GUSTARE L'ITALIA 03 - LUGLIO/AGOSTO 2010

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Copia di cortesia

Poste Italiane S.p.a. Spedizione in abbonamento postale -70% DCB Milano

Periodico

di

cultura

enogastronomica

e

turismo

Anno 1 - Numero 3 - Luglio-Agosto 2010

Speciale Puglie


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La tenuta Cà da Meo di Magda Pedrini è il risultato di un profondo amore per una terra che, grazie alla sua particolare posizione, da origine a coltivazioni assolutamente straordinarie nell’ambito dei vitigni che producono eccezionali Gavi docg. Da questa storia così carica di sentimenti umani e di lavoro nascono i vini della Tenuta che arrivano ad arricchire di stile e di gusto le nostre tavole. Tel. +39 0143 667923 Fax +39 0143 667929 • www.magdapedrini.it • E-mail: nuovacadameo@virgilio.it


Cari lettori due mesi fa è nata a Milano, edita dalla Press Video Edizioni, “Gustare l’Italia” una nuova rivista di Enogastronomia e Turismo, due voci da sempre molto importanti per l’economia italiana ma ancor più da quando il BIE (Bureau International des Exposition) ha deciso di nominare Milano sede dell’Expo 2015 che avrà come tema “Nutrire il Pianeta – Energia per la vita” (Feeding Planet - Energy for Life). A partire da questo numero “Gustare l’Italia” sarà mensilmente abbinata a “Libero”, il prestigioso quotidiano diretto da Maurizio Belpietro; ed è questo un onore che ci riempie d’orgoglio perché d’ora in poi avremo la certezza che la nostra rivista entrerà nelle case di migliaia di famiglie alle quali stanno a cuore gli stessi valori e gli stessi obiettivi che ci hanno convinto a farla nascere. A dirigere la rivista l’Editore ha voluto due personaggi molto più conosciuti per altre ragioni che non per esperienze in campo turistico o gastronomico e vi spieghiamo perché: Davide Rampello ha nel suo curriculum un passato di regista televisivo di successo in Italia (Rai e Mediaset) in Francia (Le Cinq) e in Spagna (Telecinco). È stato docente di Teoria e Promozione d’immagine all’Università di Padova e ha tenuto un corso di Arte di massa e uno di Eventi Culturali e Media allo Iulm. Dal 2003 è alla Triennale di Milano che nei pochi anni della sua presidenza ha visto più che decuplicare i visitatori (da 40.000 ad oltre 500.000); ha creato una nuova sede della Triennale alla Bovisa di Milano, ha inaugurato la Triennale di Incheon in Corea e tra poco quella di Shangai e di New York. Cino Tortorella, che molti si ostinano ancora a chiamare Mago Zurlì, anche se da 35 anni non indossa più i panni del personaggio reso famoso dalla televisione, è stato autore e regista di numerose trasmissioni di successo fra le quali “Chissà chi lo sa?” che Walter Weltroni cita nel suo libro “Le trasmissioni che hanno fatto l’Italia”, “Il Dirodorlando”, “La Bustarella”, “Bravo Bravissimo”, “Il Pomofiore” e “Lo Zecchino d’Oro”, l’unica trasmissione al mondo che è stata dichiarata dall’Unesco “Patrimonio dell’Umanità per una Cultura di Pace”. Che c’entrano costoro con il Turismo e l’Enogastronomia? C’entrano. Davide Rampello, oltre ad essere un raffinato artista ai fornelli (ma solo per gli amici) è stato Direttore Editoriale della prestigiosa rivista “Grand Gourmet”, ha diretto numerose trasmissioni televisive di cucina, ha realizzato alla Triennale molte mostre di successo sul Food Design. Cino Tortorella ha curato per 12 anni la rubrica “Il pranzo di Babette” su Grand Gourmet, ha diretto il mensile “Sapori d’ Italia”, ha firmato la regia di molte trasmissione di cucina su Rai, Italia 1 e Antenna 3. Fra poco uscirà un libro scritto con Willy Pasini: “I ristoranti galeotti” dedicato ai gourmet innamorati.

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Ecco perché hanno le carte in regola per dirigere un mensile come “Gustare l’Italia”, che si propone come un mezzo per far conoscere le meraviglie del nostro Paese, spesso ignorate o dimenticate, e per diffondere e difendere l’alta Enogastronomia italiana, rafforzare la nostra identità aprendo contemporaneamente alle altre culture. Il nostro impegno sarà quello di salvaguardare le tradizioni avendo uno sguardo attento alla realtà con interviste ai protagonisti della scena italiana e internazionale e inchieste giornalistiche su tematiche di attualità. Si pone dalla parte dei consumatori per aiutarli a districarsi tra le varie informazioni che li frastornano, per consigliare ciò che vi è di meglio - che spesso non vuol dire ciò che è più costoso - per segnalare quel che serve a soddisfare la gola e lo spirito. Si rivolge a chi ha capito l’importanza di un miglior rapporto con il cibo per difendere la salute e la qualità della vita, a chi sa di appartenere ad un Paese che nel mondo è conosciuto non soltanto per la sua Storia e i suoi capolavori d’Arte ma anche per la bellezza del suo territorio, l’ospitalità, la fragranza dei cibi dovuti alla ricchezza dei suoi prodotti che la Natura regala con generosità. Insieme ai nostri Direttori abbiamo validi e preziosi collaboratori, ma siamo pronti ad accogliere consigli e suggerimenti da chiunque desideri impegnarsi nell’attuazione del difficile compito che ci siamo prefissi. Vi invitiamo perciò a navigare sul sito www.gustarelitalia.it curato dalla Idini Consulting Group dove troverete video e informazioni relative alla nostra rivista.

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Sommario luglio - agosto 2010

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Come mettere un punto e a capo

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Illuminiamo la Puglia

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IN CUCINA

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L’ORTO Insalate & Co.

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Ciliegie - Fragole - Melone

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La “madeleine” di Nichi

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L’ARTIGIANO IN CUCINA A tavola con il galletto Le ceramiche di Grottaglie

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IN TAVOLA

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A TAVOLA CON LE STELLE La cena del leone

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LE LUNE DI GUSTARE L’ITALIA Terranima

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L’ARTIGIANO IN TAVOLA Tra pavoni e campanelle, le tovaglie di Alberobello

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IN CANTINA

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I SAPORI DEL VINO Corso di sommelier per ignari

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D’Araprì

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Il vino in pentola

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IN GIRO PER... LA PUGLIA

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IL GARGANO I caraibi delle api

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Il territorio incantato delle Cento Masserie di Crispiano

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I tesori della Valle d’Itria

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Olio d’oliva, pozione magica per grandi e piccoli

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Scorrano

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Dal Salento arte luminosa per il mondo

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La notte della Taranta

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Colimena, la fabbrica del tonno che “non si taglia con un grissino”

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120 Il carrello della spesa

LE ECCELLENZE DEL SALENTO I Giardini di Atena e gli antichi mosaici

122 Libri da mangiare

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Lo I.A.M. di Bari per una cultura di pace

124 IL CIBO NEL CINEMA Il pranzo di Babette

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SPECIALE - LA PASTA

126 Appuntamenti

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STORIA DELLA PASTA La pasta: dono degli dèi

104 Come si cuoce la pasta 105 La pasta in poesia 106 Benagiano, la pasta di Garibaldi 109 Le ricette con la pasta 111 RUBRICHE 112 Peccato di gola? 114 I RISTORANTI EXPO La Puglia a Milano 118 Brindisi d’autore

128 QUIZ Sei un vero gourmet? 130 INDICE RICETTE Periodico di enogastronomia e turismo - Anno 1 - Numero 3

Luglio-Agosto 2010 - Testata registrata presso il Tribunale di Milano

Direttore Responsabile: Dario Bordet - Direttore Editoriale: Cino Tortorella - Davide Rampello Segretaria di redazione: Arabella Pezza Responsabile Dipartimento Grafico: Daniele Colzani Grafica e impaginazione: Daniele Colzani - Giovanni Di Gregorio Responsabile Diffusione: Roberto Zanutto Concessionaria pubblicità: Press Video Edizioni Pubblicità Responsabile Trattamento Dati Personali: Paola Cattaneo L’editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti e la possibilità di richiedere gratuitamente la rettifica o cancellazione ai sensi dell’art. 7 del D. Lgs 196/2003 scrivendo al Responsabile del Trattamento Dati Personali: Press Video Edizioni - Via Rosellini, 5 - 20124 Milano

Contatti: info@gustarelitalia.it - www.gustarelitalia.it - Tel. 02 89690647 - Fax 02 89690962 Hanno collaborato: Tonino Guerra - Alice Balestrini - Saverio Carlo Buttiglione - Ginevra Catamo - Marianna Iodice - Cosimo Lacirignola - Felice Maratea - Angelo e Piero Solci - Guido Tortorella - Pietro Zito

Fotografi: Giovanni Amodio - Mirko Lo Russo - Debora Montoli - Gianni Renna - Francesco Sgobba Stampa: La Grafica snc di E. Tasca (Ciserano) - Distribuzione: Cogi Express Milano © Riproduzione (anche parziale) vietata

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di Saverio Carlo Buttiglione

Come mettere un punto e a capo Questo numero di “Gustare l’Italia” dedicato alla Puglia non può esimersi dall’intervistare Dario Stefano, Assessore alle Risorse Agroalimentari della regione e da poco chiamato a presiedere i suoi colleghi Assessori regionali alle Politiche agricole nell’ambito della Conferenza Stato - Regioni. La sua esperienza politica è iniziata pochi anni fa, ma da subito si è rivelato come l’uomo giusto al posto giusto nel comparto più strategico della regione; fino ad allora il suo era stato un percorso di successo nel mondo dell’imprenditoria iniziato quando, dopo una Laurea in Economia, aveva dovuto “emigrare” al Nord in cerca di lavoro che ebbe la fortuna e il talento di trovare nel marketing strategico di Industrie Pirelli. Tornato da imprenditore nella sua terra, che aveva sempre avuto nel cuore, intraprende una carriera manageriale che lo vede alla guida di alcune tra le principali aziende pugliesi; per due mandati consecutivi viene nominato Vice Presidente di Confindustria Lecce, oltre che docente di Economia e Contabilità Industriale all’Università del Salento. La sua esperienza politica inizia quando gli viene chiesto di candidarsi come indipendente nella lista della Margherita alle regionali 2005 ed ottiene il maggior numero di voti di tutta la coalizione.

Ha raccontato questa sua esperienza nel libro che ha chiamato “Diario di bordo” intitolato “Come mettere un punto e a capo”. Perché questo titolo, gli chiediamo? “Mettere punto e a capo” vuol dire non accontentarsi mai degli obiettivi raggiunti e, più in generale, seguire con determinazione il desiderio di affrontare nuove sfide con il massimo impegno, pur nella consapevolezza del dubbio e dell’errore, ma con la bussola sempre orientata verso il cambiamento, verso un progetto di crescita che dia le risposte più efficaci alle aspettative di sviluppo. L’Assessorato alle Risorse agroalimentari credo sia un ottimo banco di prova, da questo punto di vista. La sfida è quella di far tornare ad essere l’agricoltura l’architrave del nostro sistema economico e sociale, quella chiave di volta su cui sono stati costruiti millenni di rapporti economici, sociali e culturali. E’ una battaglia che deve coinvolgere tutti gli attori del ciclo agroalimentare, affinché le nostre comunità si riapproprino di un modo “nuovo”, moderno, di guardare all’agricoltura. Stefano ha le idee chiare su cosa fare per valorizzare i “prodotti di Puglia”. Ho sempre creduto nella sinergia, nella condivisione, nella concertazione, come modelli operativi utili alla crescita e al raggiungimento degli obiettivi. Per questo, tra le prime iniziative che ho voluto intraprendere appena insediato, nell’estate scorsa, quella del tavolo tecnico permanente con produttori e Grande Distribuzione; è un progetto alimentato non da

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interessi contrapposti ma dal lavoro comune che deve seguire due linee guida: l’affermazione del Marchio Prodotti di Puglia quale elemento qualificante per l’identità territoriale e la tracciabilità dei prodotti, a garanzia di produttori e consumatori, e una organizzazione che favorisca il contenimento dei prezzi e la conservazione del valore aggiunto della filiera alimentare. I nostri sforzi sono orientati a rendere inequivocabile il rapporto tra la qualità, indiscussa, dei nostri prodotti, e la provenienza territoriale. La chiave è la tracciabilità delle filiera, che deve essere rigorosamente pugliese; saranno gli stessi consumatori ad apprezzare la qualità dei nostri prodotti che sono alla base della dieta mediterranea, considerata dalla comunità scientifica il modo più salutare di nutrirsi; faremo conoscere l’eccellenza dei nostri prodotti partecipando alle più importanti manifestazioni del settore a livello nazionale ed internazionale, utilizzando il marchio “Prodotti di Puglia”, che dovrà divenire garanzia di tipicità e di filiera interamente pugliese. Ma anche attraverso percorsi di educazione alimentare, da condividere con gli Assessorati della Salute e della Scuola, Università e Ricerca e con la stessa Direzione scolastica regionale, rivolti a tutte le scuole, accompagnati dalla formazione degli insegnanti e da programmi di sensibilizzazione nei confronti dei genitori, utilizzando anche strumenti come le masserie didattiche e gli orti botanici.

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L’obbiettivo che l’Assessore Stefano si è posto è perfettamente illustrato dalle parole conclusive del discorso che tenne la sera del 15 settembre 2006 a Li Hua Lu, Canton, inaugu-

rando la “Serata Pugliese” durante la missione italiana in Cina al seguito del presidente Montezemolo: “…siamo un mosaico, dove le tessere dell’Occidente si arricchiscono della bellezza di quelle dell’Oriente. Siamo terra di periferia. Una periferia che non vuole più stare ai margini, che non intende più stare a guardare. Ma che, con passione ed impegno, dà corpo ad una rinnovata volontà di trasformarsi nella piattaforma di una Europa che finalmente ha scelto di rituffarsi in quel Mediterraneo, da sempre crocevia perfetto di donne e di uomini, di culture, di commerci e di pace, tra l’Occidente e l’Oriente”.

