MariaCristina Iavarone Mormile
Un uomo dalla statura di gigante con il cuore di un bambino.
Tammaro Iavarone appuntato dei Carabinieri di Grumo Nevano
con il patrocinio morale del Comune di Grumo Nevano
MariaCristina Iavarone Mormile Tammaro Iavarone Appuntato dei Carabinieri di GrumoNevano
Prefazione MariaCristina Iavarone ha ritenuto doveroso da parte sua commemorare il padre Tammaro Iavarone nel 33° anniversario della sua morte perché è stato un uomo eccezionale come persona, come cittadino, come padre, come marito, fornito di infinita bontà specie verso i più deboli, i più umili, i più indifesi. Con le energie di un vulcano si è opposto ai violenti e li ha annientati non con la forza fisica di cui è stato abbondantemente dotato dalla natura, ma con il coraggio, con la fermezza, con l'esempio della magnanimità, dell'abnegazione anche verso quelli che erano chiusi entro le barriere dell'egoismo, della grettezza, dell'indifferenza al dolore degli altri. Queste qualità sono di pochi individui, i quali devono dare agli altri un valido incentivo a fare altrettanto. MariaCristina Iavarone ha cercato di imprimere in sé l'eredità paterna e metterla in pratica nella vita personale e nell'attività di docente, ha inteso inoltre mettere in risalto che nel cuore semplice di una persona umile possono esistere prerogative tali da realizzare veri prodigi. Una tale figura di uomo può essere di esempio alle nuove generazioni avviate verso il sentiero della vita spesso disperse fra incertezze e difficoltà, affinchè non perdano mai la fiducia nel bene, nel premio delle fatiche, nella certezza che anche le tempeste più nere saranno seguite da un ridente arcobaleno “augurio di più sereno dì”
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1°CAPITOLO
Le umili origini Tammaro Iavarone è nato a Grumo Nevano il 26 agosto 1892 in via Duca D'Aosta, in una modesta casa al piano terreno di un grande edificio detto allora “Palazzo di Nevano” poiché era il più grande edificio della parte del paese detta Nevano, nome derivato da vulgus inevianum oppure praedium nevianum cioè fondo della gens latina Nevia, borgo osco confinante con la città di Atella, in cui, secondo una tradizione non condivisa da tutti gli storici, nacque il poeta latino Gneo Nevio, cittadino romano di origine italica e di carattere fiero, come i grumesi purosangue del passato e del presente. Questo palazzo, nella sua prima struttura fu costruito sotto Carlo d'Angiò, il quale aveva confermato la donazione alla chiesa aversana già fatta precedentemente di terre fra cui Univano(Nevano). In questo edificio molto semplice,si amministrava la giustizia criminale mediante feudatari. Secondo le consuetudini architettoniche civili dell'epoca angioina presentava gli elementi necessari per gli usi previsti. Durante il dominio degli Angioini a Napoli perciò ospitava il tribunale o Palazzo di Giustizia e attraverso i secoli aveva mantenuta intatta la sua struttura con un torrione di difesa nel lato destro e ampi stanzoni ai piani superiori scuderie al piano terra e tenebrosi terranei dove venivano messi in catene i criminali o i dissidenti del regime. Molti di questi condannati, spesso del tutto innocenti, morivano sotto le torture; come si raccontava, i loro gemiti o le urla di dolore rintronavano tanto da arrivare fino ai piani superiori. Fra i sovrani della casa D'Angiò mostrava crudeltà maggiore la regina Giovanna II detta pure Giovannetta D'Angiò nella tradizione popolana grumese, la quale governò il Regno di Napoli dal 1414 al 1435. Nel 1525 il territorio di Nevano infestato di banditi, abbandonato a se stesso per le guerre scatenatesi nel Regno di Napoli dopo la morte di Giovanna II, fu affidato a Giovanni Capecelatro. Questi ne ottenne la “capitania”, cioè la carica di amministratore di giustizia civile e criminale. Allora il palazzo di Nevano fu reso -7-
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palazzo baronale e fu rinnovato ed ampliato rispetto alla sua struttura originaria. Fino al 1731 i baroni Capecelatro abitarono in una parte di questo vasto edificio sede del Tribunale di Campagna. Poi con il mutare dei governi nel Regno di Napoli, il Palazzo di Nevano, detto pure “Palazzo baronale Capecelatro” ,passò da una famiglia all'altra finchè fu acquistato da privati e fu utilizzato in parte, cioè il pianterreno, per la locazione a famiglie povere mentre i piani superiori erano abitati da familiari degli stessi proprietari. Le persone che hanno abitato gli ambienti del piano terra raccontavano che durante la notte sentivano ancora le urla agghiaccianti di sventurati, come se ci fossero ancora carnefici e torturati nelle oscure cavità del palazzo. Spesso detta regina veniva in visita da Castelnuovo, dove viveva abitualmente, al casale di Nevano. Qualcuno diceva di averla vista uscire dalla scuderia a mezzanotte in punto con una carrozza di fuoco, la quale attraversava le campagne, rese poi improduttive dal suo malefico influsso. Il piccolo Tammaro cresceva e cominciava a comprendere che cosa fosse la giustizia; si rendeva conto che per i più poveri ed umili allora 'il dolore non poteva aver parola e il diritto non aveva difesa'. Dopo aver frequentato le prime tre classi della scuola elementare cioè a otto anni finiti, dovette iniziare a collaborare con il padre nella coltivazione di un podere, di cui la famiglia era affittuaria. Il lavoro era duro per un bambino che avrebbe dovuto giuocare ancora e andare a scuola. Ma il contributo lavorativo era necessario al padre: la terra si doveva zappare, diserbare a mano, fertilizzare con i concimi naturali prodotti dai conigli, dalle galline e dalle verdure da sovescio. Tammaro andava col padre in campagna allo spuntare del giorno, tirava le erbacce, 'i denti di cavallo' dalle lunghe radici, le malefiche gramigne, dove il padre Giovan Giuseppe doveva vangare. Talvolta si lacerava le manine intirizzite dal freddo nel tirare radici troppo tenaci. Ma solo metà del fondo era fertile; l'altra metà era sterile, infeconda; qualsiasi cosa si seminasse stentava a crescere; gli alberi da frutta, pur potati e curati rendevano poco: gli anziani dicevano che era inutile faticare tanto in quel lembo di terra perché di notte era passata, attraverso di essa, la regina Giovanna con la sua
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carrozza infuocata e aveva bruciato la sua fertilità. Perciò in questa parte del fondo il lavoro era pesante e il raccolto misero. In tutte le stagioni dell'anno: con il gelo dell'inverno e con il sole bruciante di una torrida estate Tammaro era sempre accanto al padre, seguendo il suo ritmo di lavoro. Via via crescendo faceva di tutto: zappava, vangava e riusciva a vangare il doppio della terra vangata da lui. Da adolescente, cioè a meno di quindici anni, iniziò a maciullare la canapa, lavoro durissimo che facevano persone specialiste del settore ad alto compenso. Pagate tutte le spese per la produzione della canapa, dalla semina fino a quando fossero ricavate le fibre, rimaneva alla famiglia quel poco che a stento bastava a pagare l'affitto al padrone della terra. Perciò i mezzi di vita si dovevano ricavare dagli altri prodotti della terra. Quando Tammaro iniziò a maciullare la canapa e a fare tutto il lavoro precedente, per la famiglia ci fu finalmente un po' di benessere. Con questa sana palestra di modello spartano l'adolescente diventava un giovane sano, operoso, parco, di poche parole, ma di carattere gioviale e scherzoso con una lieve vena di ironia; era sempre pronto ad offrire il suo fortissimo braccio anche ad altri che erano in difficoltà, oltre che ai suoi familiari. Tammaro era cresciuto come un gigante fisicamente, di sani principi morali, onesto e lavoratore, di spontanea generosità anche in un'epoca di grande miseria, quando avevano difficoltà a mettere a tavola il necessario quotidianamente anche quelli che avevano i prodotti della terra coltivata da loro. Poiché egli era pronto ad offrire il suo pezzo di pane a chi era più affamato di lui, in senso affettuoso, i vicini di casa dicevano: << Tammariello è gruosso e fesso >>. Ma non era così: la visione della sofferenza altrui lo colpiva a tal punto che preferiva lavorare una giornata intera digiuno piuttosto che lasciare un altro in preda ai morsi della fame. Aveva alimentato in sé fin da piccolo il senso della giustizia, che era il suo punto fermo anche nei giuochi dei ragazzi; egli non sopportava le prepotenze dei piccoli e dei grandi ed interveniva sempre in difesa dei più deboli. Aveva una grande fede nella Madonna Assunta venerata a
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Casandrino e nei Santi protettori di Grumo Nevano: San Vito e San Tammaro e spesso pregava mentre lavorava sicchè metteva in pratica la regola benedettina: “ora et labora”, pur non essendo un frate. Il suo maestro elementare, il sacerdote L.C., amico di famiglia, consigliò ai genitori di Tammaro: Iavarone Giovan Giuseppe e Reccia Pasqua di far arruolare il figlio, appena fosse possibile, nell'arma dei Carabinieri, in cui prestava servizio come maresciallo un fratello, il quale avrebbe potuto guidarlo affinché mettesse in luce le sue qualità migliori. Pertanto finché avrebbe avuto l'età per la leva continuava a lavorare accanto al padre e offriva le sue prestazioni anche a proprietari terrieri del paese, i quali lo compensavano bene poiché con la sua forza erculea in una giornata solare faceva il lavoro di tre persone. A sera, pur essendo stanchissimo, per curare la sua necessaria formazione di base, in vista dell'arruolamento nell'arma dei Carabinieri seguiva le lezioni private del suo ex maestro della scuola elementare, diventato per lui anche maestro di vita; egli leggeva libri forniti da lui, qualche giornale di indirizzo religioso. A sedici anni ebbe in regalo dal buon sacerdote il romanzo manzoniano I Promessi Sposi e lo lesse con grande interesse. Ma parlando nel dialetto grumese Tammaro trovava grande difficoltà a capire la lingua italiana, perciò con il guadagno di una settimana di duro lavoro a maciullare la canapa nel fondo di un ricco parente comprò una grammatica italiana e il vocabolario della lingua italiana di Pietro Fanfani, di cui si studiava decine di pagine ogni sera. Con il suo affezionato maestro si esercitava a parlare in italiano discutendo in modo semplicistico di argomenti di storia e di geografia, imparando a leggere una cartina geografica. Man mano egli fu capace di leggere e capire articoli del 'Mattino', il quotidiano di Napoli, giornale che egli comprava ogni domenica con la “mancia” che otteneva dal padre nel giorno di festa.
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2°CAPITOLO
Inizia una nuova vita Il 1912 finalmente Tammaro Iavarone entrò nell'arma dei carabinieri, onorando la divisa che indossava, prestando servizio fino al 1937 con rettitudine, umanità, abnegazione. Nei primi anni fu allievo carabiniere nel Friuli - Venezia Giulia, partecipando a difficili operazioni militari anche in Dalmazia. A Sebenico il 1915, quando ardeva la prima guerra mondiale si offrì come volontario per una missione particolarmente pericolosa in sostituzione di un collega in permesso per un grave lutto familiare. Nel suo compimento sfuggì alla morte per miracolo: la jeep su cui si trovava Tammaro Iavarone con altri carabinieri e un civile, che aveva la funzione di informatore, si capovolse; sbalzato dall'abitacolo finì su di un crepaccio e riportò ferite gravi in tutto il corpo. Ma sopravvisse proprio per la sua eccezionale fibra fisica, per il suo organismo sano, forte, robusto come una colonna dorica. Tuttavia dovette rimanere in ospedale per mesi prima di riprendersi del tutto. Ritornato in servizio compì molti atti di grande valore meritando gli encomi dei suoi superiori e la promozione a carabiniere. Fu trasferito poi a Napoli dopo alcuni anni. Nel 1922 pochi giorni prima di Natale Tammaro Iavarone, come carabiniere faceva parte di una tradotta che doveva condurre dei criminali pericolosi al carcere di Ventotene. Il caposcorta, che aveva il grado di brigadiere, non accettava consigli da nessuno; temporeggiò nell'avviare la cosa finchè ci fu l'imbarco alla vigilia di Natale con il mare grosso. La tempesta che si annunciava si scatenò e infuriava sempre di più, la nave ballava sui flutti, gli uomini piangevano ed invocavano i Santi protettori. Nella notte in cu si festeggiava nelle case e si attendeva la nascita di Gesù Bambino la traversata della nave S.Eligio, diretta a Ventotene, era drammatica, questa era sballottata con violenza; montagne di acqua impetuosa si rovesciavano terrificanti all'interno sugli sventurati passeggeri. Il carabiniere Tammaro Iavarone esortava il caposcorta a togliere i ferri ai detenuti affinchè - 11 -
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Tammaro Iavarone, allievo carabiniere settembre 1912 - 12 -
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con mani libere e i mezzi che erano a disposizione sulla nave potessero cercare di salvarsi da morte certa, essendo tutti i componenti della banda legati gli uni agli altri con manette e catene. Il capitano della nave annunciò che il pericolo era grave e bisognava lanciare l' S.O.S. e il “si salvi chi può”. Il brigadiere ribadiva che stavano per giungere alla meta e non voleva dare la possibilità di fuga ai detenuti a lui affidati. Con la sua forza di gigante Tammaro Iavarone, con un arnese improprio riuscì a spezzare le manette e liberò tutti; sotto un cielo nero e sulle acque che si sollevavano paurosamente, creature umane si dibattevano fra le onde infuriate nella più grande disperazione. Quando il vascello era diventato un rottame in balia dei venti, tutti gli uomini erano sulle scialuppe; mancava il capitano. Il carabiniere Tammaro Iavarone si sentì in dovere di cercare di trarlo in salvo tirandolo dalla massa di legno sconnesso in cui era intrappolato; si trovò poi in mare aggrappato ad una trave sfinito, in uno stato di semi -incoscienza; allora avvertì accanto a sé la presenza di un'immagine sacra che sembrava la Madonna Assunta venerata a Casandrino. La Signora con il suo bambino in braccio gli disse: “stai tranquillo, ti salverai”. Allora perdette i sensi. Fu ritrovato al largo del porto di Napoli dopo il naufragio: galleggiava sull'acqua ritornata tranquilla, gonfio come un pallone, inerte e freddo come un morto; ma il suo cuore batteva ancora. La sua vita non si era spezzata forse perché nei fini imperscrutabili della divina Provvidenza Tammaro Iavarone era destinato ad offrire ancora la sua opera in momenti difficili a poveri sventurati. Portato in ospedale con le cure del caso, riprese i sensi, dopo aver messo fuori una enorme quantità di acqua salata. La degenza in ospedale fu lunga, ma la sua salute rifiorì completamente ed egli ritornò in servizio; avendo preso per merito il grado di caporale dei Carabinieri fu trasferito a Benevento.
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3°CAPITOLO
Il Matrimonio Era il 1924: Tammaro Iavarone aveva compiuto 33 anni di età e poteva iniziare ad inoltrare domanda di matrimonio. Pensò allora di farsi una famiglia sperando di trovare come compagna della vita una giovane di carattere forte, intelligente, di sani principi morali e che naturalmente lo attraesse come donna. Poiché allora le fanciulle, le adolescenti e le giovani mature per il matrimonio uscivano di casa solo in occasione di feste religiose accompagnate dai fratelli o dal padre non era facile avere approcci con qualcuna. Nel mese di settembre del 1926 in occasione della festa di S. Tammaro per il carabiniere grumese ci fu l'occasione per trovare la persona che gli facesse battere il cuore e avesse le qualità che per lui erano le doti fondamentali di una moglie e di una madre. Questa giovane si chiamava Mele Rosa: era di una bellezza giunonica che colpiva a prima vista. Nel cortile del palazzo di fronte a quello della famiglia Mele scoppiò una lite fra due avventori di una bettola improvvisata per la festa detta “fraschetella”; questi avevano alzato un po' il gomito: uno dei due offese in modo pesante un altro e ricevette un pugno sul naso, per cui il suo volto divenne una maschera di sangue. Improvvisamente si sentirono urla e le persone dei palazzi vicini si riversarono nella strada a vedere che fosse accaduto. Passava di là per caso Tammaro Iavarone, che era in licenza dal suo servizio per onorare S. Tammaro. Sentendosi in servizio anche quando non lo era si avvicinò al gruppo dei presenti per rendersi conto dell'accaduto. Sotto l'arco del portone dei Mele c'era anche Rosa con la sorella maggiore Carmela, la madre e uno dei fratelli, attratti dalle urla. Il caporale dei carabinieri chiese dell'alcool e delle pezzuole per pulire il volto del malcapitato, che intanto ritornava alla ragione, sfumati i bollori del vino. Rosa Mele richiesta dalla sua vicina prese in casa una bottiglia di alcool e delle bende candide di bucato. Il carabiniere ripulì dal sangue il viso dell'uomo e si rese conto che non era accaduto nulla di grave(1), fece far la pace ai due dissidenti e volle ringraziare la gentile signorina che aveva - 14 -
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dato quelle bende profumate di pulito, bianche come la neve. Così Tammaro Iavarone e Mele Rosa si guardarono per la prima volta e Cupido subito scagliò la freccia. Erano due giovani bellissimi: Tammaro era un gigante di quasi due metri, robusto, bruno con un volto dai lineamenti di un ovale perfetto, due occhi grandi, scuri e profondi, che avevano ancora quel velo di innocenza che hanno gli occhi dei bambini buoni. Dalle fotografie di quel tempo si potrebbe vedere una chiara somiglianza con i bronzi di Riace. Rosa Mele era alta, di corpo ben modellato, castana di occhi e capelli, con lo sguardo acuto delle persone intelligenti. Sembrava che Madre Natura li avesse creati affinchè stessero in armonia in una vita insieme. Dopo quell'incontro Tammaro Iavarone ritornò in servizio, ma prima di partire incaricò una zia, amica della famiglia Mele, di parlare con i genitori di Rosa per informarli che gradiva chiedere la mano della figlia, se questa fosse d'accordo e se fosse ancora libera. Rosa fu entusiasta della richiesta perché aveva notato in lui qualcosa di particolare. Ella aveva 26 anni e non si era ancora sposata perché non gradiva unire la sua vita ad un agricoltore e poi tra i suoi pretendenti non aveva rilevato l'apertura mentale che ella ricercava nel compagno della vita. Rosa, infatti, non aveva frequentato scuole pubbliche, ma aveva studiato privatamente con la maestra Maria Robustelli, valente insegnante e amica di famiglia, la quale era disponibile per lei anche nelle ore della sera, quando erano finite le sue attività nella casa e poteva riservare un po' di tempo alla sua ricchezza spirituale. La maestra si dedicava a lei con amore perché ammirava il suo desiderio di imparare, il suo interesse alla cultura, alla lettura come occupazione del tempo libero. Spesso le dava i giornali, libri e poi si faceva esporre gli argomenti letti affinchè imparasse ad esprimersi in lingua italiana. I rapporti di amicizia fra la famiglia della maestra Robustelli e la famiglia Mele erano stati sempre saldi ed affettuosi per cui questa eccellente educatrice si adoperava perché Rosa si acculturasse sempre di più, imparasse a parlare bene in italiano, fosse in grado di reggere il confronto con altre persone di livello più elevato e di educare i figli in futuro ad esprimersi nella lingua madre e all'amore
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del sapere. Con la sua intelligenza e la mente aperta a una visione diversa delle cose della vita attraverso la cultura, Rosa, pur essendo la penultima di sei figli, era capace di aiutare i genitori a gestire la propria azienda agricola con un' acutezza e una prudenza che faceva superare ogni momento di crisi. Quando Tammaro Iavarone cominciò a frequentare la famiglia di Rosa, potè rendersi conto che aveva incontrato una persona eccezionale: dolce nei sentimenti, tenera verso i bambini: infatti la osservava mentre si dedicava a dei nipotini che vivevano nello stesso palazzo affidati alle sue cure, ma di carattere forte e ferma nel rispettare e far rispettare le giuste regole dei comportamenti ai grandi e ai piccoli. Non poteva essere più fortunato di come era stato. Perciò era necessario prepararsi per il matrimonio. Con il danaro dello stipendio bene amministrato fin dall'inizio, nel 1925 Tammaro Iavarone comprò un lotto di suolo edificatorio e iniziò a costruirsi la casa dove sarebbe andato ad abitare con la famiglia dopo il pensionamento. Il 1926 inoltrò domanda di matrimonio che fu accolta, perciò egli era libero di sposarsi già da settembre dello stesso anno. Intanto trasferito a Benevento cercò casa nel centro della città per non esporre ad una vita di disagio la moglie futura e quelli che sarebbero arrivati. Quando fu pronto il nido d'amore fu stabilita la data del matrimonio che fu celebrato il 27 febbraio 1927 nella basilica di S. Tammaro a Grumo Nevano.
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4°CAPITOLO
La gioia della famiglia La vita scorreva serena per i due sposi: il servizio per il caporale dei carabinieri Iavarone Tammaro non era particolarmente duro; Rosa poi era incantata dai segni della storia del passato che si rilevavano dovunque a Benevento. Perciò nelle ore libere dal servizio Tammaro accompagnava la moglie a visitare il Duomo e le varie chiese di Benevento, la zona dell'Arco di Traiano, le mura costruite dai Longobardi, i luoghi dove si era svolta la battaglia di Maleventum, fra i Romani e Pirro, re dell'Epiro. Era gradevole passeggiare lungo il Calore e consumare buoni gelati al liquore strega o torroncini della stessa casa produttrice del famosissimo liquore. Dopo circa due mesi dalle nozze si annunciò la maternità e le passeggiate furono ridotte per timore che l'affaticamento fisico nuocesse alla madre e alla creatura che dava già i segni della sua presenza. Secondo le consuetudini dei nostri paesi se fosse nato un maschio si sarebbe dovuto chiamare Giovan Giuseppe come il nonno paterno, se fosse nata una femmina avrebbe dovuto avere per nome Pasqua come la nonna paterna, ma Tammaro comunicò alla sua sposa che sua figlia si sarebbe chiamata “Assunta” in onore della Madonna Assunta in cielo, che lo aveva salvato dalla morte quando era stato travolto dalla furia del mare in tempesta. Assunta Iavarone nacque però non a Benevento, ma a Grumo Nevano, a casa dei nonni materni, perché Rosa fosse assistita nel parto da una brava ostetrica, donna Vincenza, che era anche sua zia e fosse accudita da persone di famiglia in un momento così delicato ed importante. Il 2 luglio dell'anno successivo: il 1929 durante la festa della Madonna delle Grazie nacque a Benevento una seconda bambina, che fu chiamata Grazia , in onore della Madonna delle Grazie, che si festeggiava quel giorno, invocata da Rosa durante il travaglio che fu rapidissimo e sereno, nonostante si prevedessero difficoltà e pericoli. La vita dei coniugi Iavarone era gioiosa e tranquilla anche - 17 -
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se molto intensa per il da fare necessario nell'accudire le bambine: una che iniziava a camminare e un'altra che doveva poppare. Ma una notte avvenne un terribile terremoto che sconvolse la città di Benevento e i paesi vicini. Tammaro Iavarone si adoperò con energia prodigiosa in azioni di salvataggio, oltre il proprio servizio, collaborando con i vigili del fuoco per strappare alla morte persone intrappolate sotto le macerie. Per i suoi straordinari meriti gli fu conferito il grado di appuntato dei carabinieri e fu decorato pure con la medaglia di bronzo. Rosa iniziò ad avere paura che ritornassero le scosse di terremoto. La sua casa non ne aveva affatto risentito la prima volta poiché si trovava in un palazzo antico simile ad una fortezza. Ma il marito aveva corso serio pericolo avventurandosi per scale crollate e mura pericolanti. Perciò insistette perché chiedesse il trasferimento per una sede più vicina a Grumo Nevano, dove risiedevano le due famiglie di origine e fosse più tranquilla per il servizio; inoltre la casa costruita era stata data in locazione ad una famiglia di agricoltori che avrebbero potuto farne scempio non controllati per lunghi periodi; il fondo coltivato dal padre era stato messo in vendita e Tammaro lo aveva comprato ad evitare che la sua famiglia rimanesse senza mezzi di vita. Il 1930 per Rosa ad agosto si annunciò la terza maternità; non era più possibile vivere a Benevento. In caso di un'altra scossa di terremoto si sarebbe trovata veramente in difficoltà a muoversi nelle sue condizioni e con due bambine piccole. Così qualche mese dopo aver inoltrato la domanda di trasferimento, Tammaro Iavarone ottenne come sede di servizio Satriano (nome di fantasia) in provincia di Napoli, situato fra Nola, Palma Campania, Sarno, paesi nei quali erano frequenti le scorrerie di una banda di criminali, che con la complicità di qualche “mela marcia” dell'Arma dei Carabinieri, terrorizzavano le strade e le masserie, rimanendo liberi e impuniti.
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5°CAPITOLO
Un difficile servizio Tammaro Iavarone nel grado di appuntato dei Carabinieri fu subito apprezzato dai superiori per la sua rettitudine nel compimento del dovere, per lo spirito di sacrificio; inoltre egli fu subito ben voluto dagli abitanti del luogo per la sua profonda umanità. Per le vie del paese erano frequenti gli incidenti di sera, specie a danno di bambini, a causa delle vie dissestate: infatti per i fossi profondi non solo nelle vie di campagna, ma anche attraverso i centri abitati, i grossi carretti agricoli sobbalzavano e i bambini che tornavano col padre dai campi e si erano addormentati per la stanchezza su di essi, spesso cadevano e finivano travolti dalle enormi ruote. La prima volta che l'appuntato Tammaro Iavarone fu chiamato per i rilievi di legge di uno di questi incidenti rimase sconvolto nel vedere un bambino di otto anni quasi spezzato in due da una ruota; la seconda volta provò un dolore ancora maggiore, ma insieme la rabbia contro i responsabili di questa disgrazia. Il brigadiere dei Carabinieri di Satriano era il tipo che non voleva noie al di fuori del suo servizio normale. L'appuntato Iavarone gli fece notare che si doveva intervenire con le istituzioni affinchè finisse quella “strage di innocenti”. Poiché ad ogni cerimonia pubblica intervenivano le varie autorità cioè il podestà, il parroco, il medico condotto e il direttore didattico, in occasione della celebrazione del “4 Novembre” espresse la sua addolorata perplessità che in paesi agricoli altamente produttivi con la necessità del trasporto dei prodotti della terra con enormi carri non si pensasse a rendere le strade più agibili e illuminate. Fu gettata la pietra nello stagno e le cose iniziarono a muoversi. Entro un certo tempo i Comuni limitrofi e Satriano si accordarono per ordinare una serie di lavori per cui alcune strade furono ricoperte di basolatura, quelle campestri venivano periodicamente appianate, specie dopo periodi di piogge, con pietrisco e cemento. Nello stesso tempo con la collaborazione del podestà, del direttore didattico, del - 19 -
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segretario comunale furono diffuse disposizioni severe che i bambini al di sotto degli anni 11 andassero a scuola e fu stabilito di assegnare una sia pur modesta sovvenzione ai genitori per ogni figlio che frequentasse regolarmente la scuola elementare. A Satriano erano ancora frequenti altri incidenti qualche volta anche mortali: i carretti circolavano per le oscure vie campestri senza il lume ad olio acceso nella parte posteriore. Pertanto chi ritornava a casa in bicicletta poteva non vedere la distanza che lo separava dalla fine di un carretto, vi urtava contro e una caduta con la testa su di un fondo stradale di pietra del Vesuvio poteva causare la morte. L'appuntato Iavarone quando era di servizio nelle strade di campagna fermava i carretti che non erano in regola e applicava la multa, come voleva la legge, chiedendo al conducente il perché non tenesse il lume acceso; certi dicevano che era tale la loro povertà che non accendevano il lume per risparmiare l'olio. Poiché il danaro di ogni multa per metà andava al carabiniere di servizio e l'altra metà alla caserma, Tammaro Iavarone si impietosiva e la pagava con suo danaro, però avvertiva il multato che se un'altra volta fosse stato sorpreso a compiere la stessa infrazione sarebbe andato proprio in galera (1). Così questa cattiva abitudine fu completamente sradicata. A questa problematica di vita paesana si aggiungeva il flagello di rapine sempre più spietate, sempre più sanguinose. Fra il 1933 e il 1934 l'appuntato Tammaro Iavarone con gli altri carabinieri della caserma di Satriano ingaggiò una lotta accanita contro il brigante G.P. detto “Capavacante”. (1) Ha raccontato ciò un carabiniere, che come allievo aveva fatto servizio con l'appuntato Iavarone, alla figlia Maria Cristina incontrata per caso in una scuola frequentata dalla propria figlia e sua alunna. Il cognome e la grande somiglianza del volto, il suo metodo didattico severo, ma non rigido, il suo senso del dovere inflessibile con lei stessa, ma comprensivo ed umano specie con gli alunni più deboli, richiamavano a questo Carabiniere, che era agli ultimi anni di servizio, quell'appuntato Iavarone Tammaro con il quale aveva operato a Satriano circa ventiquattro anni prima. Così un giorno chiese alla professoressa di latino che insegnava presso “il Pizzi” di Capua, di che paese fosse e se conoscesse un tale Tammaro Iavarone appuntato dei Carabinieri di Grumo Nevano. Con un sorriso la professoressa di appena ventisei anni, ma già capace di indurre i giovani a lavorare seriamente e con amore per il sapere, gli rispose di essere la sua quinta figlia. Allora il carabiniere S.F. parlò della bontà, dell'umanità che aveva sperimentato con lui e raccontò anche il fatto delle multe pagate da lui, di cui non accettava la sua parte. - 20 -
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Costui era imprendibile; da anni gli davano la caccia dopo una rapina finita nel sangue, ma la rete di complicità che lo proteggeva impediva alle forze dell'Ordine sia Carabinieri che agenti di Pubblica Sicurezza di stanarlo e fargli pagare i suoi scellerati delitti. Quest'uomo era un rapinatore di notte; quando con i suoi uomini faceva irruzione nelle masserie, uccideva chi cercava di difendere la sua roba e di giorno si mimetizzava fra le persone comuni nella piazza, nel mercato, vestito da frate, da prete o da artigiano del ferro che si trovava per caso a Satriano, portando sempre cappelli in testa; si incuriosiva a sentire il racconto del feroce fatto di sangue accaduto insieme alla rapina. Sicchè in base ai racconti che sentiva cambiava il piano della rapina successiva, che effettuava sempre dopo la fiera di Nola dove dai paesi vicini venivano ricchi massari a vendere le loro bestie e portavano a casa un congruo gruzzolo. L'appuntato Tammaro Iavarone fece la richiesta, restata segreta agli altri, di gestire la lotta contro la banda di rapinatori con sue iniziative che potevano essere imprevedibili. Egli si era accorto che un collega si occupava del fatto con molta superficialità, anzi destava sospetti con un comportamento che sembrava quello di un connivente con la banda, non di uno che lottasse per annientarla. Una notte fu eseguita una efferata strage in una masseria a Sarno; due coniugi e un figlio furono uccisi conficcando loro nella gola dei fazzoletti e poi la masseria fu depredata del danaro e delle bestie. Tammaro Iavarone rimase sconvolto e giurò a se stesso che avrebbe mandato all'ergastolo l'infame assassino. Dai fazzoletti tolti dalla gola delle vittime comprese che il criminale era di un paese vicino: li aveva visti vendere al mercato di Palma Campania e a S.Valentino. Inoltre precorrendo gli esami che si fanno attualmente sulle scene dei delitti, osservò ogni cosa in tutta la masseria senza trascurare neppure i minimi particolari. Vide le impronte dei buoi che erano stati portati via e notò che si fermavano sul Sarno fra Striano e Poggiomarino. Inoltre il figlio superstite della famiglia sterminata, un ragazzo di undici anni che dormiva sul mezzanino sopra il fieno nella stalla si era salvato perché non era stato visto; egli muto per il terrore aveva visto entrare
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nella stalla quattro uomini, uno dei quali aveva la testa di forma particolare: allungata, non tonda ed era quello il più cattivo. Nel territorio vesuviano si parlava di un ragazzo che era finito nel riformatorio a Napoli perché era violento, ladro, sfaccendato e voleva sempre soldi dalla madre per andare a giuocare ad una specie di azzardo detto “zecchinetta”. Era di Palma Campania e la gente lo chiamava “Capavacante” perché aveva la testa “vacante” (vuota) senza tutto il cervello per la sua forma ed inoltre era irragionevole. Tammaro Iavarone ricordò di aver visto nella fiera di Nola un tale che aveva il cappello tirato sulle orecchie in modo insolito. Il carabiniere che aveva suscitato i suoi sospetti conduceva una vita più agiata di come gli potesse consentire il suo stipendio. Inoltre dei parenti della moglie abitavano dove si fermavano le impronte dei buoi rubati; l'appuntato pensò che le bestie fossero state spinte là mentre arrivasse il ricettatore. L'appuntato Tammaro Iavarone vestito come un poveraccio con barba non rasa, scarpe sdrucite, una bisaccia appesa alla spalla andava girando costeggiando il fiume Sarno, soffermandosi per il mercato, dedicando non le ore del regolare servizio, ma l'intera giornata a seguire le sue piste. Ci fu una grande fiera di bestiame a S. Valentino: dai paesi vicini vennero tanti allevatori con cavalli, muli, vitelli: l'appuntato Tammaro Iavarone andava curiosando, comprava qualcosa da mangiare, ma si fermò vicino ad un massaro che teneva in bella mostra due stupendi vitelli, un puledro e delle pecore in coppie. Capì subito chi era il più ricco fra quelli che partecipavano alla fiera ed era la vittima designata. Così gli si avvicinò chiedendo se poteva lavorare nella sua masseria perché aveva perso il suo posto di lavoro e rassicurò il massaro che egli sapeva fare qualsiasi cosa nei campi e nella cura del bestiame. Perciò chiese dove si trovava la sua masseria, restò d'intesa che il giorno dopo si sarebbe presentato alla masseria per far vedere che cosa sapesse fare: se la prova gli sembrava soddisfacente egli era ben lieto di lavorare nella sua fattoria. Intanto l'appuntato con i mezzi che c'erano a disposizione allora si mise in contatto con la tenenza di Nola e chiese che venissero anche altri carabinieri di rinforzo senza informare il brigadiere di Satriano. Fu preparato un piano
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d'azione con 15 carabinieri in borghese, vestiti come contadini; a sera questi si acquattarono nei campi di granturco,pronti all'azione. Dopo la mezzanotte si presentarono i “compari” per fare la festa anche al ricco M.R., che aveva campi sterminati di noccioli, terre fertilissime di ortaggi irrigate con un congegno che utilizzava le acque del fiume Sarno, il quale costeggiava le sue terre. Quando la banda fece irruzione nella parte terrena della masseria, prima che arrivassero al piano superiore per prendersi il danaro e quello che c'era di valore, arrivarono alle loro spalle 15 uomini fra cui il finto disoccupato. “Capavacante” sorpreso ordinò il fuoco ai suoi uomini, ma i carabinieri non si lasciarono sorprendere; con mossa repentina si lanciarono sui banditi, li immobilizzarono e li ammanettarono. Legati ad una catena e sorvegliati da parte dei carabinieri restarono nella masseria finchè giunse il cellulare che condusse i cinque rapinatori assassini al carcere di Poggioreale a Napoli. La banda aveva compiuto numerosi delitti fra quelli avvenuti nelle strade e quelli nelle masserie. In quella occasione l'appuntato Tammaro Iavarone fu decorato con la medaglia d'oro al valore, mentre il collega colluso fu trasferito in Sardegna nella selvaggia terra, cuore del banditismo sardo, dove imparò ad avere rispetto per la sua divisa anzi per i valori che la divisa rappresentava. “Capavacante” e i suoi complici furono processati e condannati all'ergastolo.
