese allora da sotto il mantello una bacchetta magica, toccò un sassolino e lo trasformò in un piccolissimo cane! Era proprio una fata! La mamma della bambina meravigliata e felice esclamò: “E‟ proprio il cane che cercavamo per nostra figlia!” Si girarono verso la fata per ringraziarla … ma era già sparita! Si sentì solo, in lontananza, l‟eco di un “Ciaooo” che somigliava di più a un “Miaooo”. Corsero a casa tutti contenti, con il cagnolino che sporgeva dal taschino della giacca del papà: era così piccolo che somigliava un topino!

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La bambina, quando li vide arrivare, gli corse incontro, cercò il cane ma, non vedendolo, si mise a piangere. Il papà tirò allora fuori dal taschino il piccolo cane e lo porse alla bambina che – tutta sorpresa - smise di piangere per un po‟. Poco dopo, riprese a piangere ancora più forte, perché non era quello il cane che si aspettava. Lei voleva, infatti, un cane grande per fare paura al gatto. “Questo” - disse tutta singhiozzando – “Il gatto se lo mangerà! Non vedete che somiglia a un topo?” Allora il papà la prese sulle ginocchia e le disse: “Bambina mia, non può un gatto mangiare un cane … anche se è molto piccolo, rimane pur sempre un cane!” Batuffolina allora smise di piangere e si mise a giocare con il suo cagnolino facendoci finalmente amicizia. Decise di imporgli un nome e disse: “Non sarai proprio un cane mosca ma, vista la tua taglia, ti chiamerò “Colibrì”. Passò del tempo e la bambina cresceva ma il cane rimaneva sempre piccolo, questa era la sua disperazione: aveva paura che tutti gli potessero fare del male, o magari calpestarlo tanto era piccolo! Un giorno, mentre era nel parco a giocare con altri bambini, vide avvicinarsi un cane molto grosso che si avventò subito su Colibrì minacciando di dargli un morso per ingoiarlo intero.

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Figuriamoci lo spavento della bambina! Prese in braccio con molto coraggio il suo micro cagnolino - tutto tremante - e corse piangendo verso casa. Questa storia si ripeteva ogni volta incontrasse un altro cane più grosso di lui: in sostanza sempre! Quel giorno però Batuffolina disse: “Basta! Non uscirò più con questa specie di topolino pauroso! Non lo voglio più!” Così gridava e piangeva. Il papà tutto arrabbiato se la prese con la mamma: “Come ti è venuto in mente di prendere questo tipo di animale? Non si può chiamare cane un coso così! Vedi? Adesso la bambina è più infelice di prima: era meglio se continuava a tirare la coda al gatto, almeno si divertiva di più!” Il gatto - che era lì vicino - lo guardò e miagolò come per dire: “Ma che sei matto?!” Anche il cagnolino cercava di abbaiare, ma non ce la faceva ... pigolava proprio come un uccellino! La bimba non usciva più da casa, non voleva più andare al parco con le sue amichette, stava sempre triste nella sua stanza. Un giorno la mamma la costrinse a uscire per prendere una boccata d‟aria: era diventata bianca come la carta e non voleva quasi più mangiare. I genitori erano davvero preoccupati questa volta. Così quel giorno lo accompagnò al parco dove, mentre prendevano il sole, arrivò di nuovo quel cagnaccio grande.

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La bambina, presa dallo spavento, cercò di scappare assieme al cagnolino, ma la mamma disse: “Sii coraggiosa e non ti muovere di qui … Colibrì è il dono di una fata, non può essere così indifeso!” Il grosso cane affrontò minaccioso e ringhiante Colibrì che, stranamente, non tremava e aspettava fermo e deciso il contatto. Non appena questo avvenne e la zampa del cagnaccio toccò Colibrì accadde l‟impensabile: il grosso cane diventò così piccolo che si vedeva appena e Colibrì diventò così grosso da fare paura anche a Lory, rimasta a bocca aperta dallo stupore. Non poteva crederci: il suo cane faceva paura a quell‟odioso cagnaccio che era diventato minuscolo e tremante lì davanti a loro. Lory non voleva perdere l‟occasione di vendicarsi, una volta per sempre, del cagnaccio che aveva fatto tanto spaventare Colibrì (adesso diventato così grosso che avrebbe potuto chiamarsi Aquila!). Piena di rabbia istigava Colibrì dicendo: dagli una lezione! Mordilo, uccidilo! Ricordi il male che ti ha fatto quando eri piccolo? Adesso lui trema di paura … Attaccalo!” Ma Colibrì, tra lo stupore di tutti i presenti, parlò e le disse: “Sarebbe troppo comodo per me, adesso che sono così grosso e lui piccolino ... ma non è così onorevole farlo per me!

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Io ho il cuore buono e credo che la migliore vendetta sia il perdono. Cara padroncina, impara queste cose e non dimenticarle mai!” Poi, rivolto al mini avversario disse: “impara anche tu la lezione! Non basta essere grossi, bisogna avere il cuore grande e rispettare sempre i più piccoli. Ora tu tremi, c‟è solo tanta paura al posto della tua solita cattiveria … ma io non ti aggredirò, voglio fare la pace con te a patto che tu abbia capito la lezione”. Il piccolo cane – tutto tremante – gli porse la zampa come promessa di pace, ma, al contatto, ognuno riprese la sua dimensione: il cagnaccio tornò grande e Colibrì riprese il suo formato tascabile. Nonostante ciò il grosso cane prese a leccare Colibrì in segno di gratitudine e lo invitò a seguirlo per giocare e correre felici nel parco. Batuffolina imparò molto da quella lezione e imparò addirittura a rispettare il gatto. Finalmente lasciato libero dalle sue angherie, il gatto le faceva le fusa in continuazione e sembrava sorridere sotto i baffi … chissà: forse conosceva bene la fata! 93


LA LUMACA E LA FORMICA “Aiuto, aiuto!” gridò la formichina tutta spaventata: “C‟è un grande masso davanti all‟uscio di casa … forse è una montagna! Venite a vedere!” Mamma formica assieme a tante altre formichine corsero a vedere ma altro non c'era che … una lumaca!

Tutta tranquilla prendeva il sole mentre brucava un po‟ d‟erba. La formichina non ne aveva mai vista una essendo ancora molto piccola, anzi, era la prima volta che usciva dal formicaio. Mamma formica la incoraggiò: la prese per la zampetta e la accompagnò fuori dicendole:

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“È meglio che ti accompagni io per la tua prima passeggiata … è più prudente! Devo farti conoscere tutti i pericoli che ci sono fuori dalla nostra casetta!” Mamma formica, con tutta la sua esperienza, si fece spazio sotto la lumaca e poi, quando trovò lo spazio giusto per passare, uscì all‟aria aperta seguita dalla sua piccolina che, con passo incerto ma fiducioso, guadagnò l‟uscita del formicaio. Il primo ostacolo era stato superato ma purtroppo era il primo di tanti, infatti, la mamma le disse: “Se tu sapessi figlia mia da quanti pericoli, ti devi guardare! Il Signore a ogni sua creatura ha dato i mezzi per difendersi: a noi formiche ha dato le antenne che servono per l‟orientamento; attraverso loro noi sentiamo il pericolo e troviamo sempre la strada per tornare a casa da qualsiasi distanza”. La formichina ascoltava in silenzio poi disse alla mamma: “Mammina io non ce l‟ho le antenne, perché?” La mamma rispose: “Ancora ti devono spuntare: sei troppo piccola, man mano che crescerai spunteranno anche le tue antenne così conoscerai da sola i pericoli che incontri sul tuo cammino”. Il primo giorno andò così, con la mamma pronta a elencare i pericoli più comuni e come difendersi da essi … alla fine tornarono nel formicaio.

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La formichina, appena rientrata nella sua casetta, tirò un sospiro di sollievo ed esclamò: “Casa, mia dolce casa! Mamma mia quanti pericoli ci sono lì fuori … e che spazi enormi! Io me ne sto qui e non esco più!” Mamma formica la rassicurò: “Vedi piccina mia … crescerai e non avrai più paura; anch‟io da piccolina ne avevo ma poi da grande passa. Ora devo pensare a lavorare e riempire il granaio, devo raccogliere la legna per l‟inverno, devo badare a tutto quello che serve per crescere le mie formichine, potrei starmene in casa per paura di uscire?” “Oh no!” rispose la formichina guardando la mamma con gli occhietti rossi di pianto. Ora Stava in pena per lei perché l'aveva esposta a tanti pericoli per portare del cibo a casa e, abbracciandola, disse: “Mamma voglio crescere in fretta! Voglio le mie antenne per aiutarti nel lavoro!” La mamma felice e divertita le disse: “Una cosa per volta! Intanto cerca di non aver più paura e il resto verrà da solo”. I giorni passavano e la formichina cresceva, così un giorno disse: “Voglio fare un giretto per vedere cosa succede la fuori!” L‟uscio di casa era libero, stavolta, dalla lumaca e pensò: “Meno male! Stavolta la strada è libera … non devo faticare anche per uscire!”

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Detto questo, s‟incamminò a passo di formica per scoprire quanto di bello c‟era fuori dal suo formicaio: rimase incantata a guardare tutto quello che i suoi occhietti riuscivano a vedere … era tutto nuovo per lei, era pure più bello della prima volta e per niente pauroso! Incantata da tutta quella bellezza, si allontanò parecchio dal formicaio mentre faceva buio. La mamma e i familiari cominciarono a preoccuparsi e decisero di uscire pure loro per cercarla: presero le torce e iniziarono a cercare in ogni dove; anche gli altri abitanti del formicaio uscirono per cercarla formano una fila così lunga che non finiva mai e avanzavano nel buio con le loro torce. Intanto la formichina, tutta spaventata, tremava dalla paura perché era uscita senza dire nulla alla mamma … non aveva ancora le antenne come poteva tornare a casa da sola? Non aveva ancora il senso dell‟orientamento e piangeva quando, fra le lacrime, aiutata dalla luce della luna scorse una cosa che si muoveva lentamente: sembrava una montagna che stava per investirla, così iniziò a urlare con quanto fiato aveva in gola: “Aiuto, aiuto!” … Era la lumaca che, puntando lentamente verso di lei, con un vocione le chiese: “Che succede? Chi grida e cerca aiuto?”

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La formichina per paura non rispose e, spostandosi lentamente per non far rumore, temendo che la “montagna” le crollasse addosso, stava zitta e osservava i suoi spostamenti. Questa, brontolando fra sé, diceva: “Come si vede che sto invecchiando! Mi è sembrato addirittura che qualcuno cercasse aiuto … mi sono sbagliata, meno male!” e si allontanò lentamente. La formichina, sempre in silenzio, prese a seguirla facendo fatica a mantenere il passo, perché se è vero che la lumaca è lenta è anche vero che la nostra formichina aveva le zampine troppo corte. Nello sforzo di tenere l‟andatura della lumaca lanciò un piccolo urlo di dolore e cadde a terra dicendo disperata: “Non ce la faccio più!” La lumaca si girò lentamente ma non la vide così la formichina prese coraggio e le disse: “Tu sei la lumaca?” “Si . e tu come lo sai?” rispose. Con un filo di voce la formichina le raccontò di quella volta in cui la vide dietro l‟uscio di casa sua, di come la mamma le aveva spiegato chi lei fosse e di quanto lei avesse paura perché non trovava più la strada per tornare a casa. La lumaca sentendo la storia della formichina si commosse e disse: “Adesso ci sono io! Non devi avere paura: ti riporterò a casa!” La formichina fece un salto di gioia ma anche un lamento di dolore perché le zampine le facevano tanto male:

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“Ahi, ahi! Le mie povere zampe non ce la fanno a camminare!” Allora la lumaca la fece salire sul suo guscio e si misero in viaggio. Strada facendo la formichina rivelò alla lumaca tutte le sue paure; la informò del desiderio di avere le antenne … le disse quante sorelline avesse e del gran bene che voleva alla sua mamma e tante altre cose, tanto che la lumaca esclamò: “Certo che per essere così piccola parli davvero tanto! La formichina rispose: “Hai ragione … scusa ma è che ho molto freddo quassù e ho tanta paura di stare così in alto!” La lumaca rispose: “Allora scendi e vieni dentro casa!” - “Dove si trova? E‟ lontana? Io sono tanto stanca!” La lumaca sorridendo disse: “È vicinissima! Ci sei seduta proprio sopra! Il mio guscio è la mia casa ed io me la porto sempre dietro!” La formichina, sbalordita disse: “Che bello! Tu quando piove non ti bagni, il vento o il sole non possono farti nulla ... sei protetta dalla tua casa!” La lumaca, con un certo rammarico, rispose: “Tutto ciò non basta … ci sono tanti pericoli sulla terra: gli animali più grandi, gli uomini che mi danno la caccia perché mi ritengono molto buona da mangiare … la mia casetta non può salvarmi da loro”. La formichina scoraggiata disse:

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“Mio Dio ma come possiamo conoscere tutti i nemici?” E la lumaca: “Nel momento in cui siamo attaccati! Invece gli amici li riconosciamo nel momento del bisogno … La formichina tutta pensierosa esclamò: “Allora tu sei mia amica perché mi stai aiutando! Che bello avere una grande amica come te, voglio aiutarti anch‟io!” La lumaca, molto divertita, rispose: “Ti ringrazio, ma voi formiche siete sempre indaffarate, siete un popolo di lavoratrici instancabili, non hai tempo per me, io invece non faccio quasi nulla: pensa che dormo per sei mesi l‟anno! Mentre conversavano, così amabilmente arrivarono vicino al formicaio. La formichina uscì dal guscio della lumaca e vi si arrampicò sopra e … cosa vide? Tutte le formiche erano fuori con le torce accese per cercarla! Guardò attentamente e scorse fra tutte la sua mamma che piangeva disperata per lei e le gridò forte: “Mamma, mamma! Sono qui sul guscio della lumaca!” e si precipitò giù per correrle incontro. Mamma formica la abbracciò e la coprì di baci; tutte le formiche gridavano festose battendo le zampette, la formichina allora decise di presentare la sua amica a tutta la sua gente: tutti la invitarono a una grande festa in suo onore perché aveva salvato la loro amica.

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La mamma disse alla piccola: “Chi trova un amico trova un tesoro … e tu oggi l‟hai trovato!” Da quel giorno la formichina e la lumaca diventarono amiche per la vita: facevano lunghe passeggiate e, quando incontravano qualche pericolo, si nascondevano insieme nel guscio ridendo felici e contente.

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LA FARFALLA DALLE ALI SPEZZATE C‟era una volta un bambino un po‟ cattivo cui piaceva rincorrere le farfalle. Aveva una retina a forma d‟imbuto attaccata a un‟asticella che il papà gli aveva ricavato da un pezzo di legno. Il bambino si chiamava Marco e, a primavera, il suo hobby preferito era acchiappare le farfalle. Anche il bambino, come le farfalle, correva per i prati di fiore in fiore, ma solo per acciuffarle e portarsele a casa. Cosa ne faceva di tutte queste farfalle? Se le mangiava? No! Le vendeva? Nemmeno! Le collezionava!

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Quanto le faceva soffrire poverine! Un bambino di appena dodici anni era così cattivo … quasi come certi adulti! Ci sono, infatti, anche fra le persone adulte quelle cattive che vanno a caccia e uccidono gli animali … E lo chiamano sport! Dimenticano che tutto ciò che ha vita sulla terra ha il diritto di vivere perché, alla fine, siamo tutti esseri viventi creati da Dio. Anche il più piccolo filo d‟erba ha una sua vita: nasce, cresce e poi muore, come ogni creatura …. L‟uomo tutto questo non vuole capirlo: ha addirittura inventato la guerra in cui gli uomini si uccidono persino tra loro. Per fortuna però non tutti fanno la guerra e non tutti i bambini hanno il desiderio della caccia come Marco. “Io sono più grande” – dice Paolo, un amico di Marco – “ma non sono mai stato come lui. Il mio papà non va a caccia e non fa le guerre. Ha ragione mia madre quando dice che il mondo si salva perché ci sono più persone brave che cattive. Non ti accorgi di quelle buone perché i cattivi fanno molto rumore, mentre le persone per bene stanno in silenzio e pregano”. Mia madre dice: “Sai che il papà di Marco è un cacciatore e che la sua mamma cucina sempre la selvaggina che porta il marito?” “La mia mamma invece” – continuo Paolo – “cucina i fagioli, le patate e tutti gli ortaggi che coltiva il mio papà.

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Noi la carne non la mangiamo, amiamo molto gli animali!”. Un bel giorno di maggio Marco chiese a Paolo di andare con lui a caccia di farfalle ma lui rispose di no con la scusa che doveva fare i compiti. Non ebbe il coraggio di dire che a lui dispiaceva prendere le farfalle perché temeva che se si sarebbe saputo a scuola gli altri bambini lo avrebbero preso in giro; se la cavò con quella piccola bugia. Marco, però, continuava a insistere, tanto che un giorno Paolo gli promise di accompagnarlo. Abitavano vicini, così l‟indomani uscirono assieme e non dovettero allontanarsi molto perché il vicino a casa c‟erano dei prati pieni di fiori e tante farfalle variopinte che svolazzavano qua e là. Con Marco fecero un patto: Paolo avrebbe dovuto correre davanti per indicargli il fiore dove si poggiava la farfalla più bella, e lui sarebbe andato a catturarla con la sua reticella. Il piano di Paolo in realtà era un altro: avrebbe mosso il fiore, dove si posava la farfalla per farla volare via libera! Il primo giorno le cose andarono proprio come aveva progettato Paolo e Marco, si arrabbiò molto e alla fine disse: “Mi porti troppa sfortuna! Non ti chiederò più di venire con me”. Era proprio quello che voleva sentire Paolo: a lui quello sport di cacciare le farfalle non piaceva proprio! Aveva anzi escogitato anche un piano per salvare quelle povere farfalle.