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di Tonino Guerra

“Illuminiamo la Puglia” Qualche tempo fa lo scrittore e giornalista Salvatore Giannella, pugliese di Trinitapoli, innamorato della sua terra come tutti coloro che per ragioni di lavoro hanno dovuto lasciarla, ha voluto far conoscere la Puglia al suo grande amico Tonino Guerra. Dal Gargano a Santa Maria di Leuca lo ha condotto nei luoghi più magici e segreti, spesso ignorati anche da chi in Puglia vi è nato. Il poeta di Sant’Arcangelo di Romagna ne è rimasto incantato e ha scritto il testo che, certi di far loro un dono prezioso, dedichiamo a tutti gli amici pugliesi.

ILLUMINIAMO LA PUGLIA “Illuminiamo la Puglia nel grande magazzino del turismo del mondo perché questa terra, dal Gargano al Tavoliere delle Murge al Salento, non può dare soltanto mare, può dare anche favola, può dare musica, può dare silenzi, può dare storia, può dare memoria a un turista in arrivo. Illuminiamo la Puglia perché è la prima volta che una regione diventa un unico, immenso luogo di ritrovo di chi può pensare che anche una parte di questo mondo è paradiso.

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Illuminiamo la Puglia sommersa: la Puglia delle case magiche e dei trulli; la Puglia dell’acqua limpida e dei due mari; la Puglia dei pavimenti e dell’arte del mosaico come a Otranto; la Puglia dei tesori barocchi restaurati; la Puglia di Annibale; la Puglia degli incontri di guerra e delle spade insanguinate; la Puglia degli ulivi, con i più antichi patriarchi arborei; la Puglia dei muretti che chiudono i respiri del mondo di favola, la Puglia dei sapori forti di erbe antiche, conditi da oli preziosi e accompagnati da vini antichissimi; la Puglia che vola perché l’aria è piena di sole. Illuminiamo la Puglia delle masserie fortificate e delle tenere controre; la Puglia dei dinosauri che facevano lo struscio sulle Murge; la Pu-

glia dei castelli magici e della costa baciata dal sale; la Puglia dei santi che salutavano i crociati; la Puglia miracolosa che da San Nicola a Padre Pio e all’Arcangelo Michele ha accolto e accoglie la gente in sofferenza; la Puglia delle antiche torri di pietra e delle grotte costiere; la Puglia delle cripte rupestri e dei capolavori prigionieri sottoterra; la Puglia delle necropoli preistoriche con le tombe dei giganti e delle signore delle ambre; la Puglia con le stele daune, i fumetti di 2.550 anni fa, e i bagni di archeologia, la Puglia figlia di Diomede, grande fondatore; la Puglia Imperiale che stupì Federico II ‘meraviglia del mondo’, da Castel del Monte all’universo degli uccelli grandi che muovevano e muovono l’aria del Tavoliere con le ali. Illuminiamo la Puglia di sogno che c’era una volta e che c’è ancora. A ricordarci che bisogna arrivare nei punti più segreti e selvaggi dove si ha la sensazione di trovare l’infanzia del mondo. E invece trovi te stesso”.

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© Gianni Renna

In cucina

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di Alice Balestrini

L’orto di luglio - agosto

Insalate & Co. Ecco alcuni dei più freschi prodotti del mese, tutti da scoprire, tutti da gustare

LE INSALATE PARTICOLARI Un tempo l’insalata era, per definizione, il contorno dei secondi piatti: si trattava generalmente di lattuga abbinata a pomodori. Successivamente, invece, ha assunto una sua dignità di vera e propria “portata” diventando, a seconda delle esigenze, antipasto (sull’esempio francese e in sintonia con l’alimentazione naturista), secondo piatto vegetariano o “insalatona”. Il termine “insalata” deriva da sale, uno dei condimenti principali per la sua preparazione. Infatti, per insalata si intendono quelle preparazioni di verdure singole o miste, crude o cotte, condite proprio con sale, olio e aceto o limone, o con salse più complesse (come l’insalata capricciosa con le verdure tagliate a julienne o l’insalata russa con verdure cotte e

maionese). L’insalata di verdura ha origini antiche: soprattutto se comprende i legumi è una preparazione base nella storia dell’alimentazione. Oggi la gamma delle varietà proposte si è ampliata così da comprendere qualità un tempo ignorate, come la rucola, la ruchetta, i crescioni, il tarassaco. Insieme danno vita a una sorta di misticanza (insalata di erbe selvatiche), dal sapore decisamente forte, talora leggermente piccante, da servire a dosi contenute e opportunamente condite. La vinaigrette classica è un ottimo condimento, magari profumata con del dragoncello, anche se - ad esempio - il crescione si presta bene a essere condito con senape di Digione montata con olio e la rucola con dadi di formaggio tipo Emmental.


dure. E’ possibile abbinare la rucola a peperoni crudi rossi o gialli, pomodori affettati, lattuga e insalata riccia.

Ruchetta (Diplotaxis muralis)

Crescione (Nasturtium officinale) Detto anche “crescione delle fontane”, nasce spontaneamente in numerosi Paesi Europei, fino a 2.500 metri di altitudine. Si narra che i soldati dell’antica Grecia lo consumassero per fortificare e irrobustire il fisico. Ha foglie piccole e carnose, lucenti e tondeggianti, di colore verde scuro, con la fogliolina terminale più grande delle altre, cuoriforme. Di consistenza carnosa, possiede un sapore molto intenso, quasi tendente al piccante. Si conserva per circa due giorni, in frigorifero, nella parte più umida e temperata. Si abbina bene con insalate d’arancia e di radicchio e si utilizza in vellutate, zuppe e carpacci.

Rucola (Eruca sativa) Si tratta di una pianta di origine mediterranea diffusa in molte zone d’Europa. Ha steli dritti con foglie ruvide formate da coppie di lobi laterali leggermente asimmetrici e da un lobo terminale leggermente più grande. Di colore verde vivo, ha un sapore moderatamente piccante. Si conserva per breve tempo, non oltre un giorno, in frigorifero nel cassetto delle ver-

Cresce spontanea e, nonostante appartenga a un genere diverso di quello dalla rucola, talvolta viene considerata come la sua versione selvatica. Ingrediente della misticanza, alla quale dona un particolare tocco aromatico, possiede foglie lanceolate colore verde intenso e ha un sapore piccante, simile a quello del crescione.

Tarassaco (Taraxacum officinale). Il “Dente di leone” o “soffione” è una pianta erbacea poco coltivata, diffusa in Europa nei prati e nei campi dalle zone di pianura fino alla montagna. Ne esistono svariate varietà, dalle foglie ovali più o meno strette a forma di punta di lancia, con infiorescenze di color giallo intenso. Di gusto decisamente amarognolo, si consuma crudo in primavera (prima della fioritura) e, successivamente, cotto, bollito e condito con olio, sale, aceto o limone o con salsa di Senape.

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IL RAVANELLO Il ravanello appartiene alla famiglia delle Crocifere: si tratta di una pianta erbacea che proviene dall’Asia e le prime tracce del ravanello si hanno già nell’Egitto antico, quando i semi venivano mescolati a un olio medicinale. Plinio, nella sua “Storia Naturale”, lo menziona all’interno del libro XV; viene poi citato come “pianta che i monaci devono coltivare” in un’ordinanza reale di Carlo Magno e, nell’anno mille, viene consigliato dalla religiosa tedesca Ildegarda Bingen. Gioacchino Rossini li inserisce anche nel suo brano “Antipasti”, che fa parte dell’opera “Peccati e Vecchiaia”. Un tempo, agli occhi dei contadini, i ravanelli significavano l’inizio della primavera: ne esistono varietà tutte bianche, tutte rosse o tutte rosse e bianche. Dal gusto appena piccante e dalla carne so-

da, sono da sempre adoperati in cucina e si possono cucinare in diversi modi. Per i crudisti più convinti sono ottimi gustati al naturale o conditi con un filo di sale e olio extra-vergine d’oliva, dopo averli puliti sfregandoli con un panno appena inumidito. Oppure si possono cuocere in acqua, in olio bollente o col burro. Le foglie, poi, sono eccezionali per preparare il risotto, mentre gli orientali li cucinano nel wok, la loro pentola tradizionale. Ricchi di ferro, vitamina C e vitamina B9 (contenuta soprattutto nella radice), già i primi farmacisti li adoperavano nelle loro preparazioni mediche, grazie anche alle loro funzioni stimolanti, depurative e diuretiche. Inoltre, spesso venivano utilizzati per ingentilire piatti, tavole e bicchieri: oggi sono perfetti per decorare i cocktail, si possono intagliare per creare composizioni davvero sorprendenti.

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Ciliegie - Fragole - Melone LE CILIEGIE Bigarreau, Nero, Anella, Ferrovia, Marca… non si tratta di nomi in codice, bensì di quelli - veri! - delle principali varietà di ciliegie. Le ciliegie: uno dei frutti più amati dagli italiani di ogni età e che nel mese di giugno diventa grande protagonista sulla nostra tavola. Forse non tutti sanno che le ciliegie sono originarie dell’Estremo Oriente, dove sono

tutt’ora venerate in quanto considerate il simbolo della grazia, della cortesia e della femminilità. Da noi invece, per tutto il mese di giugno, dal Veneto alla Sicilia è una festa continua: tutti conoscono Vignola (in provincia di Modena) e Marostica, cittadina del Vicentino, la cui ciliegia è l’unica ad aver ottenuto il riconoscimen-

to IGP della Comunità Europea, ma ci sono anche centri poco noti dove il prodotto è coltivato al meglio. In ogni caso, le regioni leader restano Emilia, Veneto, Campania e Puglia (vedi le celeberrime ciliegie “Ferrovia”). Varietà a parte, le ciliegie sono raggruppabili in due grandi famiglie: quelle dolci, le classiche da tavola (che hanno dato vita anche a numerosi ibridi) e quelle acide (le varie amarene, marasche o visciole). Sul mercato, poi, si stabiliscono altre differenze in base alla polpa del frutto che può essere rossa o nera, “tenerina” o “duracina”, acidula o dolcissima. Le ciliegie si conservano in frigorifero, benché sia sempre meglio consumarle entro pochi giorni, lavandole sotto un getto d’acqua corrente. Possono inoltre essere utilizzate in svariati modi: messe sotto alcool o come base per confetture e marmellate; come ripieno per i cioccolatini (i mitici boeri); compagne di gelati (soprattutto come nel caso delle amarene, meglio se sciroppate); distillate per dare vita a tutta una serie di liquori particolari, forse non popolarissimi, ma che vantano un notevole pubblico di bevitori esperti.

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Il liquore più noto è senz’altro il maraschino, originario della Dalmazia e oggi prodotto - e consumato - soprattutto in Veneto. Sempre in Dalmazia, che un tempo era terra italiana, si produce da sempre il cherry brandy, che si ottiene dall’infusione, in piccole botti di rovere, delle ciliegie marasche nel brandy. E come non citare il kirsch, l’acquavite di origine tedesca? Insomma, le ciliegie sono belle, buone e sane. Eppure, ci vuole misura; tante fanno davvero male, mentre una ventina al giorno sono benefiche, in quanto hanno un effetto equilibratore, grazie agli acidi e ai sali minerali in esse contenuti. Sono inoltre ricche delle vitamine A e C, nonché di sostanze come potassio, calcio e ferro.

FRAGOLE E’ proprio adesso il momento delle prime fragole italiane, un frutto presente in tantissime varietà nate da incroci tra quelle già conosciute all’epoca dei Romani e quelle arrivate nei secoli seguenti dall’America del Nord e in particolare dal Cile. Nel nostro Paese ne produciamo circa 125.000 tonnellate; le fragole

piacciono a tutti, grandi e piccini, perché sono dolci, ma non ingrassano, e fanno decisamente bene all’organismo: otto fragole assicurano il pieno di vitamina C e contengono inoltre acidi importanti, come il folico ed ellagico, e ancora fibre, potassio, ferro e calcio. Hanno inoltre un alto valore dissetante e rinfrescante (non a caso sono spesso adoperate per impacchi nutrienti e rassodanti per viso e corpo). In Italia non esiste una regione o una sola area vocata alla fragola; oltre a crescere selvatica nei boschi di tutto il Paese, la facilità di coltivazione l’ha portata un pò dappertutto, anche se esistono alcune località - vedi Nemi, nella zona dei Castelli Romani - dove la produzione è specializzata: gelatine, marmellate, budini, yogurt, caramelle, gelati e sorbetti… senza dimenticare il risotto alle fragole! E lo champagne sulle fragole? Meglio un Moscato d’Asti, da sempre ideale per i cibi dolci, oppure un rosso vivace e fruttato come il Lambrusco. Da non dimenticare infine il “rapporto” particolare con l’aceto balsamico tradizionale: un must per i modenesi, un piacere per tutti…

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MELONE Il melone italiano è molto rinomato e proprio per la sua qualità non teme la concorrenza degli altri Paesi europei (come Francia, Spagna e Romania) e neppure quella dell’Asia (per alcuni il continente d’origine, mentre altri sostengono sia l’Africa), che in complesso vanta il 60% della produzione mondiale. Le varietà, nel nostro Paese, sono innumerevoli ma si possono sostanzialmente radunare in tre gruppi: il Cantalupo, con la buccia liscia, divisa a spicchi e polpa giallo aranciata (prende il nome dal castello nei pressi di Roma dove alcuni missionari presentarono i meloni trovati in Asia); il Retato, con la buccia ricoperta da un intreccio di linee e polpa bianca o giallo-verdiccia; l’Invernale, che ha la buccia liscia e la polpa generalmente biancastra o rosata, oltre alla possibilità di una lunga conservazione, preclusa agli altri due. Da giugno in poi il melone, di qualsiasi varietà, è protagonista in cucina; ottimo “in purezza”, come nei dolci o abbinato al Porto, ma esaltante se consumato ad esempio con il prosciutto crudo, anche se si sposa bene con altri salumi, anche meno delicati, a merito del

suo caratteristico potere “sgrassante”. Anche i nutrizionisti amano particolarmente il melone: è composto per il 94% da acqua, quindi incide pochissimo sul bilancio energetico. Contiene inoltre potassio, utilissimo per chi ha la pressione alta, vitamina C e caroteni, che sono i “precursori” della vitamina A e preziosi antiossidanti. Una curiosità: come capire se un melone è davvero ok? Conviene percuoterlo con le nocche, se non emette alcun suono è quasi sicuramente buono. Un altro controllo consiste nel premere i due estremi e verificare che non sia troppo duro (ma neanche eccessivamente tenero!). La buccia deve essere intatta, priva di ammaccature o macchie scure, e deve emanare il tipico profumo intenso. Per quanto riguarda il capitolo “conservazione” il frigorifero va senz’altro bene, a patto però che la temperatura non scenda sotto i 5° e non si vada oltre i 2 - 3 giorni di permanenza. L’ultima regola è infine di separare sempre il melone dal resto degli alimenti, in quanto il suo forte aroma potrebbe “caratterizzare” i cibi più vicini.