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Tammaro Iavarone con la moglie Rosa e le figlie Assunta, Grazia, Pasqualina nellâ&#x20AC;&#x2122;estate del 1932 - 24 -
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6°CAPITOLO
Fine della carriera Intanto la vita familiare dell'appuntato dei carabinieri si era arricchita di sangue; dal 1931 al 1936 nacquero altre tre figlie: Pasqualina, Giovanna, Maria Cristina. La vita era serena perché il servizio non pesava all'appuntato Iavarone, che a casa sua trovava un' oasi ristoratrice con una moglie intelligente, economa, ottima educatrice per le figlie, laboriosa e brava nel creare lavori di ogni specie all'uncinetto, nel cucire e nel ricamare, sicchè con poco denaro vestiva le sue bambine come bambole. Alla fine dell'estate del 1936 si scatenò una tempesta spaventosa con un vento ad altissima velocità. Allora un convoglio della Vesuviana a S. Valentino fu sbalzato dai binari e fu gettato nel fiume Sarno. L' appuntato Tammaro Iavarone con gli altri carabinieri che erano in servizio a Satriano accorse a prestare aiuto ai viaggiatori intrappolati nelle vetture. Con la sua forza erculea con uno sforzo sovrumano tutti furono messi in salvo. Però la fatica dura, il sudore dovuto al caldo soffocante e alla divisa con giubba a maniche lunghe di obbligo allora anche d'estate, l'umidità del fiume gli procurarono una gravissima forma di bronchite e polmonite. Tutti avevano affrontato una esperienza terribile, ma nessuno era stato capace di resistere agli sforzi come Tammaro Iavarone, che si dava da fare pure oltre l'orario di servizio in rapporto alla sua possanza fisica. Egli, infatti, era instancabile: lottava con le acque e con le ferraglie cercando di far evitare errori agli stessi viaggiatori, che presi dal panico potevano peggiorare la loro situazione aprendo sportelli o finestrini. All'arrivo dei vigili del fuoco da Napoli, già la maggior parte del lavoro era stato fatto. A sera l'appuntato non poteva respirare; era febbricitante, ma andò ugualmente in caserma perché occorreva fare il rapporto circa l'accaduto; allora iniziò a tossire in modo cavernoso. Dopo qualche giorno dall'incidente del treno nel fiume l'appuntato Tammaro Iavarone era inchiodato a letto con dolori di schiena, febbre altissima e crisi di una tosse che gli scuoteva il petto. Non - 25 -
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poteva muoversi dal letto neppure per le esigenze fisiologiche e la moglie doveva accudirlo e assisterlo in tutto. In congedo per malattia non percepiva lo stipendio. Egli presentò la domanda al comando generale dei carabinieri affinchè gli fosse riconosciuta la malattia per causa di servizio e gli fosse corrisposta almeno la paga parziale prevista dalle leggi di allora. Ma non volle firmare la richiesta il dirigente della caserma dei carabinieri di Satriano, un individuo freddo e malvagio, sposato con una donna- come si diceva - ricca, ma brutta come la “malanotte” e con una figlia gracile e più brutta della madre, educata ad un comportamento superbo, sicchè se suscitava tenerezza da una parte, dall'altra non si attirava le carezze neppure dalle maestre buone ed affettuose, con il suo atteggiamento di principessina sul trono, che guardava con disprezzo le contadinelle dai vestiti laceri, con gli zoccoli ai piedi senza calze anche d'inverno. Il brigadiere T. odiava quell' appuntato che era come una montagna, ma con gli occhi profondi delle persone buone, bello di lineamenti, duro nel suo lavoro, ma sempre umano, con una moglie bella anche dopo cinque maternità, fuori dal giro dei pettegolezzi delle signore degli altri carabinieri, con delle figlie belle ed intelligenti che erano considerate dei prodigi a scuola. La prima Assunta di otto anni nel 1936 frequentava la terza elementare, era bella e di vivace personalità, matura più dei suoi anni; si distingueva fra tutte le compagne perché era l'unica che parlava in italiano corretto, capiva subito ogni argomento, aiutava le compagne che erano in difficoltà ed era scelta per le recite di beneficenza e per i discorsi alle visite a scuola delle Autorità di tanto, in tanto. La seconda, Grazia frequentava la seconda elementare ed aveva le stesse prerogative di vivacità intellettiva della prima sorella, ma aggiungeva a ciò il fatto che polarizzava l'attenzione di tutti su di sé per la sua incomparabile bellezza, con occhioni azzurri come il mare, un volto roseo, tondo incorniciato da capelli di un biondo dorato; a guardarla sembrava -come hanno detto delle persone di Satriano- “un angelo di quelli dipinti dai grandi autori del Rinascimento”. La terza, Pasqualina frequentava l'asilo dalle suore del paese ed era una bambina straordinaria sotto tutti gli aspetti. La quarta, Giovanna aveva
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due anni e non era da meno delle sorelle; molto bella, con occhi neri e vispi e delle stupende fossette sulle guance, d'intelligenza precoce e di formidabile intuito in tutte le cose. Il 24-7-1936 era nata la quinta: Maria Cristina, che era tranquilla e non dava da fare in modo particolare alla madre Rosa, già molto impegnata per reggere il peso della famiglia. In quell'occasione l'illustre dirigente della caserma sfogò il suo malvagio livore. Dichiarò che la grave polmonite e i dolori alla schiena dell' appuntato Iavarone Tammaro fossero dovuti non alla sua grande fatica fatta per il sinistro del treno, ma derivassero dalle conseguenze del suo peso che superava il quintale. Egli sosteneva che era doveroso da parte sua indurlo a presentare domanda di prepensionamento per invalidità fisica. Se l'appuntato Tammaro Iavarone si fosse congedato anche un mese prima della fine del regolare servizio di venticinque anni, avrebbe percepito i due terzi della pensione; considerando che allora già questa era quasi metà dello stipendio c'era in prospettiva una vita di ristrettezze e di disagio per la famiglia. Sottoposto alle visite mediche del caso, quando egli si rifiutò di chiedere il pensionamento anticipato, risultò che fosse ancora idoneo al suo lavoro. Infatti il peso dell'appuntato in rapporto ai due metri di altezza non era tanto sproporzionato, inoltre egli non aveva un corpo flaccido di grasso, ma aveva un'ossatura massiccia e muscoli ferrigni per cui l'affermazione del brigadiere era fatta in malafede ed egli lo sapeva. In questa occasione la signora Iavarone diede la più grande prova di forza morale e di dignità come persona: quando le fu proposto di ricoverare il marito presso l'ospedale militare di Caserta per la copertura delle spese mediche da parte dell'Arma dei Carabinieri, rifiutò l'offerta e si assunse l'onere di curarlo a casa a spese proprie. Rifiutò anche il danaro raccolto dai colleghi per venire in aiuto alla famiglia. Il paziente fu curato dal dottore C.A.,medico condotto di Satriano, il quale non faceva a meno di prendersi l'onorario per le visite domiciliari, ma era molto bravo e seppe curarlo nel modo giusto. Rosa, che aveva condotto una vita dignitosa, ma senza sprechi con lo stipendio del marito, per la sua capacità di ridurre al minimo le spese più onerose di una famiglia come quelle
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dell'abbigliamento proprio e delle figlie, era riuscita a mettere da parte del danaro di mese in mese; inoltre non aveva toccato il danaro ricevuto in dote dai genitori; la somma di L. 10.000 nel 1927, che si era accresciuta degli interessi maturati. A nove anni cosĂŹ la figlia Assunta si recava all'ufficio postale, che era al piano terreno del palazzo accanto a quello in cui la famiglia Iavarone abitava a piazza Municipio e portava il libretto postale con la firma della madre per prelevare il denaro che serviva di volta in volta. Una brava donna che faceva le pulizie nell'ufficio accompagnava la bambina a casa con il denaro prelevato per timore che lo perdesse o qualche monello glielo scippasse. In questo momento tanto difficile per la famiglia Iavarone offrĂŹ un valido aiuto a Rosa, Nunzia Mariniello sua figlioccia, che ora ha circa 88 anni e vive a S. Giuseppe Vesuviano. I genitori, pur avendo bisogno della sua collaborazione nel lavoro dei campi
Tammaro Iavarone, congedato per raggiunti limiti di etĂ settembre 1937. - 28 -
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vollero che Nunzia rimanesse a casa della sua madrina finchè non si ristabilisse l'ammalato. Così per due mesi quell'angelo di figlia si prese cura delle bambine più piccole, accudiva le altre tre, dava una mano nel disbrigo delle faccende domestiche, andava a fare la spesa quotidianamente, passava per lo studio del dottore C. e poi in farmacia. Tuttavia era troppo il da fare con le esigenze del paziente e di cinque bambine da gestire. Perciò mentre Rosa assisteva il marito, le figlie, pur aiutate da Nunzia, furono costrette a crescere in fretta: le due più grandi si preoccupavano di stare attente alle più piccole quando Nunzia era fuori per qualche commissione e si facevano i loro compiti. La piccola Maria Cristina, già pacioccona dal primo giorno di vita, come se capisse che la mamma aveva gravi problemi da risolvere, nella sua giornata rimaneva nella culla sveglia, ma senza piangere, neanche quando era l'ora della poppata e non l'aveva in tempo. La madre si dimenticava di averla, presa da un da fare continuo. Quando entrava nella stanza in cui c'era la sua culla per qualche necessità, la prendeva e l'attaccava con amore al seno per darle il latte. In qualche giornata più difficile era restata senza nutrimento e senza cambio di pannolini per oltre cinque ore. Finalmente Tammaro Iavarone guarì; la ripresa completa fu lenta. Alla fine del 1936 riprese servizio, ma con mansioni non gravose, poiché non poteva fare sforzi con le ossa della colonna vertebrale lese. All'inizio del 1937 presentò la domanda di collocamento in riposo poiché a settembre di quell'anno si compivano i 25 anni regolari della carriera. Il 7 settembre 1937 ci fu il suo congedo dall'Arma dei Carabinieri con l'attribuzione della croce d'oro al merito. Prima che si congedasse, un colonnello medico dei carabinieri di Satriano, che era in servizio a Roma, ritornato al suo paese conobbe la vicenda di questo appuntato dalla sorella Maria, che aveva fatto da madrina a Grazia e Pasqualina; si interessò al problema, riprese la sua pratica, si accertò dei fatti e gli fece riconoscere sia la grave forma di polmonite che la lesione alla schiena come malattie per causa di servizio. Perciò gli furono corrisposti gli stipendi non erogati per cinque mesi e gli fu anche concesso un “bonus” per il rimborso delle spese che aveva dovuto sostenere per
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le necessarie cure mediche. Questo giusto riconoscimento fu di grande soddisfazione per Tammaro Iavarone, il quale si allontanava da Satriano con la famiglia fra manifestazioni di affetto, di stima, di gratitudine per il servizio prestato con la più grande abnegazione, sia da parte delle Autorità militari e civili sia dalla parte dei più umili popolani. L'Arma dei Carabinieri si assunse l'onere economico del trasloco e dei volontari sastrianesi vollero collaborare nelle fatiche dello sfratto della casa di Satriano e della sistemazione della casa di Grumo Nevano. Quando il lavoro grosso finì Rosa e le figlie si diedero a riporre le cose nei dovuti cassetti; Tammaro accompagnò gli amici ad un ristorante frattese “da Umberto Puzio”, attuale “Giardino degli aranci” perché ritornassero a casa rifocillati e con dei buoni dolci frattesi per i loro familiari. Tammaro, negli ultimi tempi del servizio era assillato dalla preoccupazione che la sua famiglia dovesse affrontare momenti difficili all'inizio del suo pensionamento, infatti per le varie procedure burocratiche egli avrebbe iniziato a percepire la pensione dopo alcuni mesi, naturalmente con gli arretrati. Inoltre il danaro di riserva della famiglia era stato speso per le sue cure durante il periodo della malattia. Tuttavia non comunicava a moglie e figlie quello che aveva dentro di sé, cercava di ridurre le spese al minimo indispensabile di modo che rimanesse una parte dello stipendio per le necessità più urgenti della nuova vita. Da una parte egli si affidava nelle mani di Dio, ma nello stesso tempo aveva seminato legumi e ortaggi alla fine dell'estate nel proprio fondo, perciò fra la fine di settembre e l'inizio di ottobre ci sarebbero stati fagiolini, rape, broccoli e tanti pomodori. Nel giardino c'era frutta di ogni genere e un pollaio con galline ovaiole, lasciate dall'inquilina che occupava la casa dopo la morte dei coniugi Giovan Giuseppe e Pasqua, suoi genitori. Però Tammaro Iavarone nel periodo che precedeva il suo congedo, venendo spesso a Grumo Nevano per regolare le sue cose, aveva preso accordo con i cognati Mele di dare loro la sua collaborazione nell'attività agricola e trarne un
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utile. Anche altri ricchi agricoltori aspettavano che Tammaro ritornasse a Grumo Nevano per servirsi della sua eccellente opera. Quando si realizzò il miracolo di vedere cadere la manna dal cielo, venendo in possesso di una bella somma di danaro, ne fu lieto in modo inconcepibile: non solo non ci sarebbero stati problemi economici per la famiglia, ma c'era anche la disponibilità di fare dei lavori nella casa per renderla piÚ accogliente
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7°CAPITOLO
Ritorno al paese d’origine Persecuzioni fasciste Da pensionato Tammaro Iavarone ritornò a Grumo Nevano dove c'era la casa che si era fatta costruire prima di sposarsi, ristrutturata secondo le esigenze della famiglia e il fondo di cui era diventato proprietario, prima gestito dal padre. La vita scorreva tranquilla ed egli pensava che non avrebbe più corso pericoli; lavorava incessantemente nel suo campo per eliminare alberi di scarsa utilità e intensificare le colture che davano un guadagno maggiore, oppure erano più utili alla famiglia. Con la sua forza straordinaria rendeva la terra ben coltivata ed opportunamente sfruttata, una miniera d'oro e infondeva l'amore per l'agricoltura anche nelle figlie, che al suo fianco, come se giuocassero, lavoravano seriamente. Fu resa produttiva anche la metà del campo che era considerata infeconda perché maledetta. Nel 1938 nacque la sesta figlia: Silvia. Ci fu un po' di delusione alla sua nascita poiché dai sintomi della gestazione che erano stati del tutto diversi, Tammaro e Rosa Iavarone pensavano che sarebbe nato a loro finalmente un figlio maschio. Tuttavia la sesta bambina ugualmente fu accolta con infinito amore. Ma nubi nere stavano per addensarsi sulla famiglia Iavarone: a Grumo Nevano si formarono squadre di fascisti picchiatori, i quali facevano imposizioni di ogni genere a quelli che non partecipavano alle varie manifestazioni del partito di Mussolini. Individui che erano “feccia” umana con la camicia nera compivano le peggiori ribalderie; costringevano onesti e retti padri di famiglia a bere bottiglie intere di olio di ricino, sicchè poco dopo capitava che stessero male o che qualcuno morisse addirittura di dissenteria. Tammaro Iavarone, essendo pensionato ed avendo ancora il fisico di un gigante, fu adocchiato perché facesse lo squadrista cioè il picchiatore di poveri malcapitati. Un giorno una schiera di questa “brava” gente si avvicinò al pensionato mentre era al lavoro - 32 -
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nel suo fondo e fece la proposta, partendo dall'affermazione che gli esponenti del Fascio locale erano stati generosi con lui perché non aveva la tessera di fascista e potevano punirlo come antifascista; pensando che aveva tante figlie lo avevano risparmiato, ma egli si doveva mettere al servizio del partito; infatti solo al vederlo le persone che meritavano una punizione si sarebbero messe in regola. Tammaro Iavarone disse un “no” chiaro e netto aggiungendo che egli per 25 anni aveva difeso il cittadino dalle violenze altrui e in pensione non si sarebbe messo al servizio della violenza contro alcuno; così mollò i messaggeri. Intanto poiché gli squadristi erano capaci di consumare atti abominevoli su ragazze di ogni età per ritorsione verso i genitori disobbedienti, aveva gli occhi aperti in ogni momento sulle figlie, abituate a trascorrere quasi tutta la giornata in campagna durante le vacanze scolastiche nella più grande serenità o aiutando il papà e la mamma, o giuocando. Dopo qualche giorno i signori con le camicie nere si ripresentarono per rinnovare la proposta, ma Tammaro Iavarone rispose ancora che non avrebbe mai chiesto la tessera di fascista, né avrebbe indossato la camicia nera. Uno dei compari con un sorriso beffardo disse: “statti attento alle tue “trappanelle”, quando capitano da sole in campagna, non si sa mai”, sicuro che all'idea di un pericolo per le figlie il pensionato si sarebbe inchinato ed avrebbe accettato ogni proposta. Ma Tammaro Iavarone si sentì il sangue alla testa. Egli era tenerissimo verso le figlie, vigile e nello stesso tempo attento a circondarle di un affetto riservato per proteggerle dalla conoscenza delle cose sconce della vita, sicchè la loro spiritualità era candida per l'atmosfera familiare sana e l'ambiente scolastico frequentato, che era quello delle suore di S. Gabriele Arcangelo di Grumo Nevano, di eccellente levatura educativa e formativa. Perciò a questo punto la sua pazienza ruppe gli argini; egli assestò un calcio nel sedere a quell'essere ignobile che aveva lanciato l'avvertimento, scagliandolo a due metri di distanza. Da quel giorno cominciarono le rappresaglie più infami: veniva sistematicamente o depredato il raccolto oppure veniva devastato durante la notte. Ad esempio, venivano tirate dal suolo le piante di patate quando i tuberi erano a metà crescita, portando via quelli che erano già
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utilizzabili, rendendo una poltiglia tutto il resto. Quel prodotto che era necessario per una famiglia numerosa in tempo di guerra ancora più prezioso, veniva meno. La pensione era inadeguata alle esigenze di vita di una famiglia, per cui tutti i carabinieri messi in pensione a 25 anni di servizio in genere sposati a 36 anni, perciò con figli piccoli da portare avanti, accettavano un impiego offerto dall'amministrazione comunale o da altri enti. Tammaro Iavarone aveva rifiutato l'impiego presso il dazio di Satriano e aveva preferito ritornare a Grumo Nevano convinto di poter vivere giorni tranquilli con la famiglia e di poter mantenere i suoi cari in un tenore di vita dignitoso con il ricavato della coltivazione del suo fondo. Egli, infatti, aveva creato già prima del pensionamento un meleto di annurche che era un prodigio. Il fondo era stato circondato da filari di noci che ogni anno facevano realizzare un bel po' di danaro, specie se le noci abbacchiate in tempo erano sbucciate, lavate ed essiccate nella casa. La frutta venduta verde nel campo rendeva poco e tolte le spese necessarie per la potatura degli alberi ogni anno e l'abbacchiatura fatta da specialisti del campo, detti “scognatori”, che chiedevano un compenso elevato per il rischio cui andavano incontro, rimaneva pochissimo. La famiglia Iavarone con decisione unanime stabilì di vendere le noci non in campagna dopo l'abbacchiatura, ma secche ad un commerciante onesto che se ne serviva per l'esportazione: A. Riccitiello, legato alla famiglia di Rosa da rapporti di parentela. Le bambine ad ottobre del 1938 andavano a scuola con le mani rese nere per la sbucciatura delle noci dal mallo, ma non si davano alcun pensiero per questo; infatti i genitori dicevano che il danaro guadagnato con il loro lavoro sarebbe servito ai loro studi: infatti essi ritenevano opportuno non preparare per le figlie una dote in vista del futuro matrimonio da grandi, ma guidarle al conseguimento di un titolo di studio, che sarebbe stato per loro la vera dote, inoltre avrebbe assicurato loro la garanzia di rispetto umano nella famiglia e fuori di essa. La madre Rosa raccontava alle figlie, mentre sgranocchiavano le pannocchie o i baccelli di fagioli o fave, che molte donne nella famiglia soffrivano
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molto: erano trattate come serve dai mariti; spesso erano mantenute nelle privazioni anche quando essi erano ricchi. Perciò una donna con un titolo di studio si conquistava la dignità e la libertà; se aveva una professione avrebbe potuto farsi una famiglia ugualmente, ma non sarebbe stata umiliata da un marito tirchio perché non sarebbe dipesa da lui per qualsiasi cosa, anzi avrebbe anche potuto mandarlo al diavolo se la convivenza fosse risultata difficile. Naturalmente come madre augurava alle figlie di trovare dei compagni della vita buoni e affettuosi come il padre, che era un “burbero benefico” ed aveva sacro rispetto della moglie, incredibile tenerezza protettiva per le sue bambine, con le quali talvolta giuocava, nel tempo libero, come se fosse anche lui un bambino oppure faceva il giudice di gara nei loro giuochi. Ma se fosse capitato il contrario dedicandosi ad una professione avrebbero dato valore alla loro vita, sarebbero vissute nel benessere e avrebbero potuto anche dedicarsi ad attività benefiche. Per dare sicurezza economica e serenità spirituale a se stesse dovevano collaborare in tutto ciò che era loro possibile nella coltivazione del fondo; non dovevano far sprecare danaro frequentando la scuola senza profitto, altrimenti per la vita non si sarebbero trovato nulla, né una dote, né un titolo di studio. Inoltre mamma Rosa non perdeva mai una occasione per dare lezioni di vita alle figlie. Faceva notare loro che la famiglia viveva nel benessere perché c'era la casa di proprietà e poi la terra rendeva i mezzi di vita quasi totalmente con il continuo lavoro del papà, che andava al fondo allo spuntare della luce, interrompeva il lavoro per un frugale e rapido pasto con moglie e figlie, consumato dopo aver recitato insieme la preghiera di ringraziamento al Signore, per ritornare a lavoro fino allo scendere delle tenebre. Ma se il raccolto qualche anno fosse andato a male per un motivo o per un altro, sarebbe stato necessario ricorrere a debiti per affrontare le spese scolastiche e per pagare gli operai per i lavori specialistici del meleto e del noceto. Per un imprevisto qualsiasi se non si fossero onorati in tempo i prestiti ricevuti, il creditore si sarebbe presa la proprietà; in tal caso con la pensione non sarebbe stato possibile vivere e a delle ragazze non rimaneva altro che andare a fare le
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servette. Talvolta la madre e le figlie stavano insieme lunghe ore quando si rifacevano i materassi di lana che veniva allargata bioccolo per bioccolo con grande pazienza. Le ore di lavoro erano utilizzate da Rosa anche per raccontare fatti che avevano una sola finalità: insegnare alle figlie a lavorare in casa, in campagna oltre che impegnarsi a scuola, in una concezione della vita di sicurezza per il futuro e di serenità per il presente, purché si fossero rispettate tutte le regole impartite, che poi non pesavano affatto, accettate consapevolmente. Ella, infatti, non tralasciava nessuna occasione mentre era accanto alle figlie che “smallavano” noci o sfogliavano i tutoli delle pannocchie, affinchè fossero essiccati e ne fossero staccate le cariossidi, dopo aver aperto dei varchi su di essi per sgranocchiarli più facilmente. Ogni tanto raccontava le vicende di qualche famiglia benestante e nota nel paese che era finita quasi all'elemosina perché genitori e figli avevano avuto cattivo cervello; infatti nel benessere avevano sperperato, poi per un caso imprevisto non avevano nulla da parte per superare l'emergenza; un”amico” si era fatto avanti per dare loro una mano; ma dopo due anni nella villetta ammirata per la sua bellezza, era andato ad abitare proprio lui dopo averne ottenuto il possesso per il debito non onorato, accresciuto di interessi usurai accumulatisi nel tempo. Inoltre ambedue i genitori avevano fatto capire alle loro figlie che la famiglia é un porto sicuro dove si deve parlare di ogni problema, specie di quelli preoccupanti, ad ogni membro di essa. Però nessuno deve conoscere all'esterno né il bene che può essere oggetto di livore maligno, né il male che può esporre la famiglia alla commiserazione degli altri, condita di falsa bontà e di critiche velenose. Pertanto le tre sorelle Iavarone più grandi nel 1938 quando la prima aveva 10 anni, la seconda 9, la terza 7 già erano agguerrite e sapevano che esistevano pure intorno a loro persone cattive che cercavano di far loro del male, ma la mamma e il papà non lo avrebbero permesso. Le bambine più piccole di 4 e 2 anni erano tenute a bada dalle più grandi; la sesta di pochi mesi era accudita da Rosa per la sua tenera età. Alle tre sorelle più grandi fu dato l'ordine assoluto
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che non dovevano mai andare in campagna da sole a giuocare; inoltre chiunque avesse bussato alla loro porta, anche se avessero sentito la voce di un parente, non dovevano aprire, ma chiamare il papà, se questi fosse stato fuori casa dovevano chiamare la mamma. Però alle bambine non si comunicava tensione o paura perché a loro le cose venivano presentate come una specie di favola in cui c'erano bimbe buone insidiate dal lupo cattivo, perciò facendo massima attenzione alle parole della mamma e papà nessun lupo cattivo le avrebbe assalite. Dopo il raid sulla coltivazione delle patate ci fu una rappresaglia più dura: fu bruciato il campo di grano già pronto per la mietitura. Mancando il raccolto di patate e di grano le condizioni della famiglia divennero molto critiche. Però stava crescendo il granturco: le piante a giugno erano floride, massicce, verdi e certamente avrebbero dato una buona quantità di pannocchie che poteva equilibrare le cose. Una mattina andando nel suo fondo Tammaro Iavarone rimase esterrefatto; già da lontano non vedeva la fitta massa verdeggiante, avvicinandosi vide lo scempio terribile che era stato fatto; tutta la piantagione era stata falciata. Era costato tanto comprare semi selezionati e concimi adatti; a ciò si doveva aggiungere la sua fatica di vangare la terra, diserbarla, curare le piantine ai primi mesi perché non fossero spezzate dal vento, nettarle delle erbacce di tanto in tanto, con la collaborazione delle bambine. Con la faccia di un cadavere Tammaro Iavarone ritornò a casa; informò dell'ultima carognata la moglie, la quale lo consolò esortandolo a non avvilirsi. Poiché i carabinieri di Grumo Nevano la prima e la seconda volta riconobbero che egli aveva subito una chiara ritorsione, accettarono la denunzia del danneggiamento da parte di ignoti e non fecero nulla di concreto, questa volta il pensionato si recò alla caserma di Frattamaggiore dove c'era un maresciallo che aveva fatto servizio con lui e ne conservava un meraviglioso ricordo per la sua condotta di uomo di legge e di persona. Quando questi sentì i fatti non gli fece neanche scrivere la denuncia; mandò a prendere “l'eroe grumese” cioè il responsabile del circolo fascista alla casa “littoria”, cioè alla sede del fascio di Grumo Nevano; quando questi fu al suo cospetto gli ordinò senza mezzi termini, di non “rompere più il c. al pensionato Tammaro Iavarone”. - 37 -
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8°CAPITOLO
Serenità nella famiglia Iavarone Dopo di ciò l'esistenza della famiglia ritornò tranquilla, ma i coniugi Iavarone non mollarono la guardia sulle figlie. All'inizio del 1939 precisamente a fine febbraio si annunciò la settima gravidanza della signora Rosa. Ne furono liete le bambine e i genitori. Essendo di salute vigorosa, di età ancora fiorente la gestazione non le arrecava alcun peso. Le riaffiorava alla mente l'idea che sarebbe nato il sospirato maschio: Giovan Giuseppe Iavarone. Intanto la famiglia superava i danni dei colpi subiti; infatti Tammaro quando trovò rovinato il campo di patate, zappò per bene la terra smossa, tagliuzzando le piante verdi delle patate sradicate, riducendole ad un utile fertilizzante. Poi in questo spazio di suolo seminò i fagioli, pur contro il loro normale tempo di semina. La terra resa grassa e feconda dal concime naturale diede un raccolto di fagioli rossi prodigioso. Nello spazio in cui c'era cenere con il residuo delle piante di grano non bruciate perché verdi, ma calpestate Tammaro con l'aiuto della moglie e delle figlie seminò il “granone”, una specie di mais bianco molto coltivato a Satriano, di crescita più rapida rispetto al granturco o mais. Però fu prima necessario ripulire la terra dalle radici del grano rovinato: questa fatica toccò alle bambine poiché il padre non poteva chinarsi al suolo per la sua enorme statura, inoltre doveva vangare via via la terra ripulita, doveva irrorare di verderame le viti e gli alberi di mele. Così nell'ultimo periodo dell'anno scolastico e ai primi giorni di vacanze esse trascorrevano lunghe ore in campagna a lavorare,ma si sentivano felici di farlo perché dimostravano “ai lupi cattivi” che la famiglia Iavarone era capace di rifarsi sempre. La piantagione di mais devastata fu estirpata; il fogliame rimase come fertilizzante per terra, i fusti già robusti furono utilizzati come canne per sostenere le piante dei pomodori. Vangando il suolo in profondità Tammaro Iavarone pensò di seminarvi le patate di raccolta autunnale. Era un azzardo perché se non ci - 38 -
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fossero state piogge ad agosto le patate messe nella terra e comprate ad alto prezzo al consorzio agrario si sarebbero rinsecchite, senza neanche germogliare. Naturalmente egli aveva bisogno della collaborazione della moglie e delle figlie; bisognava ripulire la terra di ogni erbaccia, tirare via le lunghe radici delle piante di mais rimaste ed occorreva portare l'acqua da casa in secchi per bagnare i solchi prima di deporvi le parti di patate con l' “occhio”, cioè con il germoglio rivolto in alto. Occorreva fatica massima, ma le lavoratrici davano tutta la garanzia di
Carmela Mele, sorella di Rosa sempre pronta ad aiutarla in ogni necessità
essere efficienti. Intanto la madre si dedicava alle altre attività della casa, alla cura delle due bambine più piccole e nello stesso tempo cuciva, rammendava, era attenta agli animali da cortile che formavano una specie di arca di Noè:
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galline, anitre, oche, colombi, tacchini, conigli che avevano bisogno di acqua, di mangime, ecc. preparava il pranzo. Quello che sembrava un danno irreparabile si trasformò in una fortuna: il mese di agosto fu piovoso in modo incredibile; il granone, che a Satriano cresceva bene innaffiato con le acque del Sarno, cresceva a vista d'occhio anche nel fondo di Tammaro Iavarone. Le piantine di patate fecero capolino dai solchi pochi giorni dopo la semina e diventavano sempre più rigogliose. A fine ottobre le piante da verdi diventavano gialle; era segno che le patate erano giunte a maturazione e si dovevano togliere dalla terra tempestivamente altrimenti con le piogge autunnali potevano marcire. Allora con perfetta intesa al ritorno dalla scuola il papà e le sue bambine andavano nel campo: le piccole tiravano le piante secche, il papà con la zappa metteva fuori i tuberi, che poi esse raccoglievano e mettevano in corbelli per portarli a casa. Era ritornata la serenità. Un giorno la famiglia al completo era nel campo ad ammirare le pannocchie di granone, che erano enormi attaccate ai fusti delle piante simili a canne per altezza, la madre diceva alle figlie che stava per arrivare tanto “ben di Dio” perché avevano lavorato molto anche loro. Con la vendita delle pannocchie e l'utilizzazione dei fusti tagliuzzati dati come nutrimento ai maialini,che avevano comprato, si sarebbero completamente rifatti. Per il mese di dicembre, alimentati con le mele che cadevano dagli alberi prima della maturazione, raccolte giorno per giorno, lo scarto delle patate e le piante di granone i maialini sarebbero cresciuti tanto, sicchè uno, prima di Natale, poteva essere venduto, l'altro ammazzato per gli usi della famiglia. Mamma Rosa spiegava alle figlie che era stata costretta a chiedere un prestito alla sorella “zia Carmela” per fronteggiare le spese più impellenti della scuola e della famiglia, ma con la vendita del maiale ad un macellaio onesto, che lo avrebbe pagato al prezzo giusto sapendo come fosse stato allevato, si sarebbe restituito il dovuto alla zia. Tuttavia non si doveva sprecare nulla dei prodotti della terra; si dovevano raccogliere ogni giorno tutte le mele cadute dagli alberi
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o per il sovrappeso sul ramo oppure rese malate dai bruchi, per cuocerle e darle da mangiare ai maiali insieme con la crusca. Le bestie nutrite con questa alimentazione negli ultimi periodi della loro crescita avrebbero dato carne squisita e poco grasso. Perciò il macellaio, don Eugenio, avrebbe dato loro anche un regalo a soldi oltre a pagare il prezzo stabilito in rapporto al mercato di allora. Tutto era andato secondo le previsioni: all'inizio di novembre i maiali erano già cresciuti e potevano essere macellati, ma Tammaro e Rosa pensarono di vendere quello che era stato destinato a ciò e alimentare in modo diverso quello riservato alla famiglia di modo che si arricchisse anche di grasso e desse poi buon lardo che era del tipo del lardo della colonnata ed era un ottimo alimento da unire alle minestre e renderle più sostanziose e saporite. Per il 15 novembre 1939 un suino fu preso da don Eugenio che pagò un buon prezzo, portò alle bambine della carne per far assaggiare la bontà del loro prodotto, aggiungendo anche il danaro “ per le caramelle”. Il ricavato servì a restituire il dovuto a zia Carmela e tutti ne erano felici.
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9°CAPITOLO
Dramma angoscioso Qualche giorno dopo iniziarono a venire nubi inaspettate all'orizzonte: il podestà Antonio Aversano mandò a chiamare Tammaro Iavarone per un vigile urbano e quando lo ebbe davanti gli chiese di offrire un ambiente abitabile alla giovanissima moglie di un “eroe” nazionale, un tale F.R. conosciuto come violento e sfaticato, che si era arruolato nelle camicie nere ed era partito per la Spagna per offrire il suo valido braccio all'amico del nostro Duce: Francisco Franco. Questa donna, morta da alcuni decenni, sottoponeva ad angherie ripugnanti le bambine dei suoi ospiti, circuiva come una donna di mestiere di grande esperienza Tammaro Iavarone per quel poco che egli era a casa e non c'era Rosa, assentatasi per qualche improvvisa necessità di famiglia. Inoltre la grande donna T.Q. aveva un atteggiamento provocatorio verso Rosa, minacciandola che, se le avesse fatto qualche sgarbatezza, avrebbe fatto perdere la pensione al marito, l'avrebbe mandato in galera come colpevole di molestie sessuali alla moglie quasi adolescente di un patriota. In pochi giorni la “sposina” aveva reso un inferno la vita di tutta la famiglia. Una mattina Tammaro dovette accompagnare Rosa dal medico condotto per un controllo dello stato di salute; le bambine più grandi erano state portate dalle suore dove alcune frequentavano la scuola elementare e le più piccole l'asilo; la piccola Silvia fu affidata ad una zia. Trovandosi fuori casa i due coniugi andarono pure a fare delle spese necessarie per il parto vicino; mancarono da casa tre ore. In questo spazio di tempo T.Q. d'accordo con qualche suo amico degno di lei fece portare via il maiale che doveva servire per la famiglia. Inoltre in segno di disprezzo aveva rovesciato il contenuto del suo vaso da notte su certa splendida insalata che era nel giardino. Rosa nel rendersi conto dell'accaduto fu presa da uno sdegno terribile, pregò il marito di andarsene in campagna per evitare che fosse accusato di avere arrecato alcuna offesa o violenza alla superdonna. Tammaro capì che era la cosa migliore; - 42 -
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chiamò zia Carmela perché le facesse compagnia e andò a lavorare fra gli operai di un vicino di terra in modo che non lo si poteva accusare in alcun modo di alcunché. Rosa era esasperata, invitò la sua ospite a ricordarsi delle regole della vita civile. Questa cercò di aggredirla lanciandosi contro di lei come una furia. Intanto erano ritornate le bambine più grandi dalla scuola, mentre le più piccole erano ancora all'istituto perché dovevano essere prelevate o dalla madre o dal padre. Assunta, Grazia e Pasqualina piangevano spaventate. Rosa pregò una buona donna, vicina di casa, di prelevare le bambine più piccole dalle suore e si recò alla casa comunale con l'ultima bambina in braccio e il suo enorme pancione chiedendo di essere ricevuta dal podestà. Il suo vice era figlio di una brava signora inquilina della famiglia di Mele Rosa ed anche buona amica. Questa signora nei gravi disagi del primo conflitto mondiale non soffriva delle ristrettezze degli altri perché dedicava cure amorevoli ai fratelli Mele quando i genitori erano al lavoro nei campi con gli operai e fuori casa per le loro necessità di commercianti di canapa e di vino, e si portava a casa ogni specie di prodotti alimentari delle diverse stagioni. Rosa si piantò davanti alla stanza del podestà Antonio Aversano per ore come una statua e volle che fosse ricevuta d'urgenza; l'impiegato che era alla porta non potè allontanare Rosa che alla fine che fu ricevuta; espose i fatti e volle che quel giorno stesso T. Q. con tutto il suo pregiato marito doveva avere l'ordine di andare via dalla sua casa e lasciare finalmente in pace la famiglia di Tammaro Iavarone, che aveva corso più volte il pericolo di perdere la vita nel compimento del servizio ed ora che poteva avere una vita tranquilla, dopo tanto sacrificio, non doveva essere esposto alle vessazioni fasciste attraverso quella vipera che gli avevano mandato in casa. Intanto nel grembo di Rosa la creatura si agitava; Rosa ricordò al vice-podestà che il benessere della famiglia Mele era stato esteso anche alla sua famiglia e perciò egli aveva potuto studiare con serenità; ora si doveva adoperare per ridare pace alla sua famiglia. Irremovibile non si staccò da quella stanza finchè il podestà chiamò un vigile, gli consegnò una lettera da recapitare a T.Q. presso la famiglia Iavarone con l'ordine di raccogliere
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le sue cose e andare via da quella casa quel pomeriggio stesso; se si fosse dichiarata ammalata, se avesse trovato questo pretesto per rimanere sarebbe stata portata in ospedale. Rosa fu soddisfatta, ma aveva forti dolori alla schiena; appena arrivata a casa, si fece chiamare la zia ostetrica: donna Vincenza Reccia e si mise a letto. Improvvisamente si trovò in un lago di sangue e perse i sensi; fu chiamato il ginecologo Lanzillo di Frattamaggiore per assistere Rosa nel parto; questi si era reso conto che il cuore del bambino non si sentiva; insieme con l'ostetrica rianimò Rosa e fece in modo che mettesse fuori il feto. Quando la creatura morta fu fuori dell'alvo materno ne fu osservato il sesso: era un maschio; il sospirato maschio era arrivato, ma una mano cattiva ne aveva spezzato la vita prima che vedesse la luce. Tammaro, che era nella stanza accanto si precipitò al capezzale di Rosa, ma non per la curiosità di sapere se fosse nato un maschio o una femmina, per la preoccupazione della salute della moglie. Certamente anche per lui fu un brutto colpo, che accettò come una prova a cui lo aveva voluto sottoporre Dio e si rassegnò alla cosa, benedicendo il Signore che non aveva tolto la madre alle sue bambine e a lui un'adorabile compagna. T. Q. chiese il piacere di andare via a sera poiché non voleva suscitare curiosità intorno a sé. Alle ore 20.00 uscì dalla casa della famiglia Iavarone, rifugiandosi a casa della suocera finchè avesse trovato un altro alloggio. Il colpo subito dai coniugi Iavarone fu grande e sofferto. Il rappresentante del fascio di Grumo Nevano conosceva il soggetto e sapeva pure che la madre non l'aveva voluta tenere presso di sé dopo il matrimonio poiché aveva altre figlie e i comportamenti di T. le avrebbero screditate. Gli esponenti della casa del Fascio di Grumo Nevano avevano atteso il momento propizio per fare una ulteriore rappresaglia all'antifascista Tammaro Iavarone. La violenza su cui era fondata l'ideologia del partito fascista e dei suoi seguaci aveva avuto un grande tributo: il sacrificio di un bambino, tanto atteso, che sarebbe stato oggetto della tenerezza più grande di due genitori amorevoli e di sei sorelle entusiaste di averlo.
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10°CAPITOLO
Passa la tempesta A poco a poco ritornò una certa tranquillità nella famiglia, ma in realtà era più apparente che vera. Tammaro Iavarone era forte come un'annosa quercia e pur soffrendo certamente molto si fingeva sereno per sostenere Rosa, che era distrutta dal dolore. Passò un anno e la coltre di dolore non la lasciava; Rosa era angosciata dal fatto che non aveva potuto dare al marito quel figlio che egli desiderava vivamente perché sperava di vederlo con la divisa di carabiniere come lui, ma con una carriera diversa; spesse volte egli si era incontrato con dirigenti che abusavano del loro potere con studiata cattiveria, con mente ottusa; un suo figlio con un titolo di studio di grado superiore, educato all'onestà, al senso del dovere, mai scisso dall'umanità, sarebbe stato guida sicura, sostegno saldo e illuminato dei carabinieri affidati a lui, garanzia di giustizia per il cittadino offeso senza motivo. Tammaro Iavarone vedeva con la sua immaginazione questo figlio, ma di volta in volta il sogno sfumava. Poi la settima maternità di Rosa a quarant'anni sembrò un miracolo. Inoltre tutto era sereno; non si notava alcun affaticamento in Rosa, che si dedicava al lavoro domestico, alla cura delle figlie; spesso dava anche un aiuto al marito nel lavoro del podere. Nella famiglia c'era stata un'atmosfera di gioia e di dolce attesa. Le bambine più piccole impararono ad osservare le evoluzioni delle farfalle sui fiori e felici le guardavano con occhi incantati perché sapevano che queste annunciavano l'arrivo di un'altra sorellina o di un fratellino. Talvolta entrava in casa qualche enorme farfalla detta nel linguaggio popolano “giglio” e suscitava la gioia specie di MariaCristina; alla fine dell'autunno le farfalle deponevano le uova da cui sarebbero nati i bruchi nell'inverno e se ne vedevano tante nel giardino della famiglia Iavarone. Poi l'atmosfera incantata era stata distrutta; tranne le prime due le altre non capivano che cosa fosse accaduto, perché la mamma era - 45 -
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a letto e piangeva sempre perché il papà aveva portato in soffitta la culla preparata con tanta cura. Capirono tutte con chiarezza che le farfalle non avrebbero più indicato la via da seguire alla cicogna perché questa non aveva nessun bimbo da portare. Esse non avevano voglia di giuocare e si avvicinavano alla mamma con uno stupore che non sapevano spiegarsi. La mamma che prima era sempre allegra, cantava delle belle canzoni mentre faceva il bucato o sfaccendava per la casa, era diventata muta e triste e il papà esortava le figlie a non fare rumori; a non parlare ad alta voce poiché la mamma doveva riposarsi. Tammaro Iavarone, aiutato dalla cognata Carmela svolgeva le funzioni di padre e di madre: faceva il suo lavoro nel campo, preparava da mangiare per tutti, faceva il pane, sbrigava tutte le altre cose della famiglia con attenzione e tranquillità per non turbare le figlie, ma chissà con quale sofferenza interiore. Passò un anno dalla tragedia del bambino perso; Rosa da una parte aveva superato i sensi di colpa per la sua responsabilità nell'accaduto, dall'altra forse sperando che sarebbe arrivato finalmente Giovan Giuseppe Iavarone, fu molto lieta quando si annunciò un'altra maternità. Ritornò nella famiglia la gioiosità dell'altra volta e con entusiasmo si attendeva l'arrivo della cicogna per agosto. Le farfalle autunnali svolazzavano ancora sugli ultimi fiori nel giardino. Rosa iniziava a sorridere di nuovo; fu riportata la culla giù dalla soffitta. Quando il suo stato di gravidanza era evidente, venne a portare una carta un vigile del Comune di Grumo Nevano, il quale era stato spettatore della lunga attesa di Rosa prima di essere ricevuta dal podestà, e sapeva che cosa era accaduto dopo; costui guardò la pancia di Rosa con un senso di disprezzo e disse: << ohi Rò, nun si ancora scacata?>> “o Rosa non sei diventata ancora improduttiva” usando il linguaggio dei contadini riferito alle galline che chiocciano e non fanno più uova nel cuore dell'estate. Rosa gli rispose: <<Ferdinando, modera le espressioni altrimenti ti faccio cacciare a pedate da mio marito>>. Ad agosto Rosa partorì una splendida bambina. Poiché si era in guerra i coniugi Iavarone la chiamarono Vittoria sperando che ciò fosse di buon auspicio per la patria. La settima femmina arrivata nella famiglia Iavarone era
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un prodigio: sorrideva alla mamma quando la prendeva dalla culla per darle il latte. Si illuminava nel volto quando le si faceva una carezza. I capelli biondi e folti che incorniciavano il suo volto rosato facevano contrasto con gli occhioni di un colore castano scuro quasi nero. In genere le persone bionde hanno gli occhi chiari( azzurri o verdi), come la sorella Grazia bionda con gli occhi del colore del mare. Papà Tammaro era felice come una Pasqua quando la prendeva in braccio, oppure la sollevava in alto e Vittoria allungava la manina verso il suo volto in una lieve carezza. La bambina era diventata il centro di interesse di tutta la famiglia, che ne era orgogliosa. Tammaro la contemplava incantato e diceva “ Vittoria con gli occhi neri e i capelli biondi è la più bella del mondo”. La sorella MariaCristina si avvicinava alla culla, la dondolava, poi si chinava su di lei, le avviava i capelli dorati con un piccolo pettine in modo che le faceva il “cocco” in mezzo alla testina. Quest'atmosfera gioiosa per la presenza di Vittoria nella famiglia fu di breve durata. Già talvolta Tammaro e Rosa erano assaliti una nube di angoscia che li turbava profondamente; ricordavano con biasimo verso se stessi la reazione che avevano avuto alla sua nascita, delusi nella loro speranza di avere finalmente un figlio maschio.
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11°CAPITOLO
Nuove prove Certamente essi ebbero una fitta al cuore e si rassegnarono di necessità ad essere genitori solo di femmine. perciò si sentirono puniti da Dio per la morsa di dispiacere provata nel vedere il sesso della settima creatura venuta al mondo: a pochi giorni di vita improvvisamente Vittoria si rifiutava di attaccarsi al seno materno, come il primo giorno. Quando mamma Rosa l'avvicinava alla mammella strillava e stringeva le piccole labbra come se queste si cucissero. Il medico di famiglia don Andrea Casillo le consigliò di tirarsi il latte con la tiralatte ad evitare che le comparisse qualche mastopatia per il suo ristagno e nello stesso tempo con il cucchiaino cercare di farne ingoiare alla bambina pure poche gocce per volta per mantenerla in vita, mentre egli si studiasse il caso, a lui mai capitato, e ne trovasse la soluzione. Perciò Rosa era continuamente alle prese con la tiralatte e a fare mille tentativi per far succhiare la bambina: la buona zia Carmela le era accanto in tutti gli spazi di tempo che poteva rubare alla sua numerosa famiglia. La prima figlia Assunta aiutava la mamma riuscendo a tenere aperta la boccuccia della sorellina infilando un dito fra le due labbra; solo così dei cucchiaini di latte scendevano nella gola della bambina. Tuttavia questo strazio non poteva durare a lungo perché il seno di Rosa si gonfiò in modo spaventoso, comparve un ascesso al seno destro con febbre altissima. Così non era possibile continuare ad alimentare la bambina con il latte tirato dal seno materno. Intanto Vittoria piangeva sempre emettendo strilli laceranti che facevano provare un senso di angoscia a tutta la famiglia. Tammaro Iavarone aveva iniziato a fare il maciullatore di canapa per tutti i parenti che ne erano coltivatori e faceva quel duro lavoro dall'alba a sera nel cortile di casa. Spesso, durante la notte, il pianto assordante della bambina non gli faceva chiudere occhio, ma appena spuntava la luce Tammaro si alzava e iniziava a lavorare. Egli, d'accordo con la moglie, aveva iscritto le prime due figlie presso - 48 -
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un istituto parificato “il Sacro Cuore” di Frattamaggiore, gestito dal sacerdote Nicola Mucci, ad evitare di mandarle a Napoli con i disagi e i pericoli della guerra, poiché allora non esistevano ancora le Scuole Medie Statali nei paesi; c'erano delle scuole di avviamento professionale: l'una di indirizzo commerciale a Frattamaggiore, un'altra di indirizzo industriale a Sant'Arpino, il primo paese della provincia di Caserta confinante con Grumo Nevano. Tammaro e Rosa vedevano in prospettiva le figlie professoresse o almeno maestre, perciò esse, essendo molto brave scolasticamente e attratte dall'idea di essere delle professioniste in futuro, sostenevano l'una dopo l'altra gli esami di ammissione alla scuola media per conseguire la licenza Media e iscriversi successivamente al Liceo Classico o all'Istituto Magistrale. Venivano seguite per questa prova con amore e attenta coscienza professionale da una maestra di grande carisma: Maria Giuseppina Costanzo, una cara amica di famiglia. Questa insegnante aveva una tale ammirazione per i coniugi Iavarone, i quali indirizzavano tutte le figlie per la via migliore, che rifiutava il compenso del suo lavoro. Per di più rimaneva stupita per il grande interesse delle sorelle Iavarone allo studio e la gioiosità solare con cui si impegnavano pur collaborando con i genitori nelle fatiche della campagna. Era molto felice quando le sue allieve le portavano un mazzetto di fiori di pesco a S. Giuseppe e preparava per loro delle squisite frittelle. Intanto le spese scolastiche di anno in anno aumentavano. Perciò Tammaro Iavarone pensò di lavorare per altri nel mese di agosto in cui c'era poco da fare nel suo campo e poi la madre con le figlie poteva svolgere le attività quotidiane di raccolta della frutta e degli ortaggi. Il danaro guadagnato si metteva da parte perché fossero pagate le rette scolastiche. Il suo lavoro era molto richiesto perché risultava perfetto e fatto rapidamente. La fibra che egli ricavava dalla canapa macerata e maciullata era pulitissima, non era spezzata in nessun punto ed era attorcigliata in matasse con precisione ammirevole. A Tammaro Iavarone rimaneva anche il canapùle che era utilissimo per accendere presto la legna nel camino ed era indispensabile per coprire le
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fasce di terra appianata su cui si deponevano le mele annurche, appena colte, affinchè diventassero rosse e mature e si potessero vendere bene per i vari usi ai grandi commercianti del settore. Maciullando la canapa in modo più accurato la fibra era ripulita di ogni pezzetto di fusto e il canapùle era così sottile da formare per terra quasi una morbida coperta su cui le mele si adagiavano con delicatezza e non riportavano alcun graffio da cui potesse derivare la marciscenza di qualche frutto e di altri intorno. Quando si presentò il caso di Vittoria, Tammaro senza dormire la notte si sentiva fiacco di giorno, ma non sarebbe venuto meno agli impegni presi. La figlia maggiore Assunta spesso si alzava prendeva la sorellina con sé, l'appoggiava sul suo braccio con il pancino di sotto e passeggiava per la casa il più lontano possibile dalla camera dei genitori. Vittoria deperiva, diventava giorno per giorno come un cadaverino poiché nessun tipo di latte messo in commercio in sostituzione del latte materno le faceva bene. La bambina fu portata da Tammaro e Rosa all'ospedale pediatrico “Annunziata” di Napoli affinchè fosse visitata da un primario di pediatria considerato molto valente. Questo illustre medico tenne per un giorno intero in osservazione Vittoria e alla fine disse che la bambina poteva essere nutrita solo con il latte di cerva. Esisteva in commercio in polvere; si doveva sciogliere in acqua SanGemini oppure in acqua sterilizzata mediante bollitura e si somministrava con biberon. Questo latte era prodotto dalla casa Nestlè e distribuito solo ad alcune farmacie della città. Il farmacista di Grumo Nevano il Dr.C.Crispino faceva la cortesia di ordinarlo per le necessità della bambina Vittoria Iavarone, ma ogni commissione non poteva essere inferiore alle dodici scatole per volta, le quali bastavano ventiquattro giorni e il costo era proprio elevato; pertanto si dovettero tagliare altre spese perché il bilanciò della famiglia quadrasse.
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12°CAPITOLO
Lotta contro le difficoltà Rosa, ritornata alla serenità dopo la soluzione dei problemi della piccola Vittoria decise di riprendere a cucire gli indumenti per le figlie per risparmiare. I due coniugi ogni tanto facevano stare a casa i nonni Mele, che erano ancora in buona salute e in completa efficienza e andavano a Napoli presso un grande negozio di tessuti, che forniva le stoffe per le caserme dei carabinieri, “ I fratelli Natale”. Lì compravano per poco danaro pacchi enormi di “spezzi” di stoffa, che erano i residui di balle di centinaia di metri. Gli spezzi di qualche metro erano proprio regalati perché nessuno li avrebbe comprati per la limitata estensione. La signora Rosa comprava pure giornali di moda, guardava le vetrine di Martone o dei fratelli Gutteridge, con un po' di fantasia inventava modelli in cui si richiedevano stoffe di due colori, faceva modelli con le pagine del “Mattino”, letto dal marito e poi confezionava abitini davvero belli. In tal modo per l'abbigliamento si spendeva pochissimo. Nonostante tutto, il denaro guadagnato ad agosto da Tammaro Iavarone non era toccato, ma sempre riservato per le spese scolastiche. Durante tutto il 1942 l'esistenza della famiglia fu tranquilla: gli esiti scolastici erano stati brillanti per le prime due figlie alla scuola media, la terza aveva concluso la scuola elementare con ottime valutazioni e un diplomino di merito. Papà Tammaro era convinto che la formazione di base costruitasi alle scuole medie fosse essenziale per il prosieguo degli studi; perciò durante le vacanze affidava le figlie a due guide: il parroco don Pasquale Mormile per le materie letterarie e il sacerdote Antonio Chiacchio per la matematica. In tal modo queste si avviavano per lo studio dei programmi del nuovo anno scolastico e consolidavano le conoscenze già acquisite. Così la loro giornata passava fra gli impegni di studio e l'attività campestre e non poteva dare noia. Le sorelle maggiori facevano da maestre alle più piccole affinchè neanche loro interrompessero del tutto il contatto con i libri e quaderni nei mesi estivi. Come si può capire, la vita delle cinque - 51 -
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sorelle era molto impegnata. La quarta era stata promossa in terza elementare con buoni voti, la quinta aveva frequentato la primina ed era stata promossa in seconda elementare, MariaCristina poi provava una tenerezza particolare per le due sorelline più piccole di lei; le piaceva giuocare a fare la mammina con loro; quando la madre era intenta a fare qualcosa stava attenta affinchè non si facessero male; per lei era una grande gioia far sorridere Vittoria e vedere Silvia divertita a guardare dei disegni che ella faceva su qualsiasi pezzo di carta le capitasse tra le mani con pastelli “Giotto”, poco costosi, ma buoni, che il padre non faceva mai mancare alle sue bambine come strumenti di gioco insieme con album. Nella famiglia si respirava un'aria di tranquillità; la convivenza saltuaria con i nonni era immensamente gradita alle sorelle Iavarone, che ascoltavano sempre con interesse le loro storie. Tuttavia bisognava sempre filare sulla lama del coltello affinchè non si uscisse dal binario consentito e si incappasse in difficili problemi economici per qualche imprevisto. Una volta,ad esempio, nei giorni in cui Rosa doveva confezionare i grembiuli per la scuola che stava per cominciare, si guastò la macchina per cucire. Era stata comprata la stoffa di buona qualità con i bottoni e i colletti ed era finito il danaro disponibile per spese varie. Non c'erano problemi per l'alimentazione quotidiana perché in casa c'era di tutto, ma non era possibile pagare il tecnico della “Necchi” per il lavoro che avrebbe fatto e la macchina serviva di urgenza. Rosa si recò alla sua bottega per chiedergli di venire a fare la riparazione il più presto possibile. Il signor R.C. era fuori sede per lavoro; prendeva le ordinazioni la moglie, la quale promise che l'avrebbe mandato presso la famiglia Iavarone appena fosse rientrato cioè alle 17.30. allora fra mamma e figlie fu concordato di ricorrere ad un espediente per ottenere la riparazione subito e pagare il compenso del lavoro qualche giorno dopo. Si era al 10 del mese di ottobre e il 13 sarebbe stata riscossa la pensione da Tammaro. Pertanto quando il tecnico giunse le figlie di Rosa mostrarono la macchina perché egli trovasse e riparasse il guasto, ma dissero che erano mortificate perché la madre aveva
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avuto la necessità di andare a svolgere una commissione improvvisa ed era fuori casa perciò sarebbe andata a pagare le sue spettanze alla bottega il pomeriggio del 13 cioè tre giorni dopo. Il tecnico eliminò il guasto, revisionò e lubrificò ogni meccanismo e rassicurò le ragazze che egli non voleva niente, chiedeva solo di porgere i suoi saluti alla mamma e al papà. Egli era intervenuto con piacere, ma non gli spettava alcun compenso perché era stato ospitato da loro a Benevento e a Satriano, anni addietro ed egli non aveva dimenticato la loro cordialità; allora egli praticava il ciclismo con T. Mele; insieme facevano gli allenamenti e poi invece di andare in albergo si riposavano e si rifocillavano presso la famiglia Iavarone. Perciò il tecnico aggiungeva che per lui era stata una grande gioia fare almeno una piccola cosa per riconoscenza. Appena questi andò via le figlie diedero la bella notizia alla madre, la quale si sentì risollevata poiché si era risparmiato il danaro ed ella non si era umiliata ad andare a pagare il conto con la dilazione: cosa che non era mai capitata prima.