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Essendo a conoscenza dell‟ora in cui Marco usciva per la sua caccia, decise che il giorno dopo sarebbe andato nei prati prima di lui per spaventare le farfalle e non fargliele trovare. L‟indomani, tenendo fede al suo proposito, arrivò nei campi una mezzora prima di Marco e iniziò a correre e scuotere i fiori. A un tratto si accorse che una farfalla era caduta a terra e si spaventò pensando di averla uccisa. Si chinò a terra per prenderla e si accorse che era ancora viva, ma aveva un‟aluccia spezzata e non poteva volare. Gli fece tanto male al cuore vedere quella farfalla coloratissima tremare come una foglia sul palmo della sua mano. La sua mezza aluccia era lì per terra, vellutata, con dei colori così vivi che sembravano quelli dell‟arcobaleno. La accarezzava sulla sua mano e lei muoveva le sue piccole antenne, come se lo volesse ringraziare. Decise allora di portarla a casa per farla vedere a sua madre. Quando questa la vide, fu molto dispiaciuta nel notare la ferita della farfalla, ma era contenta del fatto che non fosse stato il suo bambino a farle del male: sapeva, infatti, che Paolo non sarebbe stato capace di fare del male nemmeno a una mosca. Era stato proprio Marco a ferirla il giorno prima perché non aveva preso le misure giuste per imprigionarla nel suo retino. Paolo e sua madre decisero di curare la farfalla.

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La adagiarono su un vaso di fiori, dove avrebbe potuto succhiare il nettare e alimentarsi. La farfalla non pensava certo di andar via, perché non poteva volare ... e poi stava così bene in quella casa! Tutti i giorni Paolo le procurava dei fiori freschi e la curò per tutta l‟estate. Ormai era guarita: una splendida ala colorata aveva sostituito il moncherino e la sua bellezza era tale da togliere il fiato. Svolazzava per tutta casa poggiandosi su ogni cosa: faceva parte della famiglia oramai. Lasciavano, ovviamente, tutte le finestre aperte pensando che volesse andarsene via, libera nell‟aria … ma la farfalla preferiva stare con loro! Quando Paolo faceva i compiti le si poggiava sui quaderni e lui, con grande delicatezza, la prendeva e la metteva vicino a lui sulla scrivania. Solo quando veniva Marco la nascondeva per paura che la prendesse e la portasse via per farle fare l‟orribile fine delle altre: le metteva uno spillone in testa, le seccava, ne faceva dei quadretti e le appendeva al muro! La sua farfalla non doveva mai fare questa fine: aveva già sofferto abbastanza e doveva vivere, anche se in una casa, libera … non imbalsamata! Passato l‟inverno venne la primavera, i prati erano tutti in fiore, nell‟aria c‟era l‟odore delle acacie fiorite e gli uccelli cinguettavano festosi.

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Paolo pensò di portare fuori la farfalla e liberarla nell‟aria tiepida e profumata del suo ambiente, in mezzo ai prati e chissà … Forse poteva ancora incontrare la sua famiglia con cui fare festa alla primavera e ai suoi colori. La paura dell‟acchiappa-farfalle non c‟era più: Marco era partito con la famiglia in Australia, dove c‟era la possibilità di cacciare liberamente tutti gli animali e soddisfare così la loro triste passione. Poveri canguri e animali australi in genere! Se avessero saputo che la “bella” famigliola, arrivata dall‟Italia, era assetata di caccia e golosa di selvaggina! La farfalla di Paolo va ancora a trovarlo spesso: si poggia sui vetri della sua finestra colorandola con la polverina delle sue ali. Non è più sola, ma assieme a tante altre farfalle: forse la sua famiglia o i suoi amici. Paolo la riconosce ... è proprio lei che agita le sue bellissime ali in segno di saluto e di riconoscenza.

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LA FAVOLA PREFERITA DA BARBARELLA “Nonna, nonna! Mi racconti la favola del drago?” Ripeteva in continuazione la bambina alla nonna. Non ne poteva proprio più, povera nonna, di raccontare sempre la stessa favola, e, con tanta pazienza e amore, cercava di convincere la bambina che le avrebbe raccontato un‟altra favola, ancora più bella … ma la bambina urlava più forte: “Voglio quella del drago!”

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La nonna si domandava che cosa avesse trovato la bambina di così particolare in quella favola ... eppure ne aveva scritto un sacco di favole, molto più belle, per i suoi nipotini! Addirittura piacevano anche ai grandi! Barbarella (questo era il nome della bambina), pur ascoltandole con interesse, saltava di gioia solo al finale della favola del drago. Una sera i genitori di Barbarella andarono a cena fuori con degli amici e pregarono la nonna di badare alla bambina. La nonna accettò con gioia perché voleva tanto bene alla sua nipotina. Aveva altri tre nipotini maschi, ma erano lontani: li vedeva tre o quattro volte l‟anno perché abitavano in un‟altra regione, ma la nonna li amava tutti allo stesso modo. Anche Barbarella abitava in un‟altra città, ma era pur sempre più vicina degli altri, a un‟ora di macchina, mentre gli altri nipotini erano a quattrocento kilometri di distanza. Barbarella andava dalla nonna ogni fine settimana. I nonni erano felici perché quando c‟era lei era sempre festa! Lei ricambiava quest‟affetto ed era molto legata ai nonni, soprattutto alla nonna di cui portava il nome. La nonna non le negava niente, anche a costo di litigare qualche volta con il figlio perché, a suo dire, la viziava.

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A Barbarella piacevano molto le favole, così la nonna per accontentarla s‟improvvisava scrittrice e inventava tante di quelle favole da riempire due grossi quaderni. Così la sera in cui i genitori della bambina uscirono con gli amici, la nonna, per tenerla buona, iniziò a leggerle, una dopo l‟altra, tutte le favole che aveva scritto per lei. La nipotina sembrava non si stancasse mai di ascoltare e stava attenta a tutto quello che leggeva la nonna con due bellissimi occhi sgranati! Barbarella interrompeva di tanto in tanto il racconto un po‟ per ripetere quello che ascoltava e un po‟ per mimare con le sue manine e con l‟espressione del viso le parti che di più le interessavano. Aveva appena tre anni e si muoveva con la grazia di una piccola diva dei suoi racconti! La povera nonna non potendone più a un certo punte disse: “Adesso basta! Andiamo a dormire che è molto tardi!” Tuttavia la bambina aveva due occhi aperti come due stelle e ripeteva sempre la stessa cosa: “Ancora nonna, ancora!” Lei cercava di convincerla che era molto tardi e che da lì a poco sarebbero tornati i genitori e l‟avrebbero sgridata perché teneva la bambina sveglia fino a notte alta. Potevano loro immaginare quanti sforzi aveva fatto, poverina, per poterla addormentare raccontandole, una dopo l‟altra, più di dieci favole?

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E lei ripeteva sempre: “Ancora nonna, ancora!” Come ultima risorsa, le disse che non ne conosceva più … non lo avesse mai detto! La bambina scoppiò a piangere così a dirotto che la nonna si vide persa. Fu così che inventò la favola del drago. L‟idea le venne dalla fodera di un quaderno che raffigurava un piccolo drago alato e sulle punte delle sue ali poggiava una piccola stellina. La nonna sedette la bimba sulle ginocchia con le gambette a cavalcioni. Gli occhi un po‟ rossi dal pianto fissarono il viso stanco e assonnato della nonna e con la vocina di un angelo disse la fatidica frase: “Dai nonna ... racconta!” Guardando il drago cominciò a inventare la sua storia … C‟era una volta un piccolo drago che viveva in una foresta. Aveva cinque fratelli draghi più grandi di lui e molto cattivi e vivevano in una grotta umida e buia assieme alla loro mamma e il loro papà drago. Il papà drago era un po‟ vecchio e cieco, quindi non poteva lavorare per dare da mangiare ai suoi piccoli draghi. Stava sempre male e si lamentava: “Povero me, come sono sfortunato! Non vedo mai il sole e devo stare sempre al buio a causa dei miei occhi malati”. La moglie gli diceva: “Non disperare, vedrai che un giorno ti tornerà la vista e allora faremo una grande festa!

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Correrai per la foresta come prima e andrai a caccia, spaventerai la gente come facevi una volta e tornerai a divertirti”. Questo vecchio drago era molto cattivo e anche i suoi figli più grandi erano cattivi come lui: solo il piccolo drago era buono e non faceva del male a nessuno. I bambini erano spaventati quando questi draghi dalla foresta andavano nei villaggi per procurarsi da mangiare. La gente correva gridando e i draghi rubavano galline e altri animali e se li portavano nella foresta per mangiarli. Una volta i fratelli dissero al piccolo drago: ”Oramai sei cresciuto, sei grandicello e quindi devi venire a procurarti da mangiare con noi, vuoi che ti manteniamo a vita? Già dobbiamo mantenere la mamma e il babbo … tu devi venire con noi!” Il povero draghetto era troppo buono e amava i bambini che non voleva spaventare, così diceva ai fratelli: “Vi prego, abbiate pietà, non mi portate a caccia con voi, io amo anche agli animali, non voglio ucciderli, sapete che mangio solo erba … e nemmeno voglio spaventare i bambini, piccoli e indifesi.” Detto questo il piccolo drago piangeva disperatamente. I fratelli cattivi dicevano alla mamma: “Ma questo è tutto scemo! Non è un drago, è un coniglio … ha paura di tutto!” Detto questo, lo volevano picchiare, ma la mamma li fermò e disse: “Non picchiatelo!

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Adesso lo convinco io e vedrete che mi ascolterà, io sono la sua mamma e lui il mio piccolino e lo sa quanto gli voglio bene”. Allora il piccolo drago smise di piangere e si preparò per andare a caccia con i suoi fratelli. I fratelli draghi dissero tutti insieme: “Dobbiamo prendere due stelle e portarle a nostro padre per dargli la vista”. Uno dei tre chiese: “E come facciamo?” Il più grande rispose: “Aspettiamo che faccia notte … quando usciranno in cielo per dare luce alla terra noi ci arrampichiamo sugli alberi, afferriamo due stelle e le mettiamo sugli occhi del babbo spenti e gli daranno la luce per vedere”. ”Bravo!” – rispose ironicamente il secondo – “e come facciamo se non abbiamo le ali? Questo lo può fare solo il piccolo Alino” (così si chiamava il fratello piccolo a causa di due piccole ali che aveva sul dorso). “Come faccio a volare?” – protestò il piccolo Alino – “non ho mai volato in vita mia, come faccio? Ho tanta paura! Non voglio volare, aiuto Inghèèè ...” - e ritornò a piangere disperato – “Nessuno mi sente? Nessuno mi vuole aiutare?” “Stai zitto piagnone! Non fai altro che piangere, non ti vergogni? Sei o non sei un drago?” “Sì ma io sono buono, non sono cattivo come voi!” 113


Stavano per picchiarlo, quando, all‟improvviso, comparve un grosso cane che abbaiò in modo così forte da spaventare i suoi fratelli. Tutti tremavano come foglie, solo il piccolo non aveva paura e disse a quel grosso cane: “Chi sei? Come ti chiami?” “Sono Spinone e sono venuto per aiutarti perché tu sei un drago buono, ma i tuoi fratelli li voglio punire perché spaventano i bambini”. Intanto i draghi che erano scappati, vedendo che il più piccolo non aveva paura e parlava con il cagnone, dissero: “Andiamo a vedere! Noi siamo coraggiosi e bravi cacciatori, non dobbiamo avere paura di un grosso e brutto cane”. Il cane, sentendo quello che avevano detto, si avvicinò a loro abbaiando ancora più forte. I draghi cercarono di attaccarlo come facevano con tutti gli animali ma Spinone si scrollava e lanciava le spine che aveva addosso conficcandole dappertutto. “E adesso guarda! - disse il cane al piccolo Alino – “Adesso le mie spine li accecheranno, come ho accecato gli occhi di tuo padre, perché faceva del male a tutti: agli animali e ai miei amici che sono i bambini. Tu invece sei buono, quindi chiedimi quello che vuoi e ti accontenterò”. Il piccolo drago, poverino, era rimasto senza fiato per quello che aveva visto. I draghi cattivi erano con le spine conficcate negli occhi: non vedevano più e piangevano di dolore.

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Allora il piccolo drago chiamò il cane che se ne stava andando e gridò: “Spinone! Ti prego aiutami a prender le stelle per portarle al mio papà e ai miei fratelli perché possano ancora vedere”. Allora Spinone disse: “Ti aiuterò a volare in cielo per prendere due stelline; solo tu lo puoi fare, per questo sei nato con le aluccie, per fare la buona azione di ridare la vista a chi non l‟ha! Dai ... forza! Vola in cielo a prendere le stelle per il tuo papà: è ormai tanto tempo che non vede. sarà diventato buono ... I tuoi fratelli, invece, devono rimanere ciechi finche non diventeranno buoni, solo allora prenderai le stelline pure per loro. Va‟ amico drago!” E il draghetto volò tra le stelle. Il cane Spinone mentre si allontanava, gli diceva: “Ricordati di essere sempre buono e sarai premiato, prenderai tante stelle e le porterai a chi non vede per ridargli la luce!” “Ciao Spinone!” rispondeva il draghetto mentre felice volava più in alto che poteva. Così Alino riuscì a staccare due stelle dal cielo e le portò al padre che subito riacquistò la vista. La mamma e il babbo lo abbracciarono felici e lo pregarono di prendere le stelle anche per i fratelli; il piccolo drago promise che appena sarebbero diventati buoni, rinunciando a uccidere gli animali e spaventare i bambini, avrebbe premiato anche loro.

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I fratelli, che giĂ avevano capito come fosse brutto il buio, compresero che era ancora piĂš brutto il buio dellâ€&#x;odio; lo abbracciarono e gli promisero di diventare buoni per sempre.

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DUE NIPOTINI IN GAMBA Sabrina e Ricky erano due fratellini felici perchĂŠ avevano tutto quello che desideravano: i genitori erano due medici e lavoravano in ospedale, vivevano in casa insieme alla nonna paterna, la cameriera e la babysitter. Tutti avevano molta attenzione per i due bambini, giocavano volentieri con loro e la nonna gli raccontava tante belle favole. 117


Erano molto ricchi ma la mamma e il papà li vedevano poco perché erano sempre impegnati in ospedale a guarire le persone malate. I bambini non sentivano tanto la mancanza dei genitori, perché erano ancora piccoli, Ricky aveva cinque anni e Sabrina appena tre. La vita scorreva felice: d‟inverno giocavano in una stanza attrezzata con i loro giochi e d‟estate, giocavano in giardino con l‟altalena, lo scivolo e tanti altri giochi da fare all‟aperto. Facevano il bagno in piscina e scorazzavano rincorrendosi sull‟erba fresca sotto gli occhi vigili della nonna e della babysitter. La nonna per farli riposare e smettere di correre li chiamava: “Venite bambini, sedete accanto a me è l‟ora delle favole”. La nonna stava seduta su un dondolo sotto il patio, vicino c‟era un bel gazebo ed era lì che andavano a giocare con la nonna, i bambini andavano a prendere i loro giocattoli, Sabrina le sue bamboline e i suoi peluche e Ricky le sue macchinine. Aiutati dalla nonna, i bimbi costruivano le case, i garage per le macchinine, le chiesette e la ferrovia, dove passavano i trenini. Ogni giorno trascorreva più o meno così ma con tante storie diverse che la nonna inventava per loro. Era così brava a raccontare queste favole che Sabrina e Ricky immaginavano di trovarsi realmente dentro quei racconti.

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Costruivano dei veri e propri villaggi con le costruzioni e attrezzi vari e mettevano ogni cosa al posto giusto: anche la ferrovia che passava tra le casette era percorsa da un trenino che trasportava le bamboline di Sabrina e i soldatini di Ricky. La nonna in quei momenti si sentiva bimba come loro e assaporava anche lei la magia delle storie che raccontava, vivevano quei momenti in un modo fantastico, dove tutto procedeva come loro volevano, le ore trascorrevano così velocemente senza accorgersi del mondo reale e dei problemi. Purtroppo i problemi c‟erano e la nonna ne aveva uno abbastanza serio: era malata di cuore. Era questo il motivo per cui il figlio la sgridava quando tornava a casa: non voleva che si stancasse troppo e sgridava anche i bambini. “Con i vostri giochi fate stancare la nonna, avete la babysitter, giocate con lei”. I bambini però preferivano la nonna perché solo lei riusciva con la fantasia a portarli in quei mondi sconosciuti dove erano protagonisti di meravigliose storie in cui i grandi non potevano entrare. Sabrina e Ricky crescevano sani e sereni, erano sempre allegri a differenza di altri bambini che non erano fortunati come loro. Ricky aveva dieci anni e Sabrina otto quando la nonna si aggravò e non poté giocare più con loro.