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di Cino Tortorella - Foto di Mirko Lo Russo

La “madeleine” di Nichi Vi è mai capitato di gustare un cibo che avevate dimenticato, un sapore antico di cui avevate perduto la memoria e, nello stesso istante in cui lo portate alla bocca, ritrovarvi all’improvviso catapultato indietro nel tempo, in un altro luogo, accanto a persone care che forse non ci sono più? E’ quello che si chiama effetto “madeleine” perché il primo ad averlo descritto è stato Marcel Proust nel suo capolavoro “À la recherce du temps perdu”; era una fredda giornata d’inverno e la mamma gli aveva preparato un tè caldo che gli aveva servito con un dolcetto chiamato “madeleine”, “pienotto e corto come se avesse avuto per stampo la valva di una conchiglia”. Lui lo intinge nel tè e lo mette in bocca sovrappensiero; e nel momento stesso che il dolce tocca il suo palato, si sente trasalire: “Un piacere delizioso mi aveva invaso, isolato, senza sapere perché. Da dove veniva? Che significato aveva ?”. A lungo si interroga sul motivo di quel suo stato d’animo che gli ha fatto dimenticare il triste momento che sta vivendo, ed ecco che finalmente il ricordo gli si fa vivo: “Quel sapore era quello della madeleine che la domenica mattina a Conbray la zia Leonie mi porgeva dopo averlo bagnato nel suo infuso di tè”, il sapore di quel pasticcino “a forma di conchiglietta di pasta così grassamente sensuale sotto la sua veste a pieghe severa e de-

vota” lo fa ritornare al tempo felice della giovinezza e rivede i visi delle persone care e la casa, e le vie, e gli alberi del paese lontano. “E’ come in quel gioco in cui i Giapponesi si divertono a immergere in una scodella piena d’acqua pezzetti di carta fino ad allora indistinti; ed ecco che appena immersi si distendono e si colorano, diventano fiori, case, figure umane, così ora tutti i fiori del nostro giardino, e quelli del parco e la buona gente del villaggio, le loro case, la chiesa e tutta

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Conbray prende forma e diventa vero, città e giardini ricreati dalla mia tazza di tè”. Per ognuno di noi c’è una “madeleine”, c’è il profumo e il sapore di un cibo che ci riporta indietro nel tempo, quello che vorremmo ritrovare in Paradiso quando, il più tardi possibile, vi approderemo (e se no che Paradiso sarebbe?). Lo chiedo a Nichi Vendola che incontro all’aeroporto di Bari; è stato da poco eletto per la seconda volta alla Presidenza della Regione Puglia e sta tornando da un viaggio che lo ha portato lontano dalla sua terra. Mi lega a lui un rapporto di simpatia e stima che non ha niente a che vedere con la politica; mi è capitato di ascoltare i suoi discorsi in diverse occasioni e sono rimasto affascinato dalla sua sensibilità, dal suo senso poetico della vita. E’ contento perché sta per riabbracciare la madre che certo gli avrà cucinato il suo piatto preferito. Gli chiedo di descrivermelo per poterne parlare nella mia rivista. Mi interrompe: “Come posso raccontartelo? Lo banalizzerei. Il solo modo di capirlo è quello di gustarlo. Ti invito a cena per questa sera”. E mi da l’indirizzo della casa della mamma, a Terlizzi, che è anche la casa della sua giovinezza. E’ così che mi sono trovato quella sera nella casa che papà Vendola acquistò con non pochi sacrifici una quarantina di anni fa per la famiglia che continuava a crescere. Il Presidente tarda ad arrivare e

ne sono lieto perché ho l’occasione di chiacchierare con la Signora Antonetta, detta Tonia, una mamma e nonna del Sud come è sempre più difficile incontrarne; mi ricorda la mia mamma, anche lei figlia del meridione, che ha lasciato appena sposata per seguire il marito che andava al Nord in cerca di lavoro. Sta preparando la cena e mi riceve nella grande cucina “da sempre - mi dice - il vero salotto della casa”. Due anni fa ha compiuto mille mesi ma molte ragazzine avrebbero più di un motivo per invidiarla; è luminosa e allegra; quando ride ride anche tutta l’aria che la circonda. Fra poco rivedrà il suo figlio Presidente: “Purtroppo non lo vedo spesso ma non passa giorno che non riceva una sua telefonata”. Mi racconta la semplice storia della sua vita: non ha avuto un’infanzia felice; a soli cinque anni ha perso la mamma ed è diventata lei la donna di casa con il padre e tre fratelli. Ha 16 anni quando Francesco Vendola, com-

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pagno di scuola del suo fratello maggiore, si innamora di lei; c’è di mezzo una guerra che lui deve andare a combattere, ma al ritorno, ottenuto un modesto impiego alle Poste, si celebrano le nozze. Mette al mondo quattro figli: Gianni, Enzo, Nicola - che chiamano Nikita, come Krusciov - e poi Patrizia, la tanto desiderata figlia femmina. Non è facile crescere da sola quattro figli con un solo stipendio che entra in casa, ma con amore e determinazione riescono a farli arrivare fino alla laurea (Gianni ed Enzo in Medicina, Nicola -110 e lode - in Lettere e Filosofia). Anche i figli, appena possono, danno il loro contributo all’economia domestica accettando, durante le vacanze, qualunque lavoro anche se umile; Nichi a 16 anni sale a Cervo San Bartolomeo, un paesino in provincia di Imperia, dove viene assunto prima come cameriere e poi aiuto cuoco alla trattoria “Da Pasquale” (è per questo che anche lui oggi è un ottimo cuoco e spesso si diverte a inventare piatti in gara con la mamma, che però vince sempre). Mentre mi racconta questa bella storia, la Signora Antonetta non perde di vista le varie pentole che sono sul fuoco o nel forno; le chiedo che cosa ha preparato per la cena di

stasera; mi risponde con una risata: “Nichi va pazzo per i cavatelli con i ceci e le olive, ma sono la sua passione anche gli spaghetti con le polpette, senza però dimenticare che stravede pure per la pasta al forno. Per non sbagliare li ho cucinati tutti e tre; poi a seguire c’è il pollo con le patate; non quello che vi fanno mangiare in città che non ha mai visto né un’aia, né una gallina; è un pollo allevato solo a grano come usava una volta… c’è poi il dolce che piace tanto a Patti, e per finire…”. Suonano alla porta: è il Presidente che arriva accompagnato non dalla scorta, come pensavo, ma dalla sorella, da una cugina e da altri amici di famiglia. Prima di metterci a tavola mi vuole mostrare la casa che è rimasta quella della sua giovinezza: stessi mobili, stesse suppellettili, stessi quadri alle pareti; solo qualche nuova fotografia, come quella che lo ritrae mentre abbraccia suo padre dopo la vittoria elettorale del

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2005. Quando me lo indica: “Ogni mio gesto politico, ogni mia azione nasce dall’impegno di essere degno di lui”, dice. E gli occhi gli luccicano. “A tavola!” arriva perentorio l’invito di Donna Tonia. Ed eccoci ubbidienti intorno alla mensa che io credevo apparecchiata da Patrizia, come certo avrebbe dovuto fare, lei unica figlia femmina; mi dice invece che, proprio perché è la più piccola, i suoi fratelli l’hanno sempre coccolata facendo loro tutti i lavori di casa. E’ pronto un pane che vedo per la prima volta: ha un colore luminoso che viene dato forse, mi dicono, da una spruzzata di albume. Nichi assicura che lo fanno solo a Terlizzi ed è molto difficile procurarselo se non prenotandolo con molto anticipo; per misteriose ragioni si chiama “Pane di Cristo EcceHomo” (in dialetto “lu pani di Crist ecc omm”) e sarà perfetto per accompagnare la cena che sta per cominciare. Come perfetto sarà il vino che berremo; ci sono sulla madia bottiglie di famosi produttori, etichette molto importanti di tutta la Puglia, ma quello che Donna Tonia fa magicamente

apparire è senza etichetta, color oro antico come antico e avvolgente è il suo sapore. Glielo procura da anni un contadino che lo fa come lo faceva il nonno e il nonno di suo nonno. Ci sediamo intorno alla tavola rotonda dove tutti dovrebbero essere uguali; eppure c’è

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qualcuno a capotavola: è Donna Tonia, i suoi occhi scintillano di gioia perché ha accanto a sé il figlio che troppo spesso la politica le porta via. Per tutta la cena però la politica resta fuori dalla porta; c’è solo allegria e serenità; c’è una famiglia unita e solidale che, dopo la scomparsa del padre, ha un’unica guida, quella della mamma, “Il segreto di tutti i segreti - come dice Nichi da sempre la vera capofamiglia, quella che in Romagna chiamano la “Rezdora”, la reggitrice, quella che con il solo stipendio di un modesto impiegato alle Poste ha cresciuto quattro figli e li ha fatti arrivare alla Laurea”. C’è, in quella cena, un’atmosfera d’altri tempi e i cibi che si succedono, quei profumi, quei sapori contribuiscono a ricrearla; sono i sapori forti e netti che mi proiettano indietro nel tempo quando, bambino in vacanza dai nonni a Maratea, zia Ida mi preparava la colazione con le trecce di mozzarella e la ricotta ancora calda appena portata dai contadini di Trecchina… Ero venuto per conoscere la madeleine del Presidente Vendola e, grazie all’atmosfera creata da Donna Tonia, ho ri-

trovato me stesso. Quando me ne vado saluto tutti come fossero di famiglia, rivisti dopo anni di lontananza. E’ notte fonda; la strada è silenziosa, nessun suono turba la serenità e la pace che ho dentro di me. Salgo in macchina. Giro la chiave dell’accensione e parto: cento metri, duecento metri… mi blocca un semaforo rosso e, subito dopo, sento il clacson di una macchina che mi ordina di ripartire… sono tornato nel ventunesimo secolo.

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Nello scrivere le ricette Donna Tonia non ha la precisione di Gianfranco Vissani o di Gualtiero Marchesi (anche se i risultati sono a volte superiori); però una buona massaia capirà senz’altro e se avrà a disposizione le materie prime pugliesi D.O.C., potrà sperare di realizzare piatti che si avvicinano a quelli della mamma del Presidente.

CAVATELLI E CECI Mettere a bagno i ceci con un po’ di bicarbonato x circa 12 ore. Portare acqua ad ebollizione e buttare ceci con aglio vestito e foglie d’alloro. Quando arrivati a cottura aggiungere olio d’oliva

PASTA AL FORNO Ingredienti : salsa fatta in casa e mozzarella. Dare un primo bollo alla pasta e riempire la teglia con strati di pasta , parmigiano o pecorino romano e mozzarella. Concludere con parata di pomodori aperti a metà e conditi con pan grattato, formaggio origano sale pepe e olio d’oliva. Fare dorare

POLPETTE Utilizzare carne macinata almeno per 3 volte. Impastare con formaggio uova e latte sale pepe e un po’ di pan grattato. Modellare le polpette e aggiungere salsa fresca con basilico

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di Marianna Iodice - Foto di Giovanni Amodio

L’artigiano in cucina

A tavola con il galletto. Le ceramiche di Grottaglie Petto in fuori, pronto a lanciare nell’aria fresca del mattino il suo canto, il gallo se ne sta nell’aia sovrano. È questo galletto trionfo che appare, pennellata dopo pennellata, piume gialle e coda azzurra, sulle ceramiche di Grottaglie. L’artigianato locale di questa città tarantina, e in particolare le ceramiche ad uso quotidiano, con il disegno tipico del bel galletto e i fiorellini blu, sono diventate nel tempo diffuse in ogni manufatto pugliese, diventando simbolo di questa terra. La ceramica qui è diffusa da tempo immemorabile, data l’abbondanza di materia prima. Vasi, piatti, coppe, creste, capasoni per olio e vino: la cucina si imbandiva e si imbandisce

ancor oggi di una varietà di colori che, passando dalla tradizione del bianco e del blu (per i servizi da tavola) e dell’ocra e verde (per capasoni e creste), si è sempre arricchita dell’estro degli artigiani. Ognuno con la propria fantasia ha creato pezzi unici e bellissimi, fino a che, da arte povera, la ceramica di Grottaglie s’è evoluta nel ‘700 ad arte raffinata, con vasellami e piatti decorati da esposizione o per banchetti nobiliari.

Piatti di ieri e di oggi Guardare la ceramica fresca, col suo colore grigio scuro e la sua malleabilità è uno spettacolo. Si forgia, con la rotazione del tornio, e

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prende qualsiasi forma. Tanto maggiore è la grandezza del pezzo da fare, tanto sarà più potente la forza del tornio, ma lento il suo giro. In fin dei conti quest’arte, che porta sulla nostra tavola funzionalità e decoro, è rimasta pressoché sempre uguale nell’essenza fin dalle origini.Grottaglie conserva ancora le testimonianze del suo artigianato figulino; alcune sono nel ventre della terra, in attesa di essere scoperte, altre sono in bella mostra nel Museo delle Ceramiche, sito nel Castello Episcopale. È proprio qui che si possono ammirare i piatti e le coppe dove mangiavano i nostri ”avi”, i vasi, le olle e le patere delle popolazioni messappiche e magnogreche.