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13°CAPITOLO
Disagi della Guerra Intanto la guerra in cui l'Italia era coinvolta volgeva male; dovunque si vedevano i segni della miseria, della fame; il 1943 fu un anno terribile: le persone a mucchi languivano fuori le chiese, sui gradini del ponte pedonale Grumo-Frattamaggiore, in mezzo alle strade a chiedere l'elemosina con pietose implorazioni. Il danaro non valeva più niente per chi lo avesse e morivano di fame anche famiglie di un certo decoro poiché il danaro svalutato di uno stipendio non poteva bastare a comprare viveri costosissimi al mercato nero. Donne e bambini giravano per le campagne alla ricerca di ortaggi da strappare e portare via e se non riusciva loro di trovare campi incustoditi tagliavano nelle strade di campagna cicorie selvatiche e piante di papaveri con cui si sfamavano un po', oppure raccoglievano la frutta acerba che cadeva dagli alberi perché malata, come mele, pere, patate verdi lasciate a concimare la terra perché immangiabili per altri. Ogni cosa era considerata buona per placare i morsi della fame, perfino i cardi, piante spinose in genere brucate dalle capre, che sono ovini selvaggi, abituati a masticare anche spine pungenti. Certi “poveri cristi” li cercavano poiché crescevano nelle terre incolte e ne riempivano sacchi. Poiché i cardi facevano dei bei fiori di colore lillà, un giorno MariaCristina chiese al padre di cogliere due di quei fiori nella terra di fronte alla loro. Il papà rispose che la fame aveva insegnato ad usare quelle piante con i fiori per nutrimento. La bambina rimase senza parola. Poi ricordò la cosa nel leggere successivamente un passo del quarto capitolo de “I Promessi Sposi”. “La fanciulla tenendo al pascolo la vaccherella…… si chinava a rubare qualche erba di cui la fame aveva insegnato che anche gli uomini potevano vivere”. La fame terribile del 1943 era stata causata dalla guerra dovuta alla mente folle di Hitler come quella del 1628 era sorta per una questione di puntiglio fra Francia e Spagna. Tammaro Iavarone, che era per la maggior parte del tempo nel suo campo quando vedeva quella gente disperata, ne provava pietà; allora tagliava - 54 -
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rape, broccoli, rucola e gliela offriva, raccoglieva sotto gli alberi le mele mangiabili, almeno cotte e gliele dava. I vicini di terra lo chiamavano “un rappresentante della razza dei fessi”, ma egli rispondeva che essi erano cattivi ed anche fessi, perché non capivano che chi ha fame non sente ragioni: le donne per portarsi le rape a casa le avrebbero sradicate , tirate dal suolo, lasciando la terra nuda, invece quando le raccoglieva lui tagliava le cime e lasciava le piante sicchè in pochi giorni sarebbero cresciuti altri germogli ed egli non aveva danno; inoltre se le donne con i loro figli vedevano alberi di mele avrebbero strappato pure i rami, danneggiando gli alberi, invece egli prendeva le mele non bacate cadute, oppure ne staccava dai rami alcune, dove ce n'erano molte, in modo che le altre crescevano meglio. Un bel giorno si presentò a casa di Tammaro Iavarone il comandante dei vigili di Grumo Nevano M.C. e altri due funzionari del Comune con l'ordine scritto dal Podestà Antonio Aversano di dare del grano per i poveri del paese. I grandi proprietari terrieri avevano nascosto il grano di cui erano in possesso e lo vendevano ai profittatori di guerra, che lo rivendevano al mercato nero; ma costoro erano stati lasciati in pace; invece fu visitata la casa di Tammaro Iavarone, che aveva una famiglia numerosa sulle spalle e prendeva “ quattro centesimi” di pensione, con cui si pagavano a stento le tasse e le bollette dell'Enel. M.C. si mostrava mortificato, affermò che aveva ricevuto quell'ordine e lo aveva eseguito, ma egli poteva anche dire di non aver trovato nulla, poiché la terra in cui Tammaro Iavarone seminava il grano era di appena cinquemila metri. Il pensionato invece condusse i tre vigili urbani nel deposito dei prodotti agricoli e mostrò loro tutto il grano che aveva in casa: sei sacchi. Di questi tenne tre per la sua famiglia e ne offrì tre ai Grumesi in condizione di necessità. Il comandante M.C. rimase colpito e gli domandò come avrebbe fatto a nutrire la famiglia fino al nuovo raccolto di grano a sette mesi di distanza. Questi rispose: “con una goccia si vive, con niente si muore”; i miei figli mangeranno mezza fetta di pane e non corrono il rischio di morire, e delle briciole del loro pane vanno ad altri bambini che hanno più fame di loro”. Quando andarono via i vigili con i tre sacchi di grano
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Tammaro Iavarone riunì intorno a sé le figlie che erano in grado di capire e spiegò loro che c'erano bambini, i quali a causa della fame correvano il rischio di morire; tutti i cittadini onesti dovevano rinunciare ad una parte dei propri beni in loro favore; egli chiedeva che cosa pensassero del suo gesto; le figlie più grandi risposero che erano felici di avere un tale papà. Era meno entusiasta del fatto Rosa, la quale si preoccupava fortemente per le sue figlie e mostrò un certo disappunto: avrebbe preferito che si dessero al massimo due sacchi di grano e non addirittura tre. Le derrate alimentari che lo Stato dava con le tessere erano pure troppo scarse. Tammaro rispondeva che Dio li avrebbe aiutati mandando un buon raccolto a giugno. Diceva: “lascia fare a Dio”. L'anno in cui c'era la produzione di mele annurche la vita della famiglia era più serena, ma il 1943 c'era “scarica” perciò era duro sopperire a tutte le necessità di sette figlie senza congrue entrate. Furono affrontate le spese scolastiche, furono comprati gli ombrelli, le scarpe e la stoffa per i grembiuli neri che allora erano di obbligo a scuola. Le sorelle Iavarone impararono ad indossare il grembiule da casa con un bel colletto di “filo” bianco lavorato all'uncinetto dalla mamma. Così non si vedeva se esse avevano vestiti nuovi o vecchi ed anche rammendati. Poiché ogni tanto qualche bambina aveva bisogno di cure mediche per le esigenze della crescita Tammaro Iavarone pensò di fare un piccolo sacrificio e assicurarsi di avere del danaro in casa per eventuali necessità; decise di vender ad un oste Grumo Nevano P.A. il vino prodotto nel suo campo: una botte di “falanghina” e un'altra di “piedi rosso” o “ piedi di colombo”, i cui vitigni erano di derivazione vesuviana. Perciò quando fece la svinatura egli passò la vinaccia in un' altra botte e vi aggiunse l'acqua. Dopo due giorni fu filtrato il tutto e furono riempite due damigiane di questa bevanda con l'odore e quasi il colore del vino detta “acquata” nel linguaggio degli agricoltori. Così Tammaro aveva l'illusione di bere un bicchiere di vino ai pasti e ne era contento. La figlia MariaCristina stava spesso intorno al padre e capiva quello che egli
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faceva e perché lo facesse; perciò quando doveva chiedere dei soldi per un quaderno o dei pennini sentiva quasi un senso di colpa. Ella si rendeva conto pure che il papà fosse molto riservato e non gli faceva capire che ella lo “leggeva” giorno per giorno e scopriva in lui tanto amore per la famiglia e spirito di sacrificio illimitato. Tammaro Iavarone aveva il vizio del fumo, fumava un sigaro al giorno spezzettato nella pipa. Forse pensò che potesse risparmiare il denaro del tabacco per spenderlo per le figlie perciò un giorno MariaCristina vide che sbriciolava una foglia secca di noce nella pipa invece del tabacco del sigaro. Non chiese nulla per rispettare la sua sensibilità e la sua riservatezza, ma ne senti un'ammirazione ancora maggiore. Ella non parlava alle sorelle di queste cose che notava perché si sarebbe sentita una traditrice dei sublimi sentimenti del padre. Le altre della famiglia non rilevavano certi comportamenti paterni o non ne avevano la possibilità stando poco in sua compagnia. Proprio perché occorreva seguire delle regole nei consumi quotidiani, il papà aveva stabilito che si consumasse alla sera un pezzo di pane di circa due Kg. e un salame di quelli che si producevano in casa; il papà tagliava prima sette fette per le figlie: le prime cinque erano intere, le ultime due le privava della crosta perché erano per le più piccole, tagliava l'ottava fetta per la moglie Rosa; poi affettava il salame, tagliandolo in otto parti uguali, poi spezzettava in frammenti molto piccoli la parte che toccava alle due bambine di quasi tre e cinque anni. Per lui non lasciava che le croste delle fette di pane di Silvia e di Vittoria e i due estremi del salame. Poi con un atteggiamento del tutto naturale, che doveva essere convincente, chiedeva chi volesse un altro po' di salame; nessuna rispondeva poiché tutte lo avrebbero voluto, ma capivano che anche il papà doveva mangiarsi qualcosa. Allora Tammaro spellava il residuo del salame, lo tagliava in sette pezzetti che dava alle sette figlie, dicendo che non aveva fame perché aveva mangiato della frutta in campagna, offerta da un parente; così facendo proprio un sacrificio riusciva a mangiare quelle due croste di pane se non le voleva nessuna delle figlie. MariaCristina a sette anni capiva la rinuncia del padre e imprimeva nella mente l'immagine lieta
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del suo volto sorridente e dello sguardo luminoso nel guardare la gioia delle figlie nel ricevere un altro pezzetto del salame. In terza media per regalo della promozione riportata con la votazione 9/10 in tutte le materie presso la Scuola Media Statale S.Alfonso dei Liguori di Napoli, ricevette il romanzo di Alessandro Manzoni “I Promessi Sposi”, comprato su di una bancarella al mercato domenicale di Frattamaggiore; il libro era un po' sciupato perché era usato, ma aveva un buon commento del critico M.Galletti e una bella introduzione storica con un quadro chiaro della dominazione spagnola in Italia con i suoi flagelli come la grande carestia del 1628 e la peste seguita a questa. MariaCristina lesse in pochi giorni tutto il libro e si sentì immersa in un mondo di varia sofferenza per i più poveri e per gli umili esposti ad ogni sopraffazione. Nel sesto capitolo del romanzo manzoniano rilevò con particolare interesse una scena rattristante: la cena nella famiglia di Tonio, un amico di Renzo”. Tonio scodellò la polenta sulla tafferia di faggio apparecchiata. La mole della polenta era in ragione dell'annata e non del numero e della buona voglia dei commensali….nondimeno le donne(moglie e madre di Tonio) dissero cortesemente a Renzo: “volete restar servito?” “Vi ringrazio”…. Rispose Renzo; “venivo…. per dire una parolina a Tonio: e se vuoi, Tonio…possiamo andare a desinare all'osteria”. La proposta fu per Tonio gradita; e le donne e anche i bimbi non videro mai più volentieri che si sottraesse alla polenta un concorrente e il più formidabile”. Risulta da questa pagina di Alessandro Manzoni che un padre era “il più formidabile concorrente” alla polenta cioè era quello che ne prendeva di più rispetto agli altri della famiglia. Allora MariaCristina collocò accanto a Tonio il padre e si sentì inondata di maggiore tenerezza per lui. Però questo padre così amorevole era sempre riservato nella famiglia, le sue manifestazioni di affetto erano dei sorrisi di incoraggiamento nei momenti difficili, una carezza sulla fronte quando qualche figlia non stava bene. La fine del 1943 fu dura in modo particolare per le tragedie della guerra catastrofica. Nel terribile autunno infuriavano i bombardamenti preceduti dal suono delle sirene di avviso affinchè le persone si mettessero al riparo. Allora Rosa con la piccola Vittoria
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in braccio, Silvia e MariaCristina aggrappate alla sua veste, seguita dalle altre figlie correva verso il rifugio cioè verso una grotta di vasta capacità, scavata decenni prima sotto il palazzo di un noto ingegnere grumese, nella quale prima della guerra degli agricoltori depositavano il vino dopo la torchiatura e la svinatura, seguita alla vendemmia, e alcuni macellai mettevano le carni al fresco, non esistendo ancora in quel tempo i grandi frigoriferi del tempo attuale. MariaCristina essendo più lenta nel correre rispetto alle sorelle per accelerare il passo spesso cadeva e si procurava sbucciature sulle ginocchia, facendo anche perdere minuti preziosi a tutto il gruppo. Perciò per la folla che si era già accalcata all'entrata della grotta spesso capitava che mamma e figlie non riuscivano ad entrare nel ricovero. Perciò Tammaro Iavarone si rivolse ad una buona donna di nome Emilia, che abitava di fronte alla grotta e per di più al piano terra e le chiese di ospitare di notte moglie e figlie, dietro compenso naturalmente, affinchè potessero scendere nel rifugio appena si fosse sentita la sirena che annunciava il bombardamento. Il capofamiglia rimaneva a casa per impedirne il saccheggio da parte dei delinquenti che approfittavano delle circostanze per portare via dalle case incustodite anche i mobili per bruciarli. Inoltre i fascisti grumesi, accesi di odio verso quelli che non si erano piegati all'ideologia del Duce, davano l'assalto alle loro case e le devastavano, prendevano perfino i materassi di lana dai letti. Allora la figlia Assunta di appena quindici anni, un'adolescente con la maturità superiore alla sua età, con un carattere forte ed impavido, spirito di sacrificio, volle far compagnia al papà: non voleva che morisse solo come un cane senza padrone, se una bomba colpisse la casa. Non ci fu verso di dissuaderla. Una notte corse il pericolo di avere la testa sfracellata da un grosso pezzo di legno staccatosi dalla porta, raggiunta da un proiettile e finito dove pochi minuti prima Assunta era intenta a studiare un capitolo di storia romana sulle guerre puniche, alla debole luce di una lucerna ad olio. Si era alzata per prendere uno scialle da mettere sulle spalle, infatti aveva avvertito un senso di freddo insopportabile poiché si era
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consumata la carbonella nel braciere che riscaldava la stanza e il camino era spento dal pomeriggio. Era appena entrata nella camera che divideva con le sorelle quando ci fu un terribile boato con un tonfo impressionante. Il tavolo su cui si abbattè quel “bolide improvviso” si spaccò al centro nell'urto. Il padre accorse dalla sua stanza con il cuore in gola temendo il peggio. Grazie a Dio, Assunta si era salvata. Il padre le chiese come un atto d'amore per lui di andare al ricovero la sera successiva perché egli si sentisse più tranquillo; non riuscì a smuoverla dalla sua decisione, dal suo fermo proposito. Qualche giorno dopo un micidiale proiettile si abbattè sul palazzo di Crispino Mauro proprio accanto a casa Iavarone: fece una strage. Furono dilaniati dalle schegge devastanti una sorella e un fratello: Tonino e Tittana, che erano compagni di giochi di Giovanna e MariaCristina Iavarone. Il loro nonno riportò ferite gravissime al ventre e morì dopo pochi giorni. Assunta potè vedere da vicino quali fossero i pericoli che si correvano: infatti aveva guardato inorridita le povere membra martoriate dei due ragazzi vicini di casa. Ma nonostante questa drammatica esperienza volle continuare a far compagnia al padre di notte finchè durarono quelle condizioni apocalittiche dell'ultimo e più tragico periodo dell'ultima disastrosa guerra. Allora la giornata di Tammaro Iavarone già era intensa di lavoro, ma si aggiunse all'attività quotidiana consueta un altro impegno: per lunghi periodi mancava l'acqua poiché i Tedeschi dopo l'armistizio del 3 settembre a Cassibile reso noto l'8 settembre per colpire gli Italiani considerati traditori anche nelle necessità primarie fecero saltare le condutture dell'acqua e dell'elettricità in molti luoghi. Questa terribile rappresaglia toccò anche a Grumo Nevano. Vivere senza acqua per vari giorni per una famiglia numerosa era una cosa insostenibile. Ma la famiglia di Tammaro Iavarone non sentì in pieno il gravissimo disagio perché di fronte alla sua casa abitava un Maresciallo dei carabinieri in pensione: Luigi Sica, il quale era un uomo di infinita bontà: egli era gentile e disponibile verso quelli che erano in difficoltà. Il maresciallo Sica aveva un profondissimo pozzo
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artesiano nel cortile della sua villetta e generosamente lo mise a disposizione della famiglia Iavarone. Perciò Tammaro attingeva l'acqua sorgiva da quel pozzo con un secchio calato e tirato su per mezzo di una carrucola. La moglie e le figlie riempivano recipienti vari che portavano a casa. Quando era stata presa l'acqua necessaria c'era una seconda operazione da portare a termine: bisognava filtrarla poiché poteva contenere delle larve o pietrisco e poi sterilizzarla. Naturalmente faceva tutto ciò il capofamiglia con grande attenzione. L'acqua filtrata e bollita era versata nelle bottiglie ed era utilizzata per bere e per cuocere i cibi. Quella solo filtrata con panni di candido lino serviva per le altre necessità. I rapporti fra il maresciallo Sica e l'appuntato dei carabinieri Iavarone erano stati sempre cordiali e le due famiglie si frequentavano con spontanea affettuosità. Dopo l'esperienza della guerra i legami di amicizia si sono mantenuti, anzi sono diventati più saldi e si sono rinnovati con esperienze nuove attraverso il tempo, si sono arricchiti di risvolti più profondi. Per le sorelle Iavarone, che prendevano la via della loro vita con grande sacrificio e tante difficoltà, esisteva un punto luminoso a cui fare riferimento, quando sembrava che tutto crollasse intorno a loro; il volto sereno con due occhioni neri sempre sorridenti di Letizia Sica, figlia del maresciallo Luigi, la quale fu scelta dal Signore per i suoi fini, proprio come dice A. Manzoni nella sua contemplazione del dolore umano: ” i fiori innocenti sono i più calpestati, le creature più pure sono colpite dal dolore affinchè sia confermata nel Paradiso la santità già conseguita nella loro esistenza con i meriti della vita terrena.” Alla fine dell'anno 1944 ci fu una vera tragedia nella famiglia Iavarone: un giorno di pioggia Tammaro era nella casupola di un suo parente in un campo accanto al suo; lo stava aiutando nella semina del grano, ma iniziando a piovere tutta la schiera dei lavoratori si riparò nell'attesa che ritornasse un po' di sereno e si completasse il lavoro iniziato. Una bracciante agricola che era una dipendente con funzione anche di sorvegliante degli altri lavoratori e si atteggiava a “padrona”, guardando Tammaro Iavarone con un sorriso ironico disse: “comm'è furtunato Tammariello, oggi o riman con tante figlie femmine può mettere nu
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casino e fa i sordi a palate”. Tammaro si sentì ribollire il sangue e rispose che le figlie si chiamavano Iavarone e non A. che era il suo cognome; sarebbero state delle persone degne di ogni rispetto per la vita come donne e come professioniste. Questa operaia, che era oggetto di particolare benevolenza da parte del padrone, rimase offesa, fu punta nel vivo perché delle sorelle avevano fatto e ancora facevano le donatrici di grazie a uomini di ogni razza e di ogni età: a Italiani, a Marocchini ad Americani, a vecchi benestanti, a giovinastri sbandati, proprio in un ampio concetto di “amore universale”, come si diceva.
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14°CAPITOLO
Un’infame rappreseglia Il fondo di Tammaro Iavarone distava meno di duecento metri dalla casa e vi si poteva accedere attraverso un viottolo privato che attraversava i campi del ricco vicino con il quale c'erano stati sempre rapporti di amicizia e c'era anche una lontana parentela. Questa stradina partiva da casa Iavarone e portava al fondo direttamente, perciò era preziosa. Qualche giorno dopo l'episodio dell'offesa da parte di Tammaro Iavarone si cominciarono a vedere i segni chiari delle conseguenze dell' “ira funesta” della divinità oltraggiata: di buon mattino una squadra di operai stava piantando pali alti più di due metri a breve distanza l'uno dall'altro all'imboccatura della stradina. Per mezzogiorno era stata innalzata una barriera di spessa rete al cui centro fu fissato un cancello di ferro con serratura ed un vistoso catenaccio. La rappresaglia era stata inesorabile: i membri della famiglia Iavarone non potevano più passare per quel viottolo e nascevano da ciò moltissime difficoltà per la coltivazione del campo: non c'era un altro passaggio a breve distanza; la strada consentita per legge per arrivare dalla casa al campo e viceversa misurava quasi un chilometro; occorreva andare da tutta via Bengasi ad un buon tratto di viale Rimembranza girare per via Baracca, imboccando poi uno stradone che attualmente è via Cilea: alla fine di questa strada campestre c'era il fondo. Il colpo era duro perché non era affatto facile portare con corbelli o panieri i prodotti della terra a casa. Non era possibile portare l'acqua da casa per innaffiare gli ortaggi. Quando ci sarebbe stata la raccolta delle mele, che erano in genere più di cinquanta quintali, sarebbe stato necessario far trasportare con un carretto la frutta colta ogni giorno e questo sarebbe costato parecchio. Era necessario portare a casa l'uva del vigneto falanghina e piedi rosso ed anche questo sembrava impossibile a farsi. L'artefice della condanna inflitta alla famiglia Iavarone cantava felice perché pensava che il suo padrone sarebbe riuscito ad impadronirsi del fondo di Tammaro Iavarone ed ella non lo avrebbe più avuto davanti agli occhi, - 63 -
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infatti, per la nuova condizione, non potendo valorizzare i prodotti della terra, avendo quattro soldi di pensione si sarebbe indebitato ed egli avrebbe approfittato dell'occasione per prendersi quel pezzo di terra che gli faceva tanto gola. La sorte poi ha voluto che questa persona gonfia di odio contro le sorelle Iavarone e il loro papà si trovasse senza lavoro alla soglia della vecchiaia per la vendita delle terre per cui aveva tanto interesse, come se ne fosse stata comproprietaria con i suoi padroni. In questa condizione di disagio trovò un grande aiuto nella prima figlia di Tammaro Iavarone: Assunta che perorò la sua causa presso il marito, dirigente dell'ufficio di collocamento al lavoro del suo paese affinchè le fosse riconosciuto il giusto diritto alla pensione e avesse un sereno tramonto nella sua esistenza. La donna era stata costretta dalla vita a ridimensionare “il suo delirio di potenza”, era ridotta come “un cencio buttato all'aria” e davanti a sé poteva avere solo la prospettiva di essere accolta in un ospizio. Ma facendo valere le leggi che regolano i rapporti fra lavoratori e datori di lavoro il dirigente dell'ufficio del lavoro del suo paese E.P. le fece ottenere il dovuto. Certamente nella necessità ripensando alla sua vendetta contro la famiglia Iavarone ne doveva sentire una infinita vergogna. Forse era stata anche la direttrice dei lavori quando da un valente artigiano suo amico fu realizzata la barriera fortificata come il “limes” per sbarrare l'avanzata dei barbari verso il proprio territorio costruito alla fine del 1° secolo D.C. dai Romani per proteggere il loro impero dai Germani, lungo il corso del Reno e del Danubio. Così il limes di via Bengasi a Grumo Nevano separava due realtà molto diverse: da una parte un gruppo familiare povero di risorse economiche, ma strettamente saldo, con un potenziale umano di sani valori morali, illuminato dall'amore della cultura, stimolato dal fermo proposito di realizzare ad ogni costo la propria promozione socio-economica, dall'altra una famiglia pur di buoni principi, con il senso della laboriosità, ma con una concezione della vita un po' troppo personale, adeguata alla rigida logica che “chi ha la roba, ha il potere” e può dominare “chi non ha la roba deve sottostare” ed è inutile ribellarsi, anzi è peggio. - 64 -
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infatti, per la nuova condizione, non potendo valorizzare i prodotti della terra, avendo quattro soldi di pensione si sarebbe indebitato ed egli avrebbe approfittato dell'occasione per prendersi quel pezzo di terra che gli faceva tanto gola. La sorte poi ha voluto che questa persona gonfia di odio contro le sorelle Iavarone e il loro papà si trovasse senza lavoro alla soglia della vecchiaia per la vendita delle terre per cui aveva tanto interesse, come se ne fosse stata comproprietaria con i suoi padroni. In questa condizione di disagio trovò un grande aiuto nella prima figlia di Tammaro Iavarone: Assunta che perorò la sua causa presso il marito, dirigente dell'ufficio di collocamento al lavoro del suo paese affinchè le fosse riconosciuto il giusto diritto alla pensione e avesse un sereno tramonto nella sua esistenza. La donna era stata costretta dalla vita a ridimensionare “il suo delirio di potenza”, era ridotta come “un cencio buttato all'aria” e davanti a sé poteva avere solo la prospettiva di essere accolta in un ospizio. Ma facendo valere le leggi che regolano i rapporti fra lavoratori e datori di lavoro il dirigente dell'ufficio del lavoro del suo paese E.P. le fece ottenere il dovuto. Certamente nella necessità ripensando alla sua vendetta contro la famiglia Iavarone ne doveva sentire una infinita vergogna. Forse era stata anche la direttrice dei lavori quando da un valente artigiano suo amico fu realizzata la barriera fortificata come il “limes” per sbarrare l'avanzata dei barbari verso il proprio territorio costruito alla fine del 1° secolo D.C. dai Romani per proteggere il loro impero dai Germani, lungo il corso del Reno e del Danubio. Così il limes di via Bengasi a Grumo Nevano separava due realtà molto diverse: da una parte un gruppo familiare povero di risorse economiche, ma strettamente saldo, con un potenziale umano di sani valori morali, illuminato dall'amore della cultura, stimolato dal fermo proposito di realizzare ad ogni costo la propria promozione socio-economica, dall'altra una famiglia pur di buoni principi, con il senso della laboriosità, ma con una concezione della vita un po' troppo personale, adeguata alla rigida logica che “chi ha la roba, ha il potere” e può dominare “chi non ha la roba deve sottostare” ed è inutile ribellarsi, anzi è peggio. - 65 -
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15°CAPITOLO
Si muovono gli sciacalli “Anime pie” avvicinavano Tammaro quando era nel campo per proporgli di accettare il loro aiuto economico; qualcuno diceva che le ragazze stavano agli studi e non potevano dare la collaborazione che davano prima con facilità in ogni lavoro per la vicinanza casa-fondo. Ma la fierezza emerse in tutte le persone della famiglia che decisero di non lasciarsi andare allo sconforto, di darsi una nuova organizzazione nella gestione della casa e del fondo, affrontando con coraggio tutti i problemi. Qualcuno esplicitamente propose a Iavarone Tammaro di vendere la terra perché era ben messa e l'avrebbero pagata bene, ma se qualche figlia avesse fatto una “sciocchezza” per porre riparo alla cosa avrebbe dovuto venderla in modo “scannato” per necessità. Tammaro rispose con sdegno che egli non avrebbe venduto nulla e le figlie con l'educazione ricevuta e l'esempio dei genitori non avrebbero fatto nessuna “sciocchezza”; esse non erano cresciute con la mentalità di certe sartine apprendiste o certe rivettatrici di Grumo Nevano, la cui aspirazione unica era stare con un uomo e non lavorare più. Poiché a loro piaceva tanto il proprio fondo poteva darsi che esse stesse lo avrebbero allargato, comprandosi la terra di altri. Il compare si fece una risata di scherno aggiungendo: “chest succère quanno Pasc' ven' a maggio”. Gli anni sono passati le sorelle Iavarone sono cresciute e si sono conquistate una posizione di decoro umano e dignità professionale. Con soddisfazione dei genitori due di loro hanno comprato un lotto per ciascuna della terra di costui, costruendovi dentro l'una un grande palazzo per la locazione, l'altra una villa che in origine doveva essere la sua casa, ma che poi è stata divisa in sei appartamenti, dati in locazione a persone di famiglia o cari amici perché per lei c'è stata l'opportunità di costruirsi la sua casa nella terra donata dai genitori, diventata suolo edificatorio. Quando furono alzate le “barricate” contro il nemico
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da schiacciare, la prima delle sorelle Iavarone: Assunta disse al padre che era molto afflitto, sentendosi il responsabile del fatto, che tutti i membri della famiglia si dovevano comportare come i Romani dopo la disfatta di Canne; dovevano reagire agli eventi con coraggio e decisione. Un'altra: Pasqualina aggiunse che il capostipite della discendenza Iavarone era stato un valido condottiero. Lo aveva saputo dal padre di una compagna di classe dallo stesso cognome, il quale aveva l'albero genealogico della famiglia. Questi un giorno, vedendo le due bambine afflitte perché avevano avuto assegnati molti compiti per punizione, disse che una persona col cognome Iavarone non deve conoscere debolezze. Gli Iavarone attraverso i tempi erano stati indomiti. Se esse portavano quel cognome non si dovevano scoraggiare. Si era in autunno e non c'era niente da innaffiare perché le piogge erano frequenti, non c'erano prodotti da portare a casa oltre fasci di verdure che erano leggeri o l'erba per i conigli. I problemi sarebbero sorti ad aprile quando le piogge sarebbero diminuite e si sarebbero dovuti piantare i pomodori, peperoni, zucchini, per cui occorreva l'innaffiatura almeno ogni tre giorni. Tammaro Iavarone con il sostegno della folta schiera che aveva in casa si sollevò dal profondo dispiacere e iniziò ad andare in campagna da solo mentre Rosa sbrigava altro lavoro a casa, badava alle necessità delle figlie piccole, centro principale della sua attenzione e seguiva le più grandi affinchè studiassero con impegno. Dopo che le figlie erano andate a scuola ella quasi ogni giorno era abituata a fare una capatina dai genitori per assicurarsi che stessero bene; rassettava loro la casa, poi faceva la spesa e ritornava a casa. Quando mancava da casa Tammaro la sostituiva con le due bambine più piccole, stando attento alla loro incolumità, pur svolgendo qualche lavoro in casa o in giardino. Con le nuove necessità non era possibile che Rosa si assentasse da casa per delle ore; di comune accordo con Tammaro, Rosa propose ai genitori di trasferirsi a casa sua, riservando a loro un locale molto ampio che aveva anche il camino e poteva essere utilizzato in parte come camera da letto, in parte come angolo cucina e pranzo. I servizi
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igienici erano situati nel cortile, ma i due vecchietti, molto puliti e ordinati, avevano in un angolo della sezione stanza da letto un vaso di porcellana con un coperchio dietro un paravento. Questo era svuotato dalla figlia due volte al giorno. Perciò si trovavano proprio bene in tutto. La presenza costante dei nonni fu provvidenziale perché consentiva ai coniugi Iavarone di lavorare con tranquillità in campagna, infatti le bambine piccole erano sempre con loro; le più grandi si facevano i compiti e accudivano i nonni quando occorreva fare qualcosa per loro. Ad aprile si dovettero seminare i fagioli, che non richiedevano acqua perché bastava quella delle piogge; ma non si potevano piantare pomodori e peperoni, meloni e zucchini nella terra secca; era davvero un problema portare l'acqua da casa al campo. Tammaro si procurò una latta di stagno, la quale conteneva venti litri di liquido; la riempiva di acqua a casa, se la metteva sulle spalle e andava al campo. Senza sprecare neppure una goccia d'acqua, facendo scendere il prezioso umore direttamente vicino alla radice di ogni piantina, usando un innaffiatoio con il becco laterale come quello di cui si servono i bambini al mare. A maggio si presentava il problema di portare le patate del raccolto a casa; le ragazze si trovavano nel periodo cruciale dell'anno scolastico e bisognava escluderle dal lavoro del campo, inoltre il padre non voleva esporle al ludibrio della commiserazione altrui, passando per mezzo paese con i fardelli sulle spalle. Poichè gli imbecilli e i malvagi, di cui è pieno un mondo di degrado morale e materiale, avrebbero fatto lavorare un'accesa fantasia per “partorire” la loro verità sulla terribile condanna inflitta alla famiglia Iavarone e specialmente alle ragazze. Queste prima, come stavano per casa andavano in campagna e pure in un ritaglio di tempo in cui davano una pausa allo studio, andavano ad aiutare il padre in qualche particolare necessità; tutto ciò non era più possibile. Perciò Tammaro Iavarone si comprò una bella e robusta carriola che poteva contenere anche un quintale di patate per ogni viaggio; così lui con la zappa toglieva i tuberi dalla terra dopo che Rosa aveva strappato via le piante secche; dopo che le patate si erano bene asciugate venivano raccolte e messe sulla carriola e portate a casa nel
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luogo giusto per la loro ottimale conservazione. Nel mentre Rosa ripuliva di piante secche altri solchi di patate, aiutata anche dalla piccola Silvia che talvolta voleva venire in campagna e si divertiva tanto ad estirpare quelle piante o gialle o secche che avevano le palline vicino alle radici. Però alla fine di una tale giornata di lavoro iniziata all'alba e finita al calare delle tenebre Tammaro e Rosa erano distrutti dalla stanchezza e cadevano in un sonno profondo appena potevano buttarsi nel letto. Le ragazze che erano al liceo restavano sveglie fino a tardi per prepararsi bene per le ultime interrogazioni; esse non potevano correre il rischio di essere rimandate e dover studiare per gli esami di riparazione a settembre perché le loro vacanze dovevano servire ad altro. Alla chiusura delle scuole per le vacanze estive le lavoratrici si dovevano mettere all'opera: prima si mieteva il grano, ma i suoi covoni non si dovevano portare a casa; poiché era necessario trebbiarlo; un carrettiere lo prendeva dal campo al pomeriggio e lo portava alla trebbia in un paese vicino. Nella giornata, avvenuta la trebbiatura, lo stesso carrettiere portava a casa di Tammaro il grano di cui gli toccava una parte per compenso insieme con le balle di paglia utilizzate poi da lui in vario modo per le bestie, per farne lettiere oppure darla ad esse da mangiare tagliuzzata e mischiata con la crusca. I fagioli secchi si potevano facilmente trasportare dal fondo a casa con la carriola alla fine della giornata; sgusciati nella stessa terra in modo da evitare di portare anche un peso inutile; così le piante secche erano bruciate e si ripuliva il suolo per un'altra semina. Come Dio volle stava per chiudersi il 1945. In quell'anno la produzione di mele era stata scarsa e aveva procurato poca fatica; solo le noci avrebbero costretto la famiglia a duro sacrificio, ma accanto a individui ignobili si possono incontrare altri dal cuore generoso e dalla mente chiara che danno la giusta valutazione alle persone e a certe azioni vili: Tammaro Iavarone fu raggiunto nel fondo da due conoscenti: l'uno si chiamava Pasquale Oliva detto “ Pascalino Mezzacapa”(1) e l'altro Salvatore Scarano detto “Sarvatore Capitone”(2). Costoro dissero al pensionato che erano felici ed onorati di offrirgli il passaggio nel viottolo privato attraverso le loro
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terre. Questo passaggio costeggiava l'Istituto Mendicicomio e distava dal campo poco più di trecento metri. Era una vera provvidenza; tuttavia le difficoltà diminuivano,ma non scomparivano. Così non dovette sfacchinare solo Tammaro per il trasporto delle noci. Queste erano abbacchiate da persone particolarmente abili a tenersi salde sui rami degli alberi mentre li battevano con lunghe mazze dette “frivoni” per far cadere la frutta con i malli o senza. La schiera delle sorelle Iavarone lavorava a tempo pieno a raccogliere le noci abbacchiate e riempire la carriola che il papà portava a casa: lì i nonni davano una mano togliendo le noci già nude da quelle con i malli, altrimenti si sarebbero macchiate. Le noci con i malli verdi si ammucchiavano nel deposito a maturare; infatti nel giro di alcuni giorni i malli che erano attaccati al guscio si rammollivano e si potevano staccare facilmente. Dopo di ciò si doveva procedere a lavare e biancheggiare con candeggina i gusci rilavare tante volte le noci finchè non si sentisse più il suo odore. Ma questo lavoro , pure spossante, non dava problemi particolari perché si eseguiva nel cortile della casa dove c'era tutto l'occorrente. Le noci lavate e imbiancate si esponevano al sole in certi contenitori il cui fondo era fatto a strisce alterne di legno e di vuoto per l'eliminazione dell'acqua; erano alti circa dieci o quindici centimetri e avevano forma rettangolare, ma nel linguaggio contadino si chiamavano i “quadretti pe' noci”. Per alcuni giorni i quadretti si dovevano portare nella soffitta dal terrazzo al tramonto del sole e dalla soffitta si dovevano spostare sul terrazzo al sorgere del sole. Questi erano pesanti e li spostavano sera e mattina Tammaro e Rosa, reggendoli l'uno da una parte e l'altra dalla parte opposta. Questa fatica si protraeva per una (1) Pasquale Oliva era detto “ Mezzacapa” perché proveniva da una famiglia di brava gente, in cui vi erano persone, specie maschi con la testa un po' più grande della normalità. Affettuosamente e con un certo senso ironico gli Oliva erano chiamati i “Mezzacapa” col sentimento del contrasto con la realtà, proprio come nel romanzo “ I Malavoglia di G. Verga Maruzza, moglie di Bastianazzo era chiamata la “Longa” mentre era tutt'altro che lunga, essendo bassina e minuta, i Toscano erano soprannominati Malavoglia, ma erano volitivi e laboriosi e niente affatto che svogliati e indolenti. (2) La famiglia Scarano, come suole accadere nei piccoli paesi di campagna, si prende il nomignolo di “razza dei Capitoni” per una certa analogia con l'habitus dei ragazzi, figli di Giuseppe, i quali nel lavorare con il padre nei campi erano così celeri nell'obbedienza ai suoi ordini che si muovevano come i capitoni quando riescono a venir fuori dalla vasca che li contiene e sono imprendibili per la velocità con cui si dileguano.
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settimana se c'era sempre buon tempo; se invece cadevano piogge le noci restavano nei quadretti nella soffitta che era bene aerata, ma non raggiunta dal sole, perciò l'essiccatura si realizzava in un periodo più lungo. Con la metà di ottobre si ritornava a scuola e questa volta anche Vittoria, avendo compiuto quattro anni, era affidata alle buone suore dell'Istituto San Gabriele per frequentare la prima classe dell'asilo. Così i coniugi Iavarone potevano dedicarsi senza preoccupazione al lavoro necessario: da soli raccolsero l'uva e la portarono a casa dove Tammaro la pigiava e metteva a fermentare il mosto, svinando prima il mosto della “falanghina” e qualche giorno dopo quello “piedi rosso”, che richiedeva una fermentazione più lunga. Per chiudere le fatiche dell'anno bisognava solo vangare la terra e seminare fave, piselli e grano.
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16°CAPITOLO
Un angelo custode gli viene in aiuto Rosa e Tammaro pensavano a lungo come risolvere per il meglio i loro problemi e si rivolsero per consiglio ad un amico che era grande come un gigante con un cuore proporzionato alla sua imponenza fisica, di moralità ineccepibile e pervaso di quello spirito di fede che non è fatto di bigottismo, ma di vera cristianità e di amore verso il prossimo. Quest'uomo speciale che ispirava fiducia in chi si rivolgeva a lui, si chiamava Gennaro Bilancio detto pure “ u' patron a roce” perché su di un muro esterno della casa sua, di un fratello e di una sorella c'era un'edicola con un grande crocifisso, di cui i due fratelli e la sorella avevano attenta e devota cura; tenevano questa specie di tempietto sempre pulito, ornato di fiori e di lumini. Tammaro Iavarone “ alla chiusura del Canale di Suez” doveva passare davanti al palazzo dei fratelli Bilancio per prendere via Baracca e girare poi per la carreggiabile su cui si affacciava il fondo; qualche volta lo stesso Gennaro e altre volte il fratello Luigi avevano visto passare Tammaro con quella enorme latta sulle spalle e si erano stupiti. A maggio-giugno lo avevano visto passare per via Baracca e viale Rimembranza con una carriola piena di prodotti vari a seconda del tempo e non sapevano cosa pensare di questa novità. Il loro sterminato giardino era attaccato al giardino Iavarone e i due fratelli e le loro mogli spesso si scambiavano consigli e favori comunicando attraverso delle aperture del comune muro di cinta. I loro figli erano compagni di scuola. MariaCristina era compagna di classe di Luisa e Giovanna della sorella maggiore Angela. Il primogenito di Gennaro frequentava la stessa classe di Pasqualina, ma era in collegio e durante l'estate si scambiava i libri con lei. Un giorno Gennaro chiamò Tammaro dal muro e gli chiese se gli erano avanzati semi di rape perché aveva finito i suoi e teneva ancora un lembo di terra libero da utilizzare. La richiesta dei semi fu una scusa per sapere che cosa gli fosse capitato. Tammaro
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prese i semi a Gennaro, ma questi indugiava a ritirarsi; Tammaro capì che voleva dirgli qualcosa: allora lo esortò a scavalcare il muro e a stare un po' con lui per vedere che bella annata aveva avuto con il vino. Gennaro accettò l'invito; dal suo lato il muro era basso e lo salì facilmente, dal lato Iavarone era alto, perché nel giardino era stato portato via circa un metro di terra per qualche esigenza quando era stata costruita la casa. Perciò Tammaro appoggiò ad esso una scaletta e l'amico scese. Insieme entrarono nella cantina dove c'era un odore penetrante del mosto rosso in fermento. Con orgoglio Tammaro disse che era stato costretto a comprare un'altra botte per l'abbondanza del raccolto dell'uva. Dopo questi preamboli Gennaro gli chiese perché faceva quel grande giro per andare in campagna; Tammaro lo condusse verso la barricata che era proprio di fronte all'entrata di casa Iavarone e sembrava innalzata contro spietati invasori. Nel guardare quell'orrore Gennaro disse: “Tammariè, lascia fa Dio, peggio per chi fa u'mmale”. Tammaro spiegò che si trovava in grande difficoltà per la coltivazione degli ortaggi che avevano bisogno di acqua quasi quotidianamente per crescere: questi erano molto graditi alle figlie e perciò necessari per l'alimentazione quotidiana; egli li coltivava in tutti i mesi dell'anno perché erano nutrienti e dietetici per le figlie. in pieno inverno c'erano rape, broccoli, scarole, cicorie, lattughe, verso primavera arrivavano al completo sviluppo cavolfiori e verze, spinaci, nell'estate c'erano ancora cicorie e broccoli vari, che tagliati opportunamente rispuntavano sempre. A questi vari tipi di verdure si adattavano le carni di pollo in brodo; infatti Rosa ammazzava le galline di due anni perché facevano poche uova e ne faceva un ottimo brodo; inoltre le sorelle Iavarone avevano imparato ad apprezzare molto pure la minestra di verdure con le cotenne o con il lardo oppure il guanciale di maiale con l'aggiunta di un pugno di riso o un po' di pasta. Ma si trovavano nella condizione di non poter più coltivare ortaggi per la difficoltà di innaffiarli, non potendo fare dieci volte al giorno il tragitto casa-campo e campo-casa con quel peso sulle spalle, pur avendo accorciato le distanze per la cortese disponibilità
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di Pasquale Oliva e Salvatore Scarano. Non poteva accettare poi che le figlie passassero reggendo secchi nei pressi del ponte ferroviario, dove c'era il passeggio di tanti giovani al pomeriggio, quando era opportuno innaffiare le piante. Non voleva che si sentissero umiliate nel mostrarsi a compagne o compagni di liceo come le ancelle del tempo antico, al viale Rimembranza. Gennaro con un bel sorriso gli fece notare che c'era la soluzione sotto i suoi occhi: nel suo giardino c'erano oleandri, un grande albero di mimose e tanto spazio libero per gli animali da cortile; poteva utilizzare in modo diverso quel suolo e avrebbe prodotto ortaggi in abbondanza; al centro del giardino c'era un castagno dal fusto alto e massiccio, bello a vedersi con la sua superba chioma d'estate e con rami che erano imponenti e belli anche senza foglie d'inverno, perché sembravano mani tese verso Dio, svettanti al cielo. Ma le castagne erano selvatiche per cui il frutto non si staccava dal guscio. Inoltre spesse volte Gennaro rimproverava i figli perché qualche volta dal muro di cinta si divertivano a lanciare pietre verso la chioma dell'albero perchè vedevano uscirne centinaia di uccelli; il gioco era divertente, ma Gennaro era preoccupato che qualche pietra finisse verso un bersaglio indesiderato e imprevisto e qualcuno si facesse male. Era bravo a colpire l'albero Pasquale il primo figlio, di una vivacità particolare e di natura esuberante. Questi, diventato poi un bravo medico, ora in pensione, era in seminario avviato alla vita religiosa, ma quando era a casa per qualche giorno faceva esplodere la sua carica di energie vulcaniche repressa nel collegio; qualche volta riusciva a colpire gli uccelli alla testa sicchè cadevano al suolo fulminati. Gennaro disse a Tammaro che, eliminando quel castagno, si dava sole alla terra sottostante e si scansavano i pericoli di “prendersi collera” un giorno o l'altro per le impertinenze di Pasquale. Poi gli oleandri erano belli, ma stavano accanto alla fontana nel giardino occupando uno spazio che sarebbe stato fertilissimo se fosse stato coltivato ad ortaggi. Gli animali da cortile come galline, oche, anitre, conigli si potevano concentrare in spazi meno ampi, in recinti fatti lungo il muro di cinta, dove non arrivava il sole e la terra non avrebbe prodotto nulla. Tammaro pensò di mettere in atto in
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modo completo ciò che aveva prospettato Gennaro: però occorreva una fatica straordinaria per spiantare il giardino e creare recinti per animali diversi. Il gigante buono si dichiarò pure disposto ad aiutarlo, affermando che sarebbe stato pronto a dare una mano anche il fratello Luigi, perciò si dovevano organizzare affinchè gli dessero il loro contributo senza trascurare le proprie esigenze lavorative. Furono tagliati prima gli oleandri e la mimosa, poi due alberi di loti(cachi) altissimi di nessuna utilità perché era pericoloso salirvi sopra o appoggiarvi la scala. Infatti i rami di questa specie di alberi sono fragilissimi e c'era sempre pericolo che si spezzassero. Tammaro poi era grosso e alto per cui pesava oltre il quintale e non poteva correre rischi. In genere si coglieva la frutta dei rami più bassi, mentre l'altra posta in alto maturava sugli alberi e cadeva sicchè era beccata dalle galline e dalle oche che ne erano ghiotte. Lungo un muro, dove arrivava l'ombra del fabbricato soprastante e la terra non produceva Tammaro con l'aiuto di Gennaro B. fece con rete alta oltre un metro un recinto lungo quattro metri e largo tre; in tal modo il pollame aveva la facoltà di muoversi, scavare per razzolare; alle due estremità furono costruiti due scomparti in muratura con della paglia all'interno, sicchè le galline e le anitre andavano a deporvi le uova e vi si riparavano quando pioveva. Furono costruite delle casette con varie sezioni per i conigli: c'era il settoreconigli da macellare, quello dei conigli con la funzione di continuare la specie, belli, grossi e ben nutriti, quello più ampio delle mamme incinte o con i figli piccoli. Sistemati gli animali si doveva procedere all'abbattimento degli alberi: Tammaro tagliò senza sofferenza i loti e gli oleandri, ma provava una fitta al cuore nel pensare di abbattere il castagno. La moglie Rosa parlò con un falegname amico di famiglia; gli chiese se si poteva utilizzare il legname di quell'albero per qualche mobile e quando era opportuno tagliarlo. Pietro Chiacchio (il falegname) per la famiglia “Pitruccio”, informò che bisognava abbattere l'albero a luna decrescente(a mancanza di luna), altrimenti il legno avrebbe fatto i tarli. Inoltre il tronco si doveva scorzare(liberare dalla corteccia) mentre era ancora fresco,
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ma dopo un mese almeno dal taglio. Poi era necessario lasciarlo a stagionare esposto all'acqua e al sole per circa sei mesi. Dopo questa preparazione il legname era pronto per l'uso che si volesse. La cosa fu gradita; furono rispettate tutte le regole e Pitruccio realizzò un lettone a spalliera alta, incantevole. Le parti dell'albero meno pregiate furono utilizzate per farne una libreria. Quel letto, che ha oltre 60 anni è ancora bellissimo e fa superba mostra di sé nella camera da letto di un nipote di Tammaro, il quale ne è orgoglioso e dice che gli ha portato fortuna perché il suo matrimonio è stato allietato dalla nascita di tre creature che sembrano delle stelle per bellezza e intelligenza. I fratelli Bilancio con una forza poderosa aiutavano Tammaro a sradicare gli alberi; ne tiravano le robuste radici dalle fosse come se fossero ravanelli. Le bambine guardavano tutto ciò con ammirato entusiasmo, come se fosse tutto un gioco piacevole.