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I Bambini erano infelici e volevano stare sempre nella stanza in compagnia della nonna ma il papà glielo proibiva: potevano andare solo a salutarla prima della scuola e al ritorno e infine la sera per la buonanotte. La nonna era triste più dei nipotini ma non poteva farci nulla perché era controllata a vista da due medici: il figlio e la nuora. Arrivò Natale portando gioia a tutti. L‟albero era pieno di luci e di tante palline colorate, sotto una piramide di regali che i bambini non vedevano l‟ora di aprire. C‟era una scatola molto grande, bene incartata, con un bel fiocco rosso. I bambini avevano lo sguardo puntato sempre lì e si chiedevano: “Che cosa ci sarà dentro? Per chi sarà mai?” Ricky disse: “Forse è della nonna perché è la più grande ed è la più buona”. “Non vedo l‟ora di aprirla!” dice Sabrina. “Perché proprio tu” risponde Ricky. La mamma li bacia a entrambi e dice: “Non litigate, apritelo insieme ... il regalo è vostro!”. Velocemente si buttarono sul regalo scartandolo così velocemente da riempire la sala di pezzi di carta. Poi, con gli occhi sbarrati, i bimbi esclamano in coro: “Che cos‟è”? “E‟ un videogioco” risponde il papà, così avrete un passatempo per quando finite i compiti. “Grazie papà, grazie mamma!” esclamarono i due con entusiasmo.

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Il papà attaccò la spina e mise in funzione il nuovo gioco “moderno” che emanava un suono - all‟inizio piacevole - ma che, pian piano, li trascinò sempre di più in un vortice di confusione. Il papà, orgoglioso, gli chiese: “Vi piace? Questo è un gioco moderno! Basta schiacciare un bottone e tutto si muove da solo senza spostare le cose con le mani come fate con le bamboline o le macchinine … ormai quelli sono giochi passati, il mondo cambia e noi dobbiamo cambiare con lui!” Passò il tempo; i bambini erano ormai presi dai giochi elettronici e i loro sguardi diversi da quelli di un tempo: sui loro volti non c‟era più la serenità … sembravano spenti, erano diventati irascibili e bisticciavano spesso tra loro per chi doveva condurre il gioco. Che fine avevano fatto Sabrina e Ricky di un tempo? La loro allegria dove era andata a finire? “L‟ha risucchiata la macchina dei giochi!” Sembravano rispondere le bambole dagli scaffali, ormai impolverate, con gli occhi tristi e il sorriso smorto. Anche gli animaletti di peluche, un tempo sparsi per ogni dove, giacevano ammassati ordinatamente, come un esercito sconfitto, sugli scaffali alti degli armadi: come vecchi animali da circo che non interessano più a nessuno sembravano pronti per andare al macello. E la nonna? Che fine aveva fatto la nonna?

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Era stata messa pure lei da parte come un “oggetto” del passato: le sue favole non interessavano più, aspettava anche lei, come i peluche, di essere trasferita in una casa di riposo. “Lì starai bene!” La rassicurava il figlio. “Ti cureranno e avrai tanta compagnia … tu lo vedi che non abbiamo tempo: siamo sempre fuori per lavoro e i bambini stanno crescendo, hanno la scuola e i loro piccoli problemi da adolescenti”. Nella famiglia, ormai divisa, ognuno occupava il suo spazio: gli anziani all‟ospizio, i giovani al lavoro, i piccoli a scuola e nel tempo libero stavano tutti seduti lì, rigidi, davanti ai monitor, con gli occhi di ghiaccio, freddi, puntati su quel lampeggiare d‟immagini violente che apparivano sullo schermo. Ecco però che avvenne un miracolo: le valigie erano pronte nell‟ingresso quando i bambini tornarono da scuola. Sabrina le guardò e chiese alla cameriera: “Chi parte?” “La nonna” rispose senza emozione la cameriera. “Va a vivere in un istituto per anziani”. “Perché?” Sbottò Ricky. “Perché qui è sola e la solitudine uccide le persone, specialmente gli anziani”. Allora i bambini si ricordarono di tutti i bei momenti passati con lei, quando insieme viaggiavano nel mondo incantato delle favole … che bei tempi! E adesso?

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Niente più viaggi nella fantasia: ora altri insinuano nelle persone le loro fantasie contorte che li trasformano e distruggono i loro sentimenti facendoli diventare freddi e indifferenti alle cose belle, all‟amore e alla natura. Fanno trascurare le cose semplici come le bamboline con i visini dolci che ispirano serenità e tutti i giochi che si affidano alla fantasia per vivere. I bambini non avevano dimenticato tutto questo; corsero dalla nonna in lacrime e le chiesero perdono per averla trascurata e abbracciandola le dissero: “Il tuo posto è qui con noi! Sei stata il nostro trampolino della felicità, ci hai portato in posti meravigliosi con la tua fantasia, adesso siamo noi che vogliamo renderti felice e raccontarti le nuove favole, le nostre, per tutta la vita”.

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GIORGETTO E IL PASSEROTTO Nella sua stanzetta piena di giocattoli, sul tappeto rosso con le stampe dei fumetti, Giorgetto componeva un piccolo villaggio di mattoncini Lego: c‟erano tante casette, gli alberi … ma non riusciva a concentrarsi perché le voci che arrivavano dalla stanza dei genitori si facevano sempre più forti e concitate. Il bimbo si alzò in fretta dal tappeto, dove stava seduto e appena entrò nella stanza dei genitori vide la mamma buttata sul letto che piangeva a dirotto. Stava per avvicinarsi a lei quando una mano lo afferrò con delicatezza e lo accompagnò alla porta:

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era il suo papà che gli disse: “Vai a giocare di là tesoro!” Lo riaccompagnò nella sua stanzetta e gli disse con tutta la calma possibile: “Non aver paura Giorgetto: io e mamma stiamo solo ragionando … tranquillo! Su, da bravo! Continua a giocare con le costruzioni … domani papà ti comprerà un altro giocattolo!” Giorgetto aveva appena cinque anni non poteva capire il motivo di quei ragionamenti che sempre più spesso facevano mamma e papà; lui voleva bene a entrambi e anche loro lo adoravano: quanti giocattoli gli compravano! Non gli faceva mancare nulla ma lui non era felice, era invece preoccupato perché nonostante fosse piccolino, capiva benissimo che i genitori non andavano più d‟accordo come un tempo. Non uscivano più assieme e il papà stava sempre più a lungo fuori di casa per lavoro; quando il bambino chiedeva il perché alla mamma lei rispondeva che il lavoro era molto duro e perciò il papà spesso non poteva ritornare a casa. Finalmente un giorno Giorgetto trovò il coraggio e chiese alla mamma: “Perché quando il papà è a casa litigate sempre? Perché non giocate più con me? Non mi volete più bene?” La mamma, con uno scatto nervoso, lo scosse un po‟ dalle spalle e gli disse: “Per favore te ne vai nella tua stanza a giocare?

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Hai un sacco di giochi! Possibile che devi stare qui a rompermi l‟anima con tutte queste domande?” Giorgetto si mise a piangere e corse nella sua stanza, chiuse la porta e si buttò sul suo lettino: pianse tanto che si addormentò senza accorgersene e incominciò a sognare. Sognò di trovarsi in un parco dove c‟erano tanti bambini che giocavano con i loro genitori e correvano felici nei prati. Lui era solo, seduto sopra un‟altalena che non si muoveva perché nessuno la spingeva; d‟un tratto vede la sua mamma passargli davanti: teneva per mano un bambino; lui tutto felice cerca di andarle incontro gridandole: “Mamma, mamma!” ma la voce non gli usciva, non riusciva a scendere dall‟altalena sembrava inchiodato! La mamma si allontanava senza guardarlo nemmeno … non lo conosceva più e lui continua a gridare disperatamente: “Mamma, mamma! Sono il tuo Giorgino! Non mi vedi? Torna indietro ti prego! Sono io il tuo bambino, aiuto mamma!” Lei lo sentì gridare e corse nella sua stanza dove trovò il suo bambino dimenarsi nel sonno pieno di sudore e tentò di svegliarlo: “Giorgino! Amore svegliati! É solo un brutto sogno: la mamma è qui non aver paura!” e se lo strinse al petto baciandolo teneramente. Piangendo continuò: “Perdonami non volevo farti del male!

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Tu non hai colpa, adesso calmati che mamma ti porta alle giostre”. Giorgetto passò un bel pomeriggio felice con la mamma, visitando lo zoo e mangiando il gelato: Giorgetto era felice come non lo era da tanto tempo. Finalmente le giornate passavano più serene e la mamma gli dedicava più tempo; lui pensava che tutto fosse tornato come prima, non vedeva l‟ora che tornasse il suo papà per esternare tutta la sua gioia. Un giorno che pioveva a dirotto, la mamma leggeva un libro seduta in salotto e nell‟aria, si sentiva già l‟autunno. C‟era molta quiete. Giorgetto, dietro i vetri della finestra della sua stanza, si divertiva a fare i disegnini sui vetri appannati e guardava la pioggia cadere. Pensava al suo papà e si chiedeva: “Chissà dove si trova a quest‟ora con questa pioggia … spero che torni presto a casa!” Mentre guardava fuori, vide entrare dal cancello in giardino proprio l‟automobile del suo papà e cominciò a urlare felice: “Mamma, mamma! É tornato papà! Appena lo vide sbucare dalla porta gli corse incontro saltandogli addosso e aggrappandosi a lui come una scimmietta. Il papà lo coprì di baci e gli disse, visibilmente felice: “Piano, piano! Sono tutto per te ora … sono qui calmati!” Per Giorgino era il momento più bello: avrebbe voluto fermare il tempo.

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Continuava a ripetere al papà: “É vero che non parti più? É vero che resti sempre con me e con la mamma?” A proposito, pensò, dov‟era finita? Perché non era andata incontro al papà come il solito? Nemmeno il papà sembrava la cercasse e Giorgetto pensava a queste cose cercando di capire; il silenzio fu interrotto dalla voce del papà: “Guarda cosa ti ho portato Giorgetto … ti piace? Non era questo il regalo che ti aspettavi? So che lo desideravi da tanto tempo”. Si: era proprio quello il regalo che il bimbo desiderava … ma ora non più! Non era quella l‟atmosfera giusta per gioire del regalo: “Grazie papà!” - disse Giorgetto senza entusiasmo - prese il regalo e se ne andò nella sua stanza. Appena entrato, lo buttò sul tappeto e tornò dietro i vetri della finestra a guardare fuori. Le lacrime gli rigavano il viso e si confondevano quasi con la pioggia. Dopo un po‟ di tempo si accorse che nessuno lo cercava … a nessuno interessava il suo dispiacere! Rassegnato, chiuse la porta della sua stanza per non sentire la voce dei suoi genitori litigare. Le voci si facevano via via più agitate finché Giorgetto vide l‟auto del papà ripartire velocemente. Cercò di salutare il papà ma lui era già lontano e rimase con la manina appiccicata al vetro e lo sguardo perso nel vuoto.

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Mentre il suo pensiero rincorreva il suo papà, lo sguardo si posò sul davanzale della finestra, dove vide un passerotto poggiarsi con le zampette leggere sulle quali saltellava gioioso mentre cinguettava. Giorgetto pensò: “Lui si che è felice! I suoi genitori andranno sicuramente d‟accordo e lo amano tanto … sembra contento di fare cip cip!” L‟uccellino fece tornare un po‟ il buonumore a Giorgetto che iniziò a parlargli: “Caro passerotto! Sai che la mia mamma quando è felice mi chiama passerotto? Giacché siamo due passerotti, potrai capirmi se ti chiedo qualcosa … mi sai dire perché i grandi non vanno mai d‟accordo? La tua mamma e il tuo papà litigano? I miei lo fanno già da un po': quando chiedo perché mi dicono che stanno ragionando … anche a casa tua ragionano così? Tu perché canti? Perché sei felice o forse piangi anche tu come me? Come vorrei avere le ali come te per volare dal mio papà! O forse potrei andare in un posto dove i genitori non lavorano e non litigano ma giocano con i loro bambini!” Il passerotto non cinguettava più: sembrava guardasse Giorgetto con i suoi occhietti a spillo e il bambino gli propose: “Vuoi venire a giocare con me? Adesso apro la finestra così entri!

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La mamma sentì il rumore della finestra e si ricordò del bambino, corse nella sua stanza e urlò: “Giorgetto! Passerotto mio! Che cosa stai facendo? Lo afferrò per le spalle e lo tirò dentro: “Amore cosa volevi fare? E lui: “Niente mamma! Volevo far entrare l‟uccellino, ma quello si è spaventato ed è volato via!” La mamma, che si era ripresa dallo spavento, continuava ad accarezzarlo. Giorgetto approfittò per chiederle: “É andato via di nuovo papà?” La mamma tradendo qualche emozione rispose guardando altrove: “Si … ma tornerà la settimana prossima” In effetti, non tornò né la settimana prossima e nemmeno nelle altre, Giorgetto non lo vide più. Passò qualche tempo e Giorgetto cresceva senza sapere più niente del suo papà: la mamma trovò anzi un altro uomo che portò a casa proponendolo come “nuovo papà” a Giorgetto. Dopo un anno nacque anche un bimbo, Marco, e Giorgetto finalmente era felice di avere quel fratellino che tanto aveva desiderato. Aiutava la mamma a crescerlo: lui era orgoglioso di essere grande e ormai andava a scuola. La mamma era serena e il nuovo papà gli voleva bene come se fosse veramente suo figlio. Il fratellino aveva quattro anni quando la mamma e il nuovo papà incominciarono a litigare pure loro:

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Giorgetto rivide di nuovo quella stanza chiusa e sentì le voci agitate. Il fratellino, per cui il fatto era una novità, piangeva a dirotto ma Giorgetto ormai “esperto” delle cose dei grandi lo prese in braccio e gli disse: “Vedrai … ti abituerai anche tu come me! Tu sei fortunato perché hai me mentre io ero solo a piangere nella mia stanza … solo un piccolo passerotto ogni tanto mi faceva compagnia dietro i vetri di quella finestra”. Il bimbo, rincuorato dal fratello, smise di piangere e iniziò a giocare con le costruzioni sul tappeto rosso: Giorgetto si rivide piccolo come lui, lo abbracciò e lo coccolò come si fa con i bambini piccoli. Passò un po‟ di tempo e anche il secondo papà svanì nel nulla. Stavolta Giorgetto non soffrì‟ come la prima volta: adesso aveva un fratellino cui badare … doveva dare un buon esempio da fratello maggiore. Era un ragazzo molto intelligente e a scuola era il primo della classe ma cresceva chiuso e aveva il viso sempre triste … perché il papà non era mai tornato? Perché la mamma non ne parlava mai? Se lui cercava qualche spiegazione, la mamma gli diceva che il papà non gli voleva bene e parlava sempre male di lui, chi avesse torto o ragione Giorgetto non riusciva a capirlo mai: gli adulti spesso non capiscono che i bambini hanno il cuore sensibile al dolore dell‟abbandono.

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Quando Giorgetto parlava con qualche compagno che aveva i genitori separati come lui, diceva: “Siamo noi figli che portiamo il peso dell‟egoismo sulle nostre spalle; i grandi non capiscono il male delle loro azioni: facendosi i dispetti a vicenda scagliano la loro rabbia su noi figli e stando separati ci fanno del male … loro credono di poter decidere per tutti!” Intanto cresceva pure Marco, la vita scorreva normalmente come in tutte le famiglie di separati: la mamma sempre più nervosa lavorava sempre in banca e lui stava finendo il liceo quando la mamma gli presentò il “terzo papà”. Quest‟ultimo portò in dote due figli: Lucia di quattro anni e Ivan di dieci. La famiglia aumentò all‟improvviso ma questo papà non era paziente come il secondo e neanche dolce e bello come il suo vero papà: era un uomo che incuteva timore quando parlava … forse questo avrebbe messo in riga pure la mamma! La casa era sempre invasa dai suoi parenti, i suoi genitori, una zia zitella … che confusione! Quella non era più la sua casa, non la riconosceva più e non vedeva l‟ora di scappare via. Essendo molto bravo a scuola Giorgetto vinse una borsa di studio per frequentare l‟università nella capitale quindi lasciò la casa, la mamma, il suo paese e la “sua” famiglia … ma quale?

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Solo Marco era la sua famiglia e solo lui sentì la sua mancanza. Giorgetto, lontano da tutti, si sentiva meglio: era uscito finalmente da quella gabbia di matti! Ogni tanto aveva nostalgia della mamma ma ora non era più come la ricordava: era cambiata, sembrava un‟altra. Non rispondeva quasi più alle sue lettere, al telefono rispondeva sempre quell‟uomo che gli diceva che la mamma era occupata e gliela salutava lui … povera mamma! Perché si era cacciata in quella situazione? Intanto anche Marco cresceva e il rapporto col fratello era molto forte. Un giorno squillò il telefono nella stanza di Giorgetto; dall‟altra parte c‟era Marco che disse: “Giorgio sono qui alla stazione … vienimi a prendere!” La sua voce era agitata, Giorgio scese per le scale come un fulmine, prese un taxi e corse alla stazione, dove trovò Marco che, correndo, gli si gettò al collo e si mise a piangere: era scappato da casa; non ce la faceva più senza di lui. Giorgio lo strinse forte a sé e gli disse: “Adesso calmati, ne parleremo a casa!” Ma Giorgio non ne possedeva una, aveva una stanza che divideva con un altro ragazzo. La sera in pizzeria parlarono e Marco si sfogò con il fratello del cattivo rapporto col patrigno e i fratellastri e anche con gli altri parenti che avevano invaso la loro casa: non voleva più tornare fra quella gente ma stare solo con lui.