Il piatto reale Qualche nonna di Grottaglie forse ricorda ancora il piatto reale, quello grande che si poneva al centro della tavola per tutta la famiglia, che conteneva fave, verdure, pane duro e pomodoro.

Era il piatto più importante nel servizio, il più decorato, tanto che divenne ben presto simbolo nuziale nei banchetti degli sposi. Veniva posto colmo al tavolo degli sposi di fronte all’uomo. Alla fine del pranzo, una volta svuotato, appariva la decorazione sul fondo: se c’erano degli uccellini l’augurio era di avere una figlia femmina, se il gallo di avere un maschio. Nel servizio di ceramiche di una famiglia non mancava mai il salsiere per le olive, il piatteddu (fondo o piano) o il minzanu per porzioni più abbondanti. Il gallo ruspante, simbolo di fertilità, colora le tavole; le povere e contadine d’allora, le ricche d’ora… Ma il suo cipiglio di sovrano dell’aia ieri come oggi c’incanta e ci augura abbondanza e vita lunga.

Dietro le quinte di un piatto Passeggiando per la via delle ceramiche sono entrata in una bottega tra le molte, non sapendo che m’ero imbattuta in uno dei maggiori artigiani della città, proveniente da una famiglia che qui conta molti parenti che fanno lo stesso mestiere, ereditato da nonni e bisnonni. Parlo della famiglia Fasano, e in particolare della azienda artigiana Gaetano Fasano. Mi hanno portato nel cuore della loro attività, dove nascono quelle meraviglie che poi sono esposte nella bottega lungo la famosa via succitata. Nel capannone è un trionfo di vasi, capasoni, grandi, piccoli, medi. Un trionfo di color grigio. Sulla terrazza ad asciugare al sole stanno alcuni otri, dentro troneggiano enormi vasi decorati insieme a piccolissime acquasantiere, ninnoli, “coccarelli” (oggettini da regalo). In un’altra stanza un artigiano ha finito il lavoro del tornio e sta unendo con apparente semplicità i manici a degli otri.

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“In verità questi capasoni e questi vasi, tipici della tradizione, in cui si conservavano olio, vino, olive, hanno perso la loro originale funzione - mi spiega il Sig.Fasano - sono oggetti d’arredamento, molto richiesti all’estero”. Qui, in quest’azienda si produce tutto, dal semplice piatto all’artigianato più creativo. Tutto fatto come una volta. Cosa c’è dietro il piatto che mettiamo a tavola lo scopro grazie alle spiegazioni che mi vengono date in azienda. Viene preparata la materia prima, posta sul tornio per farne la forma. L’oggetto ottenuto è poi lasciato asciugare. Solo dopo viene infornato. Alla fine c’è il figulinaio preposto alla decorazione. Al suo fianco tanti vasetti colorati e pennelli. Con pazienza, seduto alla sua sedia, tratto dopo tratto, decora piatti e altri oggetti con fiorellini, greche, galletti e altro ancora. Il Sig. Fasano mi svela poi il suo orgoglio personale, scendendo nella cantina, ricavata in una delle grotte di questo paese ricco di an-

fratti calcarei (da cui il nome di grottaglie). Si svela davanti ai miei occhi un posto magico: ogni parete è piena di capasoni in fila enormi, titanici. “Cerchiamo di farne sempre più grandi. Da record. Alti metri e metri. Non è facile perché per creare ogni pezzo del capasone occorre una manualità unica”. Risalendo ho anche l’onore di vedere il tornio per il prossimo capasone da record. Il tornio è interrato, per consentire al capasone di crescere netri e metri. Nei pochi metri quadri della stanza del tornio, sulle pareti, ci sono delle piccole impalcature: “saliamo sulle impalcature man mano che il capasone cresce in altezza”. Un lavoro da funamboli prima ancora che da figulianai, penso. C’è davvero un mondo dietro ogni piatto di coccio, ogni tazza, ogni otre, ogni vaso. Un’arte antica tramandata di padre in figlio che si ricollega all’artigianato di tutto il mondo, fin dalla storia dell’uomo.. .. E che qui, a Grottaglie, diventa vera passione.

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© Gianni Renna

In tavola

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di Cino Tortorella e Davide Rampello

A tavola con le stelle

La cena del leone Questo numero di “Gustare l’Italia” lo dedichiamo ai nati sotto il segno del leone, che inizierà tra pochi giorni

E’ il quinto segno dello Zodiaco ed è governato dal Sole; il suo simbolo astrologico è rappresentato dalla testa del Leone ornata dalla folta criniera. Suo elemento è il Fuoco; il suo colore è giallo-oro; giorno favorevole la domenica; il diamante è la pietra porta-fortuna. Sotto questo segno hanno avuto i natali scienziati come Denis Papin, Alexander Fleming; poeti e scrittori come Alexander Dumas, G.B. Shaw, Salvatore Quasimodo, Percy B. Shelley; attori come Dustin Hoffman, Robert Redford, Giorgio Albertazzi; registi come Giorgio Strehler, Stanley Kubrick, Alfred Hitchcock; cantanti come Mick Jagger, Louis

Armstrong, Bruno Lauzi; campioni sportivi come Gianni Rivera, Filippo Inzaghi, Federica Pellegrini; personaggi politici come Napoleone, Cavour, Fidel Castro. Come l’animale che lo rappresenta i nati sotto questo segno sono molto sicuri di sé; sono simpatici, fantasiosi, imprevedibili; le loro doti più evidenti sono la generosità e un senso quasi religioso dell’amicizia; è difficile che un amico riceva un rifiuto se bussa alla loro porta in cerca di aiuto. Un’altra loro caratteristica è la curiosità che li porta di continuo a ricercare nuove esperienze e a desiderare di vivere nuove emozioni. E’

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per questo che sono leali nell’amicizia, ma spesso incostanti in amore. A tavola però questa loro ricerca di novità si acquieta; sono contro il fast food e contro le innovazioni spesso cervellotiche di una certa cucina, sono per la tradizione e la fedeltà agli antichi sapori, a meno che non siano rivisitati con fantasia. I loro ristoranti ideali sono “L’Albereta” di Erbusco, il “Caino” di Montemerano, “Il Pescatore” di Canneto sull’Oglio, la tenuta “Le Monacelle” di Selva di Fasano; di quest’ultima è proprietario Giorgio Consonni, originario di Cantù, che - dopo un’esperienza di mobiliere a Napoli durata trent’anni - si è trovato quasi per caso ad acquistare un complesso di trulli appartenuto nel XVII secolo ad una comunità di monache benedettine, ormai sull’orlo del disfacimento e nel giro di due anni l’ha trasformato in uno dei più prestigiosi resort di Piglia che ha chiamato “Le Monacelle” così come i contadini chiamavano le suorine dell’antico convento. Anch’egli è nato sotto il segno del leone ed è

a lui che chiediamo di inventare la cena ideale per i suoi compagni di zodiaco. Quando gli parliamo del nostro progetto se ne dichiara entusiasta, chiama a raccolta sua moglie, la Signora Clelia, napoletana verace, i figli Aldo e Massimiliano e Pier Luca Ardito, giovane chef; e tutti insieme decidono il menu che sarà composto da cibi realizzati solo ed esclusivamente con prodotti pugliesi. La cena avrà luogo sul grande terrazzo che si affaccia sul ciliegeto e sarà per tutti un’emozione indimenticabile perché il luogo è di una bellezza sconvolgente. Non resta che invitare i più importanti vip, tutti rigorosamente del leone, mentre Pier Luca e la sua equipe si sono già messi al lavoro. Naturalmente nessuno degli invitati rifiuta di partecipare a questo eccezionale avvenimento e a poco a poco eccoli che arrivano: i primi sono Massimo Boldi (23 luglio) e Teo Mammucari (12 agosto) che stanno discutendo sul prossimo film di Natale che interpreteranno insieme; segue Gerry Scotti (7 agosto) che dà galantemente il braccio a Barbara Bouchet (15 agosto); Raul Bova (14 agosto), sempre sensibile al fascino femminile, è circondato dalle splendide Jennifer Lopez (24 luglio), Maria Grazia Cucinotta (27 luglio) e Lorella Cuccarini (10 agosto).

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E’ poi la volta di Whitney Houston (9 agosto) che arriva in Rolls Royce con Madonna (16 agosto). A bordo di una rombante Ferrari ecco Dustin Hoffman e Robert Redford, che vengono travolti da un nugolo di belle ragazze in cerca di autografi. Ancora splendide, nonostante la non più verde età, è poi la volta di Alice ed Ellen Kessler (20 agosto) e la luminosa Rossella Brescia (20 agosto). E poi ancora: Peppino di Capri (27 luglio) con Arisa (20 agosto) e Giancarlo Giannini (1 agosto). Avrebbero dovuto essere del gruppo anche Barack Obama (4 agosto) e Giulio Tremonti (18 agosto), ma pare che siano stati trattenuti da ineludibili impegni politici (e non sanno cosa si stanno perdendo!). Ci sono adesso proprio tutti nel grande terrazzo dietro i trulli di quello che era stato un convento delle monacelle. Come benvenuto stanno gustando uno spumante gioioso e leggero, fresco e allegro come l’amore di due diciottenni: il Melarosa della Cantina 2 Palme. Massimiliano Consonni fa da cicerone e racconta la storia del complesso che, dopo essere stato un convento, era diventato agli inizi del Novecento un piccolo villaggio contadino prima di essere dalla sua famiglia. La notizia non appassiona più di tanto gli ospiti che sono tutti molto più interessati al primo piatto che arriva a tavola accompagnato dal Murà, uno stupendo Sauvignon 2009

delle Cantine del Duca Guarini; come i piatti che seguiranno è una creazione di Pier Luca Arditi, il giovane chef di Noicattaro che i Consonni hanno scelto per guidare la cucina della tenuta. Non ha ancora trent’anni ma ha già compiuto importanti esperienze (è stato anche alla corte del grande Ducasse). La sua è una cucina mediterranea e Le Monacelle è il luogo ideale per realizzarla, sia il mare che la terra forniscono prodotti eccezionali e un grande chef non ha che da servirsene nel modo più semplice rispettando la tradizione, solo attento ad interpretarla nel migliore dei modi.

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Il piatto con il quale si presenta è una

“Zuppa fredda di pomodori di Torre Guarceto, cipolla rossa di Acquaviva delle Fonti, cardoncelli con astice al profumo di citronella” ed è subito un grande successo; gli illustri ospiti si rendono conto che stanno facendo la conoscenza di un grande chef. I Consonni lo hanno scelto dopo aver provato alcuni cuochi che si erano rivelati inferiori alle aspettative; come per ogni altra cosa volevano il meglio e lo hanno finalmente trovato in questo giovane di Noicattaro che adesso fa arrivare agli ospiti un altro delizioso piatto:

“Paccheri di Gragnano con polipo brasato al Negroamaro, foglie di rucola e Pecorino” accompagnato dalla Verdeca Menhir 2009, che aggiunge emozioni ad emozione. La scelta è stata fatta da Massimiliano, che è sommelier, con la supervisione del padre, da sempre attento e responsabile bevitore in memoria del nonno, grande ebanista di Cantù; racconta di non aver mai visto il nonno al lavoro senza aver davanti una bottiglia di vino ed un immancabile sigaro toscano in bocca e ciononostante è vissuto in perfetta salute fino a 95 anni.

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Per il prossimo piatto che sta per arrivare in tavola ha scelto l’Anticaia rosé 2009 delle Cantine di San Donaci e mai abbinamento fu più felice per la

“Ricciola condita con lemon-grass, foglie di limone e olio extra vergine d’oliva, sale alle alghe, cicerchie di Alberobello al peperoncino e vongole nere” Il piatto ha appena riscosso un’ovazione da parte degli ospiti quando fa il suo trionfale ingresso un’altra creazione di Gian Luca, che avrebbe ben figurato in un simposio di Federico II:

“Agnello della Masseria Iaccato con fichi secchi e mosto di Vin cotto” Non è facile abbinare un vino a questo superbo piatto ma Massimiliano, con il consueto aiuto del padre, vi è riuscito scegliendo nelle Cantine Botromagno il “5 uve Murgia rosso 2005”. Bevendolo si capisce perché i pugliesi chiamano “mieru” il vino; la parola deriva dal latino “nerum”, l’aggettivo che veniva dato al vino in purezza (“vinum nerum”); nei secoli dopo, la seconda parte “nerum” (diventata “mieru”) è rimasta ad indicare quanto sia importante bere un vino schietto e puro. Uno dei più bei proverbi italiani attribuiti al vino è pugliese e così recita: “Face cchiù miraculi ‘na utta chiua te mieru ca ‘na chiesa china te santi” (fa più miracoli una botte piena di buon vino che una chiesa piena di santi). Il dessert, come il vino da abbinarvi, lo ha deciso Donna Clelia che è ormai diventata una pugliese DOC ed è anche lei un’ottima intenditrice di vini:

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“Spumoso arabico all’arancia con zabaione al Moscato di Trani con i cantuccini alle mandorle di Valenzano” puntualmente accompagnato dallo stesso Moscato. E’ il perfetto coronamento di una cena che sarebbe ideale per dei gourmet innamorati. Molti degli ospiti che si sono alzati in piedi per una “standing ovation” allo chef e alla famiglia Consommi al completo stanno rimpiangendo di non aver accanto il proprio partner e si ripromettono di tornare presto alle Monacelle in compagnia per gustare insieme quei cibi e poi riposare in una delle stanze realizzate nella masseria; e magari provare antiche emozioni in una delle camere ricavate dai trulli dove le monacelle trascorrevano le notti della loro vita di preghiera e penitenza. Potranno rivolgere loro, che ormai sono in Paradiso, un riconoscente pensiero. Ora il terrazzo che si affaccia sulla vallata dove fioriscono i ciliegi si è completamente svuotato; mi ritrovo soltanto io, Massimiliano, Giorgio, Aldo e Donna Clelia. E’ stato dunque soltanto un sogno? Probabilmente sì, un bel sogno, anche se la realtà non è poi così male; sta infatti arrivando in tavola il primo piatto della cena, la “Zuppa fredda di pomodori di Torre Guarceto, cipolla rossa di Acquaviva delle Fonti, cardoncelli con astice al profumo di citronella” .