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17° CAPITOLO
Una svolta determinante Quando il suolo del giardino fu libero occorreva vangarlo e diserbarlo prima di gettare i semi e mettere nella terra piantine varie. Ma il suolo non zappato mai era simile ad uno strato di pietra ed invece della vanga o della zappa sarebbe stato necessario il piccone. Per fortuna un agricoltore grumese aveva un aratro particolare tirato da un bue e due cavalli detto “prussiana” Perciò Tammaro si rivolse a lui per la prima aratura del suolo pagando naturalmente il dovuto. Per novembre tutta la parte centrale del giardino era un morbido tappeto grigiomarroncino. Poi lo spazio utilizzabile per la semina fu diviso in tanti quadrati in ognuno dei quali furono seminati o piantati ortaggi diversi, lasciando ai margini lo spazio per il passaggio quando si doveva dare l'acqua o si dovevano raccogliere i prodotti. Tenendo raccolti polli e conigli si potè utilizzare il concime naturale che si raccoglieva di giorno in giorno con pale adeguate. In un angolo queste sostanze si mettevano a maturare, cioè a fermentare e quando avevano emesso la carica di anidride carbonica si prendeva questa poltiglia con bidente e pala e la si metteva sotto le piantine,versandovi sopra dell'acqua e della terra perché non fossero attirati i mosconi. Durante l'inverno non c'era un palmo di terra inutilizzato, oltre il suolo che era stato lasciato per la maturazione delle mele annurche. Era una meraviglia vedere ortaggi di ogni specie lussureggianti. Quando Rosa li coglieva per cuocerli, nel giardino stesso staccava le foglie gialle o dure e le gettava alle galline o ai conigli e portava in cucina solo la parte tenera da utilizzare. Bisognava decidere come far fruttare bene la terra riservata alla coltivazione nel fondo. Lo stesso angelo custode Gennaro Bilancio consigliò di eliminare gli alberi di scarsa utilità, come certi peri selvatici che producevano frutta anche saporita, ma che si faceva scura e molle dentro con la maturazione ; i contadini chiamavano questa frutta “pere
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cotte”. Questo tipo di pere si doveva consumare prima che maturasse del tutto, né la si poteva portare al mercato per la vendita quando il raccolto era abbondante. Perciò Rosa utilizzava queste pere cogliendole prima che maturassero del tutto; poiché erano molto dure le cuoceva nel forno quando cuoceva anche il pane. Quelle che erano quasi mature e non si potevano consumare tutte, né regalare ad altri che le avrebbero considerate frutta marcia, anche se erano buonissime, erano pazientemente tagliate, private dei semi ed essiccate nel forno caldo ancora dopo la cottura del pane. Durante l'inverno questa frutta veniva consumata così com'era oppure si rammolliva in un po' di vino caldo mescolato all'acqua e si mangiava con una spolverata di zucchero. Le “pere cotte” piacevano alle sorelle Iavarone, ma richiedevano molta fatica e gli alberi occupavano spazi necessari per colture più redditizie. Tammaro così fece abbattere due alberi alti dalla chioma ampia che gettavano ombra su largo spazio di terra, diventata improduttiva; fu lasciato un alberello giovane di limitata estensione per richiesta delle figlie. Metà del fondo Iavarone era esposto al sole e di particolare fertilità, libero da alberi e si prestava alla coltivazione della canapa; nell'altra metà era coltivato il grano con granturco, patate fagioli. Erano state eliminate le coltivazioni che avevano bisogno di acqua per crescere; infatti gli ortaggi di stupendo rigoglio nel giardino di casa crescevano così abbondanti che Rosa ne regalava parte a persone amiche che frequentavano la casa. Prima di novembre fu pronta la terra vangata da Tammaro per la semina del grano, di fave e piselli. Poiché dopo le semine non c'erano lavori troppo gravosi da fare nel fondo, Tammaro si divise gli oneri con la moglie: l'uno si occupava di tutte le necessità del fondo, l'altra svolgeva il lavoro che richiedeva l'orto di casa, accudiva i genitori che abitavano con loro, si preoccupava di provvedere alle necessità delle figlie delle quali sei frequentavano scuole di vario grado e l'ultima l'asilo. Essendo libera dall'impegno di andare in campagna Rosa rimaneva a casa e si dedicava pure al cucito facendo compagnia ai genitori. Nonostante la terribile cattiveria della stradicciola sbarrata, con la scusa che vi
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passavano monelli, i quali andavano a devastare o a rubare il raccolto, Tammaro si comportò senza astio verso gli autori di un tale colpo, ma non ebbe più con loro rapporti di confidenza familiare come prima, né si rifugiava nella loro casa colonica quando c'era qualche improvviso temporale. Pertanto con assi di legno, paglia, piante secche di granturco dure e forti come bastoni di legno, si costruì una baracca ben solida con parte superiore a spioventi, impenetrabile alla pioggia: in un angolo di essa scavò una fossa circondata di rete come quella dei recinti dei conigli per mettervi dentro delle bottiglie di acqua al fresco; in un altro angolo applicò ad una robusta trave degli appendipanni rudimentali di modo che quando andava in campagna usciva di casa con indumenti di uso normale, ma arrivato al fondo si cambiava; indossava quelli che erano necessari mentre lavorava a contatto con polvere, terra, sostanze organiche da concime come la frutta marcia che si raccoglieva sotto gli alberi e si metteva nei solchi dove crescevano i legumi. Utilizzando pezzi di legno ricavati dalla potatura degli alberi Tammaro si fece due sgabelli e una panchetta. In tal modo si portava la merenda da casa al mattino stretta in una salvietta pulita, messa in una scatola di latta come i contenitori del caffè Aloia, consumato nella famiglia, affinchè non fosse raggiunta dalle formiche; a mezzogiorno si rifocillava nella capanna seduto ad un desco primitivo come quello di cui parla Virgilio nella Prima Bucolica cioè il desco di Titiro. In tal modo Tammaro usciva di casa allo spuntar del giorno e vi ritornava a sera. Allora tutta la famiglia si riuniva intorno alla tavola apparecchiata; si parlava delle cose fatte durante la giornata, poi dopo il segno della croce si consumava la minestra preparata per cena. Prima che si andasse a dormire le ragazze rivolgevano alla Madonna di Pompei con i genitori questa preghiera: “Madonna mia, fà star bene i nonni, mamma, papà, noi e tutto il nostro prossimo: chi male e bene ci vuole”. Questo indica che Tammaro Iavarone, pur facendo una vita di duro sacrificio per la cattiveria altrui con spirito cristiano,nel pieno rispetto dell'insegnamento di Cristo fondato sull'amore verso il prossimo nella sua totalità, pregava prima per i fratelli cattivi e poi per i buoni. Il suo sguardo, mentre egli pregava e faceva
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pregare, era limpido pieno di luce perché il suo era lo sguardo della bontà. Egli era sempre buono e il suo motto era: “ la bontà non è mai un demerito”, anche se spesso l'individuo buono viene qualificato come “fesso” da chi non ha ricchezza interiore, non ha una umanità tesa verso gli altri.
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18° CAPITOLO
Una nuova batosta Per la famiglia Iavarone la fine del 1944 e l'inizio del 1945 erano stati periodi difficilissimi. Certamente migliorarono le cose quando si potè usufruire della benevolenza degli amici con il passaggio per il Mendicicomio, ma ci fu in essa un grande terremoto economico, a cui è legato uno dei più brutti ricordi delle sorelle Iavarone. Il cambiamento delle colture nel fondo e nel giardino di casa e lo spianto del podere prosciugarono i risparmi che erano da parte, depositati su di un libretto postale. Era stato necessario affrontare spese scolastiche più onerose essendo le prime due figlie al liceo. Occorreva comprare concimi e semi di canapa ad un consorzio agrario; se un coltivatore diretto avesse comprato questi prodotti avrebbe speso molto poco; se invece colui che li richiedeva era inquadrato in una categoria sociale diversa, avrebbe pagato un prezzo altissimo come nel caso di Tammaro Iavarone, che risultava pensionato dello Stato. Rosa ne parlò ad un fratello, il quale era un ricco agricoltore; poiché non aveva figli si era sempre mostrato molto affettuoso con le nipoti, e ben disposto verso la sorella e il cognato. Quando conobbe il problema si dichiarò subito pronto a comprare per loro tutto l'occorrente; la sorella lo informò che avrebbe pagato ogni cosa con la vendita delle noci, ma l'amorevole fratello ribattè subito che non doveva preoccuparsi affatto di una tale cosa. Dopo poco tempo ci sarebbero state le elezioni comunali: in casa Iavarone ci sarebbero stati solo i voti di Tammaro e Rosa essendo le figlie tutte minorenni. Un giorno Tammaro si trovava in un terreno del cognato ad aiutarlo nella semina di rape e rucole da sovescio; questi gli chiese di votare per un candidato che gli interessava. Costui era un parente stretto di T. Q., responsabile indiretta della perdita del bambino, ma seguiva pure una linea politica opposta a quella di Tammaro e Rosa. Perciò gli fu risposto che il voto parte dalla coscienza e dai principi morali di una persona; perciò egli non si sentiva di tradire i suoi - 81 -
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valori. Aveva gratitudine per lui, era ben disposto ad aiutarlo con il suo lavoro in modo gratuito, ma non avrebbe votato per un simbolo che gli era estraneo. Il discorso non fu più aperto. Ma quando ci furono le consultazioni elettorali e ci fu lo spoglio, arrivò immediato a Tammaro Iavarone il messaggio punitivo del cognato con una lettera aperta, recapitata tramite un garzone, che aveva sul viso l'espressione soddisfatta di chi partecipa ad una grande impresa associato al suo padrone. La lettera diceva: Egregio Tammaro Iavarone “Stai sicuramente cuntiento che ha vinciuto chi vuò bene. Allora statti cu' isso e manname i sordi mie rimàn a chest'ora”. La sorella cioè Rosa leggeva e rileggeva quelle parole di delirante cattiveria; Tammaro si stupiva che si potesse arrivare a tanto e chiese alla moglie che cosa dovessero fare; fu subito trovata la soluzione. Ella possedeva un paio di orecchini tempestati di diamanti; li avrebbero portati quel giorno stesso dall'orefice Vitale, che aveva una specie di agenzia di Pegni, per avere il danaro necessario. Le figlie restarono a casa buone buone; si passavano fra le mani quella letteraccia e ne erano addolorate, specie le più grandi, che avevano ben misurato l'azione abominevole dello zio. Per loro fu una terribile delusione perché questi era sembrato sempre affettuoso e gentile con loro; ne rimasero disgustate. Tammaro e Rosa mostrarono il gioiello all'onesto orefice, il quale lo valutò circa 120.000 lire e ricordò che era stato fatto dal padre ed era stato comprato in quel negozio venti anni prima quando egli era giovane ed era accanto al padre ad imparare l'arte. Rosa chiese se avesse gradito ricomprarselo, ma questo galantuomo rispose che poteva avere da lui in prestito la somma che fosse contenuta nel valore di allora, ma sapendo che aveva tante figlie non era conveniente per lei vendere un tale gioiello. Il debito con il “caro fratellino” era di lire 8.000, Rosa prese lire 15.000 per avere la disponibilità di denaro per qualche imprevisto e per il costo dell'abbacchiatura e del trasporto a casa del raccolto di noci, nonché dell'occorrente per biancheggiarle. Il pegno sarebbe stato o riscattato o rinnovato allo scadere del sesto mese. In realtà fu risolto tutto prima che trascorressero tre mesi. Questa
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infamia non fu raccontata al padre e alla madre di Rosa perché ne sarebbero stati profondamente addolorati. Il danaro del debito fu messo in una busta, accompagnato da un biglietto con queste parole: “ Esimio T.M. ti ringrazio della lezione di vita che hai dato alle mie figlie; la ricorderanno perennemente perché ha segnato in loro un'impronta così viva che sarà più efficace di ogni predica quotidiana dei genitori, affinchè si procurino quei mezzi di vita che diano loro la sicurezza di non avere mai bisogno di nessuno. I fatti sono più convincenti delle parole; la tua azione è come un precetto scolpito sulla pietra(un insegnamento che dura per sempre perché è incancellabile). Tammaro Iavarone
La busta fu affidata per la consegna ad un vigile urbano amico di famiglia, naturalmente chiusa; gli fu detto che conteneva un documento importante e si doveva recapitare entro la serata; però il latore doveva farla aprire davanti a lui e chiedere la ricevuta. Quella sera la famiglia Iavarone si riunì davanti al desco preparato, ma nessuno aveva fame: i genitori e le figlie più grandi si sentivano il cuore serrato in una morsa e facevano fatica a trattenere le lacrime, le più piccole non potevano capire, ma si associavano a quell'atmosfera di sofferenza. Tammaro si fece il segno della croce, seguito da tutte le altre della famiglia ed iniziò ad allungare la forchetta nel piatto, per indurre moglie e figlie a fare la stessa cosa. Si rimase tutti a tavola per un pò e il padre con grande dolcezza spiegò alle figlie che quello doveva essere per loro un giorno importante, perché in esso avevano certamente scoperto che nelle necessità neppure sulle persone dello stesso sangue si può fare affidamento; chi offre un aiuto in un momento difficile pretende privare della sua libertà chi ha ricevuto il beneficio, ma la persona che non ha la sua libertà, non può avere dignità, come gli schiavi del tempo antico. Lo zio era stato spesso ospitato a casa della sorella con un amico quando svolgeva l'attività sportiva nel ciclismo, era stato circondato di ogni
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riguardo; aveva ricevuto da lui un notevole aiuto quando urgeva raccogliere i prodotti agricoli, già pronti e si annunciavano temporali che li avrebbero devastati. Egli aveva lavorato tanto senza compenso e con il massimo impegno, ma ciò non era valso a nulla; lo zio approfittando che fosse suo debitore gli voleva imporre di fare una cosa contro la sua coscienza; opposto un rifiuto egli era stato punito. Se esse studiando con serietà avessero conseguito un titolo di studio a pieno merito si sarebbero procurati i beni che contano sempre; quelli che nessuno avrebbe potuto togliere a loro, né una tempesta della vita avrebbe potuto farne scempio come avveniva con il raccolto in campagna. Inoltre per loro ci sarebbe stata la vera libertà di pensiero e di azione solo se esse traessero da se stesse i mezzi di vita. Il benessere e l'indipendenza economica sono certamente la prima condizione per cui una persona può affermare la sua libertà. Certe esperienze fatte sempre a causa della condizione di ristrettezza economica della famiglia Iavarone rimanevano fisse nella mente di MariaCristina la quale ne traeva il viatico per l'esistenza. Infatti con gli anni ogni cosa si chiariva maggiormente ad esempio al quinto ginnasio tradusse un testo delle opere filosofiche del latino Cicerone, in cui il filosofo greco Aristippo approdato in seguito ad una tempesta sulle coste di Rodi con il suo patrimonio culturale, se ne servì per procurare i mezzi di vita a sé e ai suoi compagni di viaggio, che avevano perso tutti i loro averi. Dovendo costoro ritornare in patria mandava a dire ai familiari: “ i miei figli si procurino possessi di tal modo che possano salvarsi con loro da un naufragio. Tammaro Iavarone, senza studiare filosofia, senza conoscere la letteratura latina dava alle figlie gli stessi insegnamenti di Aristippo riportati da Cicerone. Dopo il discorso di Tammaro approvato in pieno dalla moglie e dalle figlie,ci si doveva avviare verso le camere da letto, ma non fu trascurata la consueta preghiera alla Vergine di dare buona salute a loro e all'intero prossimo e “a chi male e bene ci vuole”.
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19° CAPITOLO
Il Riscatto Le noci nell'autunno del 1945 raggiunsero quotazioni altissime perché l'annata era stata scarsa dovunque e dei nubifragi avevano distrutto quasi completamente i raccolti di noci della Carnia nel Friuli-Venezia-Giulia e di Sorrento in Campania. Allora entrò in casa una bella somma di denaro che consentì di ristabilire il bilancio dissestato della famiglia; avanzò una parte del denaro che fu conservato per eventuali imprevisti del futuro. All'inizio del 1946 fu seminato il grano da una parte e la canapa dall'altra. Fino ad aprile non ci sarebbe stata la necessità di innaffiare vegetali, ma occorrevano botti di acqua per irrorare le viti e i meli: Rosa pensò di far costruire al limite del campo una cisterna profonda vari metri, larga circa tre metri, con una pendenza e un'apertura a livello basso dalla parte della strada carreggiabile, con una cancellata a maglie strette, per cui vi passava l'acqua piovana che correva a fiumi dalla strada, ma si fermavano fogliame, sterpi, sassi trascinati da essa, che veniva così filtrata. Con questo espediente alle prime piogge autunnali già si riempiva la cisterna e l'acqua bastava per tutti gli usi periodici che richiedeva la coltivazione del campo. Quando i muratori stavano scavando, una gentile persona appartenente alla famiglia che aveva compiuto “quel glorioso atto di giustizia”, si avvicinò ai lavoratori chiedendo che stessero facendo; fu risposto che stavano costruendo una grande vasca di raccolta delle acque piovane, cementata all'interno,coperta di una lastra di cemento armato,con un'apertura in un angolo chiusa da una robusta inferriata apribile solo con chiave perché non rappresentasse pericolo per le bambine. Il progetto trovò il pieno consenso, però il “gentiluomo” ebbe la cortesia di avvertire Tammaro Iavarone che il lavoro sarebbe costato un bel mucchietto di soldi, ma se avesse venduto la terra non avrebbe avuto niente in più per la cisterna, perché lo spazio in cui sarebbe stata costruita avrebbe avuto il valore di un qualsiasi pezzo del fondo. Con garbatezza, cioè senza mostrare irritazione - 85 -
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per la pena inflitta e per le pugnalate successive il pensionato rispose ancora una volta che né egli, né la moglie, né le figlie avevano intenzione di vendere il campo; un giorno sarebbe stato suolo edificatorio e vi sarebbero sorte delle belle villette. Egli stava procurando alle figlie tesori che avrebbero portato sempre con sé e che non si sarebbero mai consumati; i terreni degli altri per un caso o per un altro potevano pure finire in fondo al mare; se suscitava tanto interesse quel pezzo di terra così fertile, che avrebbe reso un quadrato perfetto la sua proprietà terriera, ci doveva togliere il pensiero. Tammaro e Rosa di comune accordo decisero di eliminare anche il meleto di annurche poiché la sua cura richiedeva molte spese: ogni due anni si dovevano comprare dei pali di castagno per reggere gli alberi con la carica; la frutta doveva essere irrorata con pesticidi quattro volte dall'inverno a metà maturazione e questo lavoro veniva fatto da lavoratori specializzati nel settore, i quali prendevano un alto compenso; c'era il costo di verderame, di antiparassitari, calce e tutto ciò pesava sul bilancio; oltre a ciò le mele raccolte avevano bisogno di una cura continua; si dovevano girare di giorno in giorno, affinchè si facessero rosse da ogni parte. La fatica durava fino a dicembre quando in genere venivano ritirate dai grandi esportatori di frutta. Il meleto fu lasciato per la produzione del 1946 perché gli alberi già avevano avuto tutti i trattamenti necessari; erano stati potati opportunamente e avrebbero dato una eccellente produzione. Durante le vacanze estive le sorelle Iavarone più grandi iniziarono a servirsi del loro patrimonio culturale; l'amico di famiglia Salvatore Scarano chiese a Tammaro Iavarone se qualcuna delle sue signorine conoscesse il francese perché il figlio aveva bisogno di aiuto in quella disciplina. Quando il padre ne parlò alle figlie più grandi, queste si mostrarono subito ben disposte, così Giuseppe Scarano fu il primo alunno delle “signorine di scuola” Iavarone e precisamente di Grazia, che aveva studiato bene questa lingua. Alcuni suoi compagni erano stati rimandati in Italiano e matematica e gli chiesero di far loro conoscere queste insegnanti così brave - come diceva Giuseppe - e così pazienti. In tal modo un bel gruppo - 86 -
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di ragazzi iniziò a frequentare la “scuola privata Iavarone detta poi la scuola delle “sette sorelle maestrine”. La prima era bravissima in matematica e fisica; era stata promossa a pieni voti al 3° liceo classico ed era felice di sperimentare le sue valenze nelle discipline scientifiche perché aveva intenzione di iscriversi all'università alla facoltà di Matematica e Fisica. La seconda aveva un interesse particolare per il Francese e sapeva impartire le sue lezioni con tanto garbo che fu molto ricercata per tale fine: allora esistevano le scuole di avviamento professionale di indirizzo commerciale e industriale dove si insegnava per lo più il francese, mentre alle scuole medie si preferiva l'inglese. Perciò la terza che aveva appena 15 anni cominciò a dare lezioni di inglese che aveva studiato bene alla scuola media con il professor Francesco Percopo presso la Scuola Media S. Alfonso M. dei Liguori e con la docente E. Bisignano al ginnasio presso il “Garibaldi” a Napoli. Queste ragazze erano felici di insegnare; erano di tanta dolcezza nello svolgimento della loro opera che i genitori degli alunni sentivano uno slancio di gratitudine per loro; le pagavano, le ringraziavano, facevano loro dei regali ad ogni occasione. Le “signorine di scuola” Iavarone si dedicavano al loro lavoro con amore verso gli alunni e spirito di sacrificio, non per venalità, cioè non solo per guadagnare quel denaro che era andato sempre nella direzione opposta alla loro famiglia. Esse si sentivano portate spontaneamente a fare le cose per bene per rispetto degli alunni che avevano diritto a capire, qualunque fosse la loro condizione e quali si rivelassero le loro valenze intellettive, per rispetto dei genitori che davano i loro soldi, accompagnati dalle benedizioni e dagli auguri per il futuro delle “signorine di scuola”. Però alle sorelle Iavarone faceva piacere pure iniziare a disporre di danaro con cui comprare qualche bel vestitino ed altre cose gradite. Dalla fine di giugno alla fine di settembre le giovani “docenti” avevano guadagnato il denaro necessario per tutte le loro spese scolastiche e sufficiente anche per acquisti di abbigliamento. Le ragazze verificarono dal concreto che i genitori stavano procurando loro i valori che contano sempre. Però con l'inizio dell'anno
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scolastico avrebbero ridotto il lavoro all'indispensabile per studiare con massimo impegno. Non avevano più alcun valore le esperienze fatte in conseguenza dei loro disagi economici. Alla fine dell'estate prese possesso della sua terra una lontana cugina di Tammaro, il cui marito di nome Franzini Luigi era detto Luigi Sandaloia. Questo sant'uomo aveva il nomignolo appioppato per affinità con l'arte della madre che faceva e vendeva certi zoccoli ben lavorati detti sandali per distinguerli dagli zoccoli rozzi e pesanti molto usati dalle donne che lavoravano nei campi e spesso anche dagli uomini che svolgevano il lavoro di cordari (i funari). Il termine sandaloia equivaleva a sandolaia cioè venditrice di sandali trasformato nel linguaggio popolano. Luigi era un uomo ammirevole sotto ogni punto di vista; era cordiale, gentile, pronto ad offrire il suo aiuto a Tammaro, era protettivo con le ragazze. Era sceso dal cielo il secondo angelo custode ad aiutare la famiglia Iavarone. Tammaro era preoccupato che a settembre si sarebbero dovute raccogliere le mele: gli alberi erano stracarichi. Non sarebbe stato possibile portarle a casa con la carriola; le figlie rassicurarono il padre che non avevano bisogno di nulla; erano felici che il padre lavorasse di meno: a 55 anni non poteva affrontare eccessivi sforzi. Luigi si offrì di raccogliere le mele con Tammaro per tutta la giornata; al pomeriggio avrebbero trasportato il raccolto a casa con un carretto; man mano che si portava un carico Rosa e le figlie in una specie di lavoro a catena aggiustavano le mele nello spazio ad esse riservato coperto di canapule. In cinque giorni di lavoro così organizzato furono colti e sistemati 50 quintali di mele. Nella famiglia si fantasticava sulla bella somma di denaro che sarebbe arrivata entro poco tempo; si fece il progetto di comprare dei mobili nuovi nella stanza da pranzo e nello studio per arredarli in modo sobrio, ma accogliente per le nuove esigenze delle ragazze delle quali una aveva iniziato l'Università ed era contenta di stringere rapporti di amicizia con colleghe, ma le cose andarono in modo diverso, inaspettato: non entrò mai il denaro che doveva essere il guadagno di due anni di lavoro e rimborso delle spese della coltivazione, infatti, i meli
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dovevano essere sempre curati mentre producevano la frutta ad anni alterni. Il commerciante che prendeva in genere il raccolto di mele di Tammaro Iavarone, come al solito, quando ebbe la telefonata che il prodotto era pronto comunicò che entro due giorni sarebbe venuto a caricarlo. I lavoranti scelsero le mele piÚ belle lasciando le piccole e quelle con qualche difetto, fu pesato il tutto e risultarono 52 quintali di frutta di prima qualità .
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20° CAPITOLO
Dolorosa sorpresa e necessità di nuovi percorsi Come altre volte don A.F. di via Arenaccia raccomandò a Tammaro Iavarone di passare per il suo ufficio la mattina seguente per ritirare il danaro nonché un regalo per le signorine. Con puntualità il pensionato si recò al deposito di frutta dell'esportatore, ma con molto imbarazzo costui scoppiò a piangere e gli spiegò che aveva avuto una frode colossale ed era ridotto sul lastrico. Gli diede solo una parte dei soldi, che copriva a stento le spese fatte per concimare le piante e irrorarle dei necessari pesticidi. Come un cadavere Tammaro Iavarone ritornò a casa. Come faceva sempre, comprò le sfogliate da Sgambati per la famiglia affinchè non si capisse subito l'atroce realtà. Poi dopo pranzo la prima figlia mostrò la sua gioia che avrebbe avuto una casa più bella per ricevere le colleghe. Ma il papà purtroppo dovette frenare il suo entusiasmo spiegando i fatti. Ci fu un silenzio prolungato fra tutti i membri della famiglia e poi iniziò a parlare Assunta: non era la fine del mondo quello che era accaduto, ma era una circostanza attraverso la quale si capiva che il meleto davvero si doveva tagliare, come proponeva la madre. La sua conduzione andava bene per gli agricoltori che avevano figli maschi dediti solo all'agricoltura. Se le figlie erano tutte avviate alla professione occorreva utilizzare la terra in un altro modo conciliabile con le necessità di studio di tutta la schiera. Una coltura che sarebbe stata poco faticosa e non pericolosa per il pensionato perché non richiedeva il salire e lo scendere da scale, era quella delle fragoline. Perciò entro lo spazio di un mese furono abbattuti tutti i superbi meli che erano un prodigio della natura per altezza e bellezza. Ne furono ricavate cataste di legna da ardere oppure per fare zoccoli o cassette per la frutta; la vendita di tanto legname ad un imprenditore, che gestiva una falegnameria, sopperì alla mancanza di denaro della vendita delle mele
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venuto meno. Ma a tutta la famiglia restò un nodo alla gola. Con la sua energia vulcanica Tammaro Iavarone ripulì la terra dalla segatura dei tronchi tagliati, dal fogliame e da altro materiale e la preparò per l'impianto della nuova coltivazione. Per novembre le piantine di fragole, provenienti dalle colline dell'isola di Ischia erano a terra. Durante l'inverno dovevano essere concimate e diserbate; vi erano delle donne specializzate a “nettare” le fragole, ma già le piantine erano costate parecchio, erano stati comprati i concimi e si doveva evitare di fare altre spese. Allora Tammaro comprò in un consorzio agrario due belle zappette a cui fece applicare per manici delle aste lunghe più di un metro; con questi arnesi insieme con Luigi, senza abbassarsi eliminava le erbe dalle radici, appena spuntavano. Invece le “nettatrici” delle fragole spesso tiravano le piante di erba lasciando le radici nella terra, sicchè queste rispuntavano presto e più vigorose, inoltre le donne non avendo un proprio interesse da vigilare, facevano le cose senza l'attenzione dovuta, perciò capitava che insieme con l'erba sradicassero anche le piantine di fragole. Il lavoro compiuto da Tammaro e Luigi risultava ideale; le piantine crescevano a vista d'occhio: fra i solchi di fragole fu seminato l'orzo che non ne danneggiava la crescita e offriva un utile: le piante di fragoline nel primo anno di vita mettevano bene le radici nella terra e completavano il loro sviluppo ma non producevano, al secondo anno davano un raccolto abbondantissimo, al terzo anno il prodotto era discreto; alla fine della seconda produzione le piante si dovevano togliere perché sarebbero diventate improduttive. Accoppiare alle piantine di fragole in crescita l'orzo era una buona idea. Questo essendo un cereale quasi selvatico non aveva bisogno di nessuna cura, ma nutrendosi dello stesso concime messo sotto le piantine di fragole, cresceva rigoglioso; ad aprile si vedevano spuntare bellissime spighe di un verde smeraldino, le quali a poco a poco si gonfiavano e diventavano gialle, abbassandosi man mano che si sviluppava l'achenio. Così per fine maggio le spighe piene di frutto si inchinavano dolcemente, diventavano dorate ed erano pronte per la mietitura. L'orzo non aveva bisogno
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di trebbiatura, ma di semplice battitura; avendo tutto l'occorrente per questo ed altri lavori nella sua capanna, Tammaro Iavarone batteva i covoni d'orzo su di un lenzuolo vecchio, ne faceva cadere tutti i chicchi e poi bruciava la paglia. In tal modo portava a casa con la sua cara carriola solo il prodotto pulito. L'orzo era utilissimo alla famiglia perché tostato e macinato dava una nutriente bevanda che si aggiungeva al latte e rendeva la colazione delle ragazze più sostanziosa, oppure macinato allo stato naturale dava una farina scura che aggiunta alla farina di grano rendeva il pane più gradevole di sapore e faceva durare di più il grano, sicchè non c'era pericolo che finisse prima del nuovo raccolto. Era oneroso e fastidioso portare al mulino pubblico i cereali e il mais, per Tammaro Iavarone, che non disponendo di un mezzo di trasporto si doveva caricare del peso e poi doveva pagare la “molitura”; pensò, pertanto, di farsi costruire da un buon artigiano una specie di macinino gigante con il quale poteva macinare due chili per volta di grano, orzo o mais. Con la sua forza ancora prodigiosa, dopo la giornata di lavoro nel fondo Tammaro macinava anche venti chili di prodotto in una serata, mostrando nessuna stanchezza, quasi come se facesse un gioco per rilassarsi e poi poter dormire meglio, ma Rosa e le figlie maggiori di tanto in tanto gli davano il cambio perché avesse una pausa nella fatica. Le esigenze di lavoro del fondo, cambiando le coltivazioni, si erano ridotte e Tammaro poteva anche dare un aiuto considerevole all'amico Luigi. Si stabilì tra loro una perfetta intesa di collaborazione nel lavoro e di protezione dei figli quando volevano stare in campagna a giuocare, a leggere per passatempo, oppure a fare qualche lavoro adatto a loro, durante le vacanze estive. Le sorelle Iavarone dalle piccole alle grandi amavano passare il tempo libero nel fondo: era bello leggere sotto un albero fra lo spettacolo meraviglioso della natura e il dolce cinguettio di uccelli di ogni specie; talvolta si camminava un po' per l'attrazione di qualcosa e si andava a staccare dai rami qualche bel frutto maturo da mangiare con gusto allo stato naturale, dopo averlo lavato con l'acqua di riserva che era sempre nella capanna per bere e per altri usi. Le bambine si divertivano a giuocare,
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a pettinare le pannocchie, oppure a tracciare con qualche arnese appuntito lettere greche sulla scorza degli alberelli; molte volte si arrampicavano sugli alberi di fichi, afferrandosi ai rami che formavano una specie di scaletta. Dove la terra era indurita disegnavano dei quadrati e giuocavano “alla campana” che era la conquista di uno dei quadrati dopo una prova di abilità nel lanciare un sasso detto “zecca” al centro di uno di questi dieci quadrati. Però la loro sicurezza era controllata da zio Luigi cioè Luigi Sandaloia, il quale si scambiava con Tammaro Iavarone i turni di guardia. Quando Tammaro e Rosa dovevano assentarsi da casa e dal fondo le figlie grandi e piccole erano bene affidate. Insieme con loro c'erano pure i due figli di zio Luigi: Filippo e Francesco della stessa età della quinta e della sesta delle sorelle Iavarone. Di Francesco le sorelle Iavarone hanno perso le tracce, essendosi trasferito in Germania in giovane età, ma con Filippo, che attualmente vive ad Aprilia in provincia di Roma, i rapporti affettuosi durano ancora. Anche se non capita di vedersi spesso, il senso profondo della vera amicizia è tale che Filippo è sempre pronto a rendersi utile in qualsiasi necessità con la sua bella famiglia, come pure le sue “sorelle d'infanzia”, ormai “vecchie” sono felici di rispondere ad ogni suo richiamo.
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21° CAPITOLO
Ritorna il sereno Spesso i ragazzi si arrampicavano sui “cimmoni” dei pioppi e raccoglievano funghi che si portavano a casa come trofei. Papà Tammaro stabiliva delle regole che si dovevano rispettare: ad esempio durante l'estate, dopo pranzo, tutti si dovevano riposare per qualche ora e nelle giornate molto calde il riposo si doveva protrarre perché nel giardino di casa potevano uscire dalle spaccature del muro di cinta, dentro cui c'erano i covi, serpenti, che nelle ore calde venivano fuori in cerca di acqua. Nel fondo non ci si doveva proprio accostare perché in un albero secolare di mele primaticce c'erano nidi di grosse bisce, che potevano attorcigliarsi intorno al collo delle bambine “che odoravano di latte” come diceva il papà. Un giorno in cui c'erano in campagna zio Luigi e i figli, i quali non andavano a pranzare a casa, abitando in un altro paese, eludendo la sorveglianza paterna, mentre le due sorelle maggiori dormivano, le cinque più piccole scapparono nel fondo per la curiosità di vedere i serpenti in compagnia dei loro amichetti. Guidava il drappello che faceva la sortita Pasqualina, la terza, di ben 15 anni. Dalla cavità del vecchio melo venne fuori una biscia lunga quasi due metri, tutta chiazzata di verde nella parte superiore e gialla sulla pancia. Le bambine presero dei lunghi fili di canapa secchi e toccarono da lontano il serpente che si raggomitolava come una specie di palla, dopo un po' si distendeva e iniziava a strisciare verso un nido di formiche di cui i rettili sono ghiotti. Ma le bambine elettrizzate ripresero le canne improvvisate e toccavano di nuovo il serpente che si raggomitolava ancora. Mentre le sorelle interessate alla natura osservavano attente il serpente arrivò il papà nero in viso, il quale fece finta di sfilarsi la cinghia dei pantaloni per dare delle sferzate alle colpevoli di un atto di disobbedienza, che poteva essere pericoloso. Ma poi le avvertì con voce grossa che le avrebbe punite in un altro modo: condotte a casa furono chiuse nella loro stanza come se fossero state portate in prigione alla maniera di quelli che - 94 -
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infrangono le leggi dello Stato. Le colpevoli dovevano espiare la condanna di rimanere nella stanza sotto chiave dal pomeriggio fino alla mattina seguente senza cena, solo con l'acqua e un pezzo di pane. Ma in realtà la chiave fu consegnata a Rosa con la raccomandazione di andare a vedere se le bambine stessero piangendo e portare loro la cena. In apparenza furono rispettati gli ordini paterni e le figlie alla liberazione furono pronte a chiedere scusa al loro papà promettendo di non venir meno mai più ai loro doveri e di non infrangere le regole stabilite. Quando stavano nel fondo, ma non c'era lavoro da fare le sorelle grandi e piccole giuocavano a fare le alunne e le professoresse: o si sedevano sul poggio della cisterna o davanti alla casupola e iniziavano la lezione. Assunta e Grazia spiegavano alle sorelline il perché del volo degli uccelli, il mito di Icaro che volò con ali di penne e cera, il mito di Proserpina da cui derivano le stagioni con l'esplodere della natura a primavera e in estate e le caratteristiche diverse delle altre, guardando le foglie dei pioppi dai lunghi gambi, girate continuamente dai soffi di vento, la prima sorella recitava i versi del Pascoli “le tremule foglie dei pioppi/trascorre una gioia leggiera”per spiegare che nella natura tutto è bello e può ispirare i poeti, i quali dicono quello che parte dalla loro esperienza e si proietta sul mondo fuori di loro. Esse che erano passate attraverso tante difficoltà superate con l'impegno e il coraggio, allora che vivevano nel benessere, nella gioia e nell'armonia familiare, sentivano la soddisfazione di tutto ciò e venivano spontanei alle labbra altri versi legati allo stesso momento: “la fame del povero giorno/prolunga la garrula cena”. Le sorelle Iavarone con un padre che traeva dalla sua forza fisica straordinaria e dal suo immenso amore per le figlie le energie per lavorare il campo di continuo, per trarne il massimo profitto, non avevano mai sofferto la fame. Tuttavia esse avevano subito le angherie che si fanno ai poveri, vivendo spesso nelle condizioni di dipendenza da altri più potenti perché più ricchi, perciò godevano oltremodo quando si rendevano conto che per loro “la nottata era passata”. Le sorelle Iavarone, ricordando i momenti di difficoltà, non potrebbero
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dimenticare le prove di affetto dimostrate da alcuni cugini, i quali hanno avuto per loro sentimenti di ammirazione ad ogni vittoria conseguita sulle avversità e le hanno incoraggiate a continuare i loro percorsi sempre più agguerrite. Una grande e particolare gratitudine merita il cugino Gaetano Mele figlio di Vincenzo, che ha mostrato sempre una levatura spirituale straordinaria infatti, pur dedicandosi al lavoro calzaturiero, si è armonizzato benissimo con studenti universitari da giovane e con professionisti nella sua età matura. Un amico di una vita intera per Gaetano Mele è stato Antonio Di Donato. La loro amicizia è stata simile ad un ruscello di acqua limpida che scorre per un piano aprico, trapuntato di fiori. Si sono frequentati fin dall'età dei sogni giovanili incontrandosi o al circolo sportivo C. Girardengo nella piazza del paese o in passeggiate per il Viale della Rimembranza, specie d'estate. Allora ognuno dei due si disegnava nella mente, anche se in modo diverso, il proprio futuro con una carica di fiducia e di ottimismo. Nel loro sodalizio affettuoso Antonio e Gaetano hanno condiviso la passione politica, si sono impegnati per dare una impronta nuova alla città di Grumo Nevano senza attenuare mai il loro entusiasmo nel collaborare per il progresso della propria terra. I due amici hanno realizzato in pieno le loro aspettative: l'uno ha sposato la bellissima Rosa Gestone, cugina di Gaetano Mele, è diventato un avvocato valente, ma sempre molto umano per la sua innata bontà; l'altro ha realizzato la sua aspirazione di uomo legando a sé come compagna della vita una incantevole fanciulla Giuseppina dotata di una dolcezza inverosimile. E' diventato un imprenditore calzaturiero intelligente, creativo, abile nel suo campo sempre cordiale con tutti nei suoi rapporti umani ma fiero e sdegnoso come D. Cirillo davanti agli ampollosi spacconi, gonfi di superbia e umile davanti alle persone semplici e dignitose. Gaetano Mele ha avuto sempre in gran conto la cultura e si è mostrato sempre garbato e protettivo verso le cugine studentesse per le quali è stato sempre di squisita disponibilità in qualsiasi occasione potesse rendersi utile, proprio come un fratello amorevole: sentimenti e comportamenti che sono rimasti invariati nel tempo, per cui anche se sono tutti sul viale del tramonto è
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Gaetano Mele con la moglie Giuseppina Moscato, MariaCristina Iavarone con il marito Sossio, Giovanna Iavarone con il marito Luigi Reccia
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sempre una grande gioia per loro rivedersi e sono sempre reciprocamente pronti a darsi una mano affettuosamente. Questo cugino speciale andava spesso a visitare i nonni Mele perché era teneramente affezionato a loro, ma veniva a casa loro anche per trattenersi un poco con le cugine di cui desiderava conoscere i graduali successi e congratularsene. Qualche volta ha realizzato per loro dei sandali che erano una vera e propria opera d'arte per eleganza, bellezza e comodità. Un altro cugino a cui sono legati ricordi di infinita dolcezza delle sorelle Iavarone è Antonio Mele, figlio del fratello di Rosa, Giovanni, il quale è cresciuto insieme con loro, abitando in una casa, attaccata con quella della zia. Antonio si incantava quando vedeva le cugine studiare il greco o il latino. Voleva rendersi conto delle difficoltà della scrittura e della lettura delle lettere greche per cui spesso si tratteneva con loro a scrivere parole italiane con le lettere greche. Era gentile e premuroso con le cugine e fu così conquistato dall'amore per la classicità, vedendole studiare, che volle iniziare a studiare anche lui per conseguire la maturità classica. Perciò, lasciata la scuola dopo il conseguimento della licenza della scuola elementare, cioè a undici anni, riprese lo studio a quasi venti anni con una vera passione. Anche se poteva aprire i libri solo dopo una giornata di lavoro in campagna, non si scoraggiava contro le previsioni di altri, i quali pensavano che, dopo le prime esperienze, Antonio si sarebbe arreso o almeno, aspirando al conseguimento di un titolo di studio di grado superiore, avrebbe optato per l'istituto tecnico industriale o commerciale. Egli, invece, si comportò come V. Alfieri: studiando nella maggiore età “volle, sempre volle, fortissimamente volle” studiare le lettere classiche. Nei primi approcci con il Greco e il latino fu guidato dalla cugina Assunta, ma via via divenne del tutto autonomo nello svolgimento dei compiti assegnati quotidianamente dai due professori che lo seguivano, l'uno nelle materie letterarie e l'altro nelle materie scientifiche. Antonio Mele è rimasto sempre legato alle cugine Iavarone anche quando le loro vie si sono divise. Anzi egli ha modellato la sua funzione di padre sull'esempio dello zio Tammaro; diventato padre di sei figli, li ha allevati con la collaborazione
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Antonio Mele, figlio di Giovanni, fratello di Rosa
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accorta e amorevole della moglie Rita Scarano, inculcando in loro l'amore per il lavoro dei campi, il rispetto della natura e l'interesse allo studio da considerarsi la fonte primaria del proprio futuro benessere. Per dimostrare ad un tale zio il suo affettuoso rispetto Antonio ha chiamato Tammaro il suo quinto maschio. Il terzo cugino che ha rappresentato un punto fermo per le sorelle Iavarone nella loro crescita è il secondo figlio di Vito, fratello di Tammaro Iavarone: Pasquale Iavarone. Questi era più grande di parecchio rispetto alle cugine perciò si comportava con loro come un secondo papà e dava quei consigli di vita pratica che riteneva massimamente utili: diceva che in treno, a scuola, per la strada e anche fra le pareti della loro casa potevano trovare pericoli per la incolumità della loro persona, perciò se qualcuno rivolgeva la parola avrebbe potuto anche cercare approcci con cattive intenzioni, sapendo che fossero tutte ragazze senza la difesa di un fratello; esse dovevano stare sempre in guardia. Inoltre erano delle belle ragazze tali da non passare inosservate, per cui erano oggetto di attrazione ed egli, essendo un giovane, sensibile alla bellezza femminile, si rendeva conto pienamente di ciò e apriva loro gli occhi affinchè non si fidassero di nessuno, non si facessero mettere una mano addosso da nessuno e indicava loro di seguire la regola assoluta e perentoria di parlare a lui se qualche moscone si fosse messo a girare intorno. Le cugine ne ascoltavano i consigli e li mettevano in pratica scrupolosamente, trovandosi bene. Pasquale è stato sempre alle loro spalle anche quando le cugine sono diventate donne mature e si sono avviate alla loro attività professionale. Pasqualina, MariaCristina Silvia e Vittoria hanno iniziato la loro carriera di docenti in provincia di Caserta prendendo la residenza a casa di questo prezioso cugino a Casapulla, dove egli era capofabbrica alla M.M.M., fabbrica di marmette pregiate. In tal modo fu per loro più facile l'inserimento nel mondo della scuola poiché in provincia di Caserta gli aspiranti docenti erano di numero inferiore rispetto alla disponibilità delle cattedre, ma con la residenza nella provincia di Napoli sarebbero venuti meno p. 6 che facevano scendere il posto in graduatoria verso la coda.
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Giuseppe e Pasquale Iavarone figli di Vito, fratello di Tammaro - 101 -
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Inserite nelle graduatorie degli aspiranti all'insegnamento casertani nelle varie discipline per il punteggio elevato le professoresse Iavarone venivano convocate dalle scuole presso cui si erano messe a disposizione e gli avvisi spediti con tassa a carico del destinatario arrivavano ogni giorno a casa di Pasquale Iavarone, la cui moglie, la carissima Gianna Chiacchio, doveva scendere a ritirare la posta che non si poteva mettere nella cassetta poiché occorreva pagare la tassa postale al postino di servizio. Solo una persona affettuosa, generosa poteva avere tale pazienza. Inoltre essendo una persona molto benvoluta Pasquale Iavarone aveva relazioni di amicizia con presidi e professori che erano andati a comprare materiali per la scuola o per le loro case alla M.M.M. ed erano stati conquistati dalla sua squisita garbatezza nel consigliare il meglio e far pagare il meno possibile. Perciò egli era invitato ad ogni festa scolastica a cui non mancava mai e se ne andava in estasi quando i presidi parlavano della efficienza, della capacità didattica delle cugine, del loro senso del dovere e dell'amore che riversavano sugli alunni. Un altro cugino speciale è stato Giuseppe Iavarone, fratello di Pasquale. Costui aveva verso le cugine un comportamento del tutto differente rispetto a Pasquale. Era pronto a minacciare di castighi terribili quelle che non si attenevano alle regole stabilite dai genitori. Di consueto per le colpe più gravi come il litigare fra loro, il disobbedire alla mamma, il creare disordine, con una faccia grifagna e un cipiglio spaventoso urlava: “ Faccio venire mezz'ora di terremoto”. Le bambine non sapevano che cosa fosse il terremoto, ma dall'espressione del volto del cugino giustiziere si rendevano conto che fosse una cosa tremenda e si mettevano in riga. Anche le sorelle più grandi dal tono usato nei loro riguardi capivano di aver proprio esagerato e aver suscitato lo sdegno del cugino, perciò placavano gli spiriti bollenti. Silvia e Vittoria provavano un grande piacere a camminare con piedi scalzi nel giardino ed osservare le impronte dei loro piedi stampate sulla polvere. Il papà aveva spiegato loro che nel terreno poteva esserci un pezzo di vetro, qualche chiodo arrugginito, qualche oggetto appuntito ecc. e se si fossero procurata anche una ferita piccola, avrebbero corso il rischio di prendere una
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Pasquale Iavarone e Gianna Chiacchio nel giorno del matrimonio con i loro testimoni di nozze Matteo e Maria Chiatto
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brutta malattia che le avrebbe uccise: il tetano. Ma le due piccole ribelli, appena erano fuori del controllo paterno, correvano in giardino a fare il loro giuoco preferito. Se le sorprendeva Giuseppe, arrivato per caso, le terrorizzava con la minaccia del terremoto. Un giorno tirava un vento impetuoso; appoggiato al muro di cinta del giardino c'era un grosso tronco che doveva essere spaccato per farne legna da ardere nel camino. Tammaro sospese il lavoro che stava facendo in giardino perché volavano tegole giù dai tetti; rami di alberi erano spezzati dalla furia del vento e potevano colpire la testa di chi si trovasse nella loro traiettoria. Allora sotto una folata più impetuosa il tronco si abbattè al suolo schiacciando una grossa gallina che razzolava colà. La povera bestia aveva gli intestini da fuori perché le erano usciti dall'ano; tutto il suo corpo era rimasto spiaccicato al suolo con le penne intrise di sangue, insozzate dalla polvere, la testa era scomparsa sotto il tronco. Quando si senti il tonfo tutti sobbalzarono, trovandosi nella cucina che affacciava sul giardino. Appena si calmò un poco il terribile vento si andò a vedere che cosa fosse accaduto. Intanto era arrivato anche Giuseppe, il quale spiegò alle cugine inorridite che muoiono in modo peggiore di quella sfortunata gallina le persone sorprese dal terremoto; anzi spesso si schiacciano al punto che non si trova più il loro corpo maciullato insieme alle pietre e alla terra. Questa spiegazione ebbe il suo effetto immediato; le bambine terribili promisero di non disobbedire più al papà perché non volevano diventare una orribile “pizza” con il terremoto. Spesse volte Giuseppe scherzava pure con le cugine mettendo alla prova le loro conoscenze scolastiche e il loro intuito. Ad esempio una volta volle fare loro l'esame di matematica proponendo questo quesito: “ se sul ramo di un albero, come il castagno nel giardino, ci sono ci sono cento uccelli, io tiro un colpo di fucile e ne uccido uno, quanti ne restano sul ramo?” tutte, grandi e piccole, risposero in coro “ne restano 99”. Giuseppe si mise a ridere e ribattè: “ non ne resta nessuno perché gli altri volano via”. Per dare la dimostrazione della cosa le condusse nel giardino dove c'era un fico sulla cui cima si vedevano tantissimi merli a beccare i fichi maturi non colti. L'albero
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non era molto alto e le bambine ne potevano osservare bene i rami con gli uccelli che cinguettavano lieti, mentre saltellavano da un frutto all'altro e ne assaporavano la dolcezza. Giuseppe prese una grossa pietra e la scagliò contro l'albero. In un attimo scomparvero tutti gli uccelli ed egli concluse la sua lezione dicendo alle cugine che, come regola fissa di vita, dovevano imparare a riflettere prima di precipitarsi a dare una risposta scontata ad una qualsiasi domanda: anche nella più semplice, infatti, poteva esserci un inganno Durante l'estate questi cugini straordinari andavano spesso dalle sorelle Iavarone; qualcuno era contento di salire sugli alberi più alti del giardino e raccogliere la frutta per lo zio che non si permetteva di essere spericolato, qualche altro assisteva compiaciuto al loro lavoro culturale. Perciò questo periodo era proprio bello per tutte le sorelle. Ma l'estate era massimamente gioiosa anche perché consentiva loro di guadagnare un bel po' di soldini, di sfogare la loro esuberanza in campagna come in una specie di Eden anche quando facevano ancora del lavoro con il papà e la mamma. “Era passata(per loro) la tempesta e gli uccelli facevano festa” perché era cambiato tutto per la famiglia Iavarone: tante persone si mostravano servizievoli, gentili con Tammaro e non lo guardavano più con un sorriso maligno di compatimento perché aveva sette figlie con cui poteva fare il “casino” oppure per la sciocchezza di qualcuna, alias fuga da casa per amore, poteva essere costretto a vendere la terra. Ora le sorelle Iavarone erano le sette sorelle professoresse per le persone di livello socioeconomico elevato di cui seguivano i figli e per la gente umile erano le sette “maestrine”, le quali nel loro insegnamento “erano capaci di far imparare le cose anche ai morti”, come disse una madre prima disperata per un figlio che a 18 anni doveva arruolarsi nei carabinieri, ma non riusciva a conseguire la licenza della Scuola Media. Assunta Iavarone allora universitaria riuscì con la sua pazienza, la sua disponibilità, la sua intelligenza a trovare il modo per interessare questo giovane all'apprendimento in senso generico e poi allo studio delle varie materie. Gli studi di tutte le sorelle procedevano bene; nell'estate si mettevano
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tavoli nel cortile iniziava il lavoro di preparazione per gli esami si settembre con una schiera di alunni sempre più folta poiché le “signorine di scuola (come dicevano certe mamme) sapevano tutte le materie”. Le grandi impartivano lezioni di italiano, latino, greco, inglese e francese a studenti del ginnasio o del liceo essendo universitarie, la quarta nelle vacanze preferiva fare sperimentazioni in cucina, preparando piatti squisiti con le cose semplici che erano in casa, oppure ideava ed eseguiva modelli di vestiti. La quinta, completata la scuola media, nelle vacanze cominciò a cimentarsi con i libri di greco e libri di latino del corso superiore; nello stesso tempo impartiva lezioni ad un gruppetto di alunni di quinta classe della scuola elementare, che dovevano fare gli esami di riparazione in Italiano, ma era necessario che si facessero una buona cultura di base perché dovevano continuare gli studi, iscrivendosi ad una scuola tecnica per il conseguimento del diploma di operai specializzati. In questo primo periodo di attività didattica fra gli alunni di MariCristina Iavarone si distingueva un ragazzo di dieci anni che frequentava la quinta classe della scuola elementare: T. D'E. . Aveva la maturità di un uomo: studiava con massimo impegno la grammatica italiana riportata sul suo sussidiario (testo scolastico con le nozioni fondamentali delle varie discipline impartite nell'ultimo anno del ciclo della scuola elementare); chiedeva di poter studiare le varie cognizioni anche da un libro della scuola media per imparare meglio e in modo più profondo i fondamenti della lingua italiana. Con il conseguimento della licenza elementare allora finiva la scuola dell'obbligo; t. D'E. sapeva che dopo gli esami di riparazione a settembre si sarebbe avviato ad un’attività artigianale, seguendo l'apprendimento presso un bravo mastro. Ma egli voleva essere in grado di esprimersi bene in lingua italiana, di leggere e scrivere in modo corretto. Perciò leggeva racconti dal suo libro di lettura, li riassumeva descrivendo ogni particolare con precisione, poi li esponeva oralmente. Sembrava che si volesse fissare nel cervello parole e concetti come se si scolpissero sulla pietra. Questo ragazzo così diligente nel lavoro scolastico, da uomo svolge con uguale impegno la sua attività lavorativa: gestisce una pizzeria in modo eccellente ed è stimato per la indiscussa bontà dei - 106 -
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suoi prodotti e per la garbatezza verso i clienti. E' indimenticabile anche la madre, la quale, pur lavorando nei campi con spossante fatica, aveva un volto sempre sereno; veniva a portare il modesto “onorario” alla “maestrina di scuola” del figlio dando i soldi accompagnati dall'augurio che le dovesse “spuntare una buona ciorta” per il bene che faceva al suo T. . Dal mese di giugno a quello di settembre la Signora D'E. pagò a MariaCristina Iavarone £ 2000 cioè £ 500 al mese. Ad ottobre la giovanissima docente iniziò a frequentare il IV ginnasio presso l'istituto G. Garibaldi di Napoli; aveva bisogno di un dizionario della lingua greca. Le sorelle maggiori avevano un “Rocci” che dovevano usare in tre, ma questo vocabolario era scritto a caratteri molto piccoli e ciò a MariaCristina dava un grande fastidio. Perciò investì il suo piccolo, ma importante capitale nell'acquisto del vocabolario greco-italiano G. Gemoll, scritto a caratteri chiari, semplice da consultare, diventato un validissimo e caro strumento di studio, conservato ancora da lei come una sacra reliquia. La “maestrina di scuola MariaCristina Iavarone , ammirando un tale alunno per il suo vivo desiderio di imparare, gli si affezionò molto e si sarebbe dedicata a lui anche senza il dovuto compenso, perciò diceva alla Signora D'E. di non preoccuparsi di pagarla se aveva qualche problema da risolvere. Ma la buona donna rispondeva subito: “maestra, a chi fatica spetta premio e per quello che fate per mio figlio vi do troppo poco perciò mando pure tante benedizioni e chiedo a nostro Signore che vi deve inondare e accrescere con tutte le sue grazie”. Le “benedizioni” della Signora “D'E.” sono state accolte dal Signore in pieno: MariaCristina Iavarone ha realizzato le sue aspirazioni professionali, ha trovato una “ciorta” non buona, ma ottima perché ha incontrato un compagno per la vita a cui manca solo l'aurela da santo per le sue alte qualità di uomo nella famiglia, nel lavoro, nelle relazioni umane. E' diventata madre di tre figli : Carmine, Tammaro, Raffaella, dotati della ricchezza spirituale del padre, della sua semplicità nelle forme di vita, della sua scrupolosità nel lavoro professionale, ma eredi della tenacia della famiglia Iavarone per la quale nessuna difficoltà ha costituito mai un ostacolo per il raggiungimento delle proprie mete.