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Giorgio disse a Marco: “Ancora non hai diciotto anni cosa puoi fare qui?” E Marco rispose: “Continuerò a studiare e mi troverò un lavoro; sono sicuro che tu mi aiuterai perché sei il solo a volermi bene!” Giorgio replicò: “E alla mamma non ci pensi?” E lui, tristemente rispose: “La mamma? Quando torna a casa dal lavoro, è come se non ci fosse … quante volte le ho detto di cacciare fuori tutti e restarcene soli come una volta ricordi? Lei non conta più nulla e mi dice di pensare di farmi una mia vita perché non è giusto che devo soffrire anch‟io e che lei sola deve pagare i suoi sbagli”. Giorgio, con un nodo in gola, dice: “Povera mamma!” I due fratelli si abbracciano e Giorgio disse al fratello: “Domani chiederò al mio amico di farti lavorare nel suo bar e magari starai da lui finché troviamo qualcosa di meglio … poi riprenderai a studiare e ci faremo una vita da soli come tanti che, come noi, avevano una famiglia, poi due, poi anche tre e alla fine nessuna! Per l‟egoismo i genitori scappano via e i figli rimangono soli … ma per noi non sarà così: insieme siamo una forza!” Finito di pronunciare quelle parole un passerotto volò proprio sul loro tavolo e iniziò a beccare le briciole avanzate: aveva un‟aria familiare e sembrava dire loro: “Tranquilli! C‟è chi dall‟alto ci ama e provvede alle nostre esigenze!”

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VIOLETTA E MARIA In una casetta di campagna, sperduta in mezzo al verde, viveva una famigliola di contadini. Erano molto distanti dal paese ma a loro non interessava niente e non invidiavano per nulla quelli che abitavano in città. Erano molto poveri ma felici. I membri di questa famiglia erano il papà, la mamma e due bambini: un maschio e una femmina. Il maschio si chiamava Narciso e la femminuccia Violetta: la mamma sceglieva sempre i nomi dei fiori perché li amava tanto e lì dove abitavano, i fiori certo non mancavano!

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Ne esistevano di tutte le specie e crescevano spontaneamente come vuole madre natura. La buona donna chiamava tutti con i nomi dei fiori: non solo i figli ma anche gli animali che facevano parte di quella famiglia. Il cane si chiamava Tulipano (strano nome davvero per un cane così lo abbreviarono in Tuli), l‟asinello si chiamava Gelsomino, la mucca Rosa, la capretta Margherita, il maialino Garofano e via dicendo … e i conigli? I conigli avevano i nomi degli ortaggi, infatti, si chiamavano carotine perché mangiavano molte carote. La gente di città li considerava poveri ma loro si sentivano ricchi perché le cose che possedevano i cittadini (come ad esempio: televisione, luce elettrica, frigo, automobili e quant‟altro), loro non li desideravano. Neanche i giocattoli dei bimbi ricchi erano desiderati dai nostri fratellini; quei giochi inanimati e freddi non potevano attrarli: loro giocavano con gli animaletti vivi e caldi che correvano con loro. Quanto spazio avevano a loro disposizione! Potevano inventare mille giochi in quello spazio aperto fatto di prati freschissimi in fiore! L‟inverno era duro ma loro affrontavano il freddo con disinvoltura perché c‟erano abituati, mangiavano tutto quello che producevano … la mamma faceva anche il pane in casa.

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Una volta a settimana il papà scendeva in paese con Gelsomino, l‟asinello, e portava al mercato i frutti della terra per ricavarne un po‟ di soldi con cui acquistare dei vestiti. La vendita non era eccellente perché i suoi prodotti non erano bellissimi come quelli concimati: lui coltivava tutto al naturale perciò l‟insalata era un po‟ striminzita, i pomodori un po‟ piccolini ecc, però vendeva moltissime uova perché erano freschissime e belle grosse. I bambini di questi poveri contadini, crescevano sani e robusti e non si ammalano mai. La mamma pregava sempre il buon Dio dicendo: “Signore proteggi i miei bambini, fa che crescano sempre sani e non si ammalino perché il medico è tanto lontano e le medicine costano tanto”. I bambini e il papà pregavano anche loro con la mamma affinché Dio mandasse la pioggia, perché il sole maturasse i frutti … e anche solo perché volevano tanto bene a Dio e lo lodavano per ogni cosa! Dio, che ama le preghiere semplici fatte con fede, li ascoltava volentieri. Intanto i bambini crescevano e si avvicinava il tempo della scuola, come fare? Quando Violetta che era la più grande - dovette iniziare la scuola, il papà disse alla mamma: “È meglio non mandarla a scuola … dista quattordici chilometri da qui!

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Io non sono mai andato a scuola e nemmeno tu, che bisogno c‟è di mandarci i nostri figli? Non viviamo bene così?” Ma la mamma rispose: “Allora erano altri tempi … adesso se non li mandiamo a scuola, ci arrestano perché c‟è la scuola dell‟obbligo, la chiamano così”. Il giorno dopo il papà prese l‟asinello Gelsomino, mise in groppa la sua bambina e lo accompagnò a scuola, dove avrebbe imparato a leggere e scrivere e avrebbe cambiato le sue abitudini … chissà se sarebbe stata contenta! Quel giorno il papà, per non fare avanti e indietro, decise di rimanere in paese finché Violetta non uscisse da scuola e intanto pensava che la vita di tutta la famiglia sarebbe cambiata: come avrebbe fatto tutti i santi giorni ad andare avanti e indietro trascurando il lavoro dei campi? Doveva trovare una soluzione. Mentre pensava tutte queste cose vide tutti i bambini uscire da scuola … tutti tranne Violetta! Si avvicinò al portone tutto preoccupato quando ecco uscire Violetta con la testa bassa e gli occhi arrossati: aveva pianto tanto! Non aveva mai visto piangere la sua bambina, cosa mai era successo? Quando lo vide la bimba gli corse incontro, lo abbracciò e ricominciò a piangere. “Che cos‟hai bambina mia? Cosa ti hanno fatto? Parla per amor di Dio!” La bambina, tra un singhiozzo e l‟altro, gli raccontò tutto.

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I bambini l‟avevano presa in giro e avevano riso di lei, l‟avevano chiamata “zotica” e avevano persino riso del suo vestito. Il papà tutto arrabbiato disse: “Domani parlerò io con la maestra vedrai cosa le dirò! Asciugati gli occhi e non dire nulla alla mamma per non rattristarla ti va?” La bambina annuì con la testa. Quando finalmente arrivano a casa - dove il fratellino lo aspettava impaziente (non era mai rimasto da solo senza Violetta) - anche la mamma, Tuli e gli altri animaletti le fecero una gran festa … finalmente si sentiva di nuovo felice … ma domani? Doveva ritornare di nuovo in quella brutta scuola, dove c‟erano tutti quei bambini cattivi che la prendevano in giro e non le volevano bene … ma ora non voleva pensare al domani e già assaporava quel momento di gioia. Arrivò puntuale anche il secondo giorno di scuola: la mamma la chiamò al canto del gallo: “Sbrigati Violetta o farai tardi! La strada è molto lunga, papà e Gelsomino ti stanno già aspettando”. Violetta si lavò, si vestì, fece colazione e in fretta salutò la mamma e il fratellino e saltò sul dorso dell‟asinello. Arrivano a scuola prima degli altri bambini così il papà ebbe il tempo di parlare con la maestra per spiegarle come avevano trattato la sua bambina il giorno precedente.

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Appresi i fatti, la maestra si scusò dicendo: “Succede ogni anno così: in ogni classe prendono in giro i più timidi … molti sono solo dei bambini troppo viziati; ci penserò io a farle chiedere scusa, vieni piccolina! Il papà tornò a casa più tranquillo. Violetta intanto stava tutta rannicchiata nel suo banco con il cuore che le batteva forte quando si avvicinò una bambina pallida di viso, vestita bene con il suo bel grembiulino, il colletto bianco e un grande fiocco azzurro. La bimba le chiese: “Come ti chiami?” lei, tutta tremante, rispose: “Violetta”. La bimba riprese: “Io Maria! Di cosa hai paura?” “Di tutto!” - rispose Violetta – “Qui nessuno mi vuole bene, mi prendono tutti in giro perché vengo dalla campagna!” la bambina la rassicurò dicendole: “Io ti voglio bene, posso diventare tua amica?” Violetta la guardò stupita e vide in quel viso scarno due occhi grandissimi e buoni perciò le rispose di si tutta rincuorata. Maria e Violetta diventarono amiche e Maria la difendeva da tutti i compagni: lei era molto rispettata essendo figlia della maestra! A casa Violetta raccontò con entusiasmo di aver trovato un‟amica e lo stesso fece Maria a casa sua: parlava sempre di Violetta e di come avrebbe desiderato avere una sorellina come lei perché era figlia unica.

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Passava il tempo e le cose a scuola andavano molto meglio: i compagni cominciavano a volerle bene ma l‟amica del cuore rimaneva Maria. Un giorno la maestra le fece una proposta: “Perché non rimani a vivere in casa nostra? Risparmieresti tanta fatica del viaggio a te stessa e a tuo padre e potresti studiare e giocare con la mia bambina. Le faresti tanta compagnia: lei è sempre così triste e sola … da quando ha conosciuto te vedo che è diventata più allegra e sta meglio. Potrai dormire assieme a lei nella sua stanza: è sufficientemente grande per entrambi!” Violetta non sapeva cosa rispondere mentre Maria saltellando diceva: “Ti prego dì di sì, rimani con me!” L‟indomani la maestra fece la stessa proposta al padre di Violetta che accettò volentieri perché la famiglia della maestra era molto signorile e voleva tanto bene a sua figlia. Il primo giorno che Violetta non tornò a casa il fratellino pianse tanto: con chi avrebbe giocato? Anche la mamma era molto triste ma pensando che la figlia stava bene si consolava. Si trovava veramente bene la nostra Violetta a casa di Maria? La sua amichetta abitava in un condominio al quinto piano, ma le prime brutte emozioni per lei iniziarono fin dalla prima volta che salì sull‟automobile per tornare a casa: non c‟era mai salita e le girava la testa, le veniva da vomitare.

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Per lei era una grande velocità - abituata com‟era a viaggiare sulla groppa del suo Gelsomino che la cullava dolcemente - poi arrivò il momento dell‟ascensore … che paura! Infilarsi dentro una scatola mobile che cammina attraverso il muro! Finalmente arrivarono in casa: Maria la afferrò per mano tutta contenta e la portò nella sua stanza, le fece vedere tutti i suoi giocattoli e le disse: “Da oggi sono pure tuoi!” Violetta li guardò e chiese: “Strani! A cosa servono?” Maria rise di gusto e rispose: “Per giocarci naturalmente! Non hai mai visto un giocattolo?” “Così strano no!” - disse Violetta “I miei giocattoli sono il mio cane, la mia capretta, la mucca e i coniglietti ... questi non mi piacciono! Non si muovono da soli!” Intanto la madre di Maria le chiamò a tavola perché il pranzo era pronto. Si sedettero e Violetta, come faceva sempre a casa sua con la sua famiglia, si fece il segno della croce: il papà di Maria la guardò con tanta tenerezza. Violetta però non riuscì a mangiare quel cibo tanto raffinato e così diverso da quello che era abituata a mangiare: niente fagioli, patate, verdure, formaggio … nulla insomma delle buone cose della sua campagna! Quei cibi così strani acquistati nei supermercati non la convincevano per niente così disse di non avere fame (anche se le dispiaceva mancare di rispetto a quella brava famiglia).

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La mamma di Maria, che aveva capito tutto, le cucinò un uovo: non era certamente fresco e genuino come quello delle sue gallinelle, ma almeno era un pasto che conosceva! Dopo pranzo Maria le fece vedere il resto della casa e la portò sul balcone ma Violetta si tirò indietro tutta spaventata vedendosi sospesa in aria al quinto piano! Aveva paura di tutto, non le interessava nulla di quello che vedeva, aveva una gran confusione in testa e si sentiva prigioniera in una gabbia dorata. Come dirlo alla sua amichetta? Sapeva di darle un dolore se le diceva che voleva tornare a casa sua. Col passare dei giorni la mamma di Maria era sempre più preoccupata: vedeva che Violetta non mangiava quasi niente e non era felice; la notte non dormiva e piangeva di nascosto, non aveva più quel bel colorito e stava diventando pallida come sua figlia e tutti i bimbi che vivevano in città. Allora la maestra le disse: “Violetta cara se vuoi tornare a casa basta che tu lo dica e noi ti accompagneremo subito, non voglio che ti ammali!” Violetta scoppiò in un pianto dirotto, abbracciò la maestra e disse: “Voi siete tanto cari con me ed io vi voglio bene ma non sopporto i rumori della città, odio l‟odore di sporco che c‟è nell‟aria, e non sopporto di vivere in poco spazio per tutto il giorno!

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Mi mancano i miei prati, gli spazi aperti, l‟aria cristallina e l‟odore di erba bagnata, mi mancano i miei amici animali e la mia famiglia … sì, voglio tornare a casa!” Allora la maestra le disse di non piangere perché la domenica successiva l‟avrebbero accompagnata a casa sua. Finalmente quella notte dormì serenamente e sognò di trovarsi nei campi col fratellino, e con Tuli a saltellare felice dietro agli amici animaletti. Arrivò l'attesa domenica e Violetta fu la prima ad alzarsi per la gioia di tornare a casa. Si misero in macchina e partirono: la strada era tutta sconnessa ma pian piano arrivano a casa sua. Che festa fece tutta la famiglia quando videro Violetta! … com‟era cambiata! Era molto pallida e abbastanza dimagrita, ma la mamma non si preoccupò più di tanto perché sapeva che nel giro di pochi giorni si sarebbe ripresa alla grande con l‟aria salubre della campagna e il buon cibo genuino che le avrebbe preparato! Inoltre la rassicurò dicendole: “tesoro non importa se il papà ti dovrà accompagnare ogni giorno a scuola: a noi interessa solo la tua salute!” Ringraziarono la maestra di quanto aveva fatto per la sua bambina e li invitarono a pranzo nella loro umile casetta senza comodità ma piena d‟amore. Tutti mangiarono con grande appetito … che sapore meraviglioso i cibi genuini!

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Quando giunse l‟ora dei saluti, la piccola Maria non volle tornare a casa: desiderava rimanere lì con la sua amica. Lì, infatti, tutto era bellissimo e c‟era tutto quello che una bambina potesse desiderare: spazi aperti, tanti animaletti, i fiori profumati. Questa volta fu la mamma di Violetta a pregare la maestra di lasciare lì la sua bambina: aveva proprio bisogno per respirare aria pura! Il padre acconsentì e promise di andare ogni mattina a prenderle con la macchina per accompagnarle a scuola e riaccompagnarle a casa: era un sacrificio che valeva la pena fare considerando che la sua bambina ne avrebbe guadagnato in salute. Le due bambine corsero felici nei prati come due caprioli seguite da Narciso e dal cane Tuli. Sapete com‟è andata a finire questa storia? Maria non tornò più in città perché da grande sposò il fratellino di Violetta e vissero tutti in campagna felici e contenti. 145


LA FARFALLA E IL GIRASOLE C‟era una volta, in un giardino grande e ben coltivato, una bellissima casa con una recinzione bianca che si distingueva molto in quel paesaggio tutto verde. La natura era rimasta intatta, non era stata inquinata dai gas della città, l‟aria era pulita e gli alberi respiravano bene e potevano emanare tanto ossigeno puro di cui l‟uomo avrebbe bisogno per vivere bene.

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Questa villetta era dipinta di rosa, con le cornici bianche: sembrava la casa delle fate tanto era bella. In quest‟angolo di paradiso tutto era bello: i padroni di casa e pure gli animali che vi facevano parte! I padroni di casa avevano due figli: una bambina di dieci anni di nome Rosalinda e Andrea, un bambino di sei anni. Avevano entrambi i capelli biondi e ricci avendo la fisionomia della mamma che era una bellissima donna ed era bionda di natura. Il papà, invece, era castano … pure lui era un bell‟uomo. Anche il cane era bello: tutto bianco e col pelo lungo, tanto da assomigliare a una pecora; I conigli erano bianchi così come la gatta, il canarino e le colombe che si alzavano in volo … di colorato c‟era questo solo bellissimo giardino con tanti fiori stupendi di colore variopinto. Il giardiniere ce la metteva tutta per coltivarli bene perché i padroni ci tenevano tanto e per questo lo pagavano bene. In mezzo a tutti questi bei fiori c‟era un girasole che da piccolo si confondeva con le margherite gialle, poi, man mano che cresceva, si distingueva da loro: cresceva sempre più alto, superbo e altezzoso. Il girasole non legava molto con gli altri fiori e non legava nemmeno con le farfalle che si poggiavano su di esso: si scuoteva e le cacciava via.