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di Felice Maratea

Terranima Questa rubrica è dedicata ai ristoranti immeritatamente ignorati o sottovalutati dalle varie Guide; ve ne sono in tutte le regioni ma la gran parte sono del Sud e la disattenzione nei loro confronti è da riferire a diversi motivi, il primo dei quali - forse - è dovuto al fatto che la gran parte dei critici risiede al Nord e arrivare a Castrovillari o a Putignano non è come andare a Gallarate o a Bu-

Le lune di Gustare l’Italia

sto Arsizio.

Prendiamo la più antica Guida, la Michelin; ho sotto gli occhi l’edizione 2010: le stelle che vengono assegnate ai vari ristoranti come indice di qualità sono in Italia circa 250. Provate ad indovinare quante illuminano i cieli della gastronomia pugliese, lucana, molisana, abruzzese, siciliana, calabrese e sarda. Non arrivano a 20 e stiamo parlando di più di un terzo delle 20 regioni italiane! Ora, che alcuni ristoranti del Sud abbiano le loro colpe, è purtroppo fuori discussione: scarsa attenzione nella ricerca dei prodotti che pure la terra regala con generosità, mancanza di professionalità nel personale, poco rispetto per le tradizioni… Non è accettabile, tuttavia, che in Basilicata vi sia soltanto un ristorante con una stella, che ve ne sia uno solo in Abruzzo, due in Sardegna… e che in tutta la Calabria non ve ne sia neppure uno degno di questo segno distintivo. “Gustare l’Italia” ha perciò deciso di colmare questa lacuna e manderà i suoi degustatori in giro per lo stivale, alla ricerca dei ristoranti ingiustamente dimenticati; e poiché “soli” e “stelle” sono già stati da tempo prenota-

ti, non ci resta che la “luna” per segnalare i locali degni di attenzione da parte dei gourmet più esigenti. La nostra Luna illumina oggi un ristorante non proprio trascurato dalle guide gastronomiche ma che, a parere di chi scrive, avrebbe diritto ad un’attenzione maggiore da parte

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dei severi critici che attraversano l’Italia per emanare le loro sentenze inappellabili; qualche stella, qualche forchetta, qualche gambero in più certo lo meriterebbe l’elegante Terranima. Entri e, come se in una macchina del tempo avessi premuto il tasto “1900”, ti ritrovi nella “corte” di un palazzo barese all’inizio del XX secolo: il pavimento in “chianche”, le grandi pietre delle masserie, un vecchio lampione, un graticcio a vite, gli ingressi di una barberia e di una sartoria, l’edicola di un santo dinnanzi al quale brilla il lumino di un devoto … Sei al Terranima, il nuovo - antico locale di Bari, un ineludibile appuntamento per chi vuol ritrovare i cibi dimenticati di una tradizione che si perde nel tempo. E’ stato scritto che è come recarsi in un teatro dove ad andare in scena sono i sapori, i profumi dei frutti che la terra di Puglia regala con generosità; ogni quindici giorni lo spettacolo cambia perché varia il menu che segue il variare delle stagioni. Il direttore d’orchestra è lo chef che armonizza gli ingredienti con cura e passione; il regista, lo Strehler che sovraintende allo spettacolo, è Piero Conte, un gentiluomo del Sud, una specie sempre più rara e in via d’estinzione, fino a pochi anni fa lontanissimo dal pensare di diventare titolare di un ristorante. Nasce a Monopoli qualche decennio fa da una modesta famiglia e, giovinetto, parte alla ricerca di lavoro come accadeva allora a troppi giovani (e come purtroppo ancora oggi accade). Varie vicissitudini lo portano in giro per il mondo: Vietnam, Laos, Thailandia, Iran; la sua serietà e il costante impegno lo aiutano a salire poco a poco i gradini della scala sociale: dai lavori più umili fino a diventare dirigente di un’importante azienda del Nord. E proprio quando è al culmine del successo,

contro ogni logica aziendale, resistendo alle sollecitazioni di chi lo invita a ripensarci, decide di tornarsene in Puglia, nella terra che ha sempre avuto nel cuore. Il suo incontro con il mondo della ristorazione comincia a causa della triste vicenda che riguarda il fratello ammalato di leucemia e per questo costretto a frequentare molti ospedali; si impegna a fare in modo che le cucine spesso fatiscenti siano meglio attrezzate per permettere ai cuochi di realizzare cibi graditi soprattutto ai bambini. Crea per questo scopo una Società che in poco tempo diventa leader del settore e oggi migliaia di pazienti non sanno che è grazie a lui se il loro forzato soggiorno in ospedale è stato meno penoso.

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Questa esperienza fa nascere in Piero Conte il desiderio di avere un locale tutto suo dove poter fare gustare ai felici ospiti i cibi della grande tradizione; è un sogno che diventa realtà quando viene casualmente a sapere che il Terranima, un locale storico di Bari, uno dei pochi rimasti, sta per essere venduto e trasformato in una banale pizzeria. Il Terranima era nato negli anni Ottanta a fianco dello storico caffè letterario, il Batafobrle (il nome è un acronimo ottenuto con le lettere iniziali delle provincie pugliesi) dove si riunivano gli intellettuali baresi per lanciare un libro, un avvenimento artistico, un’iniziativa letteraria. Piero Conte non esita un istante e, battendo ogni concorrente, acquista il locale e si butta nella nuova impresa con l’entusiasmo di un ragazzino e la determinazione del grande imprenditore. Rinnova il locale senza tradirne lo spirito; modernizza bagni e cucine, ridipinge i muri in rosso Puglia seguendo le regole della bioarchitettura, ma il resto rimane tutto come prima: i tavoli in marmo e legno, gli arredi d’epoca, i manifesti, gli editti comunali, le foto degli storici clienti nelle vecchie cornici, dovunque si respira “l’odore di passato” che avrebbe fatto la felicità di Guido Gozzano. Ogni oggetto è rigorosamente pugliese, creato da artigiani locali con materiali naturali: piatti, bicchieri, suppellettili, tovaglie. E naturalmente i cibi. A dirigere la cucina è stato

chiamato Sabino Costanzo, un cuoco che conosce ogni segreto della cucina pugliese, la più ricca, fantasiosa e saporita cucina del mondo; ma gli ingredienti sono di stretta competenza di Piero che va a trovarli nei luoghi più lontani per assicurarsi il meglio. Così ogni pranzo è un viaggio nella gastronomia

più prelibata della Regione: dal pane di Altamura ai latticini della Valle d’Itria, ai formaggi di Mottola o di Gioia del Colle, alla pasta di Sant’Eramo, ai capocolli di Martina Franca, alle cipolle di Acquaviva, ai cardoncelli delle Murge, alle carni dei vitelli podolici di Alberobello, ai prosciutti dei maiali neri di Faeto allevati allo stato brado. Naturalmente anche i vini sono esclusivamente pugliesi; nella sua cantina riposano bottiglie della Regione: dal Salento a San Severo (unica eccezione tre etichette della vicina Basilicata). Con l’aiuto della figlia Vanessa

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che coinvolge nell’impresa e della bella Giorgia Colombo che si improvvisa perfetta ed elegante maitre, il successo è immediato; nel giro di pochi mesi, con il tam tam del passaparola di clienti soddisfatti, si impone all’attenzione dei gourmet che trovano al Terranima le risposte ai loro desideri più esclusivi. Ma la fantasia di Piero, il suo spirito di imprenditore che lo ha aiutato negli anni a realizzare importanti imprese, non gli permettono di riposare sugli allori; ed eccolo pronto a nuove iniziative: vuol far conoscere la cucina autenticamente pugliese e per questo invita una volta al mese i più importanti chef delle altre provincie per far gustare agli ospiti le loro creazioni; ogni venerdì la cena è rallegrata da musicisti che vengono ad eseguire la più autentica musica popolare. La missione che si è imposta è quella di valorizzare la sua Regione sotto ogni aspetto unendo gastronomia, storia e natura, così inventa la “minicrociera gastronomica”. La prima volta la sperimentò lo scorso settembre invitando gli ospiti su di un’imbarcazione che li avrebbe portati fino a Trani e ritorno; durante il viaggio vennero servite creazioni marinare dello chef mentre un cicerone indicava le bellezze artistiche delle località che costeggiavano illustrandone la storia: Giovinazzo, Molfetta, Bisceglie, fino alla bella Trani con la cattedrale, la meraviglia architettonica del più puro romanico, una delle chiese più belle al mondo. Il successo di quella prima esperienza ha convinto Piero Conte a riproporre quest’anno le minicrociere con cadenza settimanale. Un altro fermo proposto da Piero è quello di far conoscere i prodotti della sua Regione al di fuori della Puglia; sta per lanciare una linea “on line” di prodotti pugliesi con il marchio “Tavola del Conte” che riguarderà non soltanto la gastronomia ma anche l’artigianato della tavola: il tovagliato di lino ricamato a

mano del Salento e di Alberobello, i piatti in ceramica di Terlizzi e di Grottaglie, e così via. Nel frattempo ha incominciato a proporsi come ambasciatore della gastronomia pugliese al di fuori della Regione; fra pochi giorni si esibirà al ristorante Fontanafredda di Monteporzio Catone, vicino Roma, e poi a Firenze; ma il battesimo lo ha avuto il mese scorso a Torino nella prestigiosa sede dell’Eataly, la mostra mercato dell’eccellenza gastronomi-

ca italiana inventata da Oscar Farinetti, geniale imprenditore piemontese. Esibirsi all’Eataly (si pronuncia “Italy” ed è un bizzarro accostamento fra “eat”, che in inglese vuol dire “cibo”, e Italy) equivale ad una Laurea 110 e lode e Piero se la è abbondantemente meritata.

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Ho avuto la piacevole ventura di partecipare anch’io a quella serata e posso testimoniare che si è trattato di un successo e di una grande occasione per far conoscere le delizie della cucina pugliese. Piero è stato un perfetto presentatore e lo chef Sabino Costanzo ha superato se stesso; il benvenuto agli illustri ospiti è stato dato da un assaggio di panzerotti e focaccia barese accompagnato da un delizioso rosato salentino; a tavola poi si è proseguito con una “cialledda”, la burratina della Valle d’Itria con sedano e cipolla caramellata di Acquaviva, con cozze ripiene e fave e cicorie; la classica, storica “tiella” barese (riso, patate e cozze) e alici fritte. Certo non potevano mancare le orecchiette, ed eccole infatti con cavoli e lardo di Faeto croccante, seguite da “Troccoli con fagiolini, pomodoro e cacioricotta”. E’ stata poi la volta del “Pignatino di Alberobello” (spezzatino di vitellino podolico cotto con le carote). Per

finire un delicato “Sorbetto di fichi di Polignano e mandorle di Toritto”,, seguito dagli “Sporcamuss”,, fagottini di pasta sfoglia ripieni di crema calda con agrumi, da mangiare assolutamente con le mani. Il tutto innaffiato abbondantemente dai superbi vini delle Cantine Rivera. Al termine della modesta, semplice, quasi francescana cena, ho visto molti commensali di origine pugliese trapiantati a Torino, con le lacrime agli occhi. Sono ormai passati due anni da quando Piero Conte ha assunto il comando del Terranima e il successo è riconfermato ogni sera da una clientela esigente, sempre più numerosa e soddisfatta. Alcune guide gastronomiche di Germania, di Russia, persino di Australia, hanno incominciato ad accorgersene ed a segnalarlo; adesso speriamo che se ne accorgano anche le guide italiane e che qualcuno dei severi critici del Nord si spinga fin quaggiù per conoscere questo ristorante e che gli attribuiscano i gamberi, le forchette, le stelle e i soli che si merita. Noi di “Gustare l’Italia”, abbiamo deciso di premiarlo con la nostra “luna”, una luna piena, luminosa, non turbata da nessuna nuvola.

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di Marianna Iodice - Foto di Francesco Sgobba

L’artigiano in tavola

Tra pavoni e campanelle, le tovaglie di Alberobello

“Nel corredo di una donna non può mancare una tovaglia di fiandra bianca” ci “istruiscono” ad Alberobello le signore del paese mentre illustrano l’importanza che aveva, ma che ancora ha, il corredo di casa in questa cittadella baciata dalla frescura della collina, dal sole pugliese e dalla sua storia feudale che, tra i capricci e le efferatezze del Conte di Conversano, ha regalato al territorio i trulli, unici al mondo e ammirati in ogni angolo della terra. Siamo quattro donne sedute in cerchio all’ingresso di un trullo e chiacchieriamo confidenzialmente sull’arte del ricamo, del punto a giorno, del punto gigliuccio “uno dei più antichi”, sulla canapa che “oggi non si fila più”, sul cotone e sul lino, il più apprezzato per len-

zuola, asciugamani e tovagliati. Tra noi tiene parola allegra e desiderosa di spiegarmi le usanze del posto Cristina Greco, esperta artigiana locale; ci racconta che qui, fino ad una ventina d’anni fa, si tesseva ancora con telai a pedale di legno, “e qualche artigiana ancora li usa per creare filati unici, per canovacci e tovaglie”. Proprio nella sua bottega in bella mostra si erge, grande e rugoso, un telaio di almeno duecento anni, la cui vita è tutta segnata nelle venature e nelle piccole crepe del legno scuro. Nel dopoguerra, passeggiando lungo le viuzze, fra i coni di pietra, avremmo visto, sbirciando attraverso le porte, tessere con telai di diverse misure, almeno tre donne per ogni vi-

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colo. I telai si smontavano e rimontavano per farli passare attraverso la piccola porta del trullo, e si posizionavano nell’unico punto luce della casa, l’ingresso. Si usava persino prestare i telai o affittarli per qualche mese, il tempo giusto affinché ogni ragazza potesse farsi il proprio corredo, “il suo tesoro, il bene che la donna portava nel patrimonio della famiglia”. Tra la biancheria di casa, quella di tutti i giorni, ma soprattutto della festa, la tovaglia era il pezzo messo maggiormente in bella mostra, quando il pranzo riuniva la famiglia. La tradizione qui non s’è spenta e oggi è ancora possibile aprire sulla propria tavola una bella tovaglia di lino bianco o grezzo, tessuta artigianalmente, l’addobbo perfetto per una bella mensa imbandita. Le tovaglie di Alberobello sono piccoli capolavori d’arte: trama e ordito, trama e ordito, filo dopo filo, le tessitrici riescono oggi come un tempo, a creare il tessuto con i disegni tipici, greche, galli, e altri simboli di buon auspicio. Mi congedo dalla mia compagnia e cammino, fra frotte di gente, lungo la via del quartiere Monti, per andare curiosare tra pile e pile di bella biancheria in uno dei negozi più antichi del paese; nella sua bottega Maria Matarrese e sua figlia Diana creano ancora tovaglie di lino come si faceva una volta.