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Fra i vari impegni della giornata c'era sempre uno spazio di tempo per andare in campagna a seguire il lavoro che facevano ancora i genitori con Luigi e i figli. Le due più piccole Silvia e Vittoria fin dal primo anno della scuola elementare rivelarono un'attitudine particolare per il disegno; con i colori ad acquerello facevano su cartone dei quadretti che erano stupendi. Vittoria, che sarebbe diventata poi una grande pittrice di fama internazionale, era alla scuola media quando iniziò a dare lezioni di disegno ad alunni della stessa scuola media o delle scuole tecniche. La sua mano era prodigiosa nel manovrare matite, pastelli, pennelli; Silvia operava con righe e squadre. Vittoria inoltre si imprimeva nella mente lembi di paesaggi stupendi, immagini di cieli luminosi o di alberi pieni di fiori svariati a primavera o di frutta gialla e rossa come le pesche “ricciaffuoco” che erano nel campo le prugne dorate (gocce d'oro) o cremisi (prugne del cardinale) e le rappresentava in modo realistico sui rami verdi o sui cesti già colte e invitanti per chi le guardasse. Passano anni sereni in una condizione economica florida per il lavoro didattico delle sorelle e per i profitti delle colture di canapa e di fragole. La produzione di fragole di Tammaro Iavarone era molto richiesta dai commercianti del settore i quali rifornivano i ristoranti a cinque stelle. I fragolai spesso mettevano nei cesti uno strato di foglie di erba per aumentare il peso e poi mischiavano alle fragole buone altre spregevoli facendo poi “l'accoppatura” con fragole belle. In tal modo quando questo prodotto arrivava a destinazione se ne doveva gettare buona parte. Tammaro, la moglie e le figlie erano attenti a mettere nei cesti per la vendita solo le fragole perfette; all'interno delle “cavagne” mettevano qualche foglia di fragola per proteggere la frutta matura dalle sporgenze dei vimini di cui erano fatti questi contenitori. In ogni “cavagna” la frutta era bellissima di sotto e di sopra. Un commerciante si prenotava il prodotto da prima che maturasse e sapendo che Tammaro Iavarone non aveva la possibilità di arrivare al mercato con il suo prodotto, veniva a ritirare la produzione giornaliera in campagna con il suo
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furgone. Ogni giorno si stabiliva un prezzo per le fragole in rapporto alla quantità che ne arrivava al mercato. Il bravo commerciante ogni mattina portava i soldi del giorno precedente sempre con una aggiunta per le signorine. Poiché i quadrati di fragole erano come in una serra circondati dagli alti filari della vigna e dagli alberi di noci le piantine erano protette dai venti freddi e avevano meno danni dalle brinate; la frutta sembrava talvolta un miracolo della natura. Però il danaro guadagnato era realmente frutto di sacrificio per le studentesse che da aprile a giugno si alzavano alle cinque del mattino, andavano in campagna con i genitori e raccoglievano le fragole fino alle 6.30. poi ritornavano di corsa a casa e si preparavano per andare a scuola o all'Università; quelle che erano ancora al liceo dovevano prendere il treno alle 7.25. tenendo già tutto pronto in dieci minuti si cambiavano prendevano le borse e facevano una bella corsa fino alla stazione di Frattamaggiore-Grumo per la linea ferroviaria, naturalmente affidate dal padre ad un bravo amico; il ferroviere T.C. che prendeva lo stesso treno e abitava alla fine di via Bengasi, sicchè questi aspettava l'arrivo delle Signorine e poi si muoveva. Le universitarie potevano muoversi con maggiore comodità. Qualche volta, nel pieno della produzione, bisognava raccogliere le fragole anche di pomeriggio e quando si toglievano delle ore allo studio pomeridiano bisognava rimanere a studiare talvolta oltre la mezzanotte e alzarsi alle cinque del mattino, affrontando poi la giornata scolastica già dura come di consueto, alla fine dell'anno scolastico. Però questo tenore di vita non pesava alle sorelle Iavarone, le quali sapevano che tutto ciò era solo a loro vantaggio. Anche la mamma e il papà lavoravano tantissimo, sempre sorridenti e poi chiedevano ad ogni figlia se aveva un grande onere di compiti; in tal caso si dava la priorità allo studio. Ma con un po' di spirito di sacrificio nessuna veniva meno nelle emergenze. Il 1954 c'era un campo di fragole lussureggiante; ogni pianta aveva tutta una schiuma di fiori. Tammaro Iavarone ebbe una crisi di coscienza; temeva di tenere troppo sacrificate le sue ragazze e voleva risparmiare loro la fatica delle fragole; parlò con un mediatore per vendere il raccolto di fragole in campagna; cioè un rivenditore
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dava del denaro e poi era padrone del raccolto dall'inizio alla fine della produzione che avveniva prima della metà di giugno, esattamente a S.Antonio-13 giugno, quando si diceva che “passasse il diavolo tra le fragole” e queste non facessero più fiori. Per fortuna Tammaro parlava alla moglie e alle figlie prima di decidere su una qualsiasi questione. Quando a sera informò la famiglia di aver messo in vendita il campo di fragole, tutte dissero di chiedere il prezzo, in modo che valutavano tutte le spese fatte per la produzione e se valeva la pena lo avrebbero venduto. Questo fragolaio, proprio come un pio benefattore dell'umanità, fece il preambolo che comprava il campo di fragole per il bene delle signorine; si sentiva il cuore stretto quando le vedeva andare in campagna alle cinque del mattino e poi dovevano andare a scuola. Egli era disposto a pagare per quello che comprava £ 250.000, non perché volesse concludere un buon affare, ma per fare cosa gradita alla famiglia Iavarone. Tammaro non diede nessuna risposta; si riservò di riparlarne l'indomani dopo aver esposta la cosa alle figlie, che erano in questione. Ma quando egli espose le cose a Rosa e alle figlie, queste si fecero una bella risata e dissero che don Ciccio pensava di avere a che fare proprio con la “razza dei fessi”. Tutte loro erano pronte ad ogni sacrificio e non si facevano turlupinare da un disonesto che voleva anche passare per benefattore. Quel prezzo era un'elemosina, era offensivo per la loro dignità. Una delle sorelle Iavarone stava studiando Virgilio precisamente le Georgiche e sorridendo al padre preoccupato per i sacrifici che le figlie dovevano fare, gli recitò il verso “ labor omnia vicit improbus ” (il lavoro duro fa superare tutte le difficoltà) e lo rassicurò che avrebbero superato ogni difficoltà con il loro serio impegno. Infatti con una forte carica di operosità avrebbero concluso bene gli studi ed avrebbero guadagnato una quantità di denaro. Ad aprile già comparvero splendide fragole; come al solito, il primo cestino andava ai Monaci di S. Pasquale, il secondo al dottor Andrea Casillo, medico condotto che seguiva con affetto paterno le sorelle Iavarone, non per curarne la salute perché, a parte qualche raffreddore, stavano
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sempre bene, ma per consigliarle negli studi e indicare a Rosa i cibi che erano più salutari per il cervello nei periodi di massimo impegno intellettivo. Il terzo cestino andava al parroco di S. Vito protettore del paese. Quell'anno avvenne che una terribile brinata l'8 maggio bruciò tutta la fioritura delle fragole nelle terre di Grumo Nevano, ma come se S. Pasquale e S. Vito avessero coperto con i loro mantelli il campo di Tammaro Iavarone, le piantine non erano state toccate. La spiegazione razionale era che avevano avuto un effetto benefico le barriere rappresentate dalle alte pergole d'uva e dai noci che formavano un quadrato protetto. Ciononostante Tammaro Iavarone donò a S. Vito e a S. Pasquale i primi soldi ricavati dalla vendita delle fragole. Molti vicini venivano a vedere il campo intatto e si meravigliavano. Poiché Tammaro Iavarone quando era al lavoro pregava sempre, qualche vicino di terra, che aveva la cattiva abitudine di bestemmiare, gli chiese di pregare per lui, essendo un'anima santa. Il prezzo delle fragole allora andò alle stelle. Ogni giorno Tammaro Iavarone incassava una bella somma e benediceva il Signore che riversava le sue grazie su di lui e sulla sua famiglia. All'inizio di maggio un giorno Tammaro ritornando dal campo disse alle figlie che c'era “una raccolta” di fragole pronta: si annunciava un temporale, se ci fosse stata una pioggia pesante durante la notte, le fragole mature sarebbero diventate conserva. La figlia MariaCristina era stata scelta per la partecipazione ai giuochi della gioventù per la corsa e il giorno successivo ci sarebbero state le prove preliminari al campo di via Arenaccia. Il primo giorno in cui si faceva un lavoro nei campi con il corpo curvo non si avvertiva una stanchezza particolare, ma la mattina seguente si avvertivano forti dolori alle gambe. Quel giorno la potenziale campionessa raccolse fragole dalle ore 16.00 alle 20.00, cioè finchè scesero le tenebre. Il giorno dopo non aveva neanche la forza di camminare; tuttavia si recò a scuola e con la professoressa di Educazione fisica C.V. andò al campo. Qui non riusciva a correre ed ebbe una valanga di rimproveri dalla docente. Questa le chiese che cosa le fosse accaduto per mostrarsi come un sacco di patate all'impiedi. MariaCristina disse con finta mortificazione che il giorno precedente era andata in palestra; poiché stava ingrassando aveva - 111 -
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fatto flessioni per quattro ore non pensando che avrebbe avuto quella reazione successivamente. Fu chiamata incosciente e fu eliminata dal gruppo del Garibaldi interessato alla corsa. A MariaCristina dispiacque perché era bravissima nella corsa con l'allenamento quotidiano per raggiungere la stazione ferroviaria spesso in meno di dieci minuti da casa sua. Però secondo le previsioni paterne quella notte si scatenò un vero uragano e tutti i raccolti furono devastati. Nei campi degli altri le poche fragole erano diventate una poltiglia insieme al fango. Intanto guidate dalla saggezza paterna e dalla sua vigile attenzione le sorelle Iavarone si dedicarono allo studio nel modo dovuto e lavorarono pure con le fragole. Alla fine della produzione risultò che erano entrate £ 1.700.000, però erano state regalate fragole a tante persone amiche; ne erano state consumate tante in casa quasi ogni giorno, utilizzandosi in genere quelle troppo mature oppure di aspetto brutto, tuttavia buone a mangiarsi. Rosa con le fragole di scarto perché difettose, però buone nella sostanza, fece anche della marmellata. Intanto le prime tre sorelle Iavarone avevano concluso i loro studi e iniziavano a darsi da fare per conquistare un posto di lavoro e avviarsi per i percorsi della vita professionale e lavorativa. Anche se erano già tutte in grado di guadagnarsi ciò che occorreva per loro, aspiravano alla completa indipendenza con un posto di lavoro statale. Si compravano continuamente giornali con l'annuncio di concorsi; ognuna cercava di dare maggiore valore al suo titolo di studio seguendo corsi vari che davano punti. La prima, Assunta completati gli studi fece un buon tirocinio come docente in una scuola di recupero scolastico di Grumo Nevano gestita dal professore in pensione G.B. Avendo seguito un duplice corso universitario, la prof.ssa Assunta Iavarone aveva la competenza necessaria per insegnare materie scientifiche e materie letterarie. Pertanto si addossava la responsabilità della guida giusta di una numerosa schiera di adolescenti per un buon profitto in tutte le materie. Con la sua fermezza e la sua capacità di accostarsi alla interiorità anche dei soggetti più difficili e riluttanti all'impegno, la giovane docente faceva un lavoro eccellente. Perciò era ricompensata in modo adeguato ai meriti e con la sua paga dava un valido aiuto alla famiglia; contribuiva alle spese per il prosieguo degli studi delle sorelle minori. - 112 -
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Con la sua fermezza e la sua capacità di accostarsi alla interiorità anche dei soggetti più difficili e riluttanti all'impegno, la giovane docente faceva un lavoro eccellente. Perciò era ricompensata in modo adeguato ai meriti e con la sua paga dava un valido aiuto alla famiglia; contribuiva alle spese per il prosieguo degli studi delle sorelle minori. È doveroso riconoscere, pertanto, che Assunta sia stata l'asse portante della schiera delle sorelle Iavarone. Nel 1955 Vittoria conseguì la licenza media con la media di 8/10 e 10/10 in disegno e MariaCristina la maturità classica con la votazione 8/10 e una borsa di studio da £ 100.000. Poiché era minorenne e la somma era abbastanza alta corrispondendo a oltre due stipendi del tempo attuale doveva riscuotere il denaro il padre o la madre con la firma della figlia. Quando Tammaro fu all'ufficio postale informò MariaCristina che voleva depositare quel danaro, frutto dei suoi sacrifici a buoni fruttiferi intestati a lei. Ma la figlia non fu d'accordo preferì donare quel danaro ai genitori per prepararsi meglio per la festa di matrimonio di una sorella che, pur essendo la quarta, si sposava per prima.
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22° CAPITOLO
Fiori d’arancio nella famiglia Iavarone Giovanna fin da piccola diceva che da grande non avrebbe voluto lavorare, ma avere una vita come una favola con un marito che l'adorasse e non la facesse lavorare. Alla scuola superiore, esortata a mostrare maggior impegno diceva che non aveva intenzione di fare la fine di Giacomo Leopardi, né era interessata ad alcuna professione che richiedesse sacrificio. Voleva avere un'esistenza senza preoccupazioni, senza gli impegni di una qualsiasi attività lavorativa, limitando il suo ruolo a tempo pieno a quello di moglie coccolata e felice, di madre dolce. Giovanna sognava la sua vita come un incanto e credeva che la favola bella si sarebbe avverata. Dopo il diploma magistrale aveva seguito il corso di creatrice di modelli di abiti femminili e aveva iniziato a lavorare per un noto atelier di Napoli. Era contenta di quel lavoro ed era ben retribuita, ma le costava sacrificio stare seduta a disegnare per ore intere e realizzare abiti. Nel periodo in cui aveva iniziato ad essere conosciuta e apprezzata, le molte proposte di lavoro le toglievano il respiro. In quello stesso tempo conobbe Luigi Reccia allora dirigente dell'ufficio di collocamento al lavoro di Grumo Nevano era venuto ad abitare di fronte alla casa della famiglia Iavarone e spesso per la sua squisita disponibilità scriveva a macchina tesine per qualcuna delle sorelle che frequentavano l'università. Giovanna qualche volta mostrava i suoi modelli alla sorella del collocatore Mariuccina, la quale viveva con lui con tutta la sua famiglia suscitando la sua meraviglia. Capitò che si dovesse elaborare una tesi di filosofia e Pedagogia della sorella Grazia per un concorso. C'era massima urgenza per la consegna del lavoro, ma la grafia di chi l'aveva scritta non era chiara: occorreva che qualcuna dettasse a Luigi la Materia perché la tesina fosse scritta presto e bene. Giovanna era l'unica che non aveva “ l'acqua alla gola” come le sorelle nel periodo di massimo lavoro
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La famiglia Iavarone al Completo nel giorno del matrimonio di Giovanna con Luigi Reccia dicembre 1955: in alto a sinistra:Pasqualina, Silvia, Tammaro. In secondo piano: Assunta, Grazia, mamma Rosa, la sposa con Luigi. In basso: Vittoria e MariaCristina.
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Il primo genero di Tammaro Iavarone, Luigi Reccia insignito del titolo di Cavaliere per i suoi svariati meriti. - 116 -
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Il primo nipote di Tammaro Iavarone Antonio e il primo Tammaro che lo rinnova nel nome, figli di Giovanna e Luigi Reccia - 117 -
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per gli esami universitari e per l'onere delle lezioni private più impegnative a fine anno scolastico. La tesina su “Bernardino Telesio” e sulla nuova concezione dell'uomo nel Rinascimento fu “galeotta”, e fece nascere una simpatia profonda tra Luigi e Giovanna. I due erano in perfetta armonia fra loro: Luigi era dolce, protettivo e la trattava come “una creatura venuta/ da cielo in terra a miracolo mostrare/ essendo più grande di età ed essendo stato conquistato dal suo ingenuo candore, dalla sua personalità matura e nello stesso tempo proiettata in un'atmosfera irreale creata dalla sua fantasia fervida, ma per lei vera. La storia d'amore fu contrastata inizialmente dai coniugi Iavarone, i quali pensavano che la figlia avesse preso un'infatuazione da cui si sarebbe ricreduta appena avesse preso coscienza in modo obiettivo e ragionato della strada in cui si stava inoltrando. Quando fu chiaro che i sentimenti erano profondi in ambedue, si organizzò il matrimonio che fu celebrato il 4 dicembre del 1955 a Grumo Nevano. Tuttavia Tammaro pianse per tutta la durata della cerimonia religiosa che si svolse a casa della sposa, dove fu addobbata una stanza come una cappella e fu innalzato anche un altare contornato di fiori bianchi. Per Tammaro quella figlia di anni 21 compiuti in 17 novembre cioè meno di venti giorni prima del matrimonio, era ancora una bambina e non voleva accettare che fosse cresciuta e avesse scelto la sua strada con piena consapevolezza. Tuttavia la svolta presa da Giovanna nella sua vita fu quella giusta. Il marito la circondava di infinite premure, le metteva a disposizione più persone per cui non doveva avere alcun peso del lavoro domestico ed ella era veramente felice; già brava ai fornelli faceva tante sperimentazioni creando pietanze divine. Alla fine di settembre 1956 venne al mondo uno splendido bambino Antonio, il quale portò un'ondata di incontenibile gioia nella famiglia Iavarone. Nonno Tammaro finalmente prendeva fra le braccia un bambino, un maschietto e lo trastullava con una tenerezza inconcepibile per chiunque. Luigi Reccia entrato nella famiglia Iavarone si rivelò una persona ammirevole sotto ogni punto di vista: era buono con i suoceri, protettivo con le cognate che avviò nel mondo del lavoro professionale con regolare incarico da
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parte della Regione Campania prima che potessero avere i requisiti per entrare nella scuola statale. Infatti con il vantaggio che le sorelle Iavarone avessero competenze diverse, Luigi Reccia, informato di tutte le offerte lavorative nuove per il suo ruolo di Dirigente dell'ufficio di collocamento al lavoro di Grumo Nevano, non per favoritismo, ma per le vie della regolarità e della trasparenza, fece ottenere loro dalla Regione Campania corsi di istruzione popolare che si tenevano per televisione e dovevano essere gestiti dai docenti di tutte le discipline: così a casa Iavarone sorse Telescuola, corso di scuola dell'obbligo, coordinato dalla professoressa Pasqualina Iavarone, frequentato da adolescenti o da adulti lavoratori, che a fine anno scolastico ottenevano la licenza della scuola Media e un premio in danaro. Tanti giovani che non avevano potuto frequentare la scuola dell'obbligo ebbero l'opportunità di conseguire la licenza media con cui poterono avviarsi per il prosieguo degli studi oppure indirizzarsi per una carriera militare. Uno degli allievi più bravi di Telescuola del 1960-61 è Mario Scarano, il quale conseguì il titolo di studio a pieni voti con una borsa di studio; poi si arruolò nell'aeronautica. In questo corpo ha fatto una lusinghiera e brillante carriera fino al grado di Maresciallo scelto-aiutante, andando poi in pensione con tutti gli onori delle persone meritevoli. Nel riposo dall'attività professionale primaria Mario ha sentito il richiamo per i valori dello spirito, illuminati da una profonda fede e si è dedicato a “servire il Signore” diventato diacono, prodigandosi con ammirevole zelo per la Parrocchia di S. Vito, sentendo lo stimolo a scrivere per gettare in altri il seme di una fede salvifica. Sono pregiati sotto l'aspetto ideale e linguistico i suoi due scritti “Il giorno del Signore”, “Salvezza di una vita” in cui egli descrive l'iter del suo spirito verso Cristo e “S. Vito Martire” in cui presenta la vita della nostra parrocchia in un crescendo di realizzazioni tali da essere attualmente un fulcro di fede, di cultura, di valori umani. Mario Scarano recte didicit et melius docet.
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23° CAPITOLO
Rivincita Intanto la lo sdegno degli dei puniva i colpevoli di superbia verso i buoni. La terra “chiusa al traffico Iavarone” fu venduta per la costruzione di case e il varco vietato divenne una strada comunale. In tal modo si poteva accedere al campo come prima della tempesta. Questo diede immensa esultanza a tutti che potevano andare da casa al fondo senza cambiarsi e senza perdere tempo. Tammaro era felice: volendo essere sempre in attività divideva la sua giornata fra la cura dell'orto e l'impegno del campo e pranzava sempre a casa con la famiglia. Nel fondo si era eliminata anche la coltivazione della canapa perché richiedeva grande fatica quando si sradicava si essiccava stesa per terra, si privava delle foglie secche con un'operazione che si chiamava “spenta” e si faceva sotto il sole forte cioè da mezzogiorno alle 17.00 di pomeriggio. Prima si dovevano sbattere le piante dopo due giorni che erano a terra al sole; così cadevano le foglie più grosse, poi le piante ad una bracciata per volta si dovevano strofinare sulle braccia per portare via i picciuoli delle foglie; quando le piante di canapa erano pulite si dovevano girare e rigirare per tanti giorni finchè diventassero gialle; dopo di ciò si legavano in fasci a cui erano tagliate le punte e le radici con una pesante accetta, molto affilata per cui occorreva grande forza e abilità magistrale. Le sorelle Iavarone avevano imparato a fare la spenta in modo perfetto, però si rifiutavano di indossare i camicioni di tela ad hoc poiché sembravano le donne dei barbari con i loro particolari paludamenti o le musulmane con il burqa e indossavano camicette a maniche lunghe di stoffa leggera. Perciò gli spuntoni secchi delle foglie laceravano la carne. Di questo nessuna osava lamentarsi non per compiacere il papà e la mamma, ma perché erano consapevoli che ciò fosse necessario: inoltre si era nelle vacanze, non c'era l'impegno dello studio e le giornate al sole facevano bene al corpo. Infatti per la riapertura delle scuole le studentesse del Garibaldi. Iavarone arrivavano in classe con la pelle così abbronzata - 120 -
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da suscitare meraviglia nelle compagne. Qualcuna osava chiedere loro per quanti giorni fossero state in vacanza ed esse rispondevano che avevano fatto tre mesi di vacanze, suscitando un'ondata di invidia. Non era una bugia poiché erano state al sole dalla metà di giugno alla fine del mese a mietere il grano e l'orzo, a sterrare le patate e raccoglierle, a staccare i fagioli secchi dalle piante; a luglio per tutto il mese le aveva tenute al sole il lavoro della canapa, ad agosto si ripuliva la terra dalle erbacce per potervi seminare granone e patate di secondo raccolto. Settembre passava per raccogliere rossi pomodori per le conserve, per il lavoro delle noci. Tuttavia delle ore della giornata in genere le prime erano dedicate alle lezioni private. I figli degli agricoltori chiedevano se potevano venire a far lezione alle sei del mattino perché poi dovevano andare ad aiutare la famiglia nel lavoro dei campi. Le signorine dicevano di si poiché anche loro dovevano fare la stessa cosa. Dal 1° ottobre si riprendevano i libri per ripetere i programmi precedenti e iniziare a leggere gli argomenti nuovi. Per la metà di ottobre l'allenamento allo studio era bene avviato. Talvolta qualche compagna di MariaCristina, che cercava inutilmente di superarla, sfogava la sua rabbia male repressa dicendo che i “cafoni” si facevano tante vacanze perché si erano arricchiti con i profitti di guerra vendendo a prezzo elevato i prodotti delle loro terre. Con la saggezza espressa dalla logica dei contadini MariaCristina rispondeva tranquilla: “Cara Valeria, salti chi può”. Quando Iavarone riportava qualche voto più alto del suo diventava livida ed affermava con cattiveria evidentissima: “tu sei un essere passivo perché non sai fare altro che studiare , io sono impegnata nella musica, frequento la palestra, vivo la vita mentre tu te la lasci passare davanti senza neanche accorgertene”. Un professore, che una volta colse questo discorso, mentre sembrava che stesse scrivendo sul registro con completa attenzione a ciò, alzò il capo guardò la “superdonna” della classe e le disse con tono sdegnato: “smettila di offendere la compagna che studia con amore le varie discipline e con impegno costante, ma sereno, perché non se ne frega di te, non ti calcola proprio nella sua intelligenza,
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mentre “tu schiatti” a studiare non con interesse a quello che apprendi, ma per il desiderio malsano di superarla ed abbi la dignità di frenare la parte peggiore del tuo essere”. Valeria tacque, ma quando uscì il professore dall'aula osò dire che Iavarone gli aveva portato qualche prosciutto a casa perciò l'aveva difesa; a questo punto Maria Cristina le rispose con il sorriso sulle labbra: “a casa mia ci sono i prosciutti e sapessi come sono buoni! Ma li consumiamo noi con tanto gradimento. Nella famiglia Iavarone c'era tanta armonia; in essa vi era una fucina di varie attività. L'una dopo l'altra realizzarono i loro obiettivi professionali le prime tre sorelle Assunta, Grazia, Pasqualina, poi si sposarono pure con giovani di diversa condizione socio-economica, tuttavia con un lavoro decoroso ed ottimi principi morali. La prima Assunta, che aveva un grandissimo orgoglio, si decise a sposarsi solo quando incontrò un impiegato statale di estrazione nobile, figlio di un farmacista e una direttrice didattica. Costui, Pecchia Eugenio dirigente dell'ufficio di collocamento di Arzano, abituato in casa ad essere accudito da una governante personale non ha voluto che la moglie facesse un lavoro fuori casa, tuttavia Assunta Iavarone, dopo il matrimonio, privatamente ha guidato con competenza, amore e serietà generazioni di giovani che hanno conservato per la vita l'impronta della sua formazione e il suo valido insegnamento per i percorsi professionali ed umani. Grazia andò sposa ad un bancario stimatissimo Raffaele Errichiello,appartenente ad una famiglia di grandi valori morali e di agiate condizioni economiche. Amico di Eugenio Pecchia fin dall'infanzia, andò a fargli visita poco dopo il matrimonio, allora si trovò presso la sorella per puro caso Grazia che si diede da fare per aiutare Assunta a preparare la cena per l'ospite. Durante la cena si discusse del più e del meno con un certo cordiale calore. Raffaele ebbe l'occasione di conoscere il modo di pensare di questa cognata del suo amico e gli sembrava che fosse in completa sintonia con i suoi principi. Tuttavia si tenne per sé le sue impressioni; successivamente incontrandosi con Eugenio gli espresse il suo compiacimento per la scelta che aveva fatto: si capiva subito che la moglie fosse intelligente e colta oltre che una persona piacente.
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Inoltre era chiara pure l'impronta dell'ambiente familiare, che era di certo di sana moralità. La sorella Grazia aveva suscitato la sua simpatia, ma avrebbe voluto incontrarla ancora per essere sicuro anche del suo eventuale interesse per lui. Poiché Raffaele aveva competenza nel campo dell'elettricità un sabato pomeriggio fu invitato da Eugenio a montare un lampadario di difficile attacco. Assunta invitò la sorella a venire ad aiutarla perché voleva imbandire una cena diversa del solito. Grazia accolse l'invito ben volentieri e si trascorse insieme una piacevole serata. Così nacque una cordiale amicizia fra Raffaele e Grazia , che via via si conobbero meglio e si avviarono per il loro comune percorso. Pasqualina andò sposa ad un imprenditore di animo semplice, lavoratore instancabile: Antonio Pezzella, cugino di una collega che viaggiava con lei quando andava a insegnare a Fontegreca. I primi quattro generi sono stati amorevoli e rispettosi verso i suoceri, ma hanno avuto soprattutto una forma di riverenza per Tammaro Iavarone, uomo eccezionale per capacità e con i sentimenti teneri e limpidi di un bambino, burbero nei modi, ma pronto ad ogni sacrificio per le persone della sua famiglia, disponibile verso tutti di cui difendeva i diritti sentendosi sempre un carabiniere, come un “sacerdos in Aeternum”, esponendosi pure a qualche vile rappresaglia come il furto di una scala di castagno di alto costo, altri attrezzi della campagna lasciati nella capanna. Però le meschinità altrui non scalfivano il suo animo ed egli rimaneva sempre “ben tetragono ai colpi di ventura” nelle sue azioni coraggiose. Spesso dei giovani vicini di casa di spirito bollente, ritornati dal servizio militare duramente provati, si azzuffavano fra di loro in modo bestiale; Tammaro interveniva a dividerli e calmarli e li lasciava quando si era stabilita del tutto la pace tra loro, con immensa gratitudine della madre impotente davanti all'impeto dei figli, che neppure il padre riusciva a rendere ragionevoli. Con il matrimonio delle figlie Tammaro non voleva accettare che era il caso di non coltivare più il campo, nel quale tuttavia poteva fare lavoretti non pesanti continuando a scambiarsi la collaborazione con Luigi Sandaloia e prendendo “a giornata” qualche bracciante del paese per le fatiche che richiedevano certe
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coltivazioni. Ma accadde un terribile fatto per cui Tammaro dovette rinunciare del tutto a lavorare nel campo.
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24° CAPITOLO
Una tragedia nella famiglia Iavarone Nel mese di ottobre del 1960 un pomeriggio Tammaro era a fumare la pipa fuori la porta di casa sua al tramonto ed aspettava con ansia l'arrivo della figlia Giovanna che gli avrebbe portato i nipotini Antonio e Tammaro; il primo dei nipoti che, venuto al mondo per secondo nella famiglia Reccia-Iavarone, lo rinnovava nel nome. Ritornava dalla campagna allora un conoscente con il carretto tirato dal cavallo e una botte vuota, sporca di vinaccia perché stava facendo la vendemmia. Costui di nome T.D.P. si fermò a salutare il pensionato e chiese un bicchiere di acqua. Rosa prese una bottiglia di acqua fresca dalla ghiacciaia(frigorifero a ghiaccio di quei tempi) e gli offrì da bere. Questi si trattenne per un po' a parlare con Tammaro che gli chiese se avesse legato le briglie al cavallo. Costui pensando che era una precauzione inutile per la sua bestia, che era molto mite, per tranquillizzare l'amico disse di si. Ma al tempo della vendemmia nei campi e nei luoghi dove c'è mosto dolce affluiscono mosconi che pungono come se si affondassero spilloni nella carne. Un nugolo di questi insetti diede l'assalto al cavallo infilandosi perfino nelle narici. La bestia nitrì forte e si mosse col carro. Tammaro, pur avendo quasi 68 anni, scattò come una molla e riuscì ad aggrapparsi ad una stanga per cercare di afferrare le briglie e fermare il cavallo imbizzarrito. In quel momento non agiva il cittadino Tammaro Iavarone, ma il carabiniere che doveva proteggere le persone. A quell'ora c'erano sempre bambini nella strada, poi alla fine di via Bengasi c'era il viale della Rimembranza con un grande via vai di persone e di mezzi come macchine e pullman della linea Succivo-Napoli e Napoli-Succivo. Sarebbe potuta accadere una strage. Tammaro Iavarone si teneva fortemente attaccato alla stanga con un braccio e con l'altro cercava di afferrare le cinghie delle redini; il momento era terribile: se il braccio fosse venuto meno nello sforzo egli sarebbe stato travolto - 125 -
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dalla ruota e naturalmente ucciso, inoltre non si sarebbe evitato il “macello “. Con forze centuplicate dal suo impegno morale di carabiniere e del senso civico di persona per bene e dall'orrore che qualcuno avrebbe avuto la vita spezzata per un incidente di inverosimile incoscienza, riuscì a lanciarsi sul carretto ed afferrare le redini. Il cavallo correva molto velocemente; Tammaro Iavarone tirate le redini con tutta la forza possibile per fermare la bestia verso il marciapiede in modo che la ruota destra fosse bloccata, riuscì nel suo intento, ma nell'urto dell'asse della ruota contro il costone di pietra lavica del marciapiede egli fu sbalzato a terra con violenza. Riuscì pure ad alzarsi, ma non ebbe la forza di camminare; fu portato a casa su di una sedia di peso da un vigoroso volontario e dal padrone del cavallo accorso in suo aiuto. Fu chiamato il medico condotto perché lo visitasse e indicasse il da farsi e inutile cercare di dire quello che provavano Rosa e le figlie nel vedere il loro congiunto bianco come un cencio e incapace anche di respirare liberamente. Fu chiamato il nipote che era più vicino, il quale lo portò in ospedale a Frattamaggiore, ma qui dissero che le condizioni erano gravissime e nell'ospedale non c'erano gli strumenti adatti per verificare che cosa fosse avvenuto nel suo organismo. Tammaro Iavarone fu condotto al Policlinico a Napoli; lì fu constatato un infarto e fratture agi arti, oltre che lesioni in tutto il corpo. La degenza in ospedale non fu lunga perché Tammaro Iavarone voleva stare con i suoi familiari accanto. Dopo l'ingessatura e tutti gli esami del caso fu riportato a casa; i generi erano molto attenti a prestarsi affinchè fosse accudito nel modo giusto perché egli, essendo molto riservato per natura non voleva che si prendessero cura di lui le figlie femmine. Qualche volta veniva sollevato in braccio da uno dei generi, Raffaele, che aveva la forza di una gru metallica, caricato nella macchina e portato al fondo dove egli si sentiva felice, dimenticandosi delle sue atroci sofferenze. Fu stabilito allora che si potassero le viti collaborando Luigi come assistente e un agricoltore amico, ma non era più il caso di seminare il grano e continuare la coltivazione delle fragole. Tammaro Iavarone doveva andare in campagna per
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passatempo quando si sarebbe ripreso; doveva mettere un punto fermo alla sua attività agricola. Il dottor Andrea Casillo lo veniva a trovare di tanto in tanto come medico perché aveva bisogno di cure attente per il cuore e come amico per intrattenersi con lui talvolta accanto al camino, sorseggiando con lui qualche bicchiere di vino della produzione familiare. Una volta alla settimana veniva a fargli visita il parroco D.P.Mormile e gli portava l'Eucarestia. Sia l'uno che l'altro dicevano che a Tammaro spettasse il riconoscimento del Comune per il suo infortunio perché aveva agito per il bene pubblico, ma il pensionato rispondeva che egli non aveva chiesto aiuto ad alcuna delle istituzioni quando portava avanti sette figlie agli studi e non l'avrebbe fatto quando doveva provvedere solo a se stesso e alla moglie, essendo indipendenti economicamente anche le tre figlie che erano ancora in casa. Però allora ai dipendenti dello Stato l'Enpas rimborsava solo una parte delle spese mediche dopo che erano state documentate. Le visite specialistiche non erano contenute nell'assistenza a casa; si potevano risparmiare i costi solo andando in ospedale previa prenotazione. Ma queste cose erano molto lunghe nella loro procedura e non davano nessuna garanzia, infatti una visita urgente poteva essere concessa a distanza di mesi dalla richiesta. Perciò le svariate cure e le altre necessità erano affrontate a spesa della famiglia. Ciò tuttavia non costituiva un problema perché la famiglia Iavarone era abituata ad una saggia amministrazione del denaro che entrava in casa; anche se fossero entrati fiumi di denaro, il tenore di vita sarebbe stato sempre molto moderato perciò, nonostante i tre matrimoni, c'era un buon deposito di risparmi all'Ufficio postale e si attingeva ad esso con tranquillità perché quel danaro era stato messo da parte non per la soluzione dei problemi delle figlie, ma proprio per impreviste necessità di salute dei genitori. L'inverno nella quasi immobilità fu duro a passare per Tammaro Iavarone sempre così attivo, ma egli non si spazientiva, passava il tempo a sentire la radio, oppure a pregare o a leggere il Mattino, che il ragazzo del giornalaio di Grumo Nevano gli portava ogni giorno a casa con una piccola ricompensa settimanale. A primavera le gambe di Tammaro Iavarone ripresero
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la completa efficienza; rimanevano i problemi cardiologici ed egli non doveva fare sforzi di nessuna specie. Iniziò a recarsi al campo con il bel tempo sempre accompagnato da Rosa. Le figlie insieme al loro lavoro si occupavano di tutti i problemi della casa, davano anche una mano alla madre per la cura degli ortaggi che Tammaro non voleva si abbandonasse; queste volevano che ella fosse sempre in compagnia del padre accontentandolo nelle sue esigenze; tuttavia si preoccupavano che anche lei non facesse sforzi particolari non tollerabili da parte di un'altra persona anziana, pur essendo più giovane di sette anni rispetto a Tammaro. Poiché egli non sopportava di vedere la terra incolta la moglie e le figlie lo accontentarono, facendola diserbare, “prussianare” (arare con un pesante aratro detto prussiana) e diedero l'incarico ad un contadino conosciuto di seminare legumi, patate, pomodori, peperoncini, innaffiarli con l'acqua della cisterna,insomma di occuparsi di tutto con lo sguardo attento di Luigi. Ma quando Tammaro si recava a farsi la passeggiata in campagna e vedeva le cose fatte, ne era amareggiato, perché pagava bene il bracciante, ma questi lavorava male. Quando c'era Luigi, infatti, P. lavorava bene, quando l'amico si allontanava faceva le cose in un altro modo perciò il raccolto fu scarso e scadente di qualità. Alla raccolta dei fagioli questi costavano £.150 al kg, quelli prodotti nel fondo Iavarone piccoli, sformati venivano a costare £.500; se i pomodori costavano £.30 al Kg. al massimo, quelli di Tammaro Iavarone arrivavano al costo di £.200. Con i conti alla mano le figlie fecero capire al padre che non conveniva coltivare la terra. Un giorno P. chiese a Luigi Sandolaia perché Tammaro Iavarone non lo aveva più chiamato, questi rispose che a conti fatti era assolutamente sconveniente lavorare la terra per perderci. P. ebbe l'arroganza sfacciata di rispondere: “ ma pecchè Tammariello addà campà cu i fasuli da terra? Ten' a casa, a pensione e i “ffiglie maistrine e scola e nun ci abbasta?” Luigi rimase colpito da tanta bassezza d'animo e riferì questa cosa alle figlie perché non se la poteva trattenere dentro. Al momento della vendemmia apparve chiaro che P. non aveva sciolto le viti come si doveva per tagliare i tralci inutili, ma approfittando che d'inverno Tammaro
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era ancora ingessato e neanche i generi lo portavano in campagna per non fargli prendere freddo, aveva fatto finta di potare, tagliando solo dei tralci qua e là, fingendo pure di aver liberato la terra di tutto il legname della potatura e di esserselo portato a casa per usarlo nel forno per il pane. Luigi non aveva potuto controllare il lavoro truffaldino perché era mancato dal suo paese per impegni di lavoro in una masseria a Quarto. P. sapeva di questo suo impegno e si affrettò a portare a termine il suo disegno disonesto. La pota delle viti allora si pagava molto cara e P. aveva chiesto il compenso di una settimana di lavoro per quello che aveva fatto appena in una mezza giornata. La produzione di uva fu scarsa e ciò suscitò meraviglia perché non c'erano state in quella primavera tempeste che potessero distruggere i piccoli grappoli. Tammaro pensò che forse occorreva un'altra “pompata” di verderame per dare vitalità a tutti i grappoli spuntati. Egli, come i bambini disobbediscono spesso ai genitori che impongono di non fare cose che potrebbero essere pericolose, così approfittava di qualche momento in cui era incustodito per fare atti di audacia non consentiti dai “gendarmi della famiglia”. Un giorno mentre era seduto fuori la capanna e osservava le viti notò sul “cimmone” di un alto e vecchio pioppo tanti funghi. Pensando di fare cosa gradita alle figlie sposate che sarebbero venute a casa a trovarlo, come facevano ogni domenica, prese una lunga scala l'appoggiò al pioppo e salì a raccogliere i funghi; ne riempì un paniere di quelli grossi ad ombrelli, lasciando i piccoli che si sarebbero potuti cogliere dopo qualche giorno. In questa occasione osservò i ferri filati che legavano i tralci; egli aveva una tecnica diversa di tagliarli, facendo in modo che le giunture non potessero graffiare chi le toccava per caso; il ferro era tagliato in modo netto e girato di sotto ai tralci alle estremità. Questo dimostrava che P. non aveva neppure sciolto i ferri, perciò i tralci cresciuti nell'anno non avevano avuto linfa essendo stretti negli anelli di ferro messi due anni prima. Le viti, infatti, si potavano allora in modo completo ogni due anni sui pergolati altissimi di quel tempo. Tammaro Iavarone aveva pietà di quel disgraziato che teneva sette figli da sfamare e come bracciante non
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lavorava sempre o perché non era chiamato o perché il tempo era cattivo. Gli dava sempre qualcosa da portare ai figli oltre a ricompensarlo per più di quello che meritava. Quando Rosa ritornò e vide i funghi lo rimproverò per la sua incoscienza. Poi vedendolo muto e pallido si sentì in colpa per l'aspra rimproverata che gli aveva fatto pensando che se ne fosse dispiaciuto molto. Tammaro disse che era stato molto attento perché anch'egli ci teneva alla sua vita e desiderava stare bene per portare all'altare le altre figlie e veder crescere tanti nipoti, però era assai amareggiato per la disonestà di Pasquale. Nel pomeriggio lo mandò a chiamare; il “galantuomo” pensava di avere altri ordini di lavoro. Arrivò tutto sorridente e appena fu davanti a Tammaro Iavarone disse: “ Patrò, quali cumanni?” questi gli rispose che non sarebbe mai più entrato nella sua terra; per la frode della falsa potatura lo poteva denunziare, ma non lo faceva perchè provava repulsione pure a scrivere il suo nome sulla carta. Ebbe l'insolenza di dire che aveva criticato il suo lavoro nella potatura qualche invidioso della fiducia di cui egli godeva. Tammaro con tranquillità gli disse che aveva visto le annodature del ferro filato che solo lui sapeva fare in quel modo; perciò non c'era bisogno della spiata di qualcuno ed egli doveva sparire dalla sua vista.