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Gli altri fiori erano dispiaciuti vedendolo così indifferente e senza cuore e dicevano fra loro: “Ma che razza di fiore è questo? Da dove viene? Si da tante arie come se fosse lui il più bello! Non ha un colore originale ed esclusivo … pure le margherite vestono di giallo come lui, sono della sua stessa razza ed hanno le stesse sembianze”. Allora la margherita gialla rispose: “Sì, apparteniamo alla stessa razza. Noi siamo i parenti poveri, lui quello nobile”. Il girasole, ascoltando tutto quel vociare sempre più animato tra i fiori, decise di abbassarsi e, un po‟ per rimproverarli e un po‟ per difendersi, cominciò a insultare tutti i fiori uno a uno. Disse alla rosa: “Tu che ti dai tutte quelle arie sentendoti la più bella … non sei altro che una civetta spinosa e il tuo profumo non mi piace”. Poi disse al tulipano: “Non vedi quanto sei nano e smilzo mio caro olandesino?” E ancora, rivolgendosi al giglio: “Col tuo bianco candore ti credi di essere migliore? Vieni su con quella bocca aperta piena di pistilli!”. “E voi …” rivolgendosi alle violette: “Siete tutte nane!” Al geranio, invece, disse: “Ti senti forte perché non hai bisogno di tante cure? Sei sempre verde e resistente a tutte le intemperie ma verrà pure per te la fine”.

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E così continuava a insultare tutti i fiori. Quando arrivò ai crisantemi, disse: “Con voi non voglio nemmeno parlare! Portate iella! … sbocciate solo a novembre e ho detto tutto! Poi voglio precisare un‟ultima cosa: se mi alzo più in alto di voi, è perché non sopporto il vostro stupido profumo, sono allergico. Siete vestiti così male che assomigliate a tanti arlecchini con tutti quei colori addosso. Io, invece, sono un fiore serio: il mio vestito è tutto d‟oro e la mia corona crescendo sembra quella dei reali, piena di gemme dure e preziose. Il mio sguardo è sempre rivolto al sole che mi dà la vita e lo voglio ringraziare tutti i giorni seguendolo con lo sguardo”. A un tratto, si sentì un battito di ali: era una bellissima farfalla poggiata su di un giglio che batteva le sue aluccie per applaudire il girasole. “Bravo! Diceva la farfalla, è troppo bello quello che hai detto riguardo al sole, tutti dovremmo fare come te, ringraziarlo perché il sole è vita per tutti e senza il suo calore, niente può esistere, nemmeno l‟uomo. Quello che hai detto riguardo ai tuoi fratelli fiori, invece, non mi piace: sei stato cattivo con loro insultandoli. Lo so che loro ti hanno giudicato un po‟ ma tu sei stato troppo pesante nei loro confronti. Non serve onorare il sole se poi disprezzi chi ti sta intorno e non ami i tuoi fratelli. Così facendo rimarrai sempre più solo e sarai infelice.

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Ricordi quante volte mi hai scacciato via quando mi poggiavo su di te? Avevo fame ma tu mi mandavi via dicendo che ti sciupavo la tua bella corolla mentre gli altri fiori mi accoglievano e mi davano il loro nettare per nutrirmi. Se tutti i fiori fossero come te noi povere farfalline, non esisteremmo più. Guarda come siamo belle colorate: questi colori provengono da voi fiori, che attraverso il vostro nettare ci nutrite; coloriamo i nostri vestiti così allietiamo la primavera svolazzando da fiore in fiore e rallegrando i bambini. Tu, invece, con la tua superbia indurisci sempre di più il tuo cuore e la tua testa diventa sempre più pesante e dura. Ognuno di noi ha un ruolo specifico nella natura: dai tuoi semi si ricava dell‟olio per condire i cibi; le nostre sorelle api lavorano molto per produrre il miele che poi serve ad addolcire tutto; i fiori con il loro profumo e i loro colori rallegrano le persone; i crisantemi, che odi tanto, sbocciano quando tutti gli altri fiori vanno a dormire d‟inverno per dare consolazione; le margherite sacrificano la loro chioma quando l‟uomo scaramantico cerca una risposta ai suoi dubbi d‟amore … ti pare poco tutto questo? Tu, invece, che fai di speciale per dire che sei migliore di noi? Ti giri su te stesso tutto il giorno e ti pavoneggi come fossi il re del giardino disprezzando gli altri fiori.

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Con la loro bellezza, i tuoi fratelli stanno nelle chiese vicino a Gesù, nelle scuole, negli ambienti delle case e con i loro colori e i loro profumi portano tanta allegria. A te, invece, in tutti questi posti non ti ho mai visto. Come mai? Te lo dico io, perché non sei umile, non vuoi bene a nessuno e stai sempre da solo sotto il sole. Senti un mio consiglio, diventa umile e buono con tutti, ama chi ti sta vicino così gli altri ameranno te e sarai più felice”. Il girasole, sinceramente colpito perché mai nessuno gli aveva parlato così sinceramente, si commosse e promise alla farfalla di cambiare e diventare più buono perché era stanco di rimanere sempre solo. Voleva stare insieme con gli altri e godersi la natura che è meravigliosa quando tutti vanno d‟accordo e promise alla farfalla di ospitarla ogni volta che voleva poggiarsi su di lui. La farfalla, a quel punto, volò sul girasole, gli diede un bacio sulla corolla e volò via salutando il girasole: “Ciao amico ti voglio bene!”

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IL LINGUAGGIO DEI FIORI C‟era una volta un giardino ben coltivato con tante aiuole piene di fiori di ogni specie e colore. Come sappiamo, anche i fiori tra loro parlano … così come fanno gli animali, l‟acqua, il vento e tutto quanto si muova nel creato. Ognuno usa un linguaggio diverso dall‟altro: per questo non comunichiamo tutti insieme ... altrimenti sai che confusione! Il Signore ha fatto tutto con grande sapienza! Se l‟uomo capisse il linguaggio degli animali, non li ucciderebbe!

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Così anche gli alberi gridano di dolore a ogni colpo di scure e così ogni essere vivente, quando è reciso, soffre e muore. L‟uomo non si cura di questo, usa tutto per le sue comodità, poiché non capisce i linguaggi del creato. Un giorno in quel giardino incantato, una bimba bellissima, che portava il nome di un fiore, mentre strappava una margherita per fare il solito giochetto “Mi ama, non mi ama‟‟, sentì un lamento di dolore: “Ahi, ahi!‟… che male!” La bambina si girò intorno, non vide nessuno e pensò: “Se non c‟è nessuno, da dove viene questo lamento? Chi ha gridato? “Sono io!” Pronunciò una vocina flebile e piena di dolore. La bambina rispose: “Tu? Chi sei?” “Sono la margheritina, nel palmo della tua mano! Cosa ti ho fatto di male? Perché spenni tutti i petali della mia bella corolla?” La bimba, stupita e spaventata rispose: “Volevo solo fare il giochetto “m‟ama, non m‟ama!‟‟- “E tu … bella e intelligente come sei, pensi che io lo sappia veramente?” disse indispettita la margherita”. Così dicono i grandi!” - rispose la bimba “Sì! … i grandi stupidi! Per questo tante volte ho i petali in numero pari ... Solo per farli arrabbiare! Loro sono cattivi con noi e non sanno dove si trova l‟amore, lo vogliono sapere da una povera margherita indifesa, che sa dov‟è l‟amore, ma non glielo può spiegare perché lo chiedono nel modo sbagliato”.

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“E dov‟è l‟amore?” - Chiese la bambina tutta incuriosita - “A te voglio spiegarlo!” disse la margheritina con voce dolce e riprese: “L‟amore è nel cuore di ogni uomo, ma ciascuno lo tiene sempre chiuso e non apre mai la sua porta per incontrarlo … perché ha paura! Questo perché l‟amore fa cambiare le persone in meglio, ma a costo di sacrifici e dunque loro, anche per pigrizia ed egoismo, preferiscono rimanere cattivi”. La bambina guardò offesa la margherita e disse: “Il mio papà ha aperto questa porta ed ha incontrato l‟amore, perché lui è buono e non fa del male a nessuno”. “E‟ vero!” - disse la margherita – “Non tutti gli uomini sono cattivi: ce ne sono tanti, buoni come il tuo papà, che hanno aperto la porta del loro cuore e vivono insieme all‟amore. Quest‟amore è così grande che possono darne a tutti … proprio come fa il tuo papà che lo dà a te, alla tua mamma, agli amici, perché vuole che tutti intorno a lui siano felici … l‟amore è questo: è felicità! Lui lo dà anche a noi! Vedi come ci cura? Noi cresciamo bene perché il tuo papà con tanto amore ci dà la giusta acqua, le vitamine, ci difende dai parassiti, ci cura quando siamo malate … Questo è l‟amore!” Tutti gli altri fiori che stavano lì, sfoggiando i loro colori stupendi sotto il sole, applaudirono con le loro foglie gridando: “Brava margheritina!

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E bravo anche il tuo papà perché ci vuole molto bene!”. Poi la margherita chiese alla bambina: “Tu, come ti chiami?” “Margherita!” – rispose – “Che coincidenza! Sono la pianta preferita del tuo papà ... forse per questo ti ha messo il mio nome!” - disse felice la margherita e poi riprese: “E tu? … Vorresti che qualcuno ti strappasse i capelli per chiederti mi ama o non mi ama?” – “No di certo! Sentirei molto dolore!” – “Allora”, disse la margherita, “Questo gioco non lo fare mai più! Dillo anche alle tue amiche e, se sono intelligenti, capiranno!” – “Te lo prometto!” - disse la bimba – la margherita finì il suo discorso dicendo: “Ora mettimi vicino alla mia famiglia, così mi riprenderò e dal seme e dalla mia corolla rinascerò e sarò più bella di prima!” La bambina riprese in mano la margheritina un po‟ spennacchiata, si abbassò pian piano per non farle del male e la poggiò sul terreno, vicino alla sua numerosa famiglia. Un piccolo venticello che passava di lì per caso, scosse tutte le piante del giardino creando un forte applauso di ringraziamento. La Margherita bambina stava per allontanarsi quando si sentì chiamare: “Margherita! Margherita!” Si voltò e non vede nessuno. Poi capì che le voci provenivano da un cespuglio di rose.

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“Siamo noi, Margherita! Siamo pronte per essere colte: scegli tra noi le più belle e portale in chiesa da Gesù. É vicino a lui che vogliamo stare!” – “No!” - rispose la bambina – “Non lo farò! Perché se vi taglio, morirete ed io non voglio farvi del male” – “È vero!” - dissero le rose – “Ma saremo contente di morire vicino a Gesù, dopo avere profumato con il nostro odore la casa dell‟amore. Dentro quella piccola porticina sull‟altare … lì abita l‟amore che esce per entrare nel cuore degli uomini!”. Margherita fece allora proprio come avevano chiesto le rose: scelse le più belle e le portò in chiesa vicino a Gesù. S‟inginocchiò e pregando chiese: “Gesù, manda l‟amore nel cuore di tutti gli uomini … fa che siano tutti buoni come papà, come la mia mamma. Fa che nessuno tenga chiusa la porta del suo cuore, ma la tenga spalancata, in modo che l‟amore entra ed esca come vuoi Tu … E soprattutto fa che i bambini non procurino del male ai fiori e i grandi non recidano gli alberi, non facciano del male agli animali e a tutto quello che si muove sulla Terra. Fa che tutti si vogliano bene e capiscano che la natura va rispettata e che il profumo delle rose accompagni le preghiere dei bambini fino in cielo” 156


Margherita si alzò per andarsene e vide dietro di lei il suo papà con le lacrime agli occhi perché aveva ascoltato la preghiera della sua bambina ... la prese in braccio e le disse: “Finché ci saranno bimbe come te al mondo, puoi star sicura che trionferà l‟amore!”

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NONTISCORDARDIME C‟era una volta una bambina che amava tanto i fiori. Il suo nome, perfino, ne ricordava uno molto bello: Rosa. Un giorno disse alla mamma: “Mammina, voglio andare nel bosco a raccogliere le violette per portarle alla mia maestra domani a scuola!” La mamma non voleva concederle il permesso e diceva: “Ti potresti fare del male ed io purtroppo non ho il tempo per accompagnarti: devo preparare il pranzo.” La bambina, tuttavia, supplicò tanto la mamma (guardandola contemporaneamente con quei suoi occhi color cielo) che questa non riuscì a dire di no.

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La strinse a se, le diede un bacio forte e la lasciò andare. La bambina, felicissima, si mise a correre mentre la mamma la seguiva con lo sguardo gridandole mille raccomandazioni: “Stai attenta! Non farti male! Attenta a non finire dentro il ruscello!” Le violette, infatti, crescevano proprio agli argini del ruscello. La bambina, correndo come una gazzella, non sentiva le raccomandazioni della mamma: correva e cantava come un usignolo! Era primavera e tutti i prati erano in fiore, i monti e le valli erano rivestiti di verde, tappezzati qua e la di vari colori: il bianco delle margheritine, il giallo delle ginestre, il rosso dei papaveri e tanti, tantissimi altri colori. Era come assistere a un‟esplosione meravigliosa della natura che, nel suo risveglio, faceva balzare tutte le creature fuori: gli animaletti, che avevano sofferto il freddo rannicchiati nelle loro tane durante un inverno duro … e anche gli uomini che finalmente uscivano dalle loro fredde case per andare nelle campagne e preparare i campi alla semina e godersi così le belle giornate tiepide sotto il canto degli uccelli che porta tanta gioia. Tutta la natura era una dolce armonia che vibrava nell‟aria come una lode al Signore per tutte le cose belle che aveva creato.

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La mamma uscì fino al cancello e seguì con lo sguardo la bambina finché non uscì dal suo campo visivo, quindi scrollò la testa e tornò in casa. Era tanto felice e si sentiva fortunata perché il Signore le aveva mandato quella bambina tanto bella e vivace. La bambina era sempre allegra, voleva tanto bene alla mamma e al papà e voleva tanto bene anche alla mucca che lei chiamava Za-Zà invece di Zanzara come la chiamavano i suoi genitori. Aveva un cagnolino tutto suo: era così piccolo che lo aveva chiamato Spillo. Il nome che aveva lei non le piaceva tanto e neanche il fatto che non poteva cambiarlo … avrebbe barattato volentieri Rosa con Rotolina, come la chiamavano scherzosamente i vicini di casa, i suoi cuginetti e quasi tutti gli amici del villaggio. L‟origine del suo soprannome non era un mistero per nessuno: in primavera, appena i prati si vestivano di verde, correva a rotolarsi giù dalla vallata! Quei prati erano troppo invitanti per quel tipo di sport! Pure Spillo la seguiva e si rotolava abbaiando felice … era il gioco più bello e divertente che facesse con la sua padroncina! Tutto questo non succedeva solo in primavera: anche d‟inverno, quando i prati erano ricoperti di neve, le veniva voglia di rotolarsi sui quei tappeti che non erano più verdi ma bianchi e soffici come la ricotta che faceva il papà col latte della mucca Za-Zà!

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E così anche quel giorno, rotolando rotolando, la bambina arrivò vicino al ruscello per raccogliere le violette da portare alla maestra. Le farfalle facevano festa, gli uccellini la deliziavano con i loro canti armoniosi e Za-Zà era lì al pascolo che scacciava le mosche sbattendo la coda e scrollando la testa, facendo così suonare il campanaccio che teneva appeso al collo. A lei quel suono piaceva così tanto che lo ripeteva: “Dlen Dlon, Dlen Dlon!” Mentre raccoglieva le violette, si spostò di un passo e sentì vicino a lei dei lamenti. Pensando fosse il suo cane, lo accarezzò e gli disse di stare buono, ma il cane la guardò negli occhi come per dirle: “Non sono io a lamentarmi!” Ma lei continuò a dirgli: “Non piangere Spillo! Ci sono io con te. Vuoi che torniamo a casa?” Ma i lamenti non erano di Spillo: venivano da sotto i suoi piedi! La bambina alzava i piedi e i lamenti cessavano, li poggiava a terra e sentiva: “Ahi, ahi, che male!” Stupita, si abbassò con le orecchie rivolte a terra: “Per favore, volete dirmi chi siete? Io non ho paura, sono una bambina coraggiosa!” Mentre diceva così, in realtà, tremava un po‟. Una vocina esile e delicata rispose: “Sono io, siamo noi, i fiorellini rosa blu e viola, vedi quanto siamo piccini? Siamo sotto queste erbe e questi rovi che ci coprono alla vista di tutti!

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Nessuno ci raccoglie per abbellire le cattedre delle maestre o gli ambienti delle case … ci calpestano tutti e noi soffriamo molto; ti prego fai qualcosa per noi, siamo cosi aggrovigliati che quasi soffochiamo!” La bambina stava lì a bocca aperta e non sapeva cosa fare, li accarezzava e cercava di liberarli da tutte quelle erbacce che li soffocavano per fare finalmente respirare anche a loro quell‟aria di primavera. Le vocine si facevano sempre più numerose e dicevano: “Grazie Rotolina! Siamo felici che ci hai scoperto, adesso cosa farai con noi?” La bambina con aria pensosa disse: “Fatemi immaginare qualcosa.” Poi, rivolgendosi al cane disse: “Ho un‟idea! Li portiamo con noi a casa!” Ma i fiorellini più piccini dissero: “Come farai a raccoglierci? Il nostro stelo è così delicato! Siamo troppo piccoli per essere raccolti.”. Ma la bambina rispose: “Non dovete avere paura: non vi staccherò l‟uno dall‟altro, ma vi prenderò tutti assieme sollevando la zolla di terra e vi pianterò nel mio giardino: vi curerò come faccio con tutti gli altri miei fiori e sarete i miei preferiti!” Rotolina fece come promesso e s‟incamminò verso casa trotterellando felice e contenta. Cantava assieme agli uccellini che le svolazzavano intorno e saltellava con il suo cagnolino Spillo.