Al tatto si scoprono subito i rilievi del tessuto che decorano la base grezza, fatta secondo una tecnica antica di almeno quattro secoli. Sul campo chiaro del lino spiccano i motivi decorativi, il pavone, simbolo di immortalità, la campanella, la fedeltà, l’uva pugliese, l’abbondanza, motivi semplici, segni lontani tramandati da nonna a nipote. Con un gesto veloce Diana apre una alla volta varie tovaglie le cui grazie colorate rifulgono al sole: il giallo, ottenuto con mimosa e limone, il blu della mora selvatica, il neutro del mallo di mandorla, l’azzurro del glicine e del limone, il rosa tenue della camelia, il rosso del papavero, il verde acqua, che nasce dall’unione di basilico e mallo di mandorla. Guardandole una ad una immagino che nulla potrà essere più buono di una bel piatto casereccio gustato, con amore, su una tovaglia così bella insieme ai miei cari…

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© Gianni Renna

In cantina

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© Gianni Renna

di Angelo e Piero Solci

Corso di sommelier per ignari ‘Se sapessimo gustare il vino, il pane, un’amicizia, sapremmo gustare allo stesso modo ogni istante della nostra vita, nel rispetto e nell’ascolto silenzioso della buon’ora che passa’ .

I sapori del vino

Jean Trèmoliers

Quale filosofo disse che l’uomo si distingue da tutti gli altri animali per due cose: bere senza sete e fare l’amore in ogni tempo dell’anno? Per “bere senza sete” deve intendersi il bere che si fa di vino, naturalmente. Queste riflessioni ci pongono innanzi l’importanza di saper degustare il vino e ciò significa osservare, valutare l’aspetto visivo, olfattivo, gustativo e postgustativo attraverso i nostri organi di senso dove arrivano gli stimoli che vengono riconosciuti e catalogati dal nostro cervello. L’intenzione di queste “pagine” è quella di condurre il lettore ad apprendere questa arte per la quale occorrono dedizione, rigore, presenza mentale e pratica frequente, applicando le regole e la grammatica necessarie. Insegnerà soprattutto, almeno lo sperano, a conoscere i vini e ad apprezzarli; saper degustare è alla base del saper bere. La degustazione insegna la maestria e il buon uso dei nostri sensi. I buoni vini incitano alla sobrietà e l’alcolismo è la sanzione del bere male. Bevete meno ma siate difficili nelle vostre scelte. Ogni volta che acquistate un vino indegno, fate un torto alla causa del vino. Goethe scriveva: “La vita è troppo breve per bere

un cattivo vino”. La degustazione insegna anche a parlare di vino. Bere vino non è un piacere solitario; se è buono, fatelo sapere ai vostri amici. Ci sono pochi piaceri che rendono così eloquenti come quelli che si dividono con un bicchiere in mano. A questa scuola, vedrete, diventerete presto eruditi. La degustazione deve essere per voi un mezzo di controllo permanente della qualità. Qualunque sia il tipo di vino, bisogna che apprendiate a degustarlo bene. Abbiamo sempre bisogno, del resto, di perfezionarci. Vi è difficile fare progressi in questo ambito se gustate solo il vostro vino. Approfittate di tutte le occasioni per uscire dalla vostra casa, della vostra area di denominazione,

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© Gianni Renna

dalla vostra regione, dal vostro paese. Si ridiventa spesso molto modesti da questi confronti. Se siete originari di un paese di tradizione viticola, siete eredi della civilizzazione del vino; questo vi attribuisce dei doveri, ma potete appartenere anche ad un paese poco colonizzato dalla vigna. In entrambe i casi, siete contemporaneamente rappresentativi e responsabili della qualità dei vostri vini. Siete voi che, in un certo senso, “fate” la loro qualità; se ci sono i vini cattivi è perché ci sono cattivi bevitori. “Il gusto è simile alla grossolanità dell’educazione”. Bevete il vino che vi meritate. Scegliete di bere meglio, accettate di pagare più caro un vino perché è superiore e i vini ben presto miglioreranno. Sta al consumatore scoraggiare gli autori di cattivi vini. Da un punto di vista più tecnico i propositi sono: spiegare le relazioni esistenti fra le varie componenti del vino e le sensazioni che esse producono; insegnare a gustare il vino valutandone in modo completo le caratteristiche; permettere a ciascuno di mettere a punto un proprio sistema di “lettura” dei vini rendendolo perciò più gratificante.

Per realizzare questi propositi sarà anzitutto necessario imparare l’alfabeto, cioè la tecnologia necessaria per definire i vari aspetti di un vino e per spiegare la tecnica dell’assaggio; individuare i caratteri fondamentali di ogni vino e le diverse fasi della degustazione. E’ quel che faremo a partire dal prossimo numero.

I GEMELLI DEL VINO Piero e Angelo Solci (nerlla foto insieme ai genitori e al fratello Felice) sono rispettivamente perito agrario ed enologo. Sono cresciuti tra botti e bottiglie nella bottega di vini e oli pregiati che il padre Cesare aveva aperto a Milano nel 1938. Entrambi sommellier (e docenti ai corsi AIS) hanno alle spalle esperienze professionali in numerose cantine italiane ed estere. Nel 1971 hanno aperto insieme l’Enoteca Solci di via Morosini, a Milano, offrendo alla clientela la miglior produzione italiana e di tutto il mondo, con un occhio di riguardo per gli alimentari speciali e i prodotti regionali di altissima qualità. Nell’arco di un trentennio via Morosini è stata teatro di appuntamenti destinati agli amanti del buon bere: aste, degustazioni, mostre, sfilate, abbinamenti tra vini e cibi, tra vini e libri, tra vini e musica.

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di Arabella Pezza

D’ Araprì Qui nascono bollicine di qualità che nulla hanno da invidiare ai migliori spumanti del Nord

D’Araprì è l’acronimo delle iniziali di tre amici - Girolamo D’Amico, Louis Rapini e Ulrico Priore - suonatori di jazz con un’immensa e smisurata passione per il vino (ereditata dai genitori) che, nel lontano 1979, quasi per caso, per scommessa, si sono messi a produrre spumante a San Severo, un paesino nel cuore della Daunia, in provincia di Foggia. E questo solo dopo un lungo viaggio nella zona dello Champagne, per apprendere i segreti e le tecniche della vinificazione. I vigneti di San Severo sono tra i più noti e meglio tenuti di tutta la Puglia. Si trovano proprio a ridosso del Gargano, sono protetti dalla Maiella e si avvalgono di un particolare microclima favorevole alla coltivazione dell’uva, in particolare a bacca bianca. Questo grazie sia alla protezione montuosa, sia alla notevole ventilazione del luogo, che impedisce le gelate, non consente che attecchiscano malattie crittogamiche e permette il poco utilizzo di prodotti antiparassitari. Oggi, dopo oltre trent’anni, su questi terreni grigio-gialli di natura argilloso-calcarea, vengono prodotti gli spumanti Metodo Classico d’Araprì: si tratta dell’unica realtà in Puglia e una delle poche dell’intero Meridione. Sin dalla sua nascita la Casa d’Araprì si è posta l’ambizioso obiettivo di raggiungere il più alto standard qualitativo, proponendo al consumatore la sua precisa filosofia produttiva:

tutte le fasi della lavorazione vengono infatti seguite personalmente dai fondatori della Casa e il carattere artigianale garantisce non solo l’alta qualità dei prodotti, ma anche il rispetto assoluto della tradizione champenoise. Proprio per questo abbiamo deciso di intervistare Girolamo D’Amico e di farci raccontare da lui personalmente come nascono i vini d’Araprì. “Lo spumante in Italia viene prodotto un po’ ovunque, sia utilizzando i classici vitigni della tradizione francese (come Chardonnay e Pinot), sia i vitigni autoctoni, talvolta anche miscelati con quelli d’oltralpe. Al Centro e al Sud, rispetto al Nord, non esistono territori espressamente vocati alle bollicine di qualità: esistono però produttori vocati alla qualità, come noi. La nostra cantina utilizza anche le varietà tradizionali e autoctone Bombino e Montepulciano - e questo un tempo era davvero impensabile! - per produrre que-

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sti spumanti di pregio, che hanno i caratteri della modernità ma un cuore antico”. Da sottolineare che, oltre a un buon riscontro tra i consumatori (che più di tutti decretano il successo o l’insuccesso di un vino) d’Araprì raggiunge ogni anno risultati eccellenti: nell’edizione 2010 di Sparkle Bere Spumante la loro Dama Forestiera, realizzata solo in magnum, ha conquistato le 5 sfere, il massimo punteggio, e questa è in assoluto la prima volta che uno spumante prodotto al di sotto della “linea gotica” ottiene un tale riconoscimento. “La Dama Forestiera ha una storia affascinante: alla fine del 1800 la dama inglese Elisa Crogham si era ritrovata a gestire da sola il grande tenimento del suo defunto convivente, l’ultimo Principe di San Severo, Michele di Sangro. E’ proprio per suo volere che l’intero territorio diventerà uno dei maggiori vigneti d’Italia: così la Crogham è entrata nella storia col nome de La Dama Forestiera e d’Araprì ha voluto renderle omaggio dedicandole una Cuvée speciale, ottenuta da uve a bacca nera Montepulciano e Pinot nero, vinificate in bianco, delle quali si adopera esclusivamente il mosto di prima spremitura. Viene inoltre affinata nella quiete e nella freschezza delle nostre cantine lentamente, per almeno 5 anni, e questo le conferisce finezza ed eleganza. Le nostre cantine risalgono al 1600 e sono a ridosso della Chiesa di San Nicola, una delle più antiche della città. Si estendono sotto a storici palazzi: qui si possono ammirare numerose testimonianze del passato come un pezzo delle antiche mura di cinta del 1200, un’antica pressa del 1836 e la prigione dei Carbonari Morelli e Silvati. E’ in questo storico ambiente che invecchiano al buio migliaia e migliaia di bottiglie”.

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E gli altri prodotti? “Oltre al Brut, che ottiene da sempre larghi consensi (ne vengono prodotte oltre 70.000 bottiglie n.d.r.) in quanto e più morbido, è molto apprezzato anche il Rosè. Negli ultimi due anni, infatti, va molto di moda: è un perfetto vino da tutto pasto, oltre ad essere l’ideale per un tipo di alimentazione povera di grassi, mediterranea, come lo è la nostra. Si tratta di un vino carico, che viene a contatto con le bucce, che si avvicina molto ai più titolati rosati del nord”. Dove si utilizzano varietà autoctone e tradizionali nascono vini che possiedono caratteristiche ben diverse dagli spumanti realizzati con Chardonnay e Pinot e che sono dotati di una personalità tutta particolare. I d’Araprì sono riusciti a trarre dall’unione vitigno-territorio prodotti di altissimo livello e qualità, davvero eccezionali. Spumanti di pregio “con i caratteri della modernità ma il cuore antico”,, come ha giustamente sottolineato Girolamo D’Amico, che non solo contribuiscono alla diffusione dei luoghi e degli uomini che hanno “fatto” la storia della Daunia, questa terra meravigliosa e generosa come la popolazione che la abita, ma che divulgano anche le eccellenze del Made in Italy in tutto il mondo.

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della Redazione - Foto di Gianni Renna

Il vino in pentola Chi per primo ha avuto l’idea di aggiungere del vino nella cottura di un cibo? Certamente nessuno nel mondo greco e romano, di cui abbiamo ampie notizie e prima meno ancora. E’ ragionevole supporre che siano stati i francesi in età più vicina a noi quando nella loro civiltà la cucina diventò sempre più raffinata.

Grazie anche all’influsso del Rinascimento italiano, soprattutto ad opera dei cuochi al seguito delle regine medicee (è un luogo comune ormai accettato da tutti che l’uso della forchetta venne insegnato ai cugini d’Oltralpe da Caterina de Medici, andata sposa a Enrico II di Francia). E’ poi curioso che quello che gli insegnammo secoli dopo sono venuti a riproporcelo come loro invenzione: infatti, un dato sicuro è quello che quando le armate francesi guidate da Napoleone imposero la nascita della Repub-

blica Cisalpina con capitale Milano, si ebbero in Italia molte ripercussioni nel modo di vivere, anche a tavola. Fu allora che da noi si cominciò ad usare il vino in cucina come apprendiamo, per esempio, nell’evoluzione del risotto alla milanese. Quando se ne parla il punto è sempre lo stesso: ci vuole o non ci vuole il vino? E se ci vuole deve essere il bianco o il rosso? Era questo un quesito che nessun cuoco si era mai posto prima dell’Ottocento. In un suo trattato Vincenzo Buonassisi, con Veronelli - il più grande gastronomo italiano -, classificò alcune centinaia di ricette in cui entra il vino, oltre a qualche decina con i liquori e i distillati. Ne ricordiamo alcune incominciando proprio dalla prima che riguarda il risotto alla milanese. Fino alla fine del Settecento nessun cuoco si sarebbe permesso di mettere del vino nel più tradizionale piatto meneghino: secondo la tecnica culinaria ortodossa non ci doveva essere vino, soprattutto non doveva esserci il rosso che attenua lo stupendo giallo oro prodotto dallo zafferano (anche se indubbiamente arricchisce il gusto). Il vino bianco dà invece una sfumatura più raffinata ed elegante. Dopo due secoli di contrasti siamo giunti alla conclusione che forse si può mettere il vino nel risotto alla milanese, ma possibilmente solo il bianco e soltanto con una spruzzata e verso la fine della cottura, quando i chicchi sono pronti e questa aggiunta serve a conferire una certa sfumatura di aroma e sapore. Ed è meglio il bianco che il rosso. E già che ci siamo scegliamo un vino pugliese, con questo gemellagio gastronomico tra Nord e Sud contribuiremo a ricordare l’Unità d’Italia, di cui si sta per festeggiare il 150° anniversario.