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25° CAPITOLO
Si volta pagina: la famiglia Iavarone si arricchisce di affetti Le figlie sposate e quelle nubili spiegarono al papà che quella terra per loro era sacra, e certamente appena possibile in essa sarebbero sorte le loro case, ma conveniva finire di spiantarla e lasciarla incolta finchè fosse utilizzata come suolo edificatorio. Così fu fatto perché gli alberi costituivano un pericolo per i bambini che giravano per le campagne e salendovi potevano cadere e farsi male. Intanto il primo genero in ordine di tempo, ma il quarto in ordine della graduatoria per nascita delle sorelle Iavarone, cioè Luigi Reccia, marito della quarta, fu d'accordo con la moglie Giovanna che si dovesse affrontare il problema della costruzione della casa sul suolo fra via Vivaldi e via Cilea donato dai suoi genitori. Per Tammaro Iavarone e per Rosa quella fu una grande soddisfazione: essi erano lietissimi di veder sorgere la prima villa nella loro terra, difesa in molte occasioni “con le unghie e con i denti” dagli assalti delle brutte arpie/ che cacciar de le strofade i Troiani/ con tristo annunzio di futuro danno. Ne fu costruttore il cugino Giuseppe Minichino detto Mastro Peppe, figlio di zia Carmela, il quale aveva avuto sempre un grande affetto per zio Tammaro ed eseguiva il lavoro per la figlia con la gioia di chi vuole dimostrare il meglio di sé per la grande gratitudine che provava per lui. La madre era restata vedova con sette figli dei quali lui era il secondo; per necessità i due figli maggiori dovettero crescere con processo massimamente accelerato per aiutare la madre nel lavoro agricolo, di cui la famiglia viveva e per lavorare con zii benestanti e guadagnare il danaro necessario per varie esigenze della famiglia. Ma Peppe era di carattere fiero per cui quando si sentiva offeso nella sua dignità di persona, a causa del suo disagio economico, mandava al diavolo il suo aguzzino, sia che fosse uno zio, sia che fosse un cugino più grande d'età rispetto a lui e in condizioni più
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Giuseppe Minichino detto Mastro Peppe figlio di Carmela Mele, imprendire edile onesto ed intelligente che ha costrito le ville diAssunta, Giovanna, MariaCristina e Silvia Iavarone - 132 -
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agiate, sia che fosse un estraneo. In questi casi zio Tammaro interveniva in sua difesa e stabiliva il giusto fra le parti avverse facendo capire che l'adolescente doveva essere rispettato nei suoi diritti di persona nello svolgimento del lavoro fatto sempre per bene, pur fra brontolii. Lo stesso zio Tammaro gli consigliava di prendere la via che gli fosse più gradita per il suo avvenire definitivamente. Peppe ascoltava zio Tammaro con interesse e docilità, pur essendo ribelle per natura e di tale senso della propria libertà di decisione che in famiglia lo chiamavano “Baratieri”. Così egli andò a lavorare con un imprenditore edile di Napoli diventando prima un abilissimo carpentiere e poi un “mastro” capace di realizzare ogni specie di lavoro nell'edilizia. Apprezzato per la sua capacità e per la sua onestà “si fece le ossa” presso il suo datore di lavoro e realizzò il capitale indispensabile per lavorare “in proprio” cioè per intraprendere lui stesso l'attività di imprenditore libero. Aveva interrotto tale attività a causa della guerra, richiamato al campo di battaglia e restato prigioniero per un certo tempo. Alla fine del conflitto riprese il suo lavoro di buona lena e divenne un mastro molto ricercato per le garanzie che offriva. Per Mastro Peppe il fatto che Luigi Reccia, pur conoscendo tanti imprenditori che lo avrebbero favorito per la sua funzione di dirigente dell'ufficio di collocamento di Grumo Nevano, si fosse rivolto a lui fu realmente una grande prova della sua stima e non venne meno alle aspettative in nessun modo. Assunta, la prima delle sorelle Iavarone, molto legata a Giovanna, oltre che come sorella amorevole, anche per una tenerezza particolare per i suoi figli, che erano da lei adorati, come lo sono tuttora, e per il rapporto di lavoro dei due loro coniugi: Luigi ed Eugenio, entrambi dirigenti di Uffici di collocamento al lavoro; l'uno presso l'Ufficio di Grumo Nevano e l'altro presso l'Ufficio di Arzano, si affrettò ad avviare la costruzione della sua villa accanto alla sorella. Si rivolse per il progetto all'ingegnere di Grumo Nevano D. Brasiello, un caro amico di Luigi Reccia, per il quale aveva progettato una villa di particolare bellezza, seguendone con attenzione la realizzazione, stando sempre alle spalle di Mastro Peppe. Assunta avrebbe voluto vedere costruita la sua villa in tempi
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brevissimi, come se si fosse potuta costruire con la bacchetta magica. Perciò, pur essendo state stabilite delle condizioni di pagamento nel corso del lavoro, anticipava i tempi nel pagare e sollecitava il cugino perché portasse a termine l'opera nel più breve tempo possibile. Quando la villetta, costruita con una struttura elegante e nello stesso tempo funzionale, fu ultimata Assunta, pur essendo molto affettuosa con tutte le sorelle e i loro familiari, è vissuta con Giovanna in una specie di simbiosi. Le loro ville sono comunicanti attraverso un cancelletto comune: esse hanno potuto sempre condividere le loro gioie e i loro problemi senza ombre e senza contrasti per il loro carattere opposto. I filosofi del Rinascimento dicono che “ l'armonia viene dai contrari”; questa verità è emersa chiaramente nei rapporti delle due sorelle delle quali la prima, Assunta è immensamente buona, ma ha un carattere impulsivo, fiero, avverso ad ogni compromesso che renderebbe la vita più facile nella convivenza con gli altri, la quarta: Giovanna è stata sempre di carattere dolce e rasserenante, perciò l'ha fatta sempre sfogare nei suoi impeti, mantenendosi tranquilla. Questo suo comportamento induceva Assunta a ridimensionare i motivi del suo sdegno e riconoscere che non valeva la pena di prendersela per questioni di nessun conto. Essendo di carattere esuberante e avendo molti amici Luigi Reccia, fece spianare una parte del terreno incolto e senza alberi e vi fece creare un campo per giuocare a bocce. Nei pomeriggi dei giorni di festa si riunivano i generi di Tammaro Iavarone a giuocare a bocce mentre lui stesso guardava divertito attorniato dai nipotini che gli ruzzavano intorno festosi. Intanto si avviavano al matrimonio la quinta e la sesta figlia: l'una, Silvia, con un imprenditore di Frattamaggiore di chiare vedute di buona famiglia, instancabile nel suo lavoro: Carmine Cimmino e l'altra con un bravo perito tecnico dal cuore nobile, dai sentimenti dolcissimi dimostratosi subito molto tenero con i suoceri. Il giovane Mormile Sossio, di umili origini, era nipote di un amico del nonno di MariaCristina: Giuseppe Mele; somigliava tantissimo al nonno Sossio Bencivenga, amabilissimo padre della madre del giovane perciò subito fu accolto con infinito entusiasmo nella famiglia Iavarone. In tutte le ore che era libero dal suo lavoro Sossio si recava a casa di MariaCristina, - 134 -
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che o stava a studiare per gli ultimi esami universitari o stava facendo lezione. Così si intratteneva con Tammaro e Rosa, aiutandoli con gioia in tutte le loro cose; accompagnava la suocera a fare la spesa, andava dal medico curante del suocero a ritirare le ricette e poi le andava a spedire. Spesso innaffiava il giardino o conduceva Tammaro a fare quattro passi nel fondo. Per i coniugi Iavarone questo giovane dagli occhi buoni, semplice e riservato come Tammaro, servizievole non per rispetto di due persone anziane, ma per amore verso di loro, divenne il figlio maschio che avrebbero voluto avere. Rosa per Pasqua e Natale, anche se aveva più di sessanta primavere, voleva fare alle figlie ancora pizze, tortani, taralli, pastiere a seconda delle ricorrenze ecc. Sossio, da ragazzo, avendo aiutato un cognato che gestiva un grande panificio, subito si rese conto che era pericoloso per una persona anziana fare tanta e particolare fatica; perciò le era accanto e faceva lui il forno per evitarle di stare con le spalle al freddo in mezzo al cortile dove c'era la bocca del forno e il volto davanti alle fiamme delle fascine che bruciavano all'interno. Perciò si stabiliva di fare questa operazione quando Sossio aveva il turno di notte al lavoro. Allora l'aiutante veniva di buon mattino; avendo trovato già tutto l'occorrente pronto, impastava la farina, mentre l'impasto lievitava cominciava ad accendere le fascine nel forno, poi dava una mano a sbattere uova e tagliare salame perché si preparassero pizze rustiche ben piene e gustose. Quando si dovevano preparare le pizze con le scarole Sossio le lavava lui per timore che in esse restasse qualche bruco o qualche lumachina non vista dalla suocera che iniziava a non avere più la vista acuta come l'aquila. Un giorno Tammaro lo pregò di aiutarlo ad uccidere un grosso coniglio; Sossio avrebbe dovuto prenderlo per le zampe posteriori e sbatterlo con la testa vicino al muro per stordirlo poi appenderlo ad un grosso chiodo e scannarlo a testa in giù affinchè uscisse tutto il sangue e la carne fosse poi bianca e più ricca di sapore. Ma egli riuscì a legare con un robusto spago le due zampe posteriori mentre Tammaro aveva l'animale fermo sulle gambe stando seduto. Dopo di ciò si doveva procedere alla sua mattanza. Sossio non aveva il coraggio di commettere quel delitto. Perciò preso l'animale per le zampe, indugiava ad eseguire “il crudele ufficio”; intanto - 135 -
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il coniglio cercò di liberarsi dalla stretta, affondando le unghie delle altre due zampe nel braccio del mancato boia. I graffi furono così profondi che fu necessario l'opera del medico, il quale applicò alcuni punti di sutura. Nonostante l'infortunio subito dal giovane, Tammaro che lo trattava proprio come un figlio; attuò l'esecuzione del condannato a morte, da solo e poi disse: “Sossio, sei proprio un fesso”, suscitando l'ira della moglie per una tale offesa ad un vero angelo. Avvicinandosi il tempo in cui si doveva decidere la data delle nozze MariaCristina era triste perché Sossio non gradiva che ella avrebbe insegnato; egli aveva la casa di proprietà e due appartamenti fittati, lo stipendio di collaudatore tecnico in un'industria di prodotti sinterizzati all'avanguardia era alto e potevano vivere benissimo. Ma l'insegnamento era una vera vocazione per MariaCristina, che iniziò a pensare se davvero valesse la pena di affrontare il matrimonio con quel cruccio nel cuore. Il motivo per cui Sossio era contrario al lavoro della futura moglie era legato a pettegolezzi delle solite “anime sante” che stanno in ogni ambiente: dei serpentelli velenosi avevano sfogato la loro malignità e la loro invidia verso una coppia così bene assortita affermando che il perito tecnico frattese non era uno scemo; di condizione sociale molto umile aveva scelto una professoressa di buona famiglia con il posto “per aggiustarsi” cioè per cogliere un buon partito. Ciò ledeva la sua dignità di uomo e i suoi spontanei e profondi sentimenti di amore. Tammaro Iavarone si accorse dei turbamenti della figlia e la esortò con tono tenero a rivelargli cosa nascondesse nel cuore senza nessuna reticenza, egli l'avrebbe capita ed aiutata in ogni problema. MariaCristina parlò come un fiume in piena rievocando tutti i passi fatti per la laurea, le sue aspirazioni che risalivano all'infanzia quando giuocava a fare la professoressa di Latino, la lingua del tempo antico di cui era innamorata da quando aveva studiato le prime nozioni di storia romana ed aveva appreso da una brava maestra che l'italiano non è una lingua derivata dal latino, ma il latino stesso che si è trasformato attraverso le epoche, rimanendo tuttavia vivo in alcune espressioni dialettali come “cerase” = ciliegie da cerasa in latino come “cas” = il cacio - il formaggio da casaeum latino, come “ih” = vattene dal verbo “eo” latino come “aith” = disse - 136 -
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da ait verbo latino di questo significato. Inoltre se il futuro marito, pur conoscendo il suo profondo amore per l'insegnamento glielo vietava non si sentiva affidata bene a lui per la vita. Il papà la rassicurò che un uomo di buoni sentimenti umani con una forte carica di amore non l'avrebbe fatta soffrire. Rinunciare al matrimonio con un uomo dolcissimo, attivo, intelligente, protettivo, con un grande amore per lei, come si capiva facilmente, sarebbe stato un grave errore. Poi sarebbe venuto pure il tempo dell'insegnamento con una buona ed armonica organizzazione familiare. Tutto dipendeva solo da lei; se fosse stata capace di coordinare l'impegno della famiglia con quello del lavoro, non avrebbe avuto nessuno sbarramento davanti a sé. Solo gli ottusi non sentono ragioni perché hanno il cervello spento e non sanno vedere quello che sta ad un palmo dal loro naso; Sossio non apparteneva a questa spregevole categoria umana. Nell'imminenza del matrimonio di MariaCristina, Assunta, amorevole e generosa come sempre, le fece confezionare dei vestiti da una bravissima sarta grumese di cui seguiva i figli nei loro studi. Perciò per tutto un anno scolastico rifiutò il suo onorario professionale, pur svolgendo un lavoro oneroso per il carattere ribelle di uno dei ragazzi e la completa mancanza di spirito di sacrificio. L'anno in cui si sposò il 12 Luglio 1962 MariaCristina portò a termine l'anno scolastico con gli esami di riparazione presso l'Istituto Magistrale Statale S.Pizzi di Capua e poi lasciò la scuola con una convinzione che partiva da lei oltre che dal marito, perché era cominciato a “germogliare il primo fiorellino” e la madre lo voleva attendere vivendo nella più grande serenità fra le pareti domestiche e la completa armonia col marito, senza dover correre fra treno e pullman come aveva fatto prima. Se aveva avuto la grazia del Signore di concepire subito un figlio doveva dare a questo un tributo di amore prima che venisse al mondo, vivendo in modo da non mettere in pericolo la gestazione in alcun modo. Anche la sesta figlia Silvia ai primi anni di matrimonio lasciò la scuola per ritornarvi quando le fu possibile conciliare insegnamento e famiglia. Tammaro parlava alle figlie con tenerezza, ma in modo saggio e deciso: non ammetteva i lamenti inani e sosteneva che volere è potere; fra il “dire e il fare” c'e un mare di difficoltà che - 138 -
Maria Cristina Iavarone nel giorno del matrimonio con Sossio Mormile
Mario Cristina e Sossio Mormile nel giorno del matrimonio con la prima sorella Assunta e il marito Eugenio Pecchia - 139 -
MariaCristina con la sorella Pasqualina e il marito Sossio Mormile in partenza per il viaggio di Nozze - 140 -
MariaCristina con la sorella Silvia e il marito Sossio Mormile in partenza per il viaggio di Nozze - 141 -
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I nonni Tammaro e Rosa al battesimo di Carmine, primo figlio di MariaCristina
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26° CAPITOLO
La realizzazione di un desiderio Delle sorelle Iavarone rimaneva nubile l'ultima: Vittoria. Il papà scherzava con lei che avrebbe accettato nella casa come suo aspirante genero solo un giovane disposto a fare carriera nell'arma dei Carabinieri. Nel 1960 Vittoria ebbe l'incarico di vigilatrice in una colonia estiva per conto della Regione Campania su segnalazione del cognato Luigi Reccia, al quale, dirigente dell'ufficio di collocamento al lavoro di Grumo Nevano era giunta la richiesta di due vigilatrici di specchiata moralità, massimamente affidabili con esperienza nel contatto con i bambini. Il collocatore non poteva fornire persone migliori delle sorelle della moglie: Silvia e Vittoria, le quali erano dotate di alto senso di responsabilità, intelligenti, esperte di psicologia infantile e per di più capaci di dedicarsi con efficienza ai bambini per l'esperienza diretta fatta con i nipotini Antonio e Tammaro, figli di Luigi Reccia e della sorella Giovanna. In questa occasione Vittoria incontrò uno splendido giovane, Italo De Sio, molto somigliante a Fausto Cigliano. Costui iniziò a corteggiarla e quando si rese conto che fra loro poteva esserci una perfetta intesa espresse il desiderio di conoscere i genitori perché questi erano di certo persone serie, come si capiva dall'educazione data alla figlia, ed intendeva comportarsi per bene verso di loro. Appena Italo si presentò a lui per chiedergli di accoglierlo nella sua famiglia perché voleva bene Vittoria gli fu detto senza mezzi termini che non aveva nulla in contrario per tutti i requisiti della sua persona e del suo ambiente familiare come aveva assicurato la figlia; Questa non era una stupida infatuata di un bellimbusto, ma una persone istruita e intelligente, già docente di materie artistiche con un diploma conseguito in queste discipline presso l'Istituto Palizzi di Napoli, era stata educata ad affrontare con occhi aperti la vita dal padre, il quale nei suoi anni di servizio aveva conosciuto “farabutti” di tutte le specie e metteva sempre in guardia le figlie affinchè non facessero esperienze negative come donne, abbagliate da apparenze accattivanti. - 142 -
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Vittoria Iavarone con il fidanzato Italo De Sio sottufficiale dellâ&#x20AC;&#x2122;arma dei Carabinieri 1961
Tammaro Iavarone tuttavia pose una condizione: se desiderava sposare Vittoria doveva arruolarsi nell'arma dei Carabinieri a pieno merito. Il giovane sorrise dicendo che era attratto dalla carriera militare, ma se anche la divisa non avesse suscitato in lui entusiasmi particolari ugualmente avrebbe preso quella strada per fare contento il padre, il quale era stato un carabiniere ligio al dovere, ma era stato vessato spesso da superiori ingiustamente; egli non aveva potuto fare carriera per la conquista di un grado piĂš elevato essendo in possesso solo del titolo di studio della licenza della scuola Elementare. Il giovane, infatti, aveva conseguito il diploma di ragioniere a 18 anni con una votazione brillante, si era iscritto all'UniversitĂ alla facoltĂ di Economia e Commercio a Napoli, ma aveva subito iniziato ad interessarsi al concorso per sottufficiale dei carabinieri fornendosi di libri adatti per la preparazione e servendosi dei consigli opportuni del Maresciallo
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della stazione dei carabinieri di Ponticelli - dove abitava - cordiale amico del padre. Questa fu una grande gioia per Tammaro Iavarone; egli non aveva visto un figlio con la divisa dell'arma, ma con decorazioni diverse, ora la buona sorte gli donava un figlio già cresciuto che realizzava i suoi sogni. Tammaro Iavarone si sentiva ancora più felice perché questo giovane all'età di 19 anni aveva la personalità di un uomo maturo: seguiva quei saldi ed elevati principi morali che, in genere, non si sono ancora formati a quell'età. Ragionava con saggezza, era molto riflessivo, ma nello stesso tempo mostrava un carattere fiero, forte, deciso; perciò parlando con lui a Tammaro Iavarone sembrava di parlare con un “un altro se stesso”. Era stato educato a vivere rispettando determinate regole impartite dal padre carabiniere, ma che egli sentiva dentro di sé, connaturate con lui stesso: era severo con se stesso, aperto alla comprensione umana verso gli altri, ma intollerante degli abusi e degli atteggiamenti arroganti, memore, forse, del principio basilare della civiltà romana: “ Parcere subiectis, debellare superbos” ( avere indulgenza per i sottomessi al dovere, colpire fortemente gli arroganti). I suoi genitori Giuseppe De Sio e Rosa Lambiase avevano condotto e conducevano una vita dignitosa e con lo stipendio non lauto di carabiniere si erano comprata una graziosa e comoda casa a Ponticelli. Il padre da pensionato si era impiegato in un'azienda a Napoli sicchè con la pensione e i proventi del suo lavoro si potevano sostenere senza alcuna difficoltà le spese per l'istruzione dei figli. Il giovani italo De Sio con la sua famiglia era “ l'optimum” (il meglio) cui potessero aspirare Tammaro e Rosa per la loro Vittoria.
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Italo De Sio, fidanzato di Vittoria Iavarone appena arruolato nellâ&#x20AC;&#x2122;arma alla fine del 1960 - 145 -
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27° CAPITOLO
Nuove preoccupazioni Per la fine del 1960 Italo De Sio potè indossare già la sua divisa; dopo il periodo di corso a Roma fu mandato in Alto Adige e precisamente alla stazione dei carabinieri di Laives in provincia di Bolzano. Qui si trovò in una condizione di grandissimo pericolo per la sua incolumità, infatti dal 1960 era in atto in quella regione un terrorismo di terribile portata. Dal 1960 al 1970 infatti vi furono consumanti 246 attentati con 26 morti fra i carabinieri di vari gradi, moltissimi furono i feriti, fra i quali numerosi rimasero orribilmente mutilati e del tutto invalidi. Italo De Sio poiché si mostrò coraggioso e intelligente fu subito utilizzato per tutti i servizi più pericolosi. Una notte su di una montagna del Sudtirolo, durante una perlustrazione l'ufficiale napoletano si accorse da impronte lasciate che certamente erano state messe mine ad una minima profondità e chiamò tutti i carabinieri che erano con lui di seguire i suoi cenni affinchè non si esponessero al pericolo di saltare in aria. Due giovani toscani rimasero atterriti quando passò un daino dove essi erano un attimo prima e la bestia si disintegrò allo scoppio di una bomba. Del suo corpo rimasero piccoli frammenti di tessuto attaccati ai tronchi degli alberi che erano intorno alla buca scavata dallo scoppio. Se essi avessero indugiato un po', di loro non si sarebbero trovati neppure miseri resti per il funerale di Stato. I terroristi agivano soprattutto di notte e attuavano azioni micidiali come se si facesse una feroce e giusta guerra contro un oppressore odioso. Un atto terroristico che fece uno scalpore particolare fu l'attentato ad un traliccio per il trasporto dell'energia elettrica che fu abbattuto in Val Aurina con un grandissimo danno economico per la regione. Certe volte i militanti dell'Autonomia della città di Bolzano lanciavano bombe contro i rappresentanti delle Forze dell'Ordine improvvisamente; un giorno Italo De Sio aveva con sè un giovane carabiniere il quale si era arruolato come ausiliario; sia perché era attratto da questo corpo militare, sia perché poteva disporre di uno - 146 -
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stipendio mentre con il regolare servizio militare non si sarebbe trovato niente; difatti proveniva da una famiglia povera del nostro Sud e aspirava a comprarsi una utilitaria pure usata per andare più facilmente al lavoro. Ma questo giovane appena ventenne non si rendeva conto della realtà in cui viveva e il perché di tanta spietata ferocia; faceva tenerezza al suo ufficiale per cui gli fece scudo con il suo corpo durante un'azione terroristica e gli salvò la vita. Egli invece con la sua diversa esperienza, con la prontezza e con chiari riflessi della sua intelligenza riuscì ad evitare di essere il pieno bersaglio della bomba a mano che un tirolese gli stava lanciando, tuttavia anch'egli fu colpito ad una spalla riportando gravi lesioni ad una clavicola che non riprese più la sua funzione anche dopo numerosi interventi chirurgici. Altri attentati che, se fossero riusciti, avrebbero causato dei veri massacri, sventati mediante l'acutezza di osservazione di Italo De Sio gli fecero attribuire una medaglia d'oro e l'encomio del comandante generale dei carabinieri. Però le notizie fornite dalla stampa e dalla televisione davano molta preoccupazione a Tammaro Iavarone, il quale vedeva la figlia tesa, preoccupata e si sentiva lo scrupolo di coscienza di averlo spinto a fare il carabiniere. Poiché se non si fosse arruolato avrebbe optato per un posto in banca, Vittoria diceva al papà che si poteva morire anche sotto il fuoco di rapinatori in quel lavoro che poteva sembrare tranquillo. Il governo italiano mostrava vivo interesse alla soluzione del problema del Sudtirolo e così via via il terrorismo riduceva la sua funesta attività finchè il 20 gennaio 1970 divenne operante ufficialmente lo Statuto d'Autonomia della Provincia di Bolzano con il trasferimento di gran parte delle competenze autonomistiche dalla Regione alla Provincia. Per il 1972 furono eliminate tutte le cause della guerriglia. Il 1966 era stato celebrato nel Santuario di Pompei il matrimonio fra Vittoria Iavarone e Italo De Sio; dopo fu consumato il pranzo nuziale in un Hotel a 5 stelle, ma in un'atmosfera di grande austerità e silenzio con tante divise da ogni parte, infatti, avendo una famiglia molto piccola la maggior parte degli invitati dello sposo erano carabinieri. Tammaro Iavarone era profondamente commosso durante il rito religioso e si
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intuiva che pregasse fervidamente la Madonna affinchè proteggesse tutti quelli che erano esposti ai pericoli e rivolgesse il suo sguardo amorevole su quel giovane che Ella aveva avuto la bontà di far entrare nella sua famiglia per il compimento della sua profonda aspirazione. Durante il pranzo nuziale il padre toccava appena le varie pietanze, ma era immerso nei suoi pensieri da una parte belli dall'altra tristi, era felice che il genero allora con il grado di Tenente, fosse guardato con tanta stima dai suoi superiori che partecipavano alla festa nuziale, dai colleghi per i quali Italo De Sio rappresentava un modello da imitare, ma sentiva una morsa al cuore per il prossimo distacco della figlia, che era “l'ultimo fiore” del suo ceppo, la figlia che aveva avuto problemi gravi fin dai primi giorni di vita, verso la quale aveva provato una tenerezza diversa rispetto alle altre figlie, una tenerezza più protettiva perché era di particolare sensibilità ed era cresciuta come uno scricciolo; infatti era piccolina di statura, anche se aveva un carattere forte ed idee chiare. A Tammaro Iavarone sembrava di avere un figlio soldato che andava “al fronte”, per la situazione dell'Alto-Adige. Né si vedeva possibilità di trasferimento in una sede di servizio meno pericolosa, perché i giovani sono mandati in prima linea. Erano felici tuttavia i due padri degli sposi, entrambi carabinieri in pensione, spesso ridotti quasi alla esasperazione da individui indegni della divisa che indossavano, tuttavia preposti a loro e con la facoltà di vessarli, spinti da ignobili sentimenti, mascherati dalle esigenze del dovere. Italo a 26 anni era un tenente stimatissimo e portava già sul petto le decorazioni meritate in imprese di grande valore; avrebbe seguito certamente il “cursus honorum” nell'arma dei carabinieri fino a diventare generale. Il sogno di Giuseppe De Sio e Tammaro Iavarone si è poi realizzato davvero ed Italo si è pensionato con il grado di Generale di brigata dei Carabinieri e con svariate decorazioni al merito. Naturalmente i due padri non sono stati spettatori dei vari passi fatti da Italo nella sua carriera; Tammaro è passato a miglior vita quando il genero era colonnello e Giuseppe De Sio quando il figlio era maggiore; ma certamente essi incontratisi nell'altro mondo si sono sentiti orgogliosi e si sono congratulati di un tale figlio,
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continuando a seguirlo con il loro amore. Il 1968 la famiglia De Sio era allietata dalla nascita di una meravigliosa bambina: Lara; intanto il terrorismo alto-atesino era diventato meno acceso poiché il governo italiano e quello Austriaco si stavano adoperando per una soluzione ottimale della convivenza di Italiani, Tedeschi e Ladini: le tre etnie in lotta fra loro e contro il governo Italiano. Ma per Italo De Sio arrivato al grado di capitano non ci fu l'inizio di un servizio più tranquillo; per le sue eccellenti qualità militari ed umane il comandante generale dei carabinieri lo mandava sempre dove ardeva il fuoco più minaccioso. Alla fine dell'estate del 1968 cominciò a serpeggiare fra i giovani l'avversione al sistema capitalistico e alla cultura borghese, il rifiuto di ogni politica tradizionale e l'esaltazione della democrazia di base. Così scoppiò la contestazione giovanile che nella prima fase fu essenzialmente contestazione studentesca; gli studenti universitari si mobilitarono in una specie di guerra occupando le Facoltà universitarie, scendendo in piazza, scontrandosi con violenza contro le Forze dell'Ordine. Le brigate dei carabinieri dovevano accorrere dove si svolgeva una vera guerriglia. Italo che allora era capitano di brigata fu mandato a Milano, dove la rivolta era più accesa. Un giorno sfuggì alla morte per miracolo: gli fu scagliato contro un grosso bullone di ferro ed egli riuscì ad evitarlo; questo andò a finire sul muro di un palazzo e vi segnò un buco di dieci centimetri; se avesse raggiunto con la sua violenza la testa del capitano De Sio gliela avrebbe sbriciolata. La contestazione studentesca mirava ad abbattere l'autoritarismo accademico ed eliminare il principio della selezione scolastica, ma poi assunse una caratteristica specifica; ebbe una base di ideologia politica di tipo marxista rivoluzionario e si estese agli alunni di tutte le fasce scolastiche compresa la Scuola media. Così allargandosi gradualmente la guerriglia finì per coinvolgere anche la classe operaia; vi erano scontri fra le Forze dell'Ordine e i dimostranti in tutte le città italiane, ma i più violenti avvenivano a Milano. Il capitano De Sio era sempre nei punti cruciali, in momenti di particolare tensione. Vittoria, docente di Disegno e Storia dell'Arte presso l'Istituto Tecnico per Geometri di Bolzano, per mesi interi rimaneva sola con i suoi problemi familiari che in lunghi - 149 -
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periodi doveva gestire da sola; il che non era facile, né semplice vivendo in una città in cui non conosceva nessuno, i napoletani erano guardati con aperta avversione e i militari erano considerati alla pari di assassini prezzolati dallo Stato. Ciononostante ella riuscì a trovare, tramite l'ufficio di Collocamento, una brava donna come baby-sitter per affidarle la sua bambina quando andava a scuola. Utilizzando ogni ritaglio di tempo ritornando dal lavoro si faceva pure la spesa quotidiana e non aveva più necessità di uscire. Comunicava con il marito telefonicamente e spesse volte facendo servizio in borghese per penetrare più facilmente nei gruppi in lotta, telefonava a casa ad evitare che individuassero la sua famiglia e qualche testa calda facesse del male alla moglie e alla figlia. Tuttavia Vittoria si manteneva in una certa serenità, sia perché era preparata ad essere la moglie di un carabiniere, con tutti gli oneri e onori, sia perché aveva una concezione fatalistica dell'esistenza di ogni persona: era convinta che un individuo muore quando è arrivata la sua ora. Dice il poeta latino Virgilio, infatti, che per ciascuno c'è il suo giorno “ Stat sua cuique dies”. Ella ricordava pure il racconto dell'autore greco Esopo, letto a scuola, sulla ineluttabilità del destino: un padre aveva un figlio vigoroso e forte, che praticava la caccia con grande passione. Una notte egli sognò che il figlio sarebbe morto assalito da un leone. Appena si svegliò raccontò il sogno al figlio e gli ordinò di non andare più a caccia, ma avrebbe costruito per lui una grande casa con le immagini di tutti gli animali che erano nei boschi della sua regione affinchè avesse l'idea di essere a caccia. Un giorno il giovane, infinitamente triste, guardando la figura di un leone, dipinta su di una parete, lo chiamò pessimo animale e gli tirò un poderoso colpo come se avesse voluto accecarlo perché a causa sua e per un sogno fallace del padre non poteva andare più a caccia nei boschi. Allora sotto un'unghia gli penetrò un piccolo frammento di intonaco: entro un giorno si sviluppò un'infezione con febbre ed il giovane sventurato morì. Le iniziative del padre non lo avevano salvato dalla morte a causa di un leone. Perciò Vittoria era cosciente dei pericoli che correva il marito nel suo servizio, ma non si lasciava prendere dall'angoscia ed ella stessa tranquillizzava i genitori comunicando con loro telefonicamente - 150 -
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28° CAPITOLO
Ancora Ansia Con il suo servizio Italo De Sio si trovava in condizioni sempre più difficili e pericolose; dal 1968 al 1970 nacquero gruppi politici che si autoproclamavano “extraparlamentari” per prendere le distanze dai partiti politici che erano presenti in Parlamento, i quali sconvolsero la vita del Paese. In conseguenza dei contrasti sociali nacque in Italia il terrorismo. In quest'atmosfera infuocata l'Arma dei Carabinieri e la Polizia di Stato dovevano essere pronte per ogni emergenza, ma di questi Corpi i più esposti ai rischi, quelli che operavano in pericolo maggiore erano gli uomini più validi e massimamente affidabili. Nelle regioni dell'Alta Italia vi era la lotta più accanita contro lo Stato e i rappresentanti delle Istituzioni; perciò i militari ogni giorno, quando andavano a compiere il loro servizio, non erano sicuri di ritornare a casa, perché essi “scendevano in battaglia, ma dovevano affrontare battaglie insidiose, attacchi inaspettati, assalti preparati con minuziosa cura affinchè potessero arrecare più danno. Durante le vacanze estive Italo aveva il suo sacrosanto mese di ferie e la famiglia De Sio trascorreva questo periodo di tempo a Napoli, cioè a casa dei genitori di Vittoria. Allora questi erano felicissimi perché avevano con sé la figlia prediletta con i figli che erano arrivati l'uno dopo l'altro ed inoltre quella era l'occasione per richiamare tutte le altre sorelle con le famiglie. Così qualche volta c'era la raccolta di tutti i nipoti che erano diventati venti. Il giardino si riempiva di puledri scalpitanti che spesso mettevano alla prova la pazienza di chi assisteva alle loro “audaci imprese”. Tammaro godeva di tutta questa armonia e aiutato dai nipoti più grandi e da qualche genitore o genitrice disponibile conduceva l'esercito dei fieri campani di origine osca in campagna passando per quella strada di importanza storica nella famiglia Iavarone. Nel fondo grandi e piccoli si scatenavano e le loro esibizioni divertivano immensamente il nonno, il quale era stato molto severo come padre, ma con i nipoti era complice compiaciuto di quelle marachelle che - 151 -
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non aveva mai consentito alle figlie. tutto era ancora più bello quando la prima e la quarta delle figlie si costruirono le rispettive case nella terra ereditata. Nel cortile della villa della prima zia: Assunta, giuocavano, consumavano merendine ed altre leccornie offerte da lei, quando consumate le energie a fare “diavolerie” sentivano il bisogno di ricaricarsene. Zia Assunta non ha avuto figli, ma non ne ha sentito sofferenza perché ha riversato una infinita carica di amore sui nipoti con il marito Eugenio. Quando ella è andata ad abitare nella casa costruita sul suolo donato dai genitori è stata l'angelo custode dei nipoti; per i più piccoli teneva sempre in serbo scatole di gustosi Mars, che piacevano tanto a tutti, cassette di aranciata “Fanta” particolarmente gradite quando la sete si faceva sentire. La sua bontà e la sua generosità la rendevano una zia speciale; però poiché aveva polso fermo e la convinzione che lo studio fosse la cosa più importante per l'avvenire, con tenacia instancabile “ afferrava per le orecchie” quelli che non mostravano troppo interesse allo studio e li induceva a studiare seguendoli in tutte le materie letterarie; ella infatti aveva seguito il corso liceale classico a pieni meriti presso il “Liceo--ginnasio G. Garibaldi” di Napoli e aveva frequentato prima il corso di laurea in scienze matematiche e poi in lettere presso l'Università “Federico II” di Napoli. Tammaro e Rosa erano felici per tutte le figlie che si erano affermate nella professione ed avevano ciascuna una bella famiglia, ma avevano il cruccio di questa figlia che viveva così lontano da loro e in una situazione sempre preoccupante. Certamente si comunicava ogni giorno per telefono, ma ciò non bastava. Rosa seguendo le lezioni per televisione con il programma “non è mai troppo tardi” riprese quaderni e penne e scriveva lunghe lettere alla figlia dicendo ogni cosa anche del papà, che era restio a scrivere per problemi di vista, soffrendo di glaucoma. Però per la famiglia De Sio venire a Napoli per tutto il periodo di ferie diventava problematico poiché si sentiva anche l'esigenza di trascorrere un po' di giorni al mare; con il freddo di Bolzano era necessario anche godersi il sole della Campania su di una spiaggia sia per i genitori che per le figlie. italo
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aveva bisogno di cure termali per le conseguenze delle ferite riportate nelle campagne contro il terrorismo. In genere andava da solo a Casamicciola mentre Vittoria con le figlie stava presso i genitori; e di tanto in tanto passavano tutti qualche giorno presso la famiglia di Italo. I coniugi De Sio da una parte e i coniugi Iavarone dall'altra iniziarono a consigliare ad Italo di chiedere il trasferimento per Napoli o almeno per una città più vicina rispetto a Bolzano. Non c'era nessuna possibilità di trasferimento per Napoli, né per Roma. Il primo anno la sua domanda non fu accolta perché erano in atto molte operazioni contro il terrorismo e contro grandi e potenti organizzazioni criminose del Veneto di cui egli era il principale coordinatore e queste si dovevano concludere. Il 1972 nacque il terzo figlio Marco e diventava sempre più difficile per Vittoria e Italo dividersi fra le due famiglie in un breve periodo. Mentre Vittoria si dedicava al bambino di pochi mesi le figlie Lara e Sabrina si annoiavano se non c'erano dei cugini con cui giuocare. I nonni perciò le conducevano in campagna dove si potevano scatenare liberamente, sfogando la loro esuberanza. Spesso inseguivano farfalle in volo o le prendevano mentre erano posate su fiori selvatici molto profumati, oppure raccoglievano frutta matura da peschi o da albicocchi nati spontaneamente, poco alti con i rami piegati verso il suolo. L'attrazione maggiore delle bambine era un piccolo ciliegio completamente coperto di frutta che alla maturazione completa diventava nerissima e un albero di fichi di S. Giovanni, che erano più dolci del miele. Ma i nonni erano preoccupati perché la frutta matura e non colta attirava vespe e calabroni, le cui punture potevano arrecare gravi patologie. Perciò essi stavano molto attenti affinchè non capitasse nulla alle nipotine di cui erano responsabili. Ma le passeggiate in campagna servivano pure ad infondere nelle bambine l'idea della loro casa futura accanto ai nonni, agli zii, ai cugini. Era così diventato un fatto sicuro che, appena possibile, anche Vittoria avrebbe avuto la sua casa in via Vivaldi, costruita sul suolo di cui era in possesso per il dono dei genitori.
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29° CAPITOLO
Esperienze Allucinanti per la famiglia De Sio A giugno nel 1972 quando Italo De Sio era ancora capitano dei carabinieri finalmente fu accolta la domanda di trasferimento e fu assegnato alla Stazione dei Carabinieri di Brandizio (nome di fantasia); la moglie fu trasferita per le leggi dello Stato all'Istituto T. Tecnico per Geometri di questa città. Il provveditore di Brandizio fece visitare a Italo De Sio l'Istituto dove dal 1° ottobre avrebbe preso servizio la professoressa Iavarone. Dal 1° luglio Italo prestava servizio nella città pugliese e cercò di iniziare a predisporre le cose necessarie per le esigenze scolastiche delle bambine e della moglie. Ai primi giorni tutti i carabinieri si mostrarono gentilissimi con De Sio, ognuno si mostrava disponibile a dargli aiuto per il trasloco, ma con molta garbatezza il napoletano diceva che avrebbe fatto da sé. Tante persone lo salutarono con inchini. Quando iniziò ad operare in rapporto alle sue funzioni De Sio si accorse che in quel mondo la parola legalità era sconosciuta o fraintesa. I carabinieri in genere erano gli amici pronti ad aiutare quelli che infrangevano le leggi in un modo o un altro, affinchè essi si assicurassero l' impunità. Italo De Sio si rese conto che egli era come Renzo Tramaglino nello studio del dottore Azzeccagarbugli. Ma iniziò “a farsi parte per se stesso nella compagnia malvagia e scempia con la quale si trovò ad operare”. Quando arrestava qualcuno pure in flagranza di reato arrivava qualche telefonata che c'era stato un equivoco, perché la persona in questione non era tipo da commettere reati di tal genere. A settembre anche Vittoria e i bambini si trasferirono alla caserma di Brindisi. Ma quando la professoressa si recò a scuola per iniziare il suo servizio, le fu detto che la cattedra assegnata a lei non esisteva più perché gli alunni erano diminuiti, però poiché ella era ordinaria, avrebbe ricevuto lo stipendio fino a casa; non doveva preoccuparsi di nulla. La cosa andò avanti per un paio di mesi,
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ma Vittoria Iavarone non accettava questa condizione irregolare; si recò in Provveditorato per avere chiarimenti sulla sua posizione come docente; il provveditore la rassicurò che non c'era niente di irregolare; il posto che le era stato assegnato non esisteva più ed ella se ne poteva stare a casa con il diritto allo stipendio. Poiché Vittoria aveva superato anche il concorso a cattedra per la scuola media, ritenne opportuno non dichiarare la rinuncia a questo posto perché voleva rendersi conto se era oggetto di una persecuzione oppure se le cose andavano così secondo le regole. Si mise in contatto con il provveditore di Bolzano spiegando che cosa era avvenuto a Brandizio affermando di essere pronta a ritornare colà e prendere la cattedra che le spettava alla scuola media. Poi capitarono vari episodi l'uno dopo l'altro che erano chiari avvertimenti di dover voltare pagina se la famiglia De Sio voleva rimanere a Brandizio Un giorno Vittoria stava accompagnando le figlie a scuola quando una macchina venne loro quasi addosso, certamente non per ucciderle, ma per far capire che o si adeguavano all'ambiente o se ne andavano; altrimenti la loro vita era in pericolo. Un'altra volta in un supermercato Vittoria aveva messo nel suo carrello la merce scelta e si era avvicinata alla cassa, ma arrivò dopo di lei una donna ingioiellata come la Madonna di Montevergine; la cassiera si affrettò a togliere dal suo banco quello che ella aveva comprato per dare la precedenza a quella supersignora che era degna di altissimo riguardo. Vittoria seppe poi che quella apparteneva ad un'illustre famiglia che viveva in modo principesco con i proventi di attività misteriose. Allora ella lasciò tutto e uscì disgustata dal supermercato. Si mise subito in contatto con il Provveditore di Bolzano comunicandogli che avrebbe scritto al preside dell'Istituto di Brandizio e al Provveditore di questa città di preferire la scuola media per il contatto umano diverso e per i programmi di insegnamento più interessanti. La famiglia De Sio era nel mirino della criminalità con il tacito consenso di qualche rappresentante delle Istituzioni. In tal modo essa si divise: Vittoria partì per Bolzano con il piccolo Marco di pochi mesi e Italo restò a
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Brindisi con le due bambine che frequentavano la scuola elementare. Il padre provvedeva a tutte le loro necessità, le accompagnava a scuola portandole fino in classe lasciandole con l'insegnante della prima ora; andava a prenderle a scuola dove le dovevano dare in consegna solo al padre. Nelle ore in cui Italo era in ufficio le bambine erano chiuse in casa con l'ordine perentorio di non aprire a nessuno, neppure se qualche persona avesse bussato e avesse detto che era mandata dal padre per qualche necessità. Le bambine a meno di dieci anni dovettero sapere che si voleva fare del male a loro “ perché il padre faceva il suo dovere in difesa dei cittadini retti” e ciò non era di gradimento a tutti. Però il papà non avrebbe permesso ciò se esse obbedivano a tutto ciò che egli ordinava. Vittoria prese alloggio in una pensione gestita dalla madre di una collega, la quale aveva pure cura del bambino nelle ore di lontananza della madre. La situazione era straziante; per la ricorrenza delle vacanze di Pasqua Italo con le figlie, Vittoria con il figlio vennero l'uno dal profondo Sud e l'altra dal Nord per trascorrere dei giorni insieme a casa Iavarone. Poi si ripartiva con la destinazione opposta. Tammaro era angosciato da queste vicende della figlia e della sua famiglia e la sua sofferenza maggiore derivava dal fatto che aveva premuto per il trasferimento; egli sperava che gli fosse assegnata una sede in una città vicina per cui poteva anche prendere in considerazione l'idea di farsi la casa a Grumo Nevano. Con immensa gioia Vittoria e Italo avevano preso i contatti con un bravo architetto di Grumo Nevano P. Miele e avevano fatto il progetto di una graziosa villa. Ma gli entusiasmi si spensero ben presto perché la vita a Brandizio si era rivelata invivibile. La città, infatti, era ugualmente una sede lontana e per di più neanche fra i militari c'era rispetto della legge. Un giorno Tammaro Iavarone consigliò alla figlia di scrivere una lettera al comandante generale dei Carabinieri esponendo tutte le cose accadute, rivelandogli la sua preoccupazione che si attentasse alla vita del marito e aggiungendo che il marito non sapeva nulla della sua iniziativa. Perciò o si verificava che cosa avvenisse a Brindisi per prendere opportuni provvedimenti o si rimandava Italo De Sio a Bolzano da dove era stato trasferito.