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Pure la mucca, al loro passaggio, li salutò con un: “Muuuuuu!” più allegro del solito. Rotolina disse a Za-Zà: “Hai visto? Abbiamo nuovi amici!” Tutto sembrava più bello, anche il “cri – cri” dei grilli sembrava più festoso! Intanto la mamma era in pensiero per la sua bambina che ancora non era tornata e s‟incammino per cercarla. Strada facendo li chiamava: “Rotolina! Spillo! Dove siete?” La bimba finalmente si rese conto che era passato tanto tempo da quando si era allontanata da casa e che la mamma doveva essere sicuramente in pensiero: cominciò a correre verso casa e sentì la voce della mamma che la chiamava. Gridò per rispondere: “Siamo qui, non preoccuparti!” Finalmente la mamma la vide e le corse incontro. Quando cercò di abbracciarla, si accorse che aveva le mani piene di terra e di tanti fiorellini. La mamma non le chiese nemmeno cosa fossero: anche lei li aveva notati da piccola ma li aveva lasciati dove Madre Natura li aveva messi. Rotolina, invece, non aveva avuto il coraggio di lasciarli lì per paura che qualcuno li calpestasse: addirittura ci parlava con quei fiori … sembrava capire il loro linguaggio! Arrivati a casa, prese le zolle con i fiorellini che aveva raccolto e li piantò in un angolo del giardino, dove prese a curarli con amore e tanta attenzione.

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Col passare del tempo, i fiorellini crescevano con lo stelo più lungo ma si piegavano facilmente con i loro piccoli petali, erano tristi e pallidi, non erano rubicondi e colorati come li aveva visti nel bosco. La bambina era disperata, allora la mamma le disse: “Vedi figlia mia, ogni essere vivente ha il suo ambiente giusto dove poter vivere. I tuoi fiorellini non sono più piccini come quando li hai visti al ruscello: sono cresciuti ma sono pallidi e non hanno più il loro vero colore perché le erbe che li aggrovigliavano li proteggevano dai raggi del sole e da tutte le intemperie perché sono molto delicati. Qui, invece, sono molto esposti e a niente servono le tue cure. I tuoi fiorellini qui sono molto infelici”. A quel punto la bambina, con un gran nodo in gola, capì che la mamma aveva ragione e pensava a quanto potesse essere triste se qualcuno la portasse a vivere in un altro posto, lasciare le sue belle colline, il suo cagnolino, la sua mucca, la capretta, il canto degli uccelli e dei grilli ... non poteva desiderare un altro posto! Con l‟aiuto della mamma prese di nuovo i fiorellini con tutte le zolle e li riportò al ruscello per metterli dove li aveva trovati. Una volta rimessi al loro posto, vicino al ruscello, li accarezzò dolcemente e si allontanò piangendo perché erano diventati così mosci che temeva per la loro stessa vita.

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La mamma la baciò e le disse: “Vedrai bambina mia come saranno contenti ora i fiorellini perché il tuo gesto d‟amore e il loro ambiente naturale li farà crescere ancora più belli. Potrai venire a trovarli quando vorrai perché loro saranno sempre i tuoi amici.”. Rotolina e Spillo andavano quasi tutti i giorni a trovare i fiorellini e a dialogare con loro. Un giorno la bambina chiese a un fiorellino: “Allora … com‟è la differenza tra il giardino ordinato e i rovi tutti affollati? “Cara Rotolina …” rispose felice il più grande dei fiorellini (che intanto erano tornati alla loro originaria bellezza) “Il giardino è splendido anche grazie a te che sei una bravissima giardiniera … ma le tue manine, per quanto amorose, non potrebbero mai proteggerci dal sole e dalle intemperie!” “Voglio importi un nome!” disse felice Rotolina – “come vuoi che ti chiami?” Il fiorellino rispose prontamente: “Non ti scordar di me! Ti piace?” “Molto!”, rispose la bambina, e vissero tutti felici e contenti.

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LA NONNA INFELICE C‟era una volta una nonna. Cosa c‟è di strano direte voi? Di nonne ce ne sono tante … il mondo è pieno di nonni! Questa era però particolare: quando era piccola, voleva molto bene alle vecchiette perché lei non aveva i nonni come tutti gli altri bimbi … purtroppo erano andati tutti in cielo troppo presto. Gli altri bambini la prendevano in giro per questo, e le chiedevano sempre: “Dove sono i tuoi nonni?” Melina, così si chiamava la bambina, non aveva più voglia di ripeterlo: ogni volta sentiva una fitta al cuore al pensiero che lei non aveva conosciuto neanche uno dei suoi nonni e non aveva sperimentato quel dolce sentimento di affetto che solo i nonni – pensava – sapevano regalare.

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La mamma ogni volta le ripeteva: “Figlia mia … i tuoi nonni sono morti giovani prima che tu nascessi: figurati il mio dolore e quello del tuo papà quando abbiamo perso i nostri genitori ancora giovani … ma la vita è così purtroppo! C‟è chi vive cento anni e invecchia insieme ai figli e ai nipoti e c‟è chi non ha il tempo neppure di conoscerli”. La bambina piangeva sentendo tutto questo e, guardando la mamma con sguardo serio e deciso disse: “Mamma da grande voglio adottare una nonna. La crescerò come un bambino piccolo: l‟aiuterò a lavarsi, a pettinarsi, le metterò tanti fiocchetti colorati in testa. La mia nonna dovrà essere la più bella di tutte così i bambini ne saranno invidiosi!” La mamma ascoltava con pazienza tutte quelle fantasie e cercava di assecondarla: la vedeva così contenta che non aveva il coraggio di dirle che erano desideri di una bambina e che non si potevano mai realizzare. La lasciava cullare nei suoi pensieri pensando fra sé: “Cresci bambina mia e poi vedrai che saranno altri i tuoi desideri altro che adottare una nonna!” La stringeva teneramente a se baciandola con dolcezza; la bambina corse fuori con la sua bambola di pezza fra le braccia e si unì al gruppo dei suoi amici per giocare assieme a loro.

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Era un piccolo paese di montagna dove d‟inverno le vecchiette prendevano il sole sedute sui gradini delle case, si sedevano a gruppetti e ognuna faceva un lavoretto: chi faceva la calza, chi filava, chi pettinava la nipotina facendole le trecce e chi teneva avvolto sotto lo scialle qualche nipotino piccolo per fargli prendere un po‟ d‟aria tiepida (allora non c‟erano i riscaldamenti in casa e la mattina, se c‟era il sole, approfittavano di quel calore per risparmiare un po‟ di legna che magari utilizzavano per cucinare). La vita era molto diversa allora e forse più bella di oggi: tutta la famiglia si riuniva intorno al fuoco per recitare il rosario, per raccontare le favole ai bambini che si addormentavano sereni cullati dalle voci familiari. Tornando alla piccola Melina, occorre sapere che - fin quando si svegliava la mattina – aveva il pensiero della comare Teresa: una vecchietta simpatica e allegra che abitava di fronte a casa sua. Dopo aver fatto frettolosamente colazione, correva subito a farle visita. La comare Teresa, felice della sua premura, le conservava le castagne, i fichi secchi e qualche caramella che la bambina accettava allegramente. Era felicissima quando comare Teresa le conservava il melograno che a lei piaceva tanto.

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Melina passava delle ore con questa vecchietta: la aiutava nei piccoli lavori di casa e le andava a prendere l‟acqua alla fontana che si trovava all‟inizio del paese. La mamma di Melina ogni tanto la rimproverava dicendole: “Possibile che a te piace stare più con i vecchi che con i bambini della tua età?” Lei rispondeva: “Sì mamma, perché le persone anziane hanno tante storie da raccontare e a me piace ascoltarle … mi secca giocare sempre agli stessi giochi!” Nonna Teresa aveva quattro nipotini che andavano di rado a trovarla e la vecchina diceva sempre a Melina: “La mia vera nipote sei tu che mi vieni a trovare ogni giorno: quando sarai grande, verrò a stare in casa tua così adotterai me!” Intanto la bambina cresceva e, pian piano, cominciava ad avere altri interessi e parlava sempre più di rado di adottarsi una nonna, però l‟affetto per le vecchiette rimaneva sempre ben radicato in lei. Fortunatamente, quando nonna Teresa morì, lei era abbastanza grande da capire che “chi nasce deve pure morire, non può rimanere sempre su questa terra!”: erano queste le parole che la mamma doveva ripeterle ogni volta che moriva qualcuno, infatti, lei piangeva come se fossero tutti suoi parenti: si dispiaceva per tutti.

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Da grande Melina si sposò e andò a vivere al paese del marito lasciando la sua famiglia, la sua casa, le sue abitudini, le sue vecchiette. Lei soffrì molto perché voleva bene a tutti e stare lontano era doloroso per lei. Ogni tanto ritornava al paese per trovare la sua famiglia e le facevano tutti festa perché lei era stata buona con tutti. Melina era oramai una mamma di famiglia e la sua vita era cambiata ma ancora non era cambiato il suo desiderio di avere dei nonni. Prima di sposarsi aveva sperato che almeno il futuro marito potesse avere dei nonni da coccolare … ma quello che sposò non ne aveva, neanche lui, nemmeno uno! Allora pensava di dare il suo affetto ai suoi genitori e ai suoceri che sarebbero diventati i nonni dei suoi figli. Il tempo era volato e la piccola Melina era diventata lei stessa nonna di sette nipoti: quattro maschi e tre femminucce. Quanto li amava questi suoi nipotini! Giocava con loro, gli raccontava le favole, tentava di diventare nello spirito piccola e allegra come loro e i suoi nipoti le volevano un sacco di bene perché lei li accontentava in tutto e pensava: “chissà se i miei nonni si sarebbero comportati così anche con me?” E tornava indietro nel tempo quando era infelice perché desiderava tanto avere dei nonni e doveva accontentarsi di coccolare i nonni degli altri.

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La storia era cambiata perché la povera nonna Melina voleva ora adottarsi dei nipoti, eh già! I suoi nipoti si erano, infatti, trasferiti nelle grandi città assieme ai loro genitori. Se da piccola le mancavano i nonni quanto più adesso, le mancano i nipotini che aveva tanto coccolato e amati: adesso, sola e infelice, si doveva accontentare di sentirli per telefono e per lei che si sentiva una nonna speciale, era troppo poco. Il suo cuore e il suo pensiero erano sempre in viaggio per arrivare lì dove c‟erano i suoi nipotini per giocare insieme con loro. Il suo cuore, il suo pensiero erano di nuovo quelli nostalgici della piccola Melina non della vecchia nonna: ancora una volta le mancavano delle figure da amare. Melina si accontentava ancora una volta di figure supplenti: passava il tempo con i bambini di una sua vicina di casa come da bambina passava il tempo con nonna Teresa.

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LA TIGRE DI PELUCHE In una stanzetta di bambini ormai cresciuti, c‟erano ancora dei giocattoli sparsi un po‟ dappertutto. Era la stanza di due fratellini: il primo, molto cresciuto, si era sposato e aveva avuto due bambini: un maschietto e una femminuccia; l‟altro, anche lui grande, era ancora solo fidanzato. Quest‟ultimo aveva un debole per gli animali di peluche, per questo ne teneva ancora nella sua stanza parecchi. La mamma, dopo che il primo fratello si era sposato, nel risistemare la stanza, aveva portato via parecchi peluche: non servivano più!

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Damiano, così si chiamava il ragazzo, non ne volle proprio sapere di separarsi da una famiglia di cani, da un babbo natale di stoffa, da un panda, un orsacchiotto, un topolino e una tigre, che aveva il privilegio di stare sempre vicino a Leo: un superbo leone giallo con criniera e coda marrone … Erano stati e rimanevano i suoi peluche preferiti! La povera mamma supplicava invano il figlio per convincerlo a togliere i peluche dalle loro ventennali postazioni strategiche e a portarli in cantina assieme agli altri giochi. Perché, diceva la mamma: “Altro non sono che raccoglitori di polvere! … E tocca a me spolverarli!‟‟ Ma il ragazzo li voleva tenere lì, per far giocare i nipotini quando arrivavano a casa della nonna. I nipotini di Damiano erano quattro: Luca, Gennaro, Giuseppe e Barbara, la più piccola. Il più grande aveva dodici anni e la più piccina solo tre. Quando erano tutti più piccoli, si divertivano molto a giocare con questi animali, perché lo zio Damiano dava loro la sua voce e li animava, muovendoli come se fossero stati animali veri. I bambini si divertivano un mondo, ridendo a più non posso. Una volta cresciuti, i bambini preferivano ormai giochi molto più complicati: robot che camminavano, bambole che parlavano, video giochi, macchine telecomandate e tanti altri.

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Ora cosa facevano gli animaletti dello zio? Erano pur sempre dei bei giocattoli, grandi da sembrare veri cuccioli! I bimbi non li volevano più. Così rimanevano fermi lì sui mobili ed erano tanto tristi. Si sentivano rifiutati dai bambini … eppure una volta riuscivano a tenerli allegri e a farli felici! Quante volte si erano lasciati accarezzare e stringere tra le loro braccia … e quante volte avevano anche accettato di farsi spelacchiare! E adesso? Adesso restavano lì accovacciati: chi sui libri, chi sugli scaffali. Un giorno la tigre e il leone, che erano posti strategicamente su una vetrina-libreria molto in alto, vicino a una fisarmonica, cominciarono a parlare. Leo incominciò: “Su con la vita! Stai allegra! Non fare quella faccia. Perché sei sempre triste? Abbiamo fatto il nostro tempo, no? É così che va la vita! Ora sono altri tempi, altri giocattoli! La tigre piangeva e non ascoltava le belle parole che Leo le diceva: “Cosa ti manca?” - Continuava a ripeterle Leo – “Pensa agli animali della foresta, che sono sempre in pericolo con i cacciatori sempre pronti ad ammazzarli, per avere le loro pelli. Noi siamo fortunati! Nessuno vuole le nostre pelli, anzi, c‟è pure chi ci spolvera! Che cosa vuoi di più? Guarda gli amici cani come sono felici! Stanno lì, buoni e non si lamentano mai!”

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Ma la tigre, tra un singhiozzo e l‟altro disse a Leo: “Sì, lo so che sono felici, perché loro sono una famiglia! Io sono sola, mi mancano i bambini che non sono più miei amici! Quando giocano tra loro, non mi degnano nemmeno di uno sguardo. Io li chiamo e gli dico: Ehi bambini! Sono qui! Prendetemi che voglio giocare con voi! Mi sentite? Sono la tigre! La vostra amica … ma loro fanno finta di non sentire e continuano a giocare con quegli stupidi giochi strizzacervello. Poverini, che pena mi fanno!” - Poi riprese: “Che cosa possiamo fare per salvare i nostri bimbi da questi stupidi giochi? Loro non sono contenti, non li vedo ridere mai! Tu che sei il più forte, che sei il re della foresta, distruggi tutte quelle piccole scatolette che mandano quell‟orribile suono sottile che disturba il cervello e quelle lucine che corrono all‟impazzata, da una parte all‟altra, facendo male agli occhi! Tutto questo i bambini non lo sanno e dobbiamo fare noi qualcosa prima che sia troppo tardi!” Ma il leone paziente disse alla povera tigre: “Che cosa può fare la forza di un leone di peluche, contro i giochi complicati di questi bambini? É come affrontare un cacciatore!” - “Hai ragione!” - rispose il panda con l‟accordo degli altri animali - Ci dobbiamo rassegnare!

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Quando i bambini ci mettono da parte, è segno che sono cresciuti e hanno bisogno di altri giochi. Noi siamo sempre utili, perché ci sono sempre bambini piccoli, che vogliono giocare con noi!” Allora la tigre dopo una piccola riflessione disse: “Avete ragione! Non ci avevo pensato! Verranno ancora bambini piccoli in questa famiglia e soprattutto i futuri figli del nostro domatore Damiano! Ci sarà ancora tanto da giocare! Sono proprio felice! Grazie amici miei di avermi aiutato in questo triste momento”. Il leone finalmente sorrise, con quel suo musetto nero e i suoi baffetti: “Che ti dicevo, mia bella tigre? Tutte le cose complicate si rompono subito. Noi non ci rompiamo mai! Noi duriamo nel tempo e continuiamo a giocare con i figli, come abbiamo fatto con i loro genitori!” “Bravo!” - rispose l‟orsacchiotto – “Voi sapete che parecchi bambini si affezionano a noi tanto, che qualcuno da grande ci porta con sé sempre e non riescono a dormire senza di noi accanto?” “É vero!” risposero tutti gli altri in coro. “Bene!” sentenziò il leone – “Adesso che siamo più sereni e pieni di fiducia, che ne dite di festeggiare un po‟?” “Sì, sì!” - risposero tutti in coro – “Suona la fisarmonica Leo! Noi accompagneremo le canzoni, cantando allegri e felici!” C‟era anche un galletto-marionetta, in un angolino, che era stato zitto tutto il tempo.