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RISOTTO ALLA MILANESE CON IL BIANCO DI LOCOROTONDO Ingredienti per 6 persone 600 g di riso Vialone; 150 g di burro; 120 g di Parmigiano; 80 g di midollo di bue; 1 cipolla; zafferano; brodo di carne; sale; vino bianco. Preparazione Scaldare metĂ del burro nel tegame, unire la cipolla mondata e affettata sottilmente; lasciare che diventi traslucida senza prendere colore, unire anche il midollo e lasciare che si disfi. A questo punto aggiungere il riso e lasciarlo abbrustolire, rimestando spesso con un mestolo in legno. Mano a mano che il brodo si consuma, aggiungerne ancora. Quando il risotto sarĂ quasi giunto a cottura, unire lo zafferano, mescolare, amalgamare e spruzzare col vino bianco.

Ricette

Togliere dal fuoco, mantecare incorporando burro e formaggio e servire subito, ben caldo.

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In giro per...

La Puglia

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di Alice Balestrini

I caraibi delle api

Il Gargano

I piatti garganici sono sapidi e ricchi, ma nello stesso tempo genuini e autentici, così come sono anche le genti che abitano questa zona generosa. Il pane, alimento cardine della dieta mediterranea, è uno degli ingredienti principali di numerose portate: qui lo si gusta abbrustolito (la celeberrima “bruschetta”), semplicemente condito col meraviglioso olio extra vergine d’oliva locale oppure con pomodorini, origano e cipolla; si tratta di uno dei più classici antipasti “all’italiana”.

Tra le portate principali ecco le mitiche orecchiette con patate e rucola; la classica zuppa di pasta e fagioli; le paste fatte a mano come i cecatelli, da gustare insaporiti col pomodoro fresco. Inoltre, sempre presenti, le minestre a base di verdure fresche, come quella di cicorie selvatiche, con rucola e patate, con scarola e cicoria o con le fave. La carne regna sovrana tra i secondi piatti: soppressate, salsicce, salami, capocolli… e ancora formaggi e uova da abbinare agli immancabili ortaggi locali. E tra i vini? Nonostante il territorio sia particolarmente vocato alla viticoltura, questa rappresenta oggi solo una nicchia tra le principali attività agricole. Tuttavia, impossibile non citare i “Vini di Monte Sant’Angelo” (tra i più antichi della zona), i “Vini di Vico” e il Moscato

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autoctono che - si racconta - veniva servito sulle tavole dei Borboni. Sono proprio certi di questi piatti e di questi vini la prima memoria che ho a proposito della terra di Puglia; premetto che sono trascorsi parecchi anni, oramai, tuttavia ricordo ancora un lungo pranzo durante il quale ho avuto modo di assaggiare numerose specialità: la tiella, preparata con le patate, il pecorino e il pangrattato; il fragagghjamme, a base di piccolissimi pescetti crudi; il beneditte, con uova sode, formaggio, arance affettate e salame; le strascinate col finocchietto, una variante delle orecchiette; ed infine la sapida carne d’agnello. Mi dovevo imbarcare per le vicine Isole Tremiti e non volevo proprio farmi mancare nulla, prima di intraprendere il breve viaggio alla scoperta di questa meravigliosa riserva marina che fa parte del Parco Nazionale del Gargano.

L’arcipelago è composto da 5 isole: San Domino (la più grande); San Nicola (dove risiede la maggior parte della popolazione); Caprara e Pianosa (disabitate) e il Cretaccio (uno scoglio di creta tra San Nicola e San Domino). Quello che maggiormente mi incuriosiva di questo mio primo itinerario era la fascinossissima leggenda legata all’eroico condottiero omerico Diomede. Le isole Tremiti, infatti, sono dette anche Diomedee in quanto la leggenda narra che nacquero proprio per mano dell’acheo, che gettò in mare tre enormi massi portati da Troia: ecco erigersi San Nicola, San Domino e Caprara. E ancora oggi, nelle notti di luna piena, è possibile udire l’urlo straziante dei suoi compagni di viaggio, tramutati da Afrodite - forse per compassione, forse per vendetta - in uccelli; si tratta delle Diomedee (che sulle isole chiamano arenne), uccelli epici che emettono un

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lamento simile al vagito di un neonato. Appena sbarcata a San Domino, l’isola maggiore e più vocata al turismo, mi ero prenotata per potermi recare di notte, con una barca, ad ascoltare i garriti delle Diomedee. Per una volta la vacanza non voleva solo essere alla scoperta delle bellezze naturali del luogo e della gastronomia tipica del territorio, ma mi auspicavo che si tramutasse anche in una mia personalissima conquista privata: vivere in prima persona una vera e propria leggenda, che su queste isole mitiche si tramanda da sempre, nei secoli. San Domino, la “Regina delle Tremiti”, è ricoperta da una caratteristica pineta di pini d’Aleppo che arriva in molti punti fino alle rocce a strapiombo sul mare. Io alloggiavo in una stanza che si affacciava sul minuscolo centro del capoluogo e, appena sbarcata, avevo individuato lì vicino il posto giusto dove fermarmi ad assaggiare le specialità locali: triglie, orate e aragoste freschissime. La sera scendeva veloce e silente, ero quasi pronta ad imbarcarmi per andare, finalmente, alla scoperta delle arenne di Diomede.

Seduta al tavolo della trattoria gustavo un sapido piatto di spaghetti con triglie e pomodorini, condito con abbondante olio extra vergine d’oliva, di fronte a me un calice colmo di un vino chiaro e freddo come la luna che occhieggiava nello smisurato cielo estivo. Quando, pronta ad alzarmi, ecco una nube ronzante avvicinarsi velocemente: api impazzite, ovunque. Certo, le zone del Gargano vengono anche chiamate “Caraibi delle api”, come dimenticarsene? Lo sciame ci aveva terrorizzati tutti: il patron del ristorante, che agitava vorticosamente le lunghe braccia magre per scacciare gli insetti; il ragazzo in cucina, che correva a nascondersi in bagno, sbattendo forte le porte; una coppia di pingui avventori tedeschi molto biondi, e molto tedeschi, che cercava rifugio sotto al tavolo; il marinaio che doveva condurmi in barca, sì, proprio lui, che - benché non fossi in grado di comprendere ogni sua parola - si allontanava a grandi falcate affermando che non sarebbe più stato possibile uscire con la barca. Ecco i miei sogni infranti, niente Diomedee al chiaro di luna, niente gita in mare. Ma era stato tutto inutile? Avevo contemplato il mare di Puglia; il celeberrimo “Sperone d’Italia” e le 53 specie di orchidee che crescono nel triangolo Apicena - Monte Sant’Angelo - Sannicandro; le isole di Diomede e, comunque, avevo gustato alcune tra le migliori specialità tipiche della tradizione gastronomica locale. Nonostante l’improvviso sciame d’api “dei Caraibi”, personalmente ero molto soddisfatta del mio primo viaggio in questa terra.

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di Felice Maratea

Il territorio incantato delle Cento Masserie di Crispiano Nel cuore della Puglia, tra la Murgia e la Valle d’Itria, si distende il paesaggio delle Cento Masserie di Crispiano, in un suggestivo percorso tra colline mediterranee e pianure ricoperte da ulivi. Si incontrano kilometri dopo kilometri, dalle più piccole masserie rurali alle più imponenti strutture a corte chiusa, con mura fortificate la cui epoca va dal 1400 alla fine dell’800. Tutto il territorio si distende tra piante di ulivi secolari i cui frutti, per le loro qualità alimentari, terapeutiche e simboliche, sono da secoli considerati i doni più pre-

ziosi concessi dagli dei all’umanità. Nelle masserie ritroviamo quello che Dante chiamava “il licor d’ulivi”, l’olio sia nei sapori genuini della tradizione culinaria, sia nei trattamenti di fito-cosmetica a base d’estratto d’uva e olio d’oliva, due prodotti naturali con forte azione anti-ossidante frutto di una tradizione millenaria. Ogni masseria è scrigno di tesori: tra palazzi padronali e chiese affrescate, tra torri di vedetta e stalle nei trulli, tra ovili settecenteschi e frantoi ipogei, tra aie e corti delle feste, tra

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© Mirko Lo Russo

apiari e piccionaie in pietra, tra profonde cisterne scavate nella roccia e interminabili muri a secco… Con l’ambizione di valorizzare questo caratteristico territorio è nato il consorzio “Le Cento Masserie” di Crispiano, con il compito di promuovere l’immenso patrimonio paesaggistico, culturale e gastronomico di questa terra. Grazie all’impegno del Consorzio, in poco tempo si è ottenuto il recupero delle masserie storiche che, ritornando all’antico splendore, possono vantare oggi un’offerta ricettiva in grado di soddisfare ogni esigenza, disponendo sia di lussuose camere dotate di ogni confort, sia di più modeste ma graziose camere di campagna in cui è possibile rilassarsi immersi nel verde e a contatto con la natura. Cento realtà che lavorano in sinergia tra loro: è questa la peculiarità che rende unico questo luogo incantato dove è possibile, andando da una masseria all’altra, visitare aziende vitivinicole, olearie, zootecniche, casearie, tutte di primissima qualità. In poche decine di ettari si ritrovano tutti i tesori di questa terra incantata che è la Puglia. Passando di sorpresa in sorpresa ci si può imbattere, per esempio, in un allevamento di asini murgesi, gli stessi che hanno aiutato per secoli gli uomini nei duri lavori dei campi, quelli i cui antenati trasportavano i cannoni della Prima Guerra Mondiale. Per decenni sono stati dimenticati ed hanno rischiato l’estinzione; oggi grazie ad alcuni allevatori si stanno recuperando questi animali che, al contrario dei luoghi comuni, non sono affatto stupido e sono da alcuni addirittura definiti medici. Infatti, oltre alle proprietà cosmetiche ed alimentari del latte d’asina, famose fin dai tempi di Poppea, pochi sanno che avvicinarsi ad un asino e giocare con lui può aiutare molti pazienti con problemi psi-

cologici ; la cosidetta “onoterapia” è riconosciuta scientificamente come tecnica riabilitativa. Accanto alla fruibilità ricettiva, il Consorzio offre come importante novità nel panorama turistico regionale, la possibilità di conoscere il territorio attraverso percorsi personalizzati e tematici: sono itinerari gastronomici, archeologici, religiosi, del benessere, oltre al caratteristico percorso dei briganti, primi tra tutti quelli di don Ciro Annicchiarico e Pizzichicchio. Don Ciro Annichiarico, detto Papa Giru, il prete brigante le cui gesta hanno ispirato scrittori di tutto il mondo. Numerosi sono i volumi che narrano le sue prodezze: tradimenti, omicidi, assalti, travestimenti e tanta passione. Visitare la caverna in cui si rifugiava il prete brigante è solo una delle numerose tappe di questi inimitabili percorsi, che conducono il visitatore in un sentiero da scoprire,

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per ammirare le meravigliose cappelle, musei di civiltà contadina, siti archeologici che testimoniano la vicinanza con la capitale della Magna Grecia o, più semplicemente, ambienti rurali in cui per secoli si è alternata la vita di poveri e nobili. A rendere ancor più interessante il territorio delle Cento Masserie di Crispiano, un ricco calendario di eventi culturali, teatrali, artistici, musicali ed equestri con importanti appuntamenti in ogni periodo dell’anno. Lo spirito delle iniziative territoriali è quello di creare eventi di turismo culturale fortemente integrati: tradizioni popolari, agricoltura, architettura, turismo, ambiente, archeologia. Di particolare importanza le ultime scoperte in ambito archeologico. A Crispiano, nella masseria l’Amastuola, è stato scoperto il probabile punto di contatto tra i Greci e le popolazioni indigene e, invertendo le teorie note sulla conquista Greca, pare che i due popoli condividessero pacificamente il villaggio.

Una scoperta di rilevanza storica senza precedenti sul territorio fatta dall’Università di Amsterdam che ha condotto gli scavi e che, dopo averne riconosciuto l’importanza scientifica, porta la necessità di trasformare le testimonianze del passato, un passato glorioso, in una risorsa per il presente. Un parco archeologico quindi che possa mirare da un lato a valorizzare le risorse insite nel parco, e dall’altro generi sviluppo economico intorno all’archeologia. Oggi più che mai conoscere le radici e i valori più antichi rappresenta un patrimonio inestimabile perché quello che si trova nel sottosuolo archeologico è speculare al presente, lo arricchisce e lo alimenta. Si tratta quindi di creare qualcosa di vivo, qualcosa che instauri un circolo comunicativo con il presente, allora sì che la scoperta diventa arricchimento per tutti i cittadini. Per questo è stato creato il percorso della Magna Grecia che trasporta gli ospiti nel mondo classico dai Greci fino ai

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Romani con una parte di acquedotto ipogeo percorribile a piedi. Gianpaolo Cassese, Vice Presidente del Consorzio, dichiara: “La nostra passione per la campagna ed il nostro impegno nelle produzioni agroalimentari di qualità si traduce oggi in una nuova opportunità di sviluppo: il rilancio turistico delle masserie, contenitori di storia, cultura e tradizione”. Pierpaolo Palmisano, tesoriere: “Il territorio di Crispiano aspettava da 20 anni un soggetto giuridico che si facesse carico della promozione dell’intero territorio attraverso azioni concrete ed obiettivi precisi. Una lunga attesa che si è concretizzata nel Consorzio. La mia è anche una soddisfazione generazionale, in

quanto mio padre fu tra gli ideatori del brand delle Cento Masserie”. Il Presidente Antonio Prota, soddisfatto dei risultati già raggiunti: “Il Consorzio è stato creato per dar voce a un territorio splendido della Puglia, che ha lasciato nei secoli quelle testimonianze meravigliose ed uniche della presenza dell’uomo. La mission del Consorzio è quella di aprire le masserie ai turisti alla ricerca di antiche tradizioni gelosamente conservate per far conoscere un’area ricca di unicità, fuori dai consueti percorsi. Imperdibile poi la possibilità di assaporare prodotti freschi e appena raccolti in un tour gastronomico di sapori esaltati dal nostro elisir di lunga vita: l’olio extravergine”.