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Italo De Sio alla fine della sua carriera nellâ&#x20AC;&#x2122;Arma dei Carabinieri - 157 -
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Inoltre Vittoria affermò pure che una lettera uguale era depositata presso il notaio di famiglia, per cui se fosse accaduto un qualsiasi incidente a Italo De Sio ne sarebbe stata riconosciuta responsabile l'Arma dei Carabinieri per qualche perverso meccanismo al suo interno. Martedì in Albis Italo De Sio accompagnò la moglie alla Stazione di Napoli e poi doveva ripartire in macchina per Brindisi con le figlie Lara e Sabrina. La lettera fu inviata da Grumo Nevano al Comandante generale M. raccomandataespressa con ricevuta di ritorno. Certamente non poteva arrivare prima del giovedì successivo; il venerdì pomeriggio mentre italo De Sio era in ufficio gli arrivò la telefonata da Roma che entro due mesi poteva lasciare Brandizio però la sede di servizio di Bolzano non era più disponibile, né era possibile l'insediamento in un'altra in un tempo così breve, egli perciò doveva passare a dirigere la Legione dei carabinieri di Laives (Bolzano), dove era stato di prima nomina, con il grado di Maggiore; inoltre lo Stato non avrebbe pagato le spese del trasloco perché non erano previsti per nessuno due trasferimenti in meno di un anno. Questa novità stupì molto Italo, ma gli fece immensamente piacere. Diffusa la notizia del ritorno di Italo De Sio a Bolzano entro poco tempo, l'atmosfera ostile intorno a lui cessò quasi del tutto. Si era a fine aprile; le bambine avrebbero finito l'anno scolastico, Vittoria avrebbe chiuso con gli impegni scolastici a giugno, ma si mise subito a cercare una casa affinchè si riunisse presto la famiglia dopo tanti sconvolgimenti. Con l'aiuto di due bravi carabinieri, di Sant’Arpino, i fratelli Cinquegrana, figli di amici molto cari, fu sistemata la casa, che fu comprata nei pressi della stazione di Bolzano con il danaro che era stato messo da parte per costruire la villa a Grumo Nevano. Italo De Sio aveva cancellato dalla sua mente l'idea di prestare il suo servizio in una città del meridione e di avere la casa a Grumo Nevano. Dopo le vacanze la famiglia De Sio iniziò a vivere un periodo di completa serenità; Tammaro e Rosa come i genitori di Italo si rassegnarono alla lontananza dei figli e nipoti accettando questa, invece che l'assillo di qualche tragedia. Anche Tammaro a oltre 80 anni riprese a scrivere, imitando Rosa; inviava letterine ai nipoti con dei bei disegni. Le sorelle nel corso dell'anno trovavano il tempo per una visita - 158 -
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almeno fugace a Vittoria. Ritornati a Bolzano furono festeggiati dagli amici e dai rispettivi colleghi Italo e Vittoria e allora si resero conto di essere sinceramente stimati da molte persone che si mostrarono entusiaste di averli ritrovati. Vittoria era una brava artista; insegnando alla scuola media riprese i contatti con quella pittura a cui si dedicava prima di sposarsi rivolgendo un grande interesse alle bellezze naturali di cui è ricchissimo l'Alto-Adige e ai volti gioiosi dei bambini. Iniziò a dedicare sempre più tempo alla pittura e così, sollecitata da colleghi che avevano modo di ammirare i suoi dipinti iniziò a fare delle mostre con le sue opere; autorevoli galleristi di Bolzano, di Caserta, di Bologna, di Roma si interessarono alle opere della pittrice Vittoria De Sio che conquistò un grande prestigio. I coniugi De Sio non pensarono più ad un ritorno a Napoli neppure per dopo la pensione, nonostante il forte legame di affetto con le due famiglie di origine. I figli crescevano e si formavano le loro amicizie, venivano pure con grande gioia dai nonni di Napoli e di Grumo Nevano; rivedevano ogni volta con una carica di entusiasmo le zie, gli zii, i cugini, ma finite le vacanze volavano a Bolzano. Così fu deciso di cedere il terreno ereditato a Grumo Nevano ad una sorella, che ne fu felice perché le era gradito creare un polmone verde annesso alla casa, lasciandovi crescere alberi piantati dal padre. Si pensò pure di vendere la casa in cui abitavano, che era dignitosa, di recente costruzione, ma un po' piccola per le esigenze di tutti i membri della famiglia. I tre figli, infatti, desideravano avere ognuno la propria stanza, Vittoria dedicava molte ore al giorno alla pittura e le occorreva un ambiente adatto a dipingere in completa tranquillità e un salone per l'esposizione delle opere realizzate mentre si asciugassero nell'attesa che si organizzasse qualche mostra allettante per il prestigio della galleria disponibile. Per caso Italo visitò una stupenda casa che era in vendita; un amico napoletano, innamorato dell'Alto Adige, lo aveva incaricato di informarlo se avesse avuto notizia di qualche bella casa messa in vendita nella parte più pittoresca di Bolzano. La casa si trovava in un parco adornato di piante e fiori di incomparabile bellezza. Rappresentava una parte di una grande villa immersa nel verde, e quella meglio - 159 -
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esposta; aveva tutti i requisiti che la famiglia De Sio cercava; era ampia, disposta su due livelli oltre la taverna-autorimessa del piano-terra. Ogni particolare della casa era caratterizzato da raffinatezza e funzionalità. L'amico napoletano, conosciutone il costo rinunciò ad acquistarla; Italo non si lasciò scappare l'occasione di prenderla per sé. Vittoria e i figli appena la videro ne restarono entusiasti e perciò furono concluse le cose nel più breve tempo possibile per realizzare l'acquisto di quella casa da sogno. L'imprenditore edile che l'aveva costruita facilitò le cose, occupandosi lui stesso della vendita della casa abitata dalla famiglia De Sio, in condizioni vantaggiose. Aggiungendo al valore di questa il ricavato della cessione del suolo edificatorio di Grumo Nevano, per i coniugi De Sio fu possibile venire in possesso della nuova e meravigliosa casa. Poiché le stanze erano circondate da ampi terrazzi, su questi furono piantati in grandi vasi alberelli di limoni che papà Tammaro aveva fatto crescere nel suo giardino in tanti contenitori per donarli alle figlie mano mano che sorgevano le loro ville. Perciò accanto alle piante tipicamente altoatesine sui balconi e terrazzi se ne vedevano altre nate sotto il cielo di Napoli, riscaldate dal sole della nostra terra come nespoli, melograni, mandarinetti, che a primavera si coprivano di fiori profumati, anche se non portavano la frutta a maturazione per il diverso clima. Era bello per Vittoria e Italo avere sui terrazzi agrumi e altra ridente vegetazione campana che si adattava a crescere in quel Paradiso terrestre. In tal modo questo piccolo lembo di Napoli prosperava nello scenario di superbe montagne sempre innevate, su cui rifulgeva un sole dai riflessi azzurrini nelle belle giornate anche durante l'inverno, con le pendici coperte di lussureggianti vigneti, di splendidi meleti e allietate dai muggiti echeggianti da lontano di mandrie di floride mucche di razza tedesca, al pascolo su mantelli di erba rigogliosa punteggiata da bellissimi fiori di una miriade di colori. Vittoria e Italo erano felici nella loro splendida casa che avevano comprato con il frutto dei loro risparmi, amministrando saggiamente i loro stipendi, ma anche con il consistente supporto della utilizzazione del suolo di via Vivaldi a Grumo Nevano. Perciò in questa, sentivano intorno a sé il riflesso gratificante dell'amore di due adorabili genitori. - 160 -
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Vittoria Iavarone nella sua bella casa di Bolzanocon le sorelle Assunta e il cognato Eugenio Pecchia, Giovanna e MariaCristia. Novembre 1998
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30° CAPITOLO
Appare di nuovo il sereno Ritornata la serenità, Tammaro Iavarone sembrava ringiovanito; passava il tempo nell'orto di casa leggendo il giornale o vedendo la T.V. Aveva superato bene l'infarto e senza difficoltà nelle belle giornate faceva quattro passi da solo verso il fondo passando accanto ad un palazzo in costruzione e raggiungendo le case dove già abitavano due figlie: Giovanna e Assunta. In primavera sembrava tutta una festa anche la terra incolta: si levavano in mezzo all'erba del prato selvatico tappeti di fiori bianchi di camomilla, insieme ai rossi papaveri. Tammaro si rallegrava tutto e diceva che anche la terra Iavarone amava la patria; la distesa dei fiori di camomilla, interrotta dal rosso vermiglio delle corolle dei papaveri e circondata dall'aspetto smeraldino del grano selvatico e del prato, creava un effetto stupendo: sembrava che la natura diffondesse erbe e fiori per inneggiare all'Italia. Tanti bambini rincorrevano farfalle cercavano coccinelle, osservavano le lucertole verdi e gialle e qualche volta spezzavano loro la coda per il gusto di vederla vibrare. Tammaro Iavarone era un nonno felice; le sue figlie lo avevano reso un padre orgoglioso; i compagni della loro vita erano persone ammirevoli in un modo o in un altro. Ognuno nella sua attività o nel suo impiego conquistava una considerazione di prestigio e mostrava oltre che amore anche infinito rispetto della moglie, dei suoceri e di tutti gli altri della famiglia. Il buon seme era stato gettato in una terra feconda ed aveva dato frutti soddisfacenti. Quando i nipoti erano intorno al nonno questi voleva sempre insegnare loro qualcosa; egli continuava a farsi arrivare una rivista “Il Carabiniere” con le notizie delle operazioni più coraggiose degli esponenti dell' Arma e con spunti culturali sempre interessanti. Un giorno guardando il bianco, il rosso e il verde di uno spiazzo del campo, coperto di erbe e fiori, il nonno chiese a dei nipoti che facevano appena la scuola elementare se sapevano chi aveva creato la bandiera d'Italia e da che cosa fosse derivata l'idea - 163 -
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di mettere insieme quei tre colori. Naturalmente i bambini non lo sapevano e il nonno spiegò loro che il tricolore era stato inventato da un generale francese di nazionalità, ma in realtà italiano e precisamente toscano: Napoleone Bonaparte. Questi aveva fondato in Italia un primo nucleo del Regno d'Italia: la Repubblica Cisalpina con un vessillo bianco-rosso-verde, colori che sarebbero diventati i colori della nostra bandiera nazionale. Però l'idea di unire questi tre colori era derivata al generale francese come aveva letto sulla rivista “ Il Carabiniere”, dalla sua cultura classica: egli infatti era un grande ammiratore della cultura grecolatina, di cui aveva promosso gli studi. Nell'Eneide di Virgilio, poeta latino, è presentato un eroe forte e coraggioso, il quale scese in campo ad aiutare Enea, anche se era di origine greca: Pallante, figlio del re Evandro, trasferitosi dalla Grecia nel Lazio. Dopo prove di grande valore costui morì sul campo di battaglia e fu riportato al padre su di un letto di foglie verdi di alloro, bianco in viso per il colore della morte e con il petto squarciato che emanava rosso sangue. Perciò questi colori potevano essere il simbolo più bello dell'eroismo umano: il bianco, infatti, indica la predisposizione del forte ad affrontare la morte per la propria terra o per giusti ideali, il rosso era il colore di quel sangue in cui c'è la vitalità di un uomo che freme davanti all'oppressione, e lotta per la libertà, il verde è il colore della speranza perché l'eroe perde pure la vita sul campo di battaglia, versa il suo sangue, ma lascia la speranza della rinascita umana. Il sacrificio dei forti è sempre proficuo: il loro sangue non scorre invano anche se essi non riportano la vittoria; altri sono pronti a raccoglierne il messaggio ed operare in modo da portare a compimento le imprese per cui essi si sono sacrificati. Perciò i colori della bandiera italiana hanno un grande significato. Le parole del nonno erano ascoltate con grande interesse dai nipoti che facevano tante domande sulle esperienze che egli aveva fatto nel suo servizio; la nonna diceva sempre che egli era molto coraggioso. Tammaro sempre profondamente religioso pregava tanto quando era solo, ringraziando il Signore di tutto ciò che gli aveva concesso, passava delle ore a chiacchierare con Luigi Sandaloia, che egli aiutava pure in quelle cose che non costavano fatica particolare per la sua - 164 -
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età avanzata. Quando era nel giardino di casa scambiava delle chiacchierate con Gennaro Bilancio, il quale spesse volte attraverso le aperture del comune muro di cinta lo chiamava e gli offriva della buona frutta del suo giardino: ciliegie nere, dure come pietre, dolci come il miele, prugne gialle saporitissime dalla forma di olive e un po' più grandi, pere di certi alberi selvatici di un sapore straordinario. Ogni giorno era più bello dell'altro. Rosa godeva di ottima salute e si occupava di tutte le faccende di casa e della cura del marito, e trovava pure il tempo per lavorare all'uncinetto o ai ferri per confezionare vestitini, sciarpe, cappellini ai nipoti, che erano diventati venti. Figlie e generi si prodigavano a rendersi utili a lei specialmente negli accompagnamenti in macchina per sbrigare varie faccende o per fare la spesa ed evitare che ella portasse pesi in mano. Nel mese di agosto c'era la raccolta al completo a casa Iavarone. La sorella Vittoria con la sua famiglia rappresentava il richiamo a cui rispondevano in modo diverso tutte le sorelle in rapporto ai loro impegni e alle necessità delle rispettive famiglie. Per tutti gli altri mesi dell'anno fra i generi il più disponibile per l'assistenza ai suoceri era Sossio perché poteva gestirsi i turni di lavoro in modo che per tre settimane al mese era libero di mattina per sbrigare molte cose per conto loro. Tammaro e Rosa sapevano che egli consumava con piacere i fagioli rossi con il riso, i tondini di Villaricca con pasta, i cannellini bianchi all'insalata. Perciò per fargli cosa gradita ad ogni ricorrenza gli regalavano sacchetti di questi legumi. In un primo tempo c'erano i fagioli prodotti nel fondo di famiglia e questi erano considerati sacri anche dai bambini perché erano stati coltivati con la collaborazione del nonno. Quando la terra fu abbandonata per le colture, i suoceri non interruppero la consuetudine di regalare un bel sacchetto di fagioli a Sossio il 20 luglio, giorno del suo compleanno e il 23 settembre, giorno del suo onomastico, comprandoli da agricoltori amici. Di conseguenza i fagioli erano serviti o a pranzo o a cena almeno tre volte alla settimana. Un giorno, di sabato, i bambini si aspettavano a pranzo un delizioso piatto di tagliatelle alla bolognese perché questa era la regola seguita. Quando ritornarono dalla scuola e trovarono a tavola una zuppiera di fagioli bianchi conditi con olio crudo e aglio ebbero un moto di disappunto, ma - 165 -
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non osarono rifiutare di mangiarli. Essi si rassegnarono per quel giorno, ma pensarono di ricorrere alla protezione di nonno Tammaro per sottrarsi alla persecuzione dei fagioli. Quel giorno, però, non era intenzione di MariaCristina preparare per il pranzo i fagioli, che si erano consumati già il giorno prima: c'era stato un imprevisto. I genitori avevano comprato degli spollichini da una venditrice ambulante di cui avevano avuto pietà perché forse era più vecchia di loro e si doveva guadagnare i mezzi di vita girando per le strade del paese con una cesta piena sulla testa, levando forte la sua voce per farsi sentire dalle massaie. Così essi si presero tutto il contenuto della cesta: tennero una parte dei fagioli per sé e sgusciarono gli altri perché la figlia non perdesse tempo prima di cuocerli. Sossio ritornò a casa con una bella busta di fagioli che si dovevano cuocere subito altrimenti si sarebbero macchiati, pur messi in frigorifero. Con l'etica di fondo di Sossio e MariaCristina “ che non si deve sciupare la grazia di Dio” gli spollichini furono cotti e imbanditi al posto della pietanza del sabato: tagliatelle al sugo napoletano oppure alla bolognese. Per i figli fu una botta in testa. Il primo, Carmine, che già si cimentava a fare l'avvocato difensore di se stesso, del fratello e della sorella quando erano accusati di aver commesso qualche monelleria e di averla nascosta, prese su di sé l'incarico di sostenere i loro diritti. Occorreva pensare bene per avere la certezza di vincere, bisognava aspettare un'occasione propizia. Una domenica mattina i bambini si recarono dai nonni con i genitori. Erano iniziate le vacanze a scuola e nonna Rosa aveva pensato di comprare per loro dei giocattoli graditi che fossero pure passatempi intelligenti. A Carmine aveva preso una scatola di costruzioni “ Lego” perché gli piaceva costruire castelli medievali. A Tammaro aveva preso una scatola con colori ad acquerello, pastelli e tutto l'occorrente per disegnare e dipingere perché amava rappresentare paesaggi naturali. Raffaella ebbe “ la valigetta del dottore” perché era molto felice di giuocare a fare il medico. I tre bambini entusiasti si avvicinarono ai nonni per ringraziarli con un bel bacio, al cospetto di mamma e papà. Allora Carmine rivolto al nonno esordì: “ nonno, mamma ci dice che tu sei stato sempre molto giusto; perciò noi ci rivolgiamo a te per la soluzione di un nostro problema. - 166 -
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Nonno Tammaro rispose che egli aveva sempre cercato di affermare i suoi diritti e di rispettare i diritti degli altri; potevano contare su di lui. Sossio e MariaCristina erano curiosi di conoscere il problema dei figli di cui non erano informati. Carmine subito chiese: “ nonno, se qualcuno riceve un regalo secondo il suo gradimento, è tenuto a dividerlo con altri? Nonno Tammaro pensando a qualche loro piccola contesa per il possesso esclusivo del dono ricevuto da ciascuno, rispose che ognuno si doveva godere il suo dono, se era stato appagato il desiderio dei singoli espresso liberamente. Carmine colse la palla al balzo e disse: “ nonno, ora dici a papà che quando riceve in dono da te fagioli rossi, fagioli bianchi o fagiolini verdi se li deve godere da solo perché sono offerti a lui come compenso per i suoi particolari meriti”. Il nonno rise divertito, ammirando la sagace intelligenza di un bambino di nove anni. Riconobbe che i bambini avevano ragione. Non si doveva imporre loro una dieta alimentare con fagioli come piatto di base per più giorni alla settimana. Quell'anno a S. Sossio il padre ricevette in dono dai suoceri non il solito sacchetto di fagioli, ma una coppia di camicie “ Ercole” una marca prestigiosa in quel tempo cioè circa quarant'anni fa.
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31° CAPITOLO
Una bufera sulla famiglia Iavarone una fine serena Quando Tammaro aveva 82 anni era ancora completamente autosufficiente, anzi non aveva nessuna patologia a parte un lieve scompenso cardiaco rimasto come conseguenza dell'infarto. Un giorno si faceva la sua solita passeggiata in campagna per poi sedersi su di una panca nel cortile della prima figlia; mentre camminava verso il fondo vide davanti a sé una bambina figlia di conoscenti per mano ad un individuo che non abitava in quel rione; affrettando il passo per superarlo e poterlo guardare in faccia, si rese conto che doveva essere un soggetto pericoloso, si accostò senza mostrare interesse a lui, osservando che cosa facesse. Ad un certo punto egli si inoltrò, sempre tenendo la bambina per mano, sotto quel fabbricato in costruzione dove c'erano pile di mattoni e strumenti di lavoro come carriole,scale, corbelli. A questo punto Tammaro con il suo occhio acuto di carabiniere, capì che lo sconosciuto doveva essere una bestia immonda con cattive intenzioni. Non poteva esserci un altro motivo per cui entrare in quel luogo dove non c'era nessuno a lavorare, né c'era anima viva in tutto lo stabile, essendo ancora incompleto e disabitato. Raggiunse il potenziale orco, gli strappò la bambina a cui disse: “corri, corri subito dalla tua mamma, quest'uomo vuol farti del male” . questa era stupita, ma Tammaro le gridò ancora di scappare via. Poi al “lupo cattivo” disse: “sparisci di qui e non farti vedere più da queste parti”. Avvertirò subito i carabinieri di Grumo Nevano che si aggira in questa zona un molestatore di bambine. Quello fece finta di aver capito la lezione e di avviarsi verso l'uscita da questo deposito, ma si rigirò con mossa fulminea e diede una forte spinta a Tammaro che andò a sbattere con il torace sullo spigolo di una massa di mattonelle e se ne scappò. Il dolore che provò era lacerante sicuramente, ma il pensionato ebbe la forza di rimettersi all'impiedi e appoggiandosi ad una
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specie di bastone che era in una carriola, piano piano ritornò a casa. Quando Rosa lo vide rimase profondamente colpita: Tammaro era cereo in volto con i segni della più atroce sofferenza. Non teneva neppure la forza di parlare. Furono chiamate telefonicamente le figlie che abitavano vicino, le quali si attivarono per far venire un medico, il quale indicasse loro il da farsi: se era necessario ricorrere alle cure di un ospedale oppure poteva ricevere le cure del caso a casa propria. Il medico condotto lo visitò e disse che aveva delle costole rotte; era necessario fare delle radiografie in ospedale. Condotto all'ospedale S. Giovanni di Dio di Frattamaggiore gli furono riscontrate tre costole rotte, una delle quali si era conficcata in un polmone nel punto di rottura. Non era possibile fare un'ingessatura e si dovevano prodigare delle cure per alleviare il dolore. Con i giorni, nonostante Tammaro prendesse i farmaci adatti al suo caso, soffriva moltissimo; la lesione ai polmoni iniziò a procurare altre complicanze: il polmone squarciato in un punto secerneva un umore per cui nelle spalle comparve un rigonfiamento, nello stesso tempo si gonfiavano in modo spaventoso le gambe. Per le costole doloranti Tammaro non si poteva distendere sul letto e di giorno e di notte stava su di una poltrona per cui nelle gambe gli umori ristagnavano ancora di più. Le figlie decisero di far venire a visitarlo un professore dell'Università di Napoli, specialista in patologie polmonari; un genero, il marito della figlia Pasqualina, Antonio Pezzella, andò a prelevarlo a Napoli e gli chiese se poteva ricoverare il paziente in ospedale dove egli faceva servizio affinchè fosse curato più opportunamente. Ma quando il professor P. lo visitò disse che spostandolo avrebbe sofferto di più senza averne adeguato vantaggio. Nelle sue condizioni fisiche e psicologiche potevano giovargli le cure solo in un ambiente familiare. Gli furono prescritte delle cure per l'eliminazione dei liquidi da tutto il corpo; ma i vasi sanguigni delle gambe in conseguenza degli umori che si erano diffusi negli arti si ruppero in alcuni punti, così si formarono delle ulcere che dovevano essere medicate almeno una volta al giorno e poi coperte da un tipo di garza che non attaccava: la Kathomed.
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Tammaro nella sua riservatezza non voleva essere toccato dalle figlie femmine; accettò di essere medicato dal genero Sossio, che era particolarmente affettuoso e delicato. Sossio era proprio come un infermiere per l'abilità professionale e un figlio amorevole per la sua tenerezza. Perciò sia per le necessità della propria famiglia come accompagnare a scuola moglie e figli, sia per le esigenze di papà Tammaro, potendo disporre della facoltà di stabilire i turni di lavoro nel suo ruolo di collaudatore e capo produzione, riservava per sé il 2° turno, cioè dalle 13.45 alle 22.45, oppure il turno di notte, dalle ore 18.45 alle 6.45 del giorno successivo. In tal modo di mattina era libero; perciò conduceva la moglie alla sede di servizio, i figli a scuola e poi si recava dai suoceri; medicava le gambe a Tammaro, accompagnava Rosa a sbrigare qualche faccenda e poi ritornava a casa, mettendosi pure davanti ai fornelli affinchè facesse trovare un piatto preparato ai suoi cari. Così quando aveva fatto al contrario il giro di raccolta, consumava il pasto con loro, se era possibile, e partiva per il suo servizio. Ogni volta che gli toccava il turno di notte, tutta la mattinata svolgeva i consueti uffici della famiglia, dopo pranzo andava a riposarsi, riuscendo a dormire appena quattro ore. Il sabato, naturalmente, poteva dormire di più non dovendo lavorare. Tuttavia in alcuni giorni particolari capitavano delle emergenze per cui la mattina non poteva smontare dalle sue funzioni, ma doveva continuare a lavorare fino alle ore 12.45. in questi casi Rosa medicava le gambe di mattina e Sossio rifaceva al pomeriggio le medicazioni. Certe volte egli scherzando diceva: “ mi sento in carcere poiché per mesi interi non ho un pomeriggio libero”. I colleghi erano molto contenti di fare il 1° turno di lavoro; quello dalle 6.45 alle 14.45 per essere liberi nel pomeriggio o per svolgere attività ricreative come uno sport o per svolgere un secondo lavoro. Uno di essi era un bravo fotografo e collaborava con un cognato che aveva uno studio fotografico bene avviato; un altro era figlio di agricoltori, aveva dei fratelli con un'azienda agricola e dava loro una mano, certamente ricompensato, un terzo collega vendeva biancheria “ porta a porta” e aveva bisogno delle ore del pomeriggio per fare il suo giro di vendite. Perciò Sossio
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Mormile nel corso del mese lavorativo faceva due settimane di notte e due di 2° turno mentre avrebbe dovuto fare due settimane di 1° turno cioè di mattina, una di 2° turno e un'altra di notte. Il ritmo della sua giornata era serrato, però spesso a sera alle 23.30 o più tardi quando era arrivato a casa gli era preparata qualche sorpresina dai figli: trovava dei libri di matematica con degli esercizi assegnati da rifare perché la soluzione trovata non corrispondeva al risultato riportato sul libro. Per questo motivo il papà si metteva all'opera fino a oltre la mezzanotte, poi al mattino svegliava i figli e spiegava loro gli errori fatti. Questi ricopiavano gli esercizi e andavano felici a scuola. La vita di tutta la famiglia era di intensa attività, per ognuno di loro non c'era il pericolo della noia. I ragazzi andavano a scuola studiavano e si scatenavano a giuocare a pallone nel loro giardino, però aiutavano anche la mamma quando era molto occupata per il suo lavoro ed assistevano i nonni paterni quando non potevano farlo altri. Quando il Signore chiamò a sé prima la madre e poi il padre di Sossio non c'era più il motivo di rimanere a Frattamaggiore e con immensa sua gioia anche MariaCristina si costruì la casa sul suolo ereditato dai genitori. Pure la sua casa fu costruita dal cugino Mastro Peppe Minichino che già era stato il costruttore della sua prima palazzina, realizzata con solida struttura e armonia di linee. Costui aveva sempre un basco blu in testa come difesa dal freddo in inverno, protezione dal sole forte in estate e si spostava da un luogo all'altro rapido come una freccia su di una “fiammante” Vespa 50. Il progetto della casa fu una creazione dell'ingegnere frattese F. Schioppi e del valente geometra Nicola Cristiano. Durante l'esecuzione dei lavori di questa villa nacque un tale rapporto di reciproca affettuosa stima fra Sossio Mormile, marito della quinta cugina e l'imprenditore che questi lo chiamava suo socio, gli chiedeva consigli e poi lo esortava a non “scapezzarsi” per dargli con massima premura il dovuto; poteva prendersela più comodamente. Per questo rapporto di completa armonia Mastro Peppe e il figlio Nicola associato al padre nel lavoro e come il padre capace e onesto, chiesero a Sossio e MariaCristina di essere i testimoni di nozze al matrimonio fra Nicola e
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MariaGrazia, figlia di amici di lunga data. La richiesta fu accolta con sincero gradimento; questo nuovo rapporto aggiuntosi alla parentela ha reso il loro reciproco affetto più intenso e vivo nel trascorrere del tempo. Il 1976 MariaCristina andò ad abitare con la famiglia nella casa nuova che distava poco più di cento metri dalla casa dei genitori. Tutta la giornata stavano in compagnia Tammaro e Rosa poiché di mattina c'era con loro Sossio, al pomeriggio MariaCristina con i figli. Naturalmente erano frequenti le visite delle altre figlie, dei nipoti, dei generi che passavano a salutare appena fosse possibile, fra gli impegni di lavoro. Tutto ciò era molto bello: i nipoti, oltre a godersi i nonni a cui volevano molto bene, avevano l'opportunità di frequentare gli altri zii e cugini. Con la residenza a Grumo Nevano MariaCristina ebbe modo di rivedere il cugino Francesco Del Prete, figlio della sorella del padre Marianna, il quale abitava poco lontano ed aveva sposato una brava infermiera frattese cresciuta nello stesso rione di Sossio Mormile. Ciccio sentiva una specie di venerazione per le figlie di zio Tammaro che erano professoresse molto stimate. Cercava in ogni modo di rendersi utile con il suo lavoro: egli era un abile artigiano di utensili per la casa fatti di lamiera o di stagno, come bracieri e tiraggi, macchinette passa-pomodori per fare conserve in modo rapido ed efficiente, placche per la cottura di frutta nel forno o di taralli. Poiché zio Tammaro aveva un forno grande in muratura e di tanto in tanto zia Rosa con l'aiuto di Sossio preparava delle sorprese per figli e nipoti, Ciccio spontaneamente portava questi arnesi con un gesto affettuoso e rifiutava il compenso. Anche la moglie Lucia era di particolare affettuosità ed era presente in ogni occasione. Le cugine non erano da meno e cercavano di prodigarsi con le loro competenze. Ma il vantaggio grande non è andato ai figli di Ciccio, che erano più piccoli rispetto alle cugine, figlie di Giuseppe e Antonio, che sono state amorevolmente seguite da zia Assunta nel conseguimento del diploma magistrale e poi nella conquista della cattedra. Tutti i fratelli Del Prete erano affettuosi, rispettosi, lieti di comunicare con le figlie di zio Tammaro, ma Ciccio, che era il primo di quattro fratelli, si illuminava
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di gioia quando si tratteneva un poco con loro e mostrava grandissima ammirazione per la loro cultura, per le mete che avevano raggiunto. Le sofferenze di Tammaro erano indicibili, si vedeva ciò dal volto contratto dal dolore, dallo sforzo che faceva a camminare per andare al bagno. Il dolore alle costole era diminuito, ma le ulcere alle gambe si estendevano sempre di più e corrodevano i tessuti. Le medicazioni erano fatte perciò due volte al giorno ad evitare che insorgessero dei fenomeni infettivi. Ogni 15 giorni veniva il professore P., il quale verificava come stessero le piaghe e cambiava sempre la terapia, sperimentando ogni farmaco nuovo nella speranza che fosse più benefico per la patologia di cui soffriva Tammaro. Questo professore ammirava tanto il suo paziente per la forza d'animo con cui tollerava il dolore, per la sua serenità serafica con cui sorrideva sempre alle figlie, ai generi, ai nipoti, per la fede con cui non chiedeva a Dio e alla Madonna la sua guarigione, ma li ringraziava con devozione per gli immensi beni che gli avevano donato; le sofferenze fisiche non lo prostravano, ma le vedeva come una prova in cui egli doveva passare, perché aveva realizzato le mete più desiderabili: egli con Rosa era arrivato alla vecchiaia, aveva accompagnato all'altare le sette figlie, l'una dopo l'altra vestite di quel bianco che corrispondeva alla purezza del loro animo e all'integrità del loro corpo. Aveva dato sicurezza alla loro vita fornendo loro le ricchezze culturali e professionali che non vengono mai meno, ed infatti ognuna aveva raggiunto nel suo ruolo un prestigio che non è di tutti. La prima, Assunta che di sua libera scelta aveva rinunciato al lavoro pubblico, possedeva tesori di sapere per cui è stata conosciuta ed apprezzata ed ha potuto avviare verso la professione giovani indirizzati bene da lei con la sua capacità didattica, la multiforme cultura e il polso fermo per placare e dominare pure gli spiriti ribelli al dovere. La quarta, Giovanna volontariamente aveva voluto dedicarsi solo alla famiglia per scrollare del peso della gestione e della guida dei figli il marito Luigi Reccia, che si dedicava attivamente alla politica oltre che al suo lavoro, non per l'aspirazione a raggiungere le vette del potere e dell'arricchimento, ma per promuovere lo sviluppo civile ed
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economico del suo paese: Grumo Nevano. Fra i suoi impegni svariati e pressanti non avrebbe potuto occuparsi attivamente dei figli e seguirli nel modo giusto. Perciò Giovanna è stata per lui che l'adorava la compagna giusta; gli dava la completa serenità e gli consentiva di disporre del suo tempo nei vari impegni senza preoccupazione, sicchè egli più di una volta è stato scelto con “generale consenso” primo cittadino del Comune di Grumo Nevano. Anche questa soddisfazione aveva gratificato immensamente Tammaro Iavarone. Le sue aspettative sulle figlie si erano non solo attuate, ma anche in modo molto superiore a quello che egli stesso avrebbe sperato. Sopportando le sue sofferenze voleva elevare un inno di ringraziamento al Signore. Il prof. P. restava stupito quando parlava con quest'uomo; ascoltava le sue parole con vivo interesse; egli affermava di non aver mai conosciuto una persona di tanta ricchezza spirituale, tanto forte per amore dei suoi familiari, che non voleva contristare con i suoi lamenti; perciò egli fin dalla prima volta aveva rifiutato l'onorario, anzi gli portava sempre le sfogliatelle di Sgambati che gli piacevano molto. Le figlie gli facevano trovare confezioni di freschi ed ottimi latticini prodotti da una parente, che aveva un allevamento di bufale a Castelvolturno, Rosa gli preparava carciofi arrostiti, cotti in modo perfetto e conditi con olio di Oneglia e prezzemolo fresco del proprio giardino. Alla fine di dicembre 1976 le condizioni generali di salute ebbero un completo crollo; i colpi di tosse causavano forti dolori al torace. Le ulcere alle gambe peggioravano, comparve anche uno scompenso cardiaco più forte. Il prof. P. informò di ciò la famiglia, consigliando di dare da mangiare e da bere al proprio congiunto tutto quello che gli fosse gradito, aumentò gli antidolorifici in modo da consentirgli una qualità della vita di umana sopportabilità. Rosa disse a Tammaro che le sue condizioni erano migliorate per cui poteva bere un goccio del suo vino preferito ai pasti e consumare le frittelle di baccalà o di piccole alici che gli piacevano tanto; le fritture non gli facevano male più e non era giusto che si privasse di questo piacere. Nelle giornate riscaldate dal sole chiedeva di essere accompagnato in via Vivaldi dove c'erano le case di tre figlie
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e il palazzo di un'altra costruito nella sua terra, che era stata divisa in due parti dalla detta strada comunale; arrivato lì si fermava sulla panchina nel cortile della figlia Assunta adornato di tanti fiori, con alberi di agrumi superbi ricchi di frutta dorata; intorno a lui arrivavano sempre dei nipoti che gli facevano festa; qualche volta la figlia MariaCristina notava che gli scorrevano delle lacrime da sotto gli occhiali; queste non erano lacrime di dolore, ma di gioia. Egli all'aperto si faceva una fumatina con la pipa, scherzava con i nipoti, poi rimaneva ad osservare gli amici del genero Luigi che giocavano a bocce nel vialone fatto sul suolo di Silvia non ancora utilizzato per costruirvi; perciò trasformato in una specie di palestra con il permesso della proprietaria. Appena l'aria iniziava a farsi più fredda Tammaro era sollevato con ogni attenzione da due generi, riportato nella macchina per ritornare a casa. Quando il suo organismo era allo stremo della resistenza, ai primi di gennaio del 1977 riuscì ancora a lottare contro tutte le patologie, suscitando la meraviglia del medico; visse fino al 7 febbraio. Nella notte fra il 6 e 7 febbraio 1977 chiese da bere ad una figlia che gli era accanto: era sorridente e pronunciò: “E' ora, è ora” Rosa che era coricata con lui chiese alla figlia di vedere l'ora; il padre voleva sapere che ora fosse, ma in realtà egli aveva sentito che la sua vita stava per finire: era giunto al capolinea e voleva preparare al suo distacco la moglie e le figlie che lo assistevano. Queste si resero conto della realtà e chiamarono le altre, in pochi minuti arrivarono dal papà le figlie che abitavano a breve distanza; fu telefonato a Vittoria a Bolzano che arrivò con il marito e i figli in macchina al pomeriggio prima che egli spirasse. Dalle 2.30 della notte non parlava più, ma certamente capiva ancora, infatti gli si illuminavano gli occhi quando le figlie gli accarezzavano il volto, la fronte, come faceva lui quando le figlie non stavano bene. Appena gli fu accanto Vittoria con Italo e i figli fu certamente felicissimo: calde lacrime gli inondarono il volto, guardava con intensità i loro visi fece il gesto di stringere la mano del genero; egli era venuto in divisa perché alla telefonata rientrava dal servizio e non si era cambiato per aiutare Vittoria a prepararsi per
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la partenza. Ma Tammaro certamente si commosse a guardare il genero Italo con quella divisa di colonnello, forse voleva ringraziarlo; la sua mano sfiorò la mano di Italo e le venne meno la forza per stringerla; allora si spense il suo respiro, mentre i suoi occhi rimanevano ancora aperti rivolti a Vittoria e Italo, il quale assicuratosi che la vita non pulsava più in lui con un gesto amorevole gli abbassò le palpebre sulle pupille vitree. Il dolore di tutta la famiglia fu grande: allora Rosa, le figlie, i generi e nipoti non si lasciarono andare a quelle manifestazioni che sono consuete in queste evenienze nelle persone che si lasciano vincere dal dolore. Si armarono di forza morale, dedicarono al proprio congiunto le ultime cure, predisposero tutte le cose necessarie per onorarlo giustamente con un funerale corrispondente alla sua discrezione, alla semplicità di tutta la sua esistenza, ma con la più profonda partecipazione ad un momento solenne oltre che doloroso.
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32° CAPITOLO
L’eredità morale delle sorelle Iavarone Orgogliose di essere eredi di grandi valori umani, le figlie hanno messo in pratica i suoi insegnamenti nella educazione dei figli, nella gestione della vita familiare, nella serietà nel compimento del loro dovere, nella dedizione incondizionata ai più deboli nelle loro attività professionali. Per loro il papà non si è spento mai; è operante ancora la sua guida perché le parole dette da lui in momenti particolari della loro vita si erano fissate in loro come scolpite nella roccia. La figlia MariaCristina ha riscoperto e rivalutato le grandi qualità del padre attraverso il suo contatto con la cultura. Quando frequentava la quinta classe ginnasiale presso l'Istituto G. Garibaldi fece una triste esperienza: l'alunna con la migliore votazione doveva partecipare ad una cerimonia che si teneva al Maschio Angioino; gli allievi più bravi di tutti gli Istituti avrebbero ascoltato la conferenza di un noto esponente del mondo della cultura partenopea sui legami fra il mondo greco e la cultura napoletana; alla fine avrebbero ricevuto come premio un libro di mitologia greco-latina MariaCristina fu avvertita di questa cosa circa 10 giorni prima. Ne era elettrizzata e la madre per l'occasione le confezionò un bel vestito, le comprò le scarpe che si adattavano bene e perfino una borsetta. Il giorno precedente a questo evento culturale la segretaria del Garibaldi mandò a chiamare l'alunna Iavarone e le spiegò che facendo le graduatorie dei due anni scolastici toccava ad una compagna la partecipazione al congresso presso il Maschio Angioino. Ciò non era vero, ma poiché in quella occasione i giornalisti avrebbero scattato foto che sarebbero comparse sui giornali,, questo momento di celebrità si doveva concedere a chi veniva dalle “ginocchia di Giove” ed era destinata ad entrare nel firmamento dei grandi di Napoli. Quando ritornò in classe la compagna che aveva occupato il suo posto era assente; forse era andata a farsi bella in qualche studio di estetica oppure non era venuta - 177 -
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a scuola poiché non avrebbe avuto il coraggio di guardare MariaCristina Iavarone. Con la morte nel cuore ritornò a casa: i genitori vedendola bianca in viso e muta pensarono che avesse avuto qualche brutto voto e ne era rammaricata e preoccupata, stando alla fine dell'anno scolastico. Il padre con la sua solita tenerezza discreta le chiese che cosa la turbasse: MariaCristina raccontò il fatto. Tammaro le disse di non dispiacersi di una cosa brutta fatta da altri. Con la malvagità si possono acquistare dei beni; la via del male è più agevole di quella del bene, ma non può dare soddisfazione allo spirito. Certamente Valeria, favorita in modo aperto, non si sarebbe goduto il suo trionfo; ne avrebbe provato disagio in classe. Però ella doveva convincersi che nella vita non sempre vengono riconosciuti i meriti di una persona in un primo momento, ciononostante doveva essere contenta di sé e fiduciosa di arrivare alla meta desiderata nella sua vita, passando per una via difficile e aspra, che sarebbe diventata agevole e piana con il suo impegno e la sua serenità. Perciò nonostante quella delusione, non doveva desistere dalla ferma decisione di impegnarsi al massimo nello studio, e sarebbe stata premiata dalla vita. Un giorno una compagna di classe andò a studiare con lei perché aveva difficoltà in greco. Accanto al camino c'era Tammaro Iavarone che sonnecchiava o almeno così sembrava. Ma egli era sempre attento a vigilare sulle figlie e controllare le persone con cui stringessero amicizia. La compagna, lamentandosi di un'altra della classe che non aveva voluto studiare con lei, si espresse in questo modo: “io glielo devo dire proprio che è una “b.”. Il pensionato rimase stupito che dalla bocca di una ragazza di buona famiglia, studentessa di ginnasio, uscisse una tale parola di turpe volgarità, di cui MariaCristina ignorava il significato e perciò non se ne turbò. Un'altra volta disse che al professore di matematica avrebbe dato un “c.” in faccia se non le avesse messo un buon voto; al frasario “colorito” Concetta aggiungeva un aspetto trasandato e l'abitudine a tenere sempre in bocca gomme da masticare con cui faceva palloncini che crepandosi le lasciavano frammenti di gomma intorno alle labbra. I suoi libri erano sciupati e arricchiti di disegni pittoreschi, molto diffusi tra gli studenti che prendono i libri in mano non per studiare, ma per perdere tempo. Così dopo aver fatto un completo esame - 178 -
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a questo soggetto, avvertì la figlia di spezzare quell'amicizia; le avrebbe detto che il pomeriggio doveva aiutare i genitori ed avrebbe fatto i compiti di sera. Poi quando fossero finiti i suoi impegni con la famiglia avrebbero ripreso a studiare insieme. Con dolcezza, ma con fermezza Tammaro Iavarone disse alla figlia che non doveva praticare con persone di tale volgarità, doveva frequentare persone buone dalle quali avrebbe appreso buone regole di vita e si sarebbe arricchita spiritualmente; avendo a che fare con una persona sboccata, disordinata e volgare sarebbe scesa al suo livello gradualmente, avrebbe disperso quelle forme di vita impartite a lei nella famiglia come se un veleno si fosse insinuato lentamente in lei. La figlia riconobbe come giuste le osservazioni del padre e seguì i suoi consigli. Al primo Liceo MariaCristina studiando il programma di letteratura greca lesse dei passi di Esiodo, da cui fu molto colpita perché aveva rilevato che questo poeta del tempo antico diceva al fratello Perse delle cose che erano molto simili agli ammonimenti paterni. Infatti Esiodo diceva a Perse: “ facilmente tu con la malvagità puoi conquistare, anche abbondantemente, che la strada è agevole e posta assai vicino. Ma…. la via della virtù è lunga e difficile all'inizio, quando ne giunga alla fine si fa agevole. Le parole che aveva sentito dal padre erano espressione dei valori che non tramontano mai, fanno parte del patrimonio dell'umanità di ogni tempo. Più interessante fu per MariaCristina Iavarone leggere nelle elegie gnomiche del poeta Teognide dei versi rivolti da lui al discepolo Cirno: “ volendo il tuo bene ti darò questi precetti” “non accompagnarti ad uomini cattivi, ma tieniti sempre con i buoni…dai buoni, infatti, apprenderai il bene, ma se ti unisci ai cattivi, rovinerai anche la tua saggezza di ora”. I principi fondamentali della civiltà e della saggezza umana sono eterni e universali; non conoscono confini geografici, né tramontano attraverso le epoche: essi sono la voce della migliore coscienza, che obbedisce ai principi del bene, dell'onesto del giusto i quali possono esistere dovunque, anche nella coscienza fornita di una saggezza semplice e naturale come quella di Tammaro Iavarone, educato nella famiglia secondo quei precetti semplicistici, ma un po' spartani, trasmessi nelle - 179 -
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famiglie sane di generazione in generazione. Egli aveva a sua volta educato le figlie secondo regole alquanto restrittive, lasciando però a loro la libertà di scelta per i percorsi della propria vita: non avrebbe imposto ad alcuna delle figlie di studiare, se questa avesse avuto un interesse spiccato per un'attività lavorativa: aveva un comportamento moralmente ineccepibile verso tutta la famiglia e pretendeva che le figlie crescessero con questi principi fissati saldamente, qualsiasi professione avrebbero svolto, a qualsiasi lavoro si sarebbero dedicate. Anche Rosa era stata una valida educatrice. Anche lei vigilava con attenzione sulle amicizie delle figlie per sottrarle a cattive influenze. Preferiva che fossero loro ad invitare le compagne a trascorrere del tempo libero insieme, affinchè si rendesse conto della loro educazione. Spesso vedeva che delle bambine provenienti da famiglie umilissime avevano un'educazione ammirevole, mentre altre cresciute in ambiente socio-economico più elevato, avevano talvolta atteggiamenti di prepotenza e un linguaggio riprovevole. Perciò mamma Rosa aiutava le sue ragazze a selezionare le persone con cui praticare. Ella seguiva un precetto insito profondamente nella mentalità grumese: “Mettiti con chi è migliore di te e fagli le spese”, cioè scegli per amici persone migliori di te per i modi di vivere, per le qualità umane e culturali e sii generoso con loro. Perciò, quando faceva il pane, anche nelle ristrettezze del tempo di guerra Rosa faceva venire a giocare con le figlie le bambine più educate e buone, povere o benestanti, di condizione familiare di completo degrado oppure di livello più elevato del loro, ma senza comportamenti superbi. Allora ella preparava delle pagnotte profumate e croccanti e le offriva a loro appena sfornate. Talvolta delle bambine dicevano di non avere fame e di voler portar quel pane a casa. Allora Rosa capiva: prendeva un pezzo di pane caldo, vi spandeva sopra un po' di origano, una spolverata di sale fino, vi faceva scendere un filo di puro olio di oliva e le invitava a vedere come era buono. Durante l'estate, nonostante l'intensa attività lavorativa del campo, le sorelle Iavarone più grandi trascorrevano di tanto in tanto qualche pomeriggio, in genere al sabato, con amiche e compagne di classe, coinvolgendo in un insolito clima di armonia anche le piccoline. Queste ragazze erano felici nel vedere il giardino - 180 -
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di casa Iavarone come una specie di arca di Noè, con animali di ogni specie: maialini nel loro recinto riservato, nel cortile colombi che tubavano o beccavano briciole di cibo; oltre una rete nel giardino razzolavano galline dai lunghi bargigli, dalle creste graziose oppure galli superbi dalle bellissime penne che di tanto in tanto saltavano su qualche tronco ed emettevano il loro squillante “chicchirichì”. Oggetto di particolare attrazione erano i tacchini che di tanto in tanto facevano la ruota e sembravano pavoni, e le oche dalle immense ali che starnazzavano all'avvicinarsi di qualcuno o si levavano in volo come le anitre; le bambine elettrizzate le chiamavano le oche del Campidoglio. In un'altra sezione del giardino c'erano conigli stupendi di lana d'angora, dal lungo e candido pelo, allevati oltre che per la buona carne, anche per la pelliccia, la quale conciata serviva per farne cappottini, colletti, giacchine. Dopo che le bambine avevano giuocato alla campana o ad acchiapparello, si lavavano le mani e si trovavano davanti ampi piatti di terracotta pieni di frutta profumata su di un tavolo posto nel cortile. Pere, pesche prugne appena colte erano così belle che erano guardate da tutte con occhi scintillanti e poi erano consumate con infinito gradimento. Così le sorelle Iavarone, pur stando sempre sotto gli occhi del padre e della madre, erano cresciute fra le altre, erano venute su con carattere socievole, pronte alla comunicativa, capaci di discernere il bene e il male, di distinguere le compagne da tenete lontano da loro e quelle con cui legare. Un sabato pomeriggio del mese di ottobre mamma Rosa aveva fatto il pane e aveva preparato anche delle focacce di farina di mais condite con pezzetti di salame e di formaggio romano dette con termine contadino “tatielli”. C'era una riunione di ragazze a casa Iavarone perché alcune di diverse classi dovevano fare un cartellone che avrebbe rappresentato le varie fasi della vendemmia. MariaCristina e Giovanna potevano essere aiutate da Assunta e Grazia che erano già alle scuole superiori e invitarono le compagne interessate a casa loro. Una di loro chiese se poteva portare con lei il fratello che desiderava vedere da vicino dei cardi di castagne, di cui aveva parlato la maestra in classe. Questa avvertì - 181 -
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MariaCristina che il fratello era un vero “terremoto”, metteva in atto le cose più impensabili: era il tipico monello che “una ne faceva e cento ne pensava”. MariaCristina la rassicurò che sarebbe stato “un sorvegliato speciale” da parte della mamma. Alle 15.30 arrivò a casa Iavarone una schiera di bambine che Rosa già conosceva e un ragazzino biondo con occhi verdi e uno sguardo sfuggente e malizioso come certi bambini terribili che non sanno da dove cominciare per attivare le loro prodezze. Mamma Rosa offrì dei biscotti fatti da lei con farina e le buone uova delle galline di casa. Mentre venivano consumati i biscotti intorno ad un grande tavolo, andò a prendere una zuppiera di dolcissimi fichi colti in mattinata e messi nella piccola ghiacciaia di famiglia perché freschi fossero più saporiti. In pochi minuti la buona frutta scomparve; le ragazze liberarono il tavolo dai residui e si misero a lavorare con grande attenzione. Dopo il lavoro avrebbero consumato la focaccia. Mamma Rosa ricondusse il bambino nel giardino, prese un paniere e cominciò a raccogliere cardi caduti dall'alto albero svuotati dalle castagne ed altri aperti solo in parte sicchè si vedevano le castagne all'interno, già alla fine della fase di maturazione, ma queste non potevano cadere. Fortunato (il bambino prodigio) si interessava ad ogni cosa del tutto tranquillo e la sorella era lieta che non avesse compiuto nessuna diavoleria. Furono raccolte anche molte castagne da portare alla mamma perché gli facesse le lesse. La sorella era ancora intenta a disegnare la vendemmia; il bambino disse di volersi trattenere ancora un poco nel giardino a guardare le anitre che sguazzavano in una specie di laghetto e chiese un bicchiere di acqua a Rosa. La cucina era a tre metri di distanza da dove era Fortunato, per di più sembrava così preso dalla visione di queste anitre che prima si immergevano nell'acqua e poi con il becco si ripulivano di qualche foglia o pagliuzza che era restata attaccata alle penne. Ma ad un tratto un grosso tacchino, allevato per il pranzo di Natale iniziò a gluglugliare e a fare la ruota con le splendide penne della coda e delle ali. Allora Fortunato con gesto repentino -come si suppone- tirò dalla tasca una piccola girandola natalizia che, dopo averne tirata la molla, faceva scintille e la lanciò - 182 -
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sul tacchino, le cui penne presero fuoco in un attimo. L'animale spiccò il volo per il dolore delle bruciature e restato senza penne rimase impigliato fra i rami di un grande albero. Mamma Rosa uscendo dalla cucina con il bicchiere di acqua vide il tacchino trasformato in una torcia che si levava in alto. Restò così colpita dalla scena che le cadde di mano il bicchiere. Andò subito in soccorso del malcapitato, che era tutto spaurito; lo prese, finì di spegnere calami e rachidi, lo depose in un cesto e prese della crema per le scottature per medicarlo. Il tacchino sopravvisse, ma sulle bruciature si formarono delle croste che erano un po' impressionanti a vedersi. Quando si presentò questo spettacolo imprevisto le bambine si sviscerarono dalle risate; il piccolo demonio mostrava una faccia rammaricata, ma si capiva che si era divertito un mondo. Rosa era furibonda verso se stessa perché aveva sottovalutato le potenzialità di Fortunato con i suoi occhi del colore del mare in tempesta. Forse perché aveva davanti figlie anche vivaci, ma mansuete, non aveva idea delle imprese gloriose che sanno compiere i maschietti. Poi nel guardare quel povero tacchino che non sapeva che cosa gli fosse accaduto e stava con la testa appoggiata sull'orlo della cesta come se facesse fatica a reggerla, si mise a ridere anche lei e pensò che per una cosa tanto insolita si dovevano fare i numeri cioè si doveva giuocare al banco lotto. Furono giuocati tre numeri per ambo e terno per la ruota di Napoli, i quali indicavano nella smorfia napoletana: il bambino, il fuoco, il pollo. La giuocata fu effettuata il lunedì successivo a quel famoso sabato con la posta di £. 20, il che era molto, ma tutti affermarono che ne valeva la pena. Quella settimana ci fu un solo ambo sulla ruota di Napoli e la vincita fu di £. 120: uscirono i numeri che indicavano il bambino e il fuoco. I coniugi Iavarone ne furono felici e decisero di festeggiare l'avvenimento con tutto il gruppo di bambine, compreso il piccolo piromane. Rosa fece un forno di pizze al pomodoro, insaporite con origano e basilico fresco del giardino. Il povero tacchino fu curato finchè si staccarono anche le croste delle bruciature, ma sulle cicatrici dove la pelle era scomparsa non ricrebbero le penne e la bestia così ridotta faceva proprio pena; inoltre le galline continuamente
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gli si avvicinavano e lo riempivano di beccate. Alla vigilia di Natale il povero tacchino chiuse la vita umiliante con il collo tirato. Fu cucinato in brodo per condire la minestra di cicorie del pranzo natalizio. Alla mattina di Natale il pollo era cotto; le cicorie erano già state pulite e bollite, ma la schiera delle sorelle Iavarone affermò con decisione che nessuna avrebbe toccato quella carne. Tutte erano più propense a digiunare che a toccare quella carne. Il papà cercò di farle ragionare, ma furono tutte irremovibili. In tal caso il pentolone con tacchino e cicorie fu portato al Mendicicomio, convento di suore degli Angeli, che ospitava vecchi poveri e senza famiglia. Il dono fu graditissimo e permise un banchetto natalizio davvero lauto alle suore e ai loro ospiti poiché il tacchino pulito pesava circa quattro chili. Però nessuno mai ha saputo il perché fosse stato preparato dalla famiglia Iavarone quel pranzo particolare; qualcuna delle suore pensò che era stata un'offerta ai poveri per grazia ricevuta. Le sorelle Iavarone hanno trovato nella madre comprensione nei loro problemi, sono state da lei sorrette nella difficoltà e nelle amarezze, incoraggiate nei momenti che precedevano esami difficili e importanti, ma su certe cose era inflessibile ad esempio: non si rendeva conto che le ragazze crescendo avevano pure bisogno di una certa evasione dalla vita quotidiana; almeno qualche volta avrebbero voluto averla come complice in qualche lieve trasgressione, tipica dell'adolescenza e della giovinezza, ma ella non accettava di concedere qualsiasi cosa le figlie volessero senza dirlo al papà. Qualche volta queste ricevevano l'invito a qualche festa dalle compagne di scuola, chiedevano alla mamma di aiutarle con il papà ad inventare insieme qualche pretesto per farle stare fuori un pomeriggio. Poiché era pienamente approvata la partecipazione a cerimonie religiose oppure alle attività della parrocchia, pregavano la mamma di informare il papà che in un certo giorno ci sarebbe stato alla canonica un incontro fra le ragazze dell'Azione cattolica. Ma la proposta non era mai accettata e ciò suscitava un certo malumore, che poi doveva passare. Nella vita familiare Tammaro e Rosa hanno portato avanti le figlie con un'intesa perfetta fra loro; queste consideravano la madre
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come un'amica, una sorella maggiore con la quale spesso facevano delle proteste, contro la quale promuovevano delle ribellioni di tanto in tanto, ma il padre era la figura ieratica a cui guardavano,era il punto fermo a cui facevano sempre riferimento con piena fiducia di trovare in lui la guida giusta. Per le figlie di Tammaro Iavarone è sacro quel lembo di terra benedetta da Dio, che è stata il fulcro delle loro energie, l'elemento unificante dei loro ideali, lo stimolo a trarne risorse di vita il più possibile, che ha suscitato in loro il senso della più vigorosa dignità e lo slancio a difenderla quando mani adunche volevano strappargliela. Alcuni anni dopo la scomparsa di papà Tammaro e mamma Rosa anche la sesta figlia: Silvia decise con il marito Carmine Cimmino di costruire la casa per i suoi figli nella terra donata da loro, di fronte alla villa di Giovanna e Luigi Reccia, abitata attualmente dai figli Antonio, Vittorio e Pasqua con le loro armoniose famiglie. Ad angolo fra via Cilea e via Vivaldi si erge uno stabile con la struttura di un maniero e l'elegante bellezza di una villa, che ha intorno a sé tanto verde con agrumeti che purificano l'aria tutto l'anno con l'ossigeno che emanano e offrono frutta che resiste fino a tutta l'estate. In un appartamento di questa solida e bella costruzione vive un carissimo nipote dei coniugi Iavarone: Ciccio Cimmino con Rossella D'Angelo, i quali sono allietati dal sorriso di due Stelline: Silvia e Antonia, le quali mostrano chiaramente con i loro caratteri che nel loro D.N.A. c'è anche l'eredità Iavarone.