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Era nero, con le piume di tutti i colori. A un certo punto si mise a saltellare in mezzo alla stanza ... era il galletto ballerino (che già era stato il famoso pulcino ballerino!). Lui conosceva tanti passi di danza, che Damiano gli aveva insegnato per far divertire i nipotini. “Ballate con me!” - diceva il galletto tutto contento – “Siamo noi i veri amici dei bambini. Gli animali, non gli apparecchi elettronici! Noi abbiamo un cuore che pur di stoffa sa amare più di tutti i giochi moderni perché sono freddi e inanimati!” Così dicendo gli animali di peluche aprirono le danze e ballarono tutta la notte. Quando l‟indomani la mamma di Damiano andò a riordinare la stanza, vide la tigre sul pavimento che troppo stanca e stremata non aveva avuto le forze per tornare al suo posto. Così la prese, la spolverò e la ripose al suo posto, vicino al caro Leo. La tigre sorrise dolcemente e si riaddormentò serena.

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LUIGINO E LA SVEGLIA Luigino era un bambino vispo e intelligente: era figlio unico e per questo un po‟ viziato. La mamma lo accontentava in tutto, il papà un po‟ di meno. Diceva sempre alla moglie: "Vedi? Se tu lo accontenti in tutto da grande non sarà un ragazzo ben educato e la gente incolperà noi. Tu pensi che a me faccia piacere negargli a volte delle cose? Oppure sgridarlo quando combina le marachelle? In realtà lo faccio per il suo bene, in modo che capisca cosa si può fare e cosa no.

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Se tu darai lui tutto quello che desidera, non saprà mai apprezzare fino in fondo, ciò che la vita può offrirgli. "La mamma ascoltava un po‟ rattristata perché voleva troppo bene al suo bambino. Il papà aveva ragione. Luigino voleva un gran bene ai suoi genitori, ma di più alla mamma (come quasi la maggior parte dei bambini perché le mamme, si sa, sono più tenere e più accondiscendenti). La maggior parte di esse, infatti, dedica quasi tutto il suo tempo ai propri figli, aiutandoli in tutto: dal preparare loro la colazione al mattino fino al momento della nanna la sera, quando sono pronte a rimboccargli le coperte dopo avergli raccontato una favola che li lasci col sorriso sulle labbra e aver loro dato quel bacio sulla fronte che li possa accompagnare serenamente in qualche bel sogno. Spesso i papà tutto questo non possono farlo perché svolgono lavori molto impegnativi che assorbono tutto il loro tempo. Il papà di Luigino era, per l‟appunto, un avvocato; la mamma era maestra. Dopo la nascita di Luigino la mamma decise di lasciare l‟insegnamento perché preferì restare a casa per crescere il suo bambino: licenziò la cameriera e badò lei a tutto. Lei era soddisfatta perché il suo „ranocchietto‟ (come chiamava Luigino), cresceva pieno di salute e con un cuore generoso che voleva a tutti bene.

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Aveva un sacco di amici che portava a casa e faceva giocare con i suoi tanti giocattoli. Facevano merenda con lui e spesse volte li invitava a pranzo. La mamma era felice di tutto questo; anche lei era affezionata agli amichetti del suo „ranocchietto‟ e gli preparava tanti dolcetti, i preferiti dei bambini! Erano contenti anche i genitori di tutti quei bimbi perché da Luigino stavano molto bene. Avevano anche la maestra gratis che li aiutava a fare i compiti! Il primo anno di scuola Luigino lo affrontò con entusiasmo: si alzava appena la mamma lo chiamava, faceva colazione e via di corsa a scuola! Il secondo anno, l‟entusiasmo si era affievolito e non gli piaceva alzarsi presto la mattina, specialmente d‟inverno, quando fuori faceva molto freddo o c‟era la neve. Era troppo duro lasciare il calduccio del suo lettino per uscire. Lui pensava: “Perché mi devo alzare e andare a scuola con questo freddo? La mia mamma è maestra e mi farà scuola lei, senza dover uscire da casa”. La mamma gli diceva: “Vedi Luigino, tutti i figli delle maestre vanno nelle scuole a studiare, non hanno nessun privilegio rispetto agli altri bambini. Sono tutti uguali e c‟è per tutti la scuola dell‟obbligo, altrimenti si va contro la legge!

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Io ti posso solo aiutare per essere più preparato, ma tu non ne hai bisogno perché sei già bravo e volenteroso”. La mamma lo strinse forte a se e lo baciò teneramente. Luigino diventava ogni giorno più pigro e arrivava sempre in ritardo a scuola e la mamma si vergognava un po‟ con le sue colleghe che però capivano quanto lei fosse disperata e che cercavano di aiutarla. Un giorno Luigino le disse: “Mamma, tu sai quanto ti voglio bene, quanto amo la tua dolce voce durante il giorno che è musica per me, specialmente quando pulisci casa e canticchi quelle canzoni che ti piacciono tanto. La mattina, quando sento la tua voce che mi chiama per alzarmi, non mi sembra più quella voce che io amo tanto: pare quella di un‟estranea che non vorrei sentire‟‟. La mamma rimase male e disse: “Cosa devo fare?‟‟ Ne parlò con il marito che trovò subito la soluzione: “Compreremo a Luigino una simpatica sveglia e gliela regaleremo per il suo compleanno, così non sarà più la tua voce a svegliarlo, ma ci penserà lei!‟‟ Arrivò il compleanno di Luigino e, in mezzo a tanti regali, trovò una piccola sveglia giocattolo che a lui piacque tanto. La mamma disse: “La terrai sul tuo comodino, così la mattina sarà lei a svegliarti: vedrai sarà più bello e la sera ti addormenterai col rumore del suo ticchettio.

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Ormai sei un bambino grande e avrai la tua sveglia personale. Vedi? Anche papà la tiene sul suo comodino!” Luigino si sentì importante: aveva una sveglia tutta sua e la sera non vedeva l‟ora di andare a letto per stare da solo con la sua sveglia. Mettendosi a letto la sera, invece di “contare le pecorelle‟‟, si ritrovò a contare i tocchi dei secondi, fino al momento in cui si addormentò dolcemente. La mattina, però, il risveglio non fu così dolce: il suono della sveglia lo spaventò a tal punto che aveva il cuore in gola e gridò con quanta voce aveva: “Mamma, Mamma! … Aiuto!‟‟ La mamma corse nella stanza e lo trovò tutto tremante e spaventato. “Calmati amore mio!‟‟ - diceva la mamma – “Non è successo niente! Ti prego calmati, è soltanto la sveglia! Ha suonato per svegliarti e avvisarti che è ora di alzarti e prepararti per la scuola. Luigino era così spaventato che la mamma decise di farlo rimanere a casa, perdendo un giorno di scuola. Era il primo giorno di assenza che faceva, dato che - seppur arrivasse ogni giorno in ritardo - non aveva mai saltato un giorno di scuola. Allora la mamma cercò di spiegargli l‟utilità della sveglia: “Vedi bambino mio? Una volta la gente si alzava al canto del gallo per andare nei campi a lavorare. Poi hanno inventato la sveglia che tu puoi regolare a qualsiasi ora per farla suonare.

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E‟ molto comoda e si trova in ogni casa: non tutti potevano avere un gallo per svegliarli ogni mattina e, soprattutto, cantare all‟ora desiderata! Il gallo canta solo la mattina all‟alba e poi basta. Invece quest‟aggeggio suona ogni volta che vuoi. Vogliamo farla suonare fra mezz‟ora?‟‟ Ma Luigino rispose: “Ti prego mamma, lasciala stare! Sento ancora il suo rumore che mi rimbomba nelle orecchie e non la sopporto! Voglio che la mattina mi svegli la tua voce soave e dolce e non quello squillo pazzo e rumoroso della piccola sveglia fredda e indifferente. Io ho bisogno, soprattutto la mattina, delle tue coccole … Ho bisogno delle tue braccia quando esco dal calduccio del mio lettino … Ho bisogno del tuo abbraccio! Ti prego mamma, svegliami come sempre ed io ti prometto di alzarmi subito e di non fare più tardi a scuola.‟‟ La mamma lo abbracciò e lo rassicurò che tutto sarebbe tornato come prima: lo avrebbe svegliato lei con i suoi baci invece di quel fastidioso suono della sveglia. Il piccolo oggetto rimase lì come solo soprammobile per ricordare la promessa che aveva fatto alla sua mamma.

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MARIA LUCE “Buongiorno signora, come sta? Vado a fare la spesa, le serve qualcosa?” Va bene, va bene! Gliela porterò. I bambini? Oh signora mia come sono cattivi! Piangono sempre e non mi lasciano far niente: adesso stanno dormendo e ne approfitto per andare a fare la spesa. Scommetto che si sveglieranno presto! Arrivederci signora, arrivederci!”

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Maria Luce era la bimba della famiglia Rossi del quinto piano, giocava sempre da sola sul balcone e faceva finta di parlare con una signora come fanno tutti i bambini della sua età quando s‟inventano un amico immaginario. La signora che stendeva i panni al piano di sotto, sentendo quella vocina dolce e piena di tenerezza le rispondeva come se fosse la sua compagna di giochi. Maria Luce, quando si è accorse che la signora del piano di sotto ascoltava le sue conversazioni immaginarie, cercò di entrare di corsa in casa perché si vergognava un po‟ … non aveva molta confidenza con la signora e poi era una persona anziana: che centrava con i giochi dei bambini? Intanto la signora continuava a stendere e faceva finta di giocare pure lei, diceva: “Vede signora? Ho tanto da fare anch‟io, devo cucinare, lavare, stendere, lavare i piatti e tante ma tante altre cose … sono veramente stanca!” La bambina guardava con gli occhi sgranati e il visino schiacciato contro i ferri del balcone e la bocca aperta come se avesse visto un fantasma. La signora per toglierla dall‟imbarazzo e tranquillizzarla le disse: “Maria Luce vuoi giocare con me? A me piace tanto giocare con i bambini, lo faccio sempre con i miei nipotini e loro sono contenti.”. La bambina annui con la testa e così continuarono a giocare “Alle signore”.

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Da quel giorno le due diventarono amiche e quando Maria Luce usciva sul balcone a giocare chiamava sempre la signora che pure avendo tanto da fare, sentendo quella vocina dolce, non riusciva a negare un momento di compagnia alla bambina. La signora, nonostante l‟età, si manteneva giovane e sapeva stare con i bambini, aveva un debole per loro e voleva renderli felici. Infatti, non solo i suoi nipotini le volevano bene ma anche i bambini dei vicini e tutti gli altri bambini che la incontravano, perché la signora trovava sempre dei giochi nuovi per intrattenerli. Maria Luce si sentiva troppo sola, era figlia unica e i genitori non potevano darle un fratellino o una sorellina perché la mamma aveva avuto dei problemi quando era nata lei. Povera bambina! Soffriva tanto a giocare da sola: era molto intelligente e sensibile, quando gli altri bambini del palazzo scendevano sotto a giocare a pallone, lei era sempre lì, con la testa conficcata nei ferri del balcone a seguire con lo sguardo la palla che i bambini felici e chiassosi rincorrevano saltellando qua e là. Sembrava un uccellino in gabbia che ascoltava il cinguettio degli altri uccellini che svolazzavano liberi nell‟aria passando da un albero all‟altro e fischiettando dolci melodie.

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L‟uccellino che stava rinchiuso nella “gabbia” del balcone ogni tanto rispondeva con piccoli cinguettii che non erano però canti felici bensì piccoli lamenti. Sembravano, anzi, proprio grida di aiuto rivolti agli amici che avevano la fortuna di svolazzare liberi nel cielo assaporando i colori e i profumi della primavera. Così si sentiva la piccola Maria Luce: chiusa in una bella gabbia dorata. I due genitori lo amavano più della loro stessa vita ma la bambina questo non lo poteva capire, si sentiva sola e aveva tanto bisogno di giocare con i bambini della sua stessa età. Nel palazzo dove abitava Maria Luce non abitavano altri bambini della sua stessa età, erano tutti più grandi di lei. Maria Luce trascorreva i giorni con i ritmi dei grandi, infatti, la mattina, insieme ai genitori, si alzava presto per andare all‟asilo. Il papà faceva il professore e la mamma era assistente sociale e Maria Luce era la cosa più bella che avessero, non le facevano mancare nulla: dai giochi più costosi ai vestitini più eleganti; la portavano a fare danza e, quando potevano, nei parchi dove giocavano tutti i bambini … sempre sotto il loro controllo vigile che temevano si potesse fare male. Maria Luce non sorrideva mai, aveva sempre il visino imbronciato, ogni tanto la signora che abitava al piano di sotto la chiamava e lei era felice di andarla a trovare.

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Con lei si divertiva molto, anche se tra le due c‟erano cinquant‟anni di differenza! Un giorno la signora le disse: “Maria Luce, vuoi giocare a carte con me come fanno i grandi?” La bambina rispose: “Sì, però t‟insegno io un gioco che faccio sempre col mio papà.” Allora la signora le chiese: “Che gioco è?” La bambina rispose: “La scopa”. E cominciarono a giocare. Lo stupore della signora era grande quando si è accorse che la bambina conosceva così bene quel gioco da riuscire a vincere contro di lei. Allora esclamò meravigliata: “Maria Luce, chi ti ha insegnato a giocare così bene?” E la bambina rispose: “Papà! Gioco sempre con lui quando torna da scuola”. Lei parlava come una persona grande, aveva l‟espressione da grande e si muoveva con altrettanta sicurezza. Un giorno la bambina disse: “Signora, vorrei tanto che il vicino a casa mia abitasse una famiglia con dei bambini piccoli come me per giocare insieme”. Mentre parlava, tirava fuori dei grandi sospiri. La signora a quel punto le disse: “Non disperare bambina mia, vedrai che da un giorno all‟altro verrà ad abitare una famiglia con dei bambini con cui giocherete assieme”. Sul pianerottolo della signora c‟era un appartamento vuoto che era stato messo in vendita.

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Pure io, dice la signora, aspetto con ansia che venga qualche famiglia con dei bambini ad abitare qui in quest‟appartamento libero, sentire di nuovo l‟allegro vociare dei bimbi e non il silenzio di un appartamento vuoto che da tanta tristezza. La signora era abituata alla presenza delle bambine dell‟ex vicina che erano cresciute a casa sua e che per lei erano delle vere nipotine. Il papà di quelle bambine, che lavorava in banca, era stato trasferito e la signora aveva perso di vista le bambine che ora le mancavano tanto! “Vedi Maria Luce …”, disse la signora, “Non sei la sola a essere infelice, pure io sono triste, ho dei nipotini bellissimi ma vivono lontano da me: li vedo solo nel periodo estivo, a Natale e Pasqua … ma io li vorrei sempre vicino a me perché li amo così! La bambina ascoltava con interesse i discorsi della signora. Allora Maria Luce disse: “Se verranno ad abitare dei bambini, nell‟appartamento vicino a te, me li farai conoscere? Posso giocare con loro? E poi mi farai conoscere i tuoi nipotini? Posso giocare insieme con loro quando verranno a trovarti?” “Quante domande tutte insieme!” - esclamò la signora – “Ma certo che te li farò conoscere! Potrete anche giocare assieme!”.

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La bambina, a quel punto, tirò un sospiro di sollievo senza però sorridere. Finalmente, avvicinandosi Natale, arrivò il giorno tanto atteso da Maria Luce e dalla signora: nell‟appartamento vuoto accanto si sentiva tanta gente che andava e veniva: erano i nuovi proprietari che avevano comprato l‟appartamento e stavano traslocando. Era una bella famigliola, il papà e la mamma erano abbastanza giovani e avevano due bambini stupendi: Claudia e Andrea. Claudia aveva l‟età di Maria Luce e Andrea, invece, era più piccolo di due anni. Quanta gioia per la signora Barbara! (si chiamava così la signora che abitava al piano di sotto di Maria Luce). Era bellissimo sentire di nuovo il vicino a casa sua le voci dei bambini. Finalmente l‟appartamento chiuso per tanto tempo ora prendeva vita e si animava delle voci dei grandi e dei piccini: si poteva instaurare quell‟amicizia di cui ogni essere umano ha bisogno … non solo ai bambini per giocare ma anche ai grandi per scambiare qualche parola e qualche cortesia. In poco tempo, la signora Barbara stabilì un bel rapporto d‟amicizia con quella nuova famiglia e attirò così la simpatia dei loro bambini. Si accorse subito che Claudia, come Maria Luce, era una ragazza intelligente e introversa.

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Anche Claudia era triste perché, trasferendosi nella nuova casa, aveva lasciato le amichette e i compagni di giochi che aveva in precedenza. Claudia qui non aveva amici perché non conosceva ancora nessuno. Un giorno Claudia disse alla signora Barbara: “Meno male che qui ci sei tu che mi vuoi bene e giochi con me! Tu sei la mia amica del cuore.” La signora rispose: “Vedrai, presto ti farò conoscere una bambina come te, che abita al piano di sopra e non vede l‟ora d‟incontrarti. Lei è sola e non ha nemmeno un fratellino per giocare: sei più fortunata di lei perché hai Andrea che gioca con te”. Allora Claudia rispose: “Che bello! Quando me la fai conoscere?” La signora rispose: “Dopo questo periodo di festività. Adesso stanno al paese dei nonni.” Passate le feste, un giorno Maria Luce, tornata a casa da scuola, sentì il campanello di casa suonare, andò ad aprire e chi vide? Era la signora Barbara con due bambini per mano che le disse: “Ecco i nostri nuovi amici. Ti presento Claudia e Andrea!” Poi si rivolse ai bambini e gli disse: “Questa è Maria Luce, da oggi è la vostra nuova amica. Siete contenti? Potete giocare sempre assieme.” La mamma di Maria Luce disse alla signora Barbara:

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“Grazie per tutto quello che fa per la mia bambina, evidentemente è molto paziente, per questo i bambini le vogliono bene. Peccato che i suoi nipotini siano così lontani … Ma lei troverà sempre nuovi nipotini che la terranno allegra!” E Maria Luce? Dove era andata a finire? Era già nella sua stanza con i suoi nuovi amici e gli stava mostrando tutti i suoi giochi. Maria Luce finalmente rideva come non si era mai visto prima, ora il suo visino aveva cambiato espressione: era quello di una bambina felice!