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Chi non conosce quella parte d’Italia che da Bari arriva a Santa Maria di Leuca segua il nostro consiglio: cancelli la prenotazione per le Maldive o per Mauritius e parta per una, due, cinque settimane, un anno sabbatico lungo le sue coste o nell’interno. Scoprirà il mondo fantastico delle rocce a picco sul mare del canale di Otranto, gli alberi millenari della Selva di Fasano, la magia di Ostuni, bianca regina degli ulivi, la preistorica Grotta dei Cervi di Porto Badisco, il mistero dei dolmen e dei menhir di Calimera, il fascino

barocco di Lecce, il silenzio incantato delle Grotte di Castellana, la poesia dei trulli di Alberobello. Se poi è anche un autentico gourmet, il piacere sarà ancora più grande perché poche regioni d’Italia sono ricche di tesori gastronomici come questa. Dai vini agli oli agli ortaggi ai legumi ai cereali alle carni ai latticini, dovunque è una scoperta di sapori, di profumi, di aromi esaltati da una cucina che risente le influenze dei popoli che qui si sono succeduti nel corso della storia:

© Gianni Renna

di Cino Tortorella

I tesori della Valle d’Itria

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messapi, greci, romani, normanni, svevi, arabi, saraceni, francesi, spagnoli, borboni… sono tornato qualche settimana fa nella Valle d’Itria, detta anche Murgia dei trulli, dove si producono i migliori formaggi e latticini del mondo; per chi ama questi prodotti siamo nell’Eldorado, nella Shangri-là, nel regno dei sogni. Mi ha fatto da cicerone Saverio Buttiglione, un produttore televisivo di Putignano. Con Saverio siamo dunque partiti per una full immersion nella Valle che prende il nome dalla Madonna nera di Odegitria (“colei che indica la strada”) venerata nel rito bizantino. In una splendida giornata di sole ci appare tutto il suo fascino, da Locorotondo a Cisternino a Martina Franca, un paesaggio incantato in tre tonalità: l’azzurro violento del cielo, il verde dei mandorli, dei fichi, degli ulivi centenari, il bianco accecante degli antichi tratturi, delle masserie, dei trulli. “Sono circa 25000”, mi dice Saverio, “i trulli sparsi nella vallata perché le proprietà non so-

no molto grandi; anticamente i potenti latifondisti concedevano in enfiteusi un tomolo (poco meno di un ettaro di terra) che i contadini avevano il compito di dissodare per renderlo coltivabile; con le pietre recuperate creavano i muretti per delimitare la proprietà e costruivano i trulli sovrapponendole a secco nella caratteristica forma conica secondo la tecnica importata forse dagli arabi”. Ogni appezzamento aveva perciò il suo trullo e il numero delle cupole aumentava con l’aumentare della famiglia. Si è creata così nel tempo una parcellizzazione del terreno condiviso fra molti proprietari: con tutti i vantaggi (la personalità dei prodotti) e gli svantaggi (lo scarso guadagno) connessi. Il GAL, Gruppo di Azione Locale, si è costituito appunto per salvaguardare queste realtà locali che altrimenti sarebbero destinate a scomparire con il loro carico di tradizione e cultura che rappresenta l’identità stessa della gente del posto.

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Fortunatamente stanno nascendo un po’ in tutta Ia regione gruppi, formati in prevalenza da giovani che, assieme alla salvaguardia dei prodotti gastronomici, riscoprono e riprendono le antiche usanze, ristrutturano i siti storici abbandonati, proteggono aree naturali, recuperano attività dimenticate.

Latticini in trionfo Mi porta a visitare alcune masserie che hanno ripreso fiato e continuano a produrre gi straordinari latticini che hanno reso famosa la Valle d’Itria. La maggior parte dei bovini qui è di razza bruna pugliese, un incrocio tra la Podolica (una razza quasi selvatica abituata ai terreni non facili e ai pascoli stenti della Murge) e la Bruna Alpina, di grande produttività; le capre sono altamurane, famose oltre che per il latte, per la lana grezza e ruvida con la quale un tempo si riempivano i materassi. Ho ancora nel ricordo i favolosi latticini che produceva alla Masseria Bilanciara Mimino

detto Pippobbaudo, dove si lavorava ancora come decine di secoli fa; il formaggio, per esempio, è fatto ancora con la cagliata animale, procedimento proibito dalla Comunità Europea; ma Mimino, alle obiezioni di chi invocava igiene, modernità, praticità rispondeva: “Per me quello che conta è la prova del nonno”. Vale a dire che ciò che ha fatto bene al nonno (morto a 96 anni) deve fare bene anche ai nipoti”. Come dargli torto? Il trionfo dei latticini a pasta filata lo incontriamo oggi alla Masseria Fragnite che prende il nome dai fragni, le querce dalle foglie rosse che nascono solo nella valle d’Itria. Questa masseria ha aperto il suo negozio dove si possono acquistare direttamente i prodotti eliminando i molti passaggi fra produttore e consumatore; si ha così un guadagno che permette la sopravvivenza. Cosimo Coliandro, i titolare, ci mostra i suoi animali: 133 capi fra i quali 26 bufale. La Fragnite è l’unica masseria pugliese dove si fanno anche le mozzarelle di bufala assieme ad altre numerose tipologie di formaggio che Cosimo descrive come se si trattasse di rari tesori d’arte (e forse lo sono) suggerendo anche il modo di assaggiarli: il cacioricotta ottenuto con latte di capra e pecora, da grattugia, leggermente stagionato, sulla pasta, perfetto con le orecchiette al sugo di pomodori freschi (dette “fiaschette” per la forma) che maturano in questa stagione; la ricotta asckuante (che brucia) nata dall’esigenza delle massaie di non gettare nemmeno la ricotta inacidita, anzi più è piccante più è gradita perché fa bene alla circolazione ed è anche afrodisiaca (provatela su una fetta di pane abbrustolito bevendo

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un Primitivo di Manduria); la burrata, un’invenzione degli inizi del secolo scorso, ottenuta soffiando all’interno della pasta delle mozzarelle fino a farne una sorta di palloncino da riempire con panna e straccetti di mozzarella (una volta i casari soffiavano con la bocca ma oggi, per la tranquillità della Comunità Europea, ci sono degli strumenti appositi); le giuncatelle che venivano poste nei caratteristici canestri di giunco (i quali danno i nome anche al canestrato di Puglia), le pampanelle avvolte nei pampini dell’uva, i primosale, le scamorze, le caciotte, gli stracchini, fino ai caciocavalli così chiamati forse perché, legati a due a due, vengono messi a maturare a cavalcioni di un legno. Sono le stesse delizie che si ritrovano in quei ristoranti dove l’orgoglio regionale è vivo, per esempio l’Antica Locanda, un bel palazzo del Settecento, all’inizio del centro storico di Noci, in provincia di Bari. Pensavo di conoscere tutto della cucina pugliese, ma ho dovuto ricredermi. Nelle ore trascorse alla Locanda di Pasquale Fatalino, patron e cuoco, ho fatto un lungo viaggio nella più antica (e dimenticata) gastronomia delle Murge, nelle radici della cucina povera, nell’antiquariato di sapori, riportati alla luce con una puntigliosa ricerca filologica. Eravamo andati alla Locanda per i Fricelli con melanzane e ricotta (fruscidd ch’mulungiane e

ricott), ma siamo stati abbordati da una serie di assaggi uno più straordinario dell’altro. Oltre ai salumi, alle mozzarelle, alle burrate, alle zucchine marinate, ai carciofini sott’olio, ecco cibi di cui avevo fino ad oggi ignorato l’esistenza: le sporchie per esempio, parassiti delle fave che se non vengono tolti possono far morire la pianta cui si attaccano. Anziché buttarle, nelle Murge hanno imparato a cucinarle lessate e condite con fortissimi aceto, aglio e mentuccia; hanno un sapore che ricorda gli asparagi, ma con una gradevole violenza. Oppure le cime di vign, i viticci delle viti che, bolliti, vanno accompagnati con un purè di fave e hanno un sapore intenso e piacevolissimo; i lampascioni fritti al vincotto di fichi e uva, le cicuredd azzise (le cicorielle sedute nel brodo di pollo).

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Finalmente sono arrivati i frusciddi - un tipo di pasta fatta in casa - che abbiamo mangiato secondo la tradizione delle Murge con (altra scoperta) lu spingituro: un insieme di finocchi, sedano, ravanelli, cime di cicorie, carote, che si sgranocchiano ogni tre o quattro forchettate di pasta, e serve - assicurano gli anziani - a favorire la digestione. La ricotta sapida e profumata della masseria Don Giulio accarezza e avvolge i frusciddi e ne fa un piatto di rara perfezione; per esaltarlo Francesco Notarnicola, il sommelier, gli abbina un vino del grande Cosimo Taurino: lo straordinario Patrignone del ’95 rosso rubino

cupo, dal profumo largo e potente che continua in bocca senza cedimenti; una delle più grandi creazioni del Sud degli ultimi anni. Un altro importante appuntamento per gustare i latticini lo abbiamo avuto al Già sotto l’arco, di Carovigno, in provincia di Brindisi. Sono ritornato con grande piacere in questo ristorante al primo piano di una casa signorile del XVIII secolo nella piazza principale del perfetto borgo dominato da un castello quattrocentesco da poco ristrutturato. Se alla Locanda di Noci siamo in contatto con la tradizione più severa e autentica, qui si vive il futuro reinventato con fantasia. La cucina di questo delizioso locale assomiglia a Teresa, la solare vestale dei fornelli. Lei e il marito Teodosio detto Tosio, maître e sommelier, in pochi anni, incominciando da zero, si sono imposti come una delle più interessanti realtà della gastronomia pugliese anche sulle guide ufficiali. I molti ristoratori del Sud incapaci di capire cosa offre la loro terra dovrebbero provare ad assaggiare i Perciatelli con ricotta al finocchietto, i Ravioli di melanzane con salsa al timo, le Fave e cicoria con peperoni dolci cucinati per noi. Tosio ha perfezionato questo piatto abbinandolo al Teresa Manara prodotto da Cantele, uno Chardonnay fresco, fruttato, di buon vigore e di grande personalità, dove il legno della barrique è presente in perfetto equilibrio.

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Burrata imperiale

pregiato, gustate tutto ad occhi chiusi apprezzando l’esotica sensazione di trovarvi nello stesso istante in Russia e nelle Puglie. Comunque, su suggerimento dell’ottimo maître Nicola, anziché pasteggiare a Vodka ci siamo accontentai, si fa per dire, di una Verdeca dell’azienda Botromagno di Gravina con grande soddisfazione. Dopo cena Camillo Guerra mi conduce sul litorale nei pressi di Savelletri per mostrarmi un’altra sua creazione: la trasformazione di un’antica “peschiera” (le peschiere erano nei secoli scorsi le riserve di pesca per gli aristocratici), appartenuta ai Borboni, in un complesso alberghiero unico in Italia: una nave di pietra con dodici camere, dotate del più moderno e rivoluzionario impianto di talassoterapia a cielo aperto. Dormo in una delle bellissime suite con gli spruzzi del mare che battono sui vetri e rallegrano il mio sonno.

© Gianni Renna (2)

Il nostro tour gastronomique termina al Melograno, l’antica masseria fortificata di Monipoli, che oggi è un rifugio di assoluta bellezza chiuso fra cielo e ulivi. Camillo Guerra, vero gentiluomo del Sud colto e raffinato, lo ha acquistato negli anni Novanta, sotto forma di rudere e lo ha trasformato nell’hotel più sofisticato ed esclusivo senza alterarne le linee originarie. Guerra, innamorato dei prodotti della sua terra, dai più umili ai più preziosi, ma anche grande viaggiatore, ha scelto, fra i latticini che confeziona giornalmente il suo casaro Antonio, la burrata, per creare in ricordo di un suo viaggio a San Pietroburgo, un piatto ispirato ai blini russi, ottenuto dall’accostamento di panna acida e caviale. Per riprodurlo procuratevi la vera, autentica, inarrivabile burrata della Valle d’Itria, lasciatela inacidire un giorno o due fuori dal frigorifero, unitevi il caviale più

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di Pietro Zito

Olio d’oliva, pozione magica per grandi e piccoli “L’olio extravergine di oliva - e in particolare quello del Sud - è una difesa contro gran parte delle malattie a cominciare dal cancro; è alla base della corretta alimentazione per contrastare il drammatico problema dell’obesità infantile; è di grande aiuto per vivere una vecchiaia serena e felice” Da queste parole, pronunciate dal Prof. Schittulli durante una trasmissione televisiva, è nata l’idea di avviare i progetti “Un ulivo per la vita” e “Olibimbo” dei quali il Professore sarà testimonial, “Gustare l’Italia” e il proprio sito (www. gustarelitalia.it) gli organi d’informazione.

Un ulivo per la vita Nasce dalla considerazione della difficoltà che incontrano i produttori meridionali per promuovere e valorizzare i frutti del proprio lavoro; non è una novità che in Italia chi la fa da padrone sono i grandi produttori e le multinazionali, indifferenti alle esigenze dei consumatori e delle piccole società che ottengono olii pregiati con notevoli sacrifici. “Di quando in quando vengono fatte inchieste giornalistiche, vengono