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Silvia e Antonia Cimmino figlia di Ciccio e di Rossella Dâ&#x20AC;&#x2122;Angelo agosto 2007 - 186 -
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33° CAPITOLO
Care rievocazioni Ognuna delle sorelle Iavarone nella propria rispettiva casa sente aleggiare il respiro dei genitori, ne avverte la presenza e trae dal loro esempio la forza per affrontare tutti i marosi della vita, cercando di arrivare all'approdo senza cozzare contro le aguzze scogliere. Due umili creature hanno messo al mondo sette figlie concependo su di loro progetti della cui effettiva difficoltà forse non si rendevano conto: tenere agli studi sette figlie era un disegno audace per i mezzi economici disponibili, alquanto esigui, per i disagi della guerra e del dopoguerra, per la necessità di frequentare le scuole nella citta-capoluogo. Ma il più grande atto di coraggio di Tammaro e Rosa è stato quello di superare i comuni pregiudizi nel programmare l'avvenire delle loro figlie; questi genitori non si sono preoccupati di comprare per le figlie che crescevano lenzuola e camicie, ma libri; libri scolastici e ricreativi. I mobili che andavano ad arricchire l'arredamento modesto di casa Iavarone erano librerie. Ciò suscitava lo stupore di chi frequentava la casa o per rapporti di parentela o di lavoro e qualcuno mostrava un atteggiamento di compatimento verso Tammaro e Rosa come se essi per il dispiacere di avere un esercito di femmine da sistemare, con scarsi mezzi economici, fossero impazziti e facessero cose strane. Una buona donna, che pensava ai fatti suoi e voleva sembrare angelo benefico delle sorelle Iavarone, offriva a Rosa la possibilità di comprare corredi e gioielli da lei, venditrice clandestina, con pagamento rateale cioè “a paghe” settimanali come si diceva nella lingua di gergo. Le fu risposto che da quei libri che si vedevano in ogni ambiente della casa sarebbero usciti i corredi di biancheria e di gioielli al momento opportuno. Questa risposta sibillina confermò l'idea che Rosa e Tammaro non ci stessero più con la testa. Essi, invece di tenersi le figlie a casa come tutte le ragazze, le
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mandavano “sperte” (lontano da casa) e certamente prima o dopo avrebbero fatto qualche cattiva esperienza. Se qualcuna “si fosse rotte le gambe” cioè fosse scappata di casa con qualche ragazzo rimanendo incinta, essi non avrebbero avuto la possibilità di “aggiustare le cose” perché non avevano neppure un lenzuolo da parte, né soldi. Quando una persona particolarmente pettegola si prese la briga di riportare queste voci a Rosa, perchè aveva bisogno di una certa cosa e voleva averla bendisposta, questa le rispose: “coscienza e danaro non si sa chi ne ha”. Le figlie avevano le loro doti inesauribili e sapevano camminare bene, per cui non mettevano i piedi sulla strada ghiacciata che era sdrucciolevole e vi potevano cadere; se ne stavano lontano. Qualche altra “anima pia” consigliava di far studiare solo qualcuna e mandare le altre a lavorare; a Nevano c'era il maglificio dei fratelli “Baccini” dove le lavoratrici erano pagate bene ed erano trattate con molto rispetto, ma tutto ciò non scalfiva la ferma determinazione dei coniugi Iavarone. Le figlie dovevano studiare tutte, poi ciascuna avrebbe preso nella sua vita il percorso che ritenesse giusto. Essi, nelle loro decisioni, “stavano come torre ferma, che non crolla, già mai la cima per soffiar di venti” fra la malignità infida di un ambiente in cui si sapeva concepire solo il male di chi aspirava ad una promozione umana e sociale. Il desiderio di progresso di una famiglia era un'utopia per certi Grumesi; essi forse avevano appreso la concezione tragica della vita di G. Verga per il quale ogni individuo si vedeva “condannato ad una condizione di immobilismo socio-economico e chi cercasse di uscire dalla condizione in cui il destino lo avesse posto non avrebbe trovato il miglioramento sognato, ma immancabilmente sarebbe andato incontro a sofferenze maggiori”. I membri della famiglia Iavarone non erano seguaci del pessimismo veristico, ma dell'ottimismo rinascimentale per cui essi erano convinti che la vita dell'individuo non fosse regolata da un rigido determinismo, da un oscuro fatalismo, ma dalla sua capacità di gestirla, perché l'uomo è il solo arbitro della sua sorte, l'artefice del proprio bene operando con intelligenza e costante impegno del proprio male lasciandosi guidare dagli impulsi peggiori nell'azione, oppure rinunciando ad operare per
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ignavia. Durante la veglia funebre le figlie pregavano per l'anima del padre con fede, ma nello stesso tempo di tanto in tanto ricordavano momenti della sua vita e si sentivano un raggio di sole nel cuore: un giorno la figlia MariaCristina era andata in una salumeria che era a poca distanza da casa Iavarone a comprare del provolone Auricchio piccante. La signora disse di non averlo e consigliava di comprare un altro tipo di formaggio; ma questa spiegò che doveva regalarlo e la persona a cui era destinato gradiva solo quel tipo. Poiché questa figlia somigliava molto al padre, un anziano di nome “Peppe u' parente” che era colà le chiese: “ma voi siete forse na' figlia e Tammariello u' carabiniere?” MariaCristina rispose di sì; egli sorrise e raccontò che più di 30 anni prima era stato chiamato da lui ad abbattere degli alberi; tagliarne i tronchi e fare delle fascine per il forno con le chiome di questi. Il lavoro durò una settimana; il lunedì Tammaro gli diede 30 lire in acconto e poi disse che avrebbe regolato tutto il sabato. Finito il lavoro nella mattinata di quel sabato, Peppe rastrellò la terra per raccogliere le foglie e bruciarle. Al tramonto Tammaro gli portò una bottiglia del suo vino “piedi rosso” dicendo: “ te lo bevi con tua moglie alla mia salute, per far assaggiare anche a lei il vino che tu hai bevuto qua”. Poi gli chiese le spettanze del suo lavoro. Peppe disse che egli si prendeva 12 lire” al giorno per quel lavoro. Tammaro sorpreso gli richiese: “ quanto ti devo dare per il tuo lavoro?” Il lavoratore si mostrò mortificato e ribattè che egli chiedeva “12 lire”, perché tutti i padroni volevano sempre risparmiare ed egli diceva qualche cosa in più sui soldi che voleva, perciò gli poteva pagare pure il suo lavoro a £.10 al giorno, così gli doveva dare altre £.30 a saldo. Tammaro ancora più meravigliato gli chiese: “tua moglie fa qualche lavoro?” Peppe rispose di no perché avevano cinque figli tutti piccoli e non poteva andare a lavorare in campagna, qualche volta cambiava colli alle camicie per uomini, faceva degli aggiusti ai vestiti di persone amiche e si guadagnava qualcosa rimanendo a casa per le esigenze della famiglia. Tammaro con uno sguardo severo lo fissò e Peppe cominciò a temere che egli invece dei soldi gli volesse dare botte,
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essendo piccolo di statura guardava quel gigante con spavento, ma questi subito lo rassicurò dicendo: “con dieci lire al giorno, che cosa fai mangiare a tua moglie e i tuoi figli? Io te ne voglio dare 15”. Così aprì il portafogli ne prese 6 monete di £.10 e gliele diede. Questa esperienza gli aveva fatto sentire per quest'uomo una venerazione e da quel giorno ogni volta che lo chiamava a fare del lavoro, ci andava subito, non solo perché lo pagava bene, ma per stare vicino ad una persona così buona. Le sette figlie non sono state sempre degli angeli del “settimo cielo”, tuttavia nei loro errori non avevano trovato davanti a sé un padre duro, pronto ad infierire su chi avesse sbagliato, ma un educatore di grande umanità e con le idee chiare nella distinzione fra il bene e il male, fra ciò che si deve fare, ciò che si può fare e ciò che non si deve assolutamente fare. Egli davanti agli errori delle figlie provava più dispiacere che ira. Perciò i suoi insegnamenti scendevano nel profondo dell'animo: erano la linfa vitale del loro essere. Con il suo aspetto burbero e la sua statura gigantesca suscitava timore in chi aveva a che fare con lui, ma nel suo cuore vi era sempre una bontà infinita, la limpida semplicità di un bambino innocente, umana comprensione per i casi di chiunque si rivolgesse a lui. Le figlie ricordano un altro episodio accaduto a casa di Tammaro Iavarone. Questi ordinava ogni anno nel mese di agosto un paio di stivaletti per l'inverno ed un paio di scarpe per l'estate ad un mastro calzolaio di Cesa, il quale con la sua carrozzella ad agosto passava per i clienti, prendeva le misure e poi ripassava per le consegne; a settembre consegnava gli stivaletti e nella settimana che precedeva la Pasqua consegnava le scarpe estive. All'ordinazione prendeva del denaro in acconto e alla consegna c'era il saldo dell'opera eseguita. Il “Mastro” di Cesa si ammalò un anno e morì nel mese di giugno, lasciando al figlio l'elenco delle consegne da fare con il lavoro da ultimare. La prima domenica di settembre l'artigiano venne a consegnare gli stivaletti a Tammaro Iavarone, come faceva il padre; però egli non sapeva il costo che chiedeva il padre; allora per assicurarsi il buon cliente, fece il lavoro come lo faceva il padre con il quale aveva collaborato
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fin da bambino e chiese un prezzo che corrispondeva al costo del materiale usato con un'aggiunta modesta per il suo lavoro. Perciò Tammaro misurò le calzature, le trovò perfette e ne chiese il costo, perché il padre di anno in anno aumentava un po' il prezzo se i pellami costavano di più. Il calzolaio gli chiese £.6500, aveva dato al padre £.2.500 all'ordine e gli doveva altre £.4.000. Tammaro rispose: “ che cosa hai detto?”, ti devo dare veramente £.4.000 per questi stivaletti? Ma dimmi, tu hai usato la pelle di capretto come tuo padre e la suola bovina?” quello rispose: “sissignore”. Poi pensando che il pensionato considerasse il prezzo troppo alto, disse con tono dimesso e quasi spaurito, che egli aveva fatto quel lavoro per lui per segnalazione del padre; non poteva dare ad un altro quegli stivaletti perché erano di numero 46 e difficilmente si trovano persone con quel numero, perciò lo pregava di prenderseli e dargli quello che ritenesse giusto. Tammaro gli rispose che se erano fatti di pelle di capretto e suola di buona qualità non potevano costare meno di £. 7.500, perché non gli risultava che le materie prime delle calzature dall'anno precedente avessero abbassato il costo; se l'anno precedente aveva pagato £7.500, si aspettava di pagare qualcosa in più, non addirittura £1.000 in meno. Quel giovane rimase senza parola, fece il gesto di baciargli la mano, ma Tammaro se la tirò e gliela battè sulla spalla con l'augurio di continuare l'attività paterna con buon profitto, anzi ampliandola e migliorandola. Tammaro Iavarone non era generoso perchè nuotasse nell'oro, ma per la sua onestà, per la sua magnanimità, infatti nella sua famiglia il danaro non arrivava a fiumi, ma a gocce e sempre a stento adeguato alla necessità, tuttavia egli aveva un grande rispetto per la dignità umana di chi faceva del lavoro per lui. Con le entrate esigue della famiglia si cercava di risparmiare su tutto per sbarcare il lunario; quando si realizzavano buoni guadagni con i prodotti della terra si conservava gran parte del danaro e quando si programmava qualcosa di nuovo ed occorreva spenderne Tammaro e Rosa “prendevano cento misure prima di operare un taglio”. Questo Grumese ha condotto la vita di un missionario e di un carabiniere animato
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di spirito di abnegazione, con il rispetto della divisa che aveva indossato per 25 anni, continuando ad onorarla quando era in pensione perché ne sentiva la sacralità nel cuore. Ogni volta che era spettatore di qualche rissa interveniva e con poderoso colpo assestato con oculatezza poneva fine al match e tratteneva il più bellicoso con le sue braccia poderose per consentire ad altri di allontanarsi senza pericolo di un secondo round. Poi aggiungeva la sua opera di persuasione che la violenza è il mezzo peggiore per risolvere problemi. Se vedeva un anziano burlato o maltrattato ne prendeva le immediate difese “accarezzando con i suoi stivaletti a punta n° 46” il sedere di qualche giovinastro. Non gli mancavano minacce, ma egli non aveva alcuna paura. D'altra parte quando qualcuno invocava la protezione dei genitori contro le iniziative di Tammaro Iavarone era condotto da lui a chiedere scusa e promettere di non fare mai più quello per cui si era presa la pedata. Pure quando era vecchio e debilitato non aveva esitato ad affrontare quella bestia immonda che aveva intenzione di sfogare le sue ignobili perversioni su di “un tenero fiorellino appena sbocciato”. Per questa sua azione si era abbreviata la vita e aveva subito per due anni atroci patiboli, prima di morire. Anche in questo caso il parroco don Pasquale Mormile insisteva che i genitori della bambina dovevano sapere chi l'aveva salvata, ma Tammaro Iavarone non volle sia per non sconvolgere la bambina, la quale nell'innocenza non aveva capito nulla, né avrebbe potuto capirlo a meno di otto anni, sia ad evitare uno sconvolgimento ai genitori che avevano quella sola figlia vigilata in modo particolare, allora affidata momentaneamente a delle zie che abitavano vicino al palazzo in costruzione e alla cui attenzione era temporaneamente sfuggita. I bambini sono imprevedibili e possono cacciarsi nei pericoli senza rendersene conto in un attimo di distrazione dei grandi, adescati con i mezzi e i modi adottati da qualche spregevole “lupo mannaro”. Però Tammaro Iavarone fece chiamare da lui il maresciallo dei carabinieri e gli denunciò il fatto, affinchè si mandassero dei carabinieri in borghese a girare per i campi e alla periferia del paese nelle ore in cui non ci fossero persone a lavorare come nel primo pomeriggio
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assolato, quando le campagne erano deserte; certamente l'avrebbero colto in flagranza di colpa perché si notava un tipo strano girare per le campagne di Grumo Nevano. Prima o poi si sarebbero eliminati dei pericoli per i bambini arrestandolo. Dopo qualche mese la “ vile iena” fu sorpresa con un bambino per mano che andava verso un campo di mais nei pressi di uno scolo di acqua piovana detto “cupa di S. Antimo”. I due carabinieri di servizio vestiti come due braccianti agricoli fingevano di tirare erba in un campo di fagioli senza curarsi minimamente di lui che passava. Egli dicendo al bambino che il papà voleva fargli vedere una volpicina che aveva catturato in un campo verso la stazione, si inoltrò fra i filari di piante di mais che superavano la sua altezza. I carabinieri si avvicinavano cauti pronti ad intervenire appena fosse il momento. Ad un tratto il bambino fu da lui denudato ed era tenuto con una mano stretta sulla bocca affinchè non gridasse; ambedue si lanciarono contro di lui, gli misero le manette e gli fecero fare una bella passeggiata con loro fino alla caserma. Ci sono tante persone che compiono atti di eroismo ed è tributato loro il giusto plauso, il riconoscimento pubblico dovuto : costoro sono ricordati con gratitudine da quelli che sono stati testimoni della loro prodezza e da quelli che ne hanno avuto notizia. Ma accanto a tante persone decorate per meriti nel mondo del lavoro o per pubblica utilità ci sono gli eroi silenziosi, perciò sconosciuti, i quali hanno messo a repentaglio la loro vita per proteggere gli altri al di fuori di ogni loro convenienza e al di fuori della loro funzione, cioè non spinti dagli obblighi di una divisa, ma indotti solo da senso civico, da uno slancio del cuore quando avrebbero avuto mille giustificazioni della loro impossibilità d'azione in casi particolari. Tammaro Iavarone ha compiuto imprese eroiche durante i venticinque anni di servizio con la divisa di carabiniere; allora egli svolgeva il suo dovere e agiva da uomo pieno di coraggio con chiara intelligenza, e da valoroso difensore della legge per la funzione che svolgeva. Ma egli è da riconoscere un vero eroe di Grumo Nevano perché con fermezza incrollabile ha subito le persecuzioni
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atroci del partito fascista grumese rifiutando sempre di essere strumento di violenza; in conseguenza di ciò è stato privato della gioia di essere padre di un figlio maschio, tanto a lungo desiderato, finalmente vicino alla nascita. Inoltre a suo unico rischio in età già avanzata si è prodigato per il bene pubblico e ne ha pagato il fio, arrecando a se stesso penose sofferenze e tanto dolore ai familiari. I suoi casi: l'incidente del cavallo imbizzarrito e l'intervento contro il vile pedofilo con le loro conseguenze drammatiche coinvolsero tutta la famiglia, la quale nel riserbo più completo visse i suoi drammi per rispettare la volontà del proprio caro. Perciò sarebbe ingiusto che i Grumesi non sapessero quale grande spirito ha palpitato nel cuore di un uomo nato dalla loro terra, anche se è stato un oscuro figlio del popolo, un umile appuntato dei carabinieri.
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Un pade eccezionale Tammaro Iavarone Con lo sguardo severo, ma buono gran tenerezza per le figlie mostrava; per la sua mole un gigante parea a vederlo timore destava. A lui nulla sfuggire potea; delle figlie pure i pensieri capiva con dolce piglio a parlar le induceva quando a loro nel cuore il dolore pulsava. Attento, profondo, le giuste parole trovare sapea e fiducia ridava. Le sette sue bimbe poi donne mature negli aspri della vita meandri,
A lui appoggiate si sono, forza traendo per il bene seguire della vita in ogni percorso certe di non sbagliare sentiero quando un bivio avanti si apriva. Dopo il suo terreno cammino la funzione di padre cessata non è la sua guida esse ancor senton sicura, le parole nel cuore fissate forte stimolo sono. Quando dure, amare esperienze colpite le hanno, pur ignare della vita in insidiose strettoie, non si sono smarrite giammai.
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La sua mano poderosa pronta è arrivata a dar forza gli scogli aguzzi sono stati aggirati col sostegno di esperto nocchiero. Ogni volta che le figlie il dolore ha turbato vinte non si sono mai mostrate perché a loro il coraggio e la fede ha trasmesso un padre, qual rupe da vento invano sferzata. È sempre presente un tal padre, finchè nella luce di Dio in un unico amplesso d'amore le stringerà tutte al suo cuore.
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Rosa Mele allâ&#x20AC;&#x2122;etĂ di 79 anni 1978
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A mia Madre Rosa Fiera in cuore come solida roccia, buona sei stata quale angelo pio non solo per le creature dal tuo seno sbocciate. Come di classica bellezza figura divina, hai sempre avuto soffuso di amore il tuo volto in una luce che dava ognor sicurezza. La lotta pur dura per arrivare alla meta auspicata, non ti molcea per nulla la tenacia interiore. Il pesante fardello premeva, era incerto il futuro. Ma tu alle tue bimbe la pena segreta celavi, non volevi il loro fiducioso sorriso turbare; ma anche nella piĂš nera bufera non ti smarrivi. Non ti smontava il soffrir della guerra i disagi, dando a noi figlie del ben sicuro certezza come premio al sano continuo operare. Della sorte la mano con i suoi colpi talvolta ha infierito, in te hai serrato l'affanno, serena sempre per noi, ma con chiarezza ricordo nel tuo sguardo un velo. Debolezza non avevi quale quercia annosa, al furore dei venti incrollabile esposta. Noi felici eravamo perchĂŠ niente temer si potea. Tu mamma, invero fulgida Rosa, a sorreggerci sempre pronta sei stata pien d'amore nel sottrarci della vita ai perigli.
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Abbiamo colto della vita ardui traguardi, con la tua guida, di intelligenza ed energia fornita, non di dolcezza priva, anche in taluni momenti. Quando degli studi il buon frutto non arrideva Il nostro cuore una dura morsa stringeva Ma tu il coraggio infondevi che il sole sarebbe risorto. Quando della famiglia la messe cresceva, e di nipoti una cerchia di gioia t'inondava un'ignota tenera luce nei tuoi occhi brillava. Con questo volto divinamente trasfigurato, voglio per sempre in mente tenerti cara,forte,amabile madre. Tua figlia MariaCristina
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Giovanna: una donna a cui si addice il suo nome Da piccina tanto amava le fiabe con il suo fantasioso pensare un lieto futuro sognava. Nel cielo trapunto di stelle vedeva sempre il reale, il bello della vita toccare voleva, senza tanto penare tendeva le sue mete a toccare. Nel concreto quotidiano il fiabesco non veniva mai meno. Il suo vivo riflesso le inondava lo sguardo: nei suoi occhi sempre vivida luce splendeva La scuola campo di giochi le appare. Lo studio quale impegno gravoso non aderisce di certo al suo cuore. Solo il bello ne vuole assorbire non tutto gradimento le dà, pur tuttavia non ignora il dovere Le è stato istillato profondo con le gocce del latte materno con lo sguardo eloquente del suo severo papà. Il bello stimolo dolce le dà a tante cose creare,
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impulso a nuovi incanti trovare. Come luminosa giornata è lieta sua vita. Dalle abili e sicure sue mani son resi sempre prodigi e qualsiasi cosa si volga. È arte stupenda tutto quello che fa sia vada ai fornelli sia realizzi un modello sono certo di fata le sue mani pregiate. Un giorno le appare l'amore: la fiaba tanto sognata finalmente si avvera. Giovanna allora “di grazia piena” a tutti appare davvero. Di bellezza giovanil fiorente, i neri occhi stellanti in un nuovo sentiero sì felice si avvia. La vita di sposa qual ella voleva le arride; un lieto percorso in un mondo incantato L'innocenza infantil le rimane sul suo bel viso stampata Anche il volger veloce degli anni della nuova sua vita non cancella dal suo sguardo l'ingenuo consueto candore, non va a dissipare della sua fiaba l'incanto - 202 -
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Ma quando dei problemi il fardello si fa da lei pur sentire Giovanna repente con ferma mano sa afferrare le briglie, da lei il carro che vacilla verso il giusto corso è guidato. Pronta, tenace, accorta nulla sfugge al suo sguardo. Emerge forte la donna la moglie, la mamma una impavida, ferrea, ma tenera madre. La sua barca fiera conduce verso l'approdo sicuro. Spuntato di nuovo il sereno Sul suo volto ritorna il sorriso. Per la gioiosa di nipoti nidiata è sempre dolce ed attiva; tante leccornie sa inventare a lor sempre gradite del suo amore condite. Grande è stata Giovanna Se stessa non solo ai suoi figli ma pure ad ognuno ha donato Il vuoto triste da lei lasciato giammai da alcunché sarà colmato Tutta passa, si dissolve ogni cosa nel fluire della nostra esistenza. Gli affetti più cari sono più crudelmente strappati il cui ricordo perenne nel rimpianto acuisce il dolore Può solo venirlo a lenire - 203 -
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La speranza un'intensa speranza che dal Cielo ancora sorrida, che vicino ai suoi cari non cessi mai di stare.
MariaCristina Iavarone
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Silvia, dolce Silvia. In un corpo forte qual roccia di grande vigore fornito energie sprigionare sapea qual vulcano inesaurito Nessuna fatica turbarla potea Di mente chiara, salda nel cuore tanta avea nel creare inventiva quanta gli altri felici rendesse. La sua dolcezza infinita quale fresca linfa argentina Consolante da lei scaturiva per gioia donare sicura a chi smarrito annaspava nell'acqua dai marosi sbattuta L'amore le pulsava di dentro non solo per i suoi inondare su tutti era pronta a versare. Un alone di pace serena sua vita segnava intensa sempre di bene pregnante Qual figlia ideale non solo il sentiero indicato prendeva oltre andava con il suo radioso sorriso. Ben operava della fatica sprezzante superando talvolta di un uomo la forza. Neanche un pino la smontava vi saliva, fiera della cima raggiunta. Spesso il padre compiaciuto rideva poi pronto con orgoglio paterno aggiungeva: “Silvia non conosce perigli” l'oggetto del suo vivo interesse “in cielo può stare, lo prenderà”
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Generosa, ad ogni richiesta disposta con slancio umano appagare donava di certo due volte con il suo discreto donare. Nella vita di sposa e di madre Angel tutelare s'è mostrata Effondendo i tesori del suo cuore Sul marito diletto, sui figli Sì teneramente amati, verso il bene e il bello guidati. Ma poi arrivò la bufera, un'aspra, violenta bufera i raggi del sole oscurati hanno spento il suo dolce sorriso; una scia di immane dolore cader lasciando di gran pianto le stille ha travolto le cose più belle. Sul campo prima di fiori ridente Una coltre di ghiaccio è discesa. E triste, diafano appare il suo viso Pur dalla gloria del Paradiso. Nel suo cuore di mamma dal dolore trafitta si sente; la ruota che cruda travolge tutto il suo amore fermare non può. Nel sentiero irto di spine l'andar su troppo duro di giorno in giorno si fa. Il cammino è sempre in salita un'impervia, scoscesa salita tregua ai suoi cari non dà Di Silvia la luce dal ciel non si spegne. Vuole ancora chiarore portare - 206 -
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dove si addensan i nembi. Il dolore ritorna a pulsare un pianto cocente, copioso scende dagli occhi arrossati ad i volti dei cari inondare La sventura, sì, ritorna. Il sole che spuntare parea si offusca, scompare. Silvia, adorata creatura le sue tenere braccia distende, ma afferrare non può un angel che un volo si leva per unirsi per sempre alla mamma e al suo papà. Silvia, la dolce Silvia, quale stella i sentieri rischiara fa che negli aspri dirupi di tanta pena sorgente ritorni del sole la luce sicchè sempre sereno sia il viso di chi anela all'amore al dolce amore fraterno di tutti il più sacro valore. Risplende negli occhi innocenti Di tre bimbe stupende fiori olezzanti da un abisso di dolore spuntati per la gioia nei cuori riportare riaccender la speme che il bello ancora rinasca della vita ritorni il fulgor.
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Appendice Sono trascorsi trentatrè anni dalla scomparsa di Tammaro Iavarone e il suo habitus di vita è evidente nelle due generazioni derivate da lui. Le figlie e i nipoti hanno impresso in sè l’impronta chiara della sua profonda spiritualità, cosa che considerano la parte piùbella e più preziosa della sua eredità. La modestia, l’umiltà dignitosa e fiera, la dedizione attenta e amoevole alla famiglia, l’umanità l’instancabilità al lavoro, l’amore per la cultura sono fattori diversamente variegati ma presenti in ogni discendente di Tammaro Iavarone. Pur con il passar degli anni il messaggio lasciato alle figlie è stato vivamente operante. Ognuna di loro ha coltivato la memoria del padre con riverenza, ha dedicato sempre amore e rispetto alla madre sopravvissuta a lui per sette anni ma esse non sono riuscite a provare per lei quella devota sacralità che sentono per il padre, visto come il loro nume tutelare dagli occhi sorridenti, che infondano fiducia, danno la sicurezza nell’attesa di un bene. In ogni momento difficile le sorelle Iavarone continuano a vedere il padre che indica la strada da seguire con la certezza che il premio arride sempre a chi opera tenacemente per conseguirlo. La tua scomparsa dalla vita terrena non ha fatto sentire un vuoto doloroso alle figlie perchè esse ne hanno continuato a sentire la presenza, ne hanno avvertito il sostegno morale in ogni evenienza. Tammaro Iavarone da nonno non ha assistito al matrimonio di alcun nipote, essendo passato a miglior vita quanto il primo Antonio Reccia aveva meno di vent’anni.Ma ognuno di loro l’ha sentito accanto a sé in un giorno così importante ed essi tutti, che si sono creati una famiglia, si sono modellati su di lui nella loro rispettiva funzione di padre o di madre, uniformando in sé o diue diversi ruoli nella necessità. Antonio Reccia di carattere esuberante come chi nulla nella sua vita vuole volare verso spazi di completa libertà, nella famiglia si è bene amalgamato con Claudia, la dolce compagna della sua vita, e si è votato all’amore e alla cura dei suoi cari, rivolgendo ad essi ogni attenzione, dedicando loro ogni spazio di tempo libero dagli impegni di lavoro.Lo sguardo compiaciuto del nonno ha seguito certamente il nipote Tammaro Errichiello, figlio di Grazia, nelle scelte della sua vita: eccellente nella sua cultura, marito e padre di profonda tenerezza, sempre animato da un immenso rispetto per ambedue i genitori. Giovan Giuseppe Cimmino e la riproduzione perfetta di nonno Tammaro, di cui avrebbe dovuto portare il nome; ne ha ereditato la riservatezza, lo spiritodi sacrificio nel lavoro, lo sguardo limpido di un bambino
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Il primo nipote di Tammaro Iavarone, Antonio Reccia, nel giorno del suo matrimonio con Claudia Vigliano, insieme con gli Zii Sossio e MariaCristina
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innocente anche in età matura. Tammaro Mormile somiglia tantissimo al nonno nel fisico robusto e nel carattere impulsivo, nel modo di vivere semplice: è di poche parole, ma sa essere anche scerzoso e ironico quando le circostanze lo consentono. E’ tenerissimo nella famiglia, ma poco espansivo sicchè rinchiude i suoi sentimenti in un grande amore, da cui emergono talvolta come l’acqua pura e dissetante sgorga da una dura, ma sana roccia. Nella sua vita quotidiana, pur impegnato nel lavoro per gran parte della giornaya, si adopera con solerte cura, con vigile accortezza per la gestione della famiglia collaborando con la moglie Letizia nel circondare di ogni attenzione le sue bambine. Nonostante problemi ed impegni Tammaro è pure giocherellone come il nonno con le figlie, che vedono in lui ilo papà di cui rispettare le regole e un compagno di giochi. Ma è fondamentale pure che egli dia loro un esempio che diventa abitudine connaturata: l’interesse alla lettura come forma essenziale di godimento dello spirito nel tempo libero. L’amore per la cutura più svariata è la caratteristica di fondo della famiglia di Tammaro Mormile costituita da lui dalla moglie Letizia Compagnone e dalle figlie Cristina e Francesca, come è avvenuto e avviene tuttora nella famiglia di MariaCristina con il coniuge Sossio Mormile, i figli Carmine, Tammaro, Raffaella, tutti protesi verso orizzonti sempre più vasti nella conquista del sapere. Tre delle sette sorelle Iavarone hanno già raggiunto i genitori nella pace eterna; Silvia, Vittoria e Giovanna. Le superstiti portano più o meno il segno del tramonto della loro intensa giornata, sono legate alle sorelle scomparse da un amore profondo che la morte non ha spezzato, ha fortemente sublimato. I nipoti di Tammaro iavarone al completo sono ventidue. Essi vivono in derse città dell’Italia, svolgono attvità professiobali varie con competenze e con grande amore. Nessuno ha intrapreso la carriera militare come ilnonno. I figli di Vittoria hanno ereditato dalla madre il talento artistico: la prima figlia Lara, architetto ama anche la decorazione di oggetti d’arte e svolge il suo raffinato lavoro a Venezia, la seconda Sabrina fa la restauratrice di opere d’arte a Roma, con trasferte in tutto il mondo. Marco, terzo figlio, fa frequentato la Facoltà di Pittura di Urbino ed è conosciuto in tutt’Italia e all’estero. Le sue opere, di indirizzo Caravaggesco, trovano consensi lusinghieri in mostre di fama internazionale, pur essendo egli ancora molto giovane. Tutti i nipoti di Tammaro Iavarone hanno un meraviglioso ricordo e lovedono sempre come un astro che illumina i loro percorsi, come un faro di luce che indica il sicuro approdo anche nelle tempeste. Il suo volto sorridente affiora alla loro memoria e ogni momento difficile è superato. - 211 -
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Tammaro Errichiello, figlio di Grazia e Raffaele Errichiello nel giorno del suo matrimonio: E’ il secondo nipote che rinnova il nome del nonno ed ha con lui una somiglianza fisica incredibile: Ha ereditato dal nonno l’operosità instancabile, il profondo amore per la famiglia, la bontà umana e la semplicità nel suo habitus morale cristallino,
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Tammaro Iavarone, allievo carabiniere settembre 1912 - 213 -
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Tammaro figlio di MariaCristina e di Sossio Mormile di 25 anni al matrimonio della Cugina Nunzia con Arturo Soreca. E’ il terzo Tammaro ed è quello che ha ereditato dal nonno il più grande amore per la coltivazione agricola. Il suo passatempo più gradito è la cura del giardino che adorna la sua casa. E’ un padre tenerissimo come il nonno, ieccepibile nel suo lavoro. - 214 -
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Tammaro Mormile nel giorno del suo matrimonio con Letizia Compagnone fra i genitori e i suoceri il 27-09-1992
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Tammaro Mormile con la figlia Cristina che rinnova la nonna, anche nel carattere e nellâ&#x20AC;&#x2122;amore per lo studio della letteratura.
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Tammaro Mormile nel giorno del suo matrimonio con Letizia Compagnone fra i genitori e i suoceri il 27-09-1992
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Letizia Compagnone moglie di Tammaro Mormile
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La famiglia di MariaCristina al completo: i figli Carmine, Tammaro, Raffaella e le nipotine Cristina e Francesca. Manca la moglie di Tammaro Letizia, che ha scattato la foto presente.
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Giovan Giuseppe Cimmino, figlio di Silvia e Carmine Cimmino a 33 anni, nel giorno del suo matrimonio ĂŹ. Questo nipote avrebbe dovuto portare il nome di nonno Tammaro ma fu chiamato con il nome del bisnonno per motivi di opportunitĂ : in memoria di quello zio sempre rimpianto dalla famiglia anche se non aveva visto la luce. Anche Giovangiuseppe detto nella famiglia Gianni gli somiglia tantissimo come gli altri cugini che si chiamano Tammaro.
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Tammaro Iavarone a 36 anni nellâ&#x20AC;&#x2122;ultimo periodo del suo servizio nellâ&#x20AC;&#x2122;Arma dei Carabinieri
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Carmine Mormile con la sua compagna Laura
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Curriculum L'Autrice MariaCristina Iavarone, è nata a Striano(NA) il 24 luglio 1936, residente a Grumo Nevano, via Vivaldi,4, figlia di Tammaro Iavarone, che ha prestato servizio con grande senso della giustizia e rispetto delle Istituzioni nell'Arma dei Carabinieri ed è stato decorato due volte. MariaCristina Iavarone, professoressa di lettere classiche, ha svolto la sua professione di docente di lettere italiane e latine presso l'Istituto Magistrale Statale S. Pizzi di Capua, il Liceo scientifico Statale G. Galilei di Mondragone(CE), il Liceo Ginnasio Statale F. Durante di Frattamaggiore, il Liceo Ginnasio Umberto I di Napoli e presso il Liceo Scientifico Statale di Afragola; è in pensione dal 1° settembre 2003, dopo quarantadue anni di onorato servizio. Ha scritto saggi critici sulle tematiche più importanti di molti autori della letteratura nazionale, per cui è stata premiata in concorsi nazionali. Elenco delle pubblicazioni: 1. Saggio 2. Saggio
3. Saggio inedito 4. Saggio inedito 5. Saggio
6. Saggio
7. Saggio inedito 8. Saggio
Il leopardismo carducciano-Testo inviato al concorso nazionale Premio Ungaretti 1982, risultato 1°. Da pastore arrabbiato a professore universitario: Gavino Ledda-Testo Inviato al concorso nazionale Città di Sorrento 1985, risultato 1°. La satira nel mondo romano-1987 La Tiche nel dramma greco-1988 Tradizioni e cultura del nostro territorio: Afragola: ieri, oggi e domani. Presentato al Liceo scientifico Statale “F. Brunelleschi” di Afragola(NA) 1989 Attualità delle concezioni pedagogiche di Quintiliano. Inviato e premiato al concorso nazionale indetto dall'Accademia S. Marco-1989 La napoletaneità della commedia di Eduardo De Filippo1990 La provvida sventura-Tema essenziale della poetica manzoniana. Pubblicato su Nuovi Orizzonti-rRivista di Lettere, arte, attualità. Organo dell' Accademia - 223 -
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9. Saggio inedito 10. Saggio
11. Saggio
12. Saggio 13. Opera Narrativa
14. Saggio Critico 15. Saggio inedito 16. Opera Narrativa
17. Opera Narrativa
18. Silloge di poesie 19. Opera Narrativa
20. Opera Narrativa
21. Saggio critico
Il senso del dolore nelle Bucoliche di Virgilio-1992 “La donna nel mondo antico e nella società attuale”. Presentato in occasione della festa della donna presso il Liceo Scientifico Statale “F.Brunelleschi” di Afragola(NA) 2001 Il teatro: lezione pratica dei valori della vita. Presentato al Liceo Scientifico Statale “F. Brunelleschi” di Afragola(NA) 2001 La grandezza umana di Giacomo Leopardi: poeta del dolore positivo- Inviato per il premio Leopardi 2003 La forza della volontà, ancora di salvezza nella vitaPremiata alla XXXIV edizione della Primavera Strianese 2004 Su Domenico Cirillo- Presentato al Comune di Grumo Nevano Luglio 2004 Pulcinella nella tradizione napoletana 2004 “Una vicenda d'amore a mezzo secolo dal suo inizio“ Premio Speciale della giuria. Concorso nazionale di Poesia e Narrativa. Spazio Donna 2005- Striano(NA) Storia di una Famiglia. Premiata al Concorso XXI Gran Premio Nazionale di Poesia e Narrativa Città di Pompei 2005 Inviata a Presenza-Periodico indipendente del Mezzogiorno-settembre 2004 “Vicenda di un umile grande uomo”: Federico Del Prete, sindacalista di Frattamaggiore. Pubblicata con il patrocinio del Comune di Frattamaggiore-marzo 2006. “la strage degli innocenti perdura in questo mondo”premiata con medaglia d'oro al concorso letterario nazionale-Premio Paestum 2009 “In difesa di Giovanni Pascoli” premiato con Medaglia d'oro al concorso letterario nazionale Premio Paestum 2009.
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Profilo di MariaCristina Iavarone di Carmine Manzi Tracciare il profilo di MariaCristina Iavarone non è così facile, perché è molto complessa la sua attività, sia nel campo educativo che nell'agone letterario ed artistico, dove s'è imposta per il suo impegno, per la sua umanità, per la sua dedizione, per aver fatto della sua vita una missione di bontà e di amore, avendo come fine ultimo il bene degli altri e contribuire con la sua opera alla formazione di quella umanità migliore, da molti vagheggiata ma per la cui realizzazione non sempre e non tutti ugualmente si impegnano. Scorrendo il curriculum della sua vita, abbiamo l'impressione di trovarci a contatto con una figura eccezionale di Donna, erede di una tradizione familiare di altri tempi, quando tutto faceva da esempio ed era vigente il culto della prodigalità, del senso del dovere, del rispetto degli anziani, per la famiglia, per la scuola, per la Patria…Nata a Striano, in provincia di Napoli, si legge in una sua biografia che fin da bambina si distinguesse per la forza del suo carattere e per la sua carica di umanità, allora che divideva alle elementari il suo cibo con le compagne, prodigandosi per gli altri sempre, per i più bisognosi, nel silenzio ed in segreto. E dire che MariaCristina apparteneva ad una famiglia numerosa, undici persone, tra i nonni materni, i genitori e sette figlie. Un esempio da imitare anche nel corso dei suoi studi, la prima della classe, ma non se ne vantava, si adoperava invece per essere d'aiuto alle compagne più bisognose. Laureatasi iniziò ad insegnare subito nell'Istituto Magistrale di Capua “Pizzi” ed anche l'attività didattica si fa poi ricca e luminosa, come insegnante di Lettere classiche nei Licei, all'Umberto I di Napoli, quindi a Mondragone, a Frattamaggiore, concludendo i suoi quarantadue anni di servizio nel 2003, al Liceo Scientifico Statale di Afragola. Dignità e forza di carattere MariaCristina li ha ereditati dal padre Tammaro, in servizio nell'Arma dei Carabinieri e per due volte decorato, per aver annientato una sanguinosa banda di criminali operante nel territorio vesuviano, da Striano a San Giuseppe e da Sarno a Nola. E tutti ricordano la sua attività di docente e l'umanità del suo contatto con i giovani, molti dei quali, forse centinaia, sono stati da lei salvati dal gorgo della droga con - 225 -
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quella sua arte quasi magica con cui prima conquistava la loro fiducia e poi li induceva ad aprirsi con lei e ad accettarne la guida, “sembrando per loro una vera guida, non un'educatrice severa”. La vita di MariaCristina Iavarone è interessante e complessa per aver saputo coniugare insieme le normative di interesse sociale ed una copiosa e qualificata attività letteraria. Sempre ai primi posti nelle competizioni ed ammirata soprattutto per i suoi saggi, e per l'impegno e per l'acume dimostrati per la loro trattazione, ma anche per la originalità delle sue interpretazioni, sono da ricordare i suoi scritti sul leopardismo carducciano, sulle attualità delle concezioni pedagogiche di Quintiliano, sulla napoletaneità della commedia di Edoardo De Filippo, sulla Donna nel mondo antico e nella società attuale ed, ancora su Leopardi, un apprezzato saggio sulla sua grandezza umana e come “poeta di dolore positivo”. E poi c'è una MariaCristina Iavarone poetessa, autrice di versi pieni di un amore profondo per la famiglia e per la Patria, per i suoi figli Carmine, Tammaro, Raffaella che sono i “fiori rari di purezza olezzanti”. Una poesia che è dolce e serena, ma anche forte e vibrante perché c'è nei suoi canti il suo cuore di donna e di mamma.
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Indice Indice Prefazione Cap. 1
Le umili origini
pag. 7
Cap. 2
Inizia una nuova vita
pag.
9
Cap. 3 Il matrimonio
pag.
10
Cap. 4 La gioia della famiglia
pag.
12
Cap. 5 Un difficile servizio
pag.
13
Cap. 6 Fine della carriera
pag.
Cap. 7 Ritorno al paese di origine persecuzioni fasciste
pag. 19
Cap. 8 SerenitĂ nella famiglia Iavarone
pag. 22
Cap. 9
pag. 24
Dramma angoscioso
Cap. 10 Passa la tempesta
pag. 26
Cap. 11 Nuove prove
pag. 28
Cap. 12 Lotta contro le difficoltĂ
pag. 30
Cap. 13 Disagi della guerra
pag. 32
Cap. 14 Un infame rappresaglia
pag. 36
Cap. 15 Si muovono gli sciacalli
pag. 37
Cap. 16 Un angelo custode viene in aiuto
pag. 40
Cap. 17 Una svolta determinante
pag. 42
Cap. 18 Una nuova batosta
pag. 44
Cap. 19 Riscatto
pag. 46
Cap. 20 Dolorosa sorpresa e necessitĂ di Nuovi percorsi
pag. 48
Cap. 21 Ritorna il sereno
pag. 50
Cap. 22 Fiori d'arancio nella famiglia Iavarone
pag. 57
Cap. 23 Rivincita
pag. 59
Cap. 24 Una tragedia nella famiglia Iavarone
pag. 61
Cap. 25 Si volta pagina: la famiglia si arricchisce di affetti
pag. 64
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Cap. 26 La realizzazione di un desiderio
pag. 67
Cap. 27 Nuove preoccupazioni
pag. 69
Cap. 28 Ancora ansia
pag. 72
Cap. 29 Esperienze allucinanti per la famiglia De Sio
pag. 74
Cap. 30 Appare di nuovo il sereno
pag. 77
Cap. 31 Una bufera sulla famiglia Iavarone. Fine serena di Tammaropag. 80 Cap. 32 l'ereditĂ morale delle sorelle Iavarone
pag. 84
Cap. 33 Care rievocazioni
pag. 89
Poesia Un padre eccezionale: Tammaro Iavarone
pag. 93
Poesia
pag. 95
A mia madre Rosa
Poesia Giovanna una donna a cui si addice il suo nome
pag. 97
Poesia
Silvia, dolce Silvia
pag. 101
Curriculum dell'autrice
pag. 105
Profilo di MariaCristina Iavarone di C. Manzi
pag. 107
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