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GIORGINO E LO “SPORCO NEGRO” “Mamma, Mamma!” Gridava il piccolo Giorgino, buttando per terra lo zainetto pieno di colori e liberandosi dalla mano dell‟autista che era andato a prenderlo a scuola. Corse a buttarsi sul letto tentando di abbracciare la madre, che aveva un brutto raffreddore. “Stammi lontano!” - diceva la mamma, premurosa: “Non vedi che ho la febbre? Potrei passartela!

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Ubbidisci Giorgino, va‟ dalla tata che ti ha preparato un bel bagno caldo … poi mi racconterai con calma tutto quello che ti è successo!”. Faceva molto freddo, fuori la neve cadeva fitta e a fiocchi molto grandi. Tutti i bambini, tornando da scuola, erano molto felici e festosi: si sentiva nell‟aria un‟armonia gioiosa di tante vocine allegre e birichine dei bambini che tornavano a piedi dalla scuola. Non tutti, infatti, potevano permettersi la macchina con l‟autista personale come Giorgino, ma erano contenti ugualmente e saltellavano come caprioli tirandosi addosso a vicenda le palle di neve. Quanta gioia portavano nel cuore alla vista di tutte le strade e delle cose ricoperte dalla neve! Quei fiocchi silenziosi ricoprivano le strade rendendole, tuttavia, pericolose … non si poteva più circolare: le scuole sarebbero rimaste chiuse e a quei felici bambini sarebbe stata regalata in più una bella vacanza! Tutti a casa a festeggiare: è la festa della neve! Ma i bambini della povera gente non stavano chiusi in casa al calduccio, correvano in mezzo alla neve senza paura del freddo, anzi, si riscaldavano confezionando palle di neve che ammucchiavano come piramidi: le soffici munizioni erano pronte per essere scagliate ai divertiti passanti.

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Facevano colore, in mezzo a quel tappeto bianco, quei visini rossi dal freddo e quelle mani ancora più rosse del viso per chi, incurante, non portava nemmeno i guanti ma pensava solo a divertirsi con un impegno degno di un lavoro importante. Solo Giorgino non era felice e piangeva: la mamma, per consolarlo, s‟infilò la vestaglia e andò nella stanza del bagno dove il bimbo era immerso in una vasca tutta piena di schiuma bella fumante e profumata. La tata, con tanta cura, passava la spugna su quel corpicino esile e fin troppo bianco. In quella enorme vasca a forma di conchiglia si vedeva solo la testa in mezzo a quella schiuma e, ancora, benché flebili, si sentivano i singhiozzi strozzati dal pianto. La mamma allora, carezzandogli la testa, si sedette sul bordo della vasca e gli disse: “Su piccolo mio! Raccontami tutto, non piangere più … racconta alla tua mammina cosa ti hanno fatto a scuola. Hai bisticciato con i tuoi compagni? Ti hanno forse picchiato? Ti ha rimproverato la maestra? Che cosa è successo? Parla, racconta tutto, ti ascolto!” Allora Giorgino, con le mani tutte piene di schiuma si asciugò le lacrime e raccontò tutto alla mamma: “Vedi mamma …” - diceva tra un singhiozzo e l‟altro -

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“Il mio compagno di banco è un bambino nero … la maestra lo ha fatto sedere vicino a me perché io sono al primo banco … così – dice la maestra – apprenderà meglio … ma io non lo voglio vicino: è brutto, è sporco … è nero! Non voglio andare più a scuola … ti prego non farmi andare mamma!” E piangeva di nuovo a dirotto. La mamma per calmarlo gli disse: “Quando tornerà il tuo papà lo farò andare a parlare con la maestra … io non posso andarci: sto male! E poi fuori c‟è tanta neve, ci sarà sicuramente una settimana di vacanza; poi tornerà papà e vedrai che sistemerà tutto! Coraggio non piangere più. Asciugati perché il pranzo è pronto”. Era una famiglia ricchissima: avevano una villa stupenda con piscina e campi da tennis. Il papà di Giorgino era un bravo e stimato ingegnere, la mamma era la figlia unica di un grosso industriale … avevano un bel giardino e tanta servitù, ma Giorgino, come capita a tutti i figli dei ricchi, non aveva un buon carattere. La mamma cercava di educarlo nel migliore dei modi dandogli tutto il suo affetto … ma Giorgino era sempre scontento. Il papà, per ragioni di lavoro, era sempre in giro per il mondo e quando si chiudevano le scuole si portava moglie e figlio nei luoghi dove si trovava per trascorrere l‟estate assieme.

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Giorgino era molto felice perché vedeva sempre posti nuovi ed era molto legato al padre … aspettava sempre con ansia le vacanze. Aveva dieci anni ma ne dimostrava meno essendo molto gracile. Quella sera la mamma riprese il discorso del suo compagno di banco e gli disse: “Vedi Giorgino? Tu sei già un ometto, sei molto bravo a scuola e sei molto intelligente: lo sai che il mondo non è fatto solo di bianchi ma ci sono i neri, i gialli, i rossi e tutte le altre razze che popolano la terra. Tu queste cose le studi pure a scuola … come mai non riesci ad accettare l‟idea di un compagno di banco nero? Il tuo nuovo compagno ha solo la pelle nera, ma l‟anima è bianca come la tua, è figlio dello stesso Dio che ha creato te, perché pure lui è stato creato dall‟unico Dio che ha creato tutte le razze che abitano il pianeta … siamo tutti fratelli perché figli dello stesso padre! Non c‟è un Dio nero per i neri o uno giallo per i gialli e via dicendo! Il creatore è solo uno ed ha sparso per il mondo le sue creature facendo sì che nascessero nazioni con lingue e costumi diversi. Pure noi siamo diversi per i neri … siamo troppo bianchi per loro e magari gli facciamo anche un po‟ schifo! Tutto quello che per noi è bello a loro può non piacere perché amano le loro tradizioni e le loro abitudini.

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Può però succedere qualcosa di brutto che può turbare il bell‟equilibrio creato da Dio: la cattiveria di alcuni uomini può portare la guerra tra le nazioni … chi è fortunato a sopravvivere cerca di rifarsi una vita altrove in luoghi più sicuri dove sopravvivere. Vedi Giorgino? Anche la nostra nazione ha patito i dolori della guerra e i nostri connazionali sono emigrati in tante altre nazioni straniere per cercare lavoro e hanno dovuto adattarsi come ora sono costretti a fare le famiglie come quelle del tuo nuovo compagno”. Giorgino ascoltava la mamma con gli occhi spalancati e la bocca aperta, poi, come se si fosse svegliato da un sonno, disse alla mamma: “Pure papà è stato emigrante in altre nazioni?” “No, per fortuna ai nostri giorni non c‟è stata la guerra, ma ai tempi dei tuoi nonni si. Sai? La famiglia di mio nonno è emigrata in africa, in Libia, e lui andava a scuola li: era l‟unico bambino bianco in una classe di neri. Lo prendevano in giro, non lo volevano, lo insultavano “sporco bianco” … proprio come tu hai apostrofato il tuo nuovo compagno di banco: “sporco nero”! A distanza di tanti anni la storia continua … gira il mondo, girano gli uomini, girano i destini e s‟incontrano: per questo dobbiamo volerci bene, perché siamo tutti fratelli. Non c‟entra il colore della pelle ma l‟amore che abbiamo dentro!”

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Chiese Giorgino: “Pure i genitori del mio compagno lavorano qui?” “No, rispose la mamma: il bambino nero ha perso i suoi genitori in guerra: è un orfano che soffre la fame. Poi c‟è della gente buona che ne adotta qualcuno e se lo cresce con amore … non guarda il colore della pelle ma la preziosità di ogni essere umano. Sono bambini che avevano tutto: una famiglia, una casa … ora non hanno più niente, la guerra gli ha distrutto tutto, sono rimasti soli con tanto dolore dentro. Pensa se capitasse a te di perdere tutto come il tuo compagno di banco … non avresti il cuore gonfio di dolore?” Gli occhi di Giorgino si riempirono di lacrime: si pentì di come aveva trattato il bambino nero e piangendo disse alla mamma: “Perché non lo adottiamo pure noi un bambino che non ha i genitori? Ti prego mamma, fammi contento! Io non voglio rimanere solo: voglio la mia mamma, il mio papà … pregherò sempre il Signore che non ci siano più guerre e che ogni bambino abbia la mamma ed il papà e tutti i bimbi del mondo siano felici! Sono neri, gialli, rossi … ma hanno tutti un cuore che batte dentro al petto di un solo colore: quello dell‟amore!” La mamma sentendo Giorgino parlare così piangeva assieme a lui: per la prima volta scopriva che sotto la maschera di un piccolo ribelle si celava un cuore buono e generoso.

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Si asciugò le lacrime, poi asciugò quelle di Giorgino, e disse: “Vorresti davvero avere un fratellino nero? Lo ameresti veramente?” “Si mamma te lo giuro!” “Lo faresti dormire vicino a te nella tua stanza?” “Si mamma! Sarei tanto felice!”. Allora la mamma suonò un campanellino e chiamò una cameriera. Questa entrò nella stanza con un bambino nero per mano …. La mamma disse: “Giorgino questo è il tuo fratellino!” Giorgino con la bocca spalancata per lo stupore, appena riavutosi dalla sorpresa esclamò: “Non è possibile! E‟ il mio compagno di banco!” Si sentiva inchiodato al pavimento dall‟emozione … “Vedi” - disse la mamma – “Il bambino lo ha portato in Italia tuo padre un mese fa: era in africa per lavoro dove la guerriglia, in un paesino, ha fatto parecchi morti. In quel luogo papà lo ha trovato in una capanna distrutta vicino ai cadaveri dei suoi genitori. Piangeva per il terrore e per la fame … il tuo papà lo prese e lo portò via con lui con il permesso delle autorità. Conoscendo il tuo carattere lo abbiamo affidato a una governante finché non saresti stato pronto ad accettarlo … così abbiamo parlato con la tua maestra pregandola di farvi sedere vicini affinché ti abituassi alla sua presenza. Vedendo la tua reazione abbiamo avuto tanta paura che non l‟avresti accettato mai!

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Ma il Signore ti ha aperto il cuore e noi siamo molto felici … domani arriverà il vostro papà e faremo una grande festa: inviteremo tutti i bambini della classe e quelli di colore del nostro quartiere: saremo una famiglia molto felice … che ne dici Giorgino? Il bambino piangeva di gioia abbracciato al suo nuovo fratellino con il cuore gonfio d‟amore e lo pregava di perdonarlo se l‟aveva offeso e che la loro vita insieme cominciava da quel momento: non era più lo sporco nero ma era Dany: il fratello di Giorgino!

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LASCIATE CHE I BIMBI VENGANO A ME Queste parole disse un giorno Gesù mentre parlava a una grandissima folla. In quella marea di gente c‟erano, infatti, tanti bambini che volevano stare in braccio a Lui perché dava tanta gioia e felicità. I grandi volevano mandarli via temendo fossero di disturbo ma Gesù li abbracciava tutti e li colmava di carezze dicendo: “Se i grandi non saranno puri e buoni come questi bambini, non li porterò in paradiso con me”. In mezzo a questa folla c‟era un uomo brutto e cattivo che era geloso di Gesù..

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La sua era una gelosia piena di rancore poiché tutti ascoltavano Gesù con attenzione e gli volevano bene mentre a lui non dava ascolto nessuno e tutti lo evitavano. Volendogli fare un dispetto pensò: “Gesù predica la bontà e l‟amicizia? Ed io, al contrario, farò diventare cattivi tutti i bambini!”. Così cominciò a pensare cosa poteva escogitare per distrarre i bimbi da Gesù. “Ho trovato!” – pensò – “Ai bambini piace giocare? Ed io inventerò tanti di quei giochi che li terranno occupati dalla mattina alla sera; farò in modo che a scuola i professori siano incomprensibili insegnando loro cose troppo difficili; metterò nella loro testa tanta di quella confusione che non saranno più puri e innocenti come li vuole Gesù!”. Nel turbine dei suoi cattivi pensieri l‟uomo continuò a concepire nefandezze: “Per prima cosa farò in modo che le loro mamme si allontanino da loro per lavorare, così guadagneranno tanti soldi per comprare tutti i giochi che inventerò. Non staranno più vicino ai loro bambini per educarli e dargli quell‟amore che solo loro sanno dare. Inventerò qualcosa che potrà sostituirsi alle mamme nell‟educazione dei figli e le farò stancare, così saranno cattive con loro e litigheranno pure con i loro mariti, dando inizio alla guerra del disordine e della confusione!”

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Tutto questo era proprio il contrario di quello che voleva Gesù: Lui predicava l‟amore e la condivisione del bene, per questo aveva anche messo un angelo custode affianco a ogni bambino: per proteggerli dal male. Le mamme insegnavano loro a pregare tutti i giorni, mattina e sera, l‟angelo custode e i bambini erano molto felici. Il malefico piano dell‟uomo perfido riuscì a stancare le mamme con il lavoro e a separarle dai loro figli per affidarli agli estranei. Ben presto gli angeli custodi rimasero disoccupati. Poi il malefico riuscì nell‟intento di trasformare negativamente i genitori grazie ai problemi del lavoro, del desiderio del guadagno e tanti altri desideri inutili che li portavano sempre più lontano dall‟amore. Nel regno del guadagno c‟era solo voglia di fare soldi e così pian piano si divisero tante famiglie e i bambini, divisi dall‟amore, crebbero a metà. I genitori, tentando di compensare la loro assenza, compravano ai loro bimbi tanti giochi che nemmeno loro capivano … li colmavano di regali capaci solo di renderli infelici! La cosa ridicola è che i genitori erano fieri di pagare tanti soldi per tutte le cose inutili che compravano. In particolare i giochi sembravano venissero da un altro pianeta: “Sono giochi istruttivi” dicevano i grandi …

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Invece erano “distruttivi” perché portavano i bimbi, esseri innocenti, alla violenza insensata e alla competitività verso nemici inventati. Finalmente l‟uomo cattivo era felice … ma non del tutto soddisfatto: voleva fare di più per questi poveri bambini strappati con violenza dalle braccia di Gesù! Inventò allora una scatola magica che mandava suoni e immagini, ne piazzò due o più in ogni famiglia, in modo che i bambini vi si mettessero davanti e passassero giornate intere vedendo programmi violenti e insensati capaci di turbare anche gli adolescenti e gli adulti. Stavano lì, tutti con gli occhi sbarrati e la bocca aperta assorbendo nel loro cervello i “programmi” che in realtà “programmavano” il loro comportamento e le loro menti. Quando, infine, troppi bambini crescendo diventarono malvagi e sempre più infelici; le mamme non li consideravano più e non pregavano più gli angeli custodi; i papà erano diventati così violenti da picchiare sia i figli sia le mogli … quando insomma tutto sembrava precipitare avvenne l‟imprevedibile. L‟uomo cattivo si addormentò stremato dalla fatica delle sue malefatte e allentò la guardia sul bene. Un dolcissimo bambino era nella sua stanza calda e comoda, piena di giocattoli costosi e non riusciva a dormire.

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Piangeva e sentiva freddo dentro di sé, nonostante i termosifoni accesi e il caldo piumone. Sentiva fortissima la mancanza del calore della mamma, le sue braccia che lo stringevano dolcemente e le mani forti del papà che prendevano le sue per trasmettergli sicurezza. Con la sua piccola testa poggiata sul viso peloso di un orsetto bianco, piangendo si addormentò. I suoi angeli custodi, approfittando del contatto che le lacrime di tristezza del bimbo avevano generato con loro, s‟intromisero nel suo sogno. Il piccolo sognò allora di essere diventato grande e di avere dei figli con cui giocare. Sognò di stringerli forte al cuore e di riempirli di baci, di raccontare loro tante belle favole insieme alla sua dolcissima sposa che i suoi piccoli non si stancavano di abbracciare e chiamare mamma … sognò di insegnare e imparare davvero l‟amore. Non c‟erano giocattoli nel suo sogno, erano spariti i televisori, i monitor e ogni sorta di display ma i bimbi erano felici lo stesso! Nessuno si preoccupava dei soldi o del lavoro e tutti erano contenti del poco che possedevano e non desideravano di più ma nessuno covava l‟infelicità … Com‟era possibile? Gesù comparve allora nel sogno e pronunciò di nuovo la sua frase: “Lasciate che i bimbi vengano a me!” …

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Ma stavolta, per sicurezza aggiunse: “Venite anche voi, bimbi cresciuti a metà!” – riferendosi agli adulti – Il coro degli angeli custodi a quelle parole divenne così bello e armonioso da generare un amore così potente che uscì dal sogno, traboccò nel cuore di tutti i viventi e dissolse tutti i pensieri cattivi così che l‟uomo malefico non riusciva più a svegliarsi. Quando finalmente riuscì a farlo, dopo un secolo, non riusciva a credere ai suoi pensieri: era diventato buono persino lui!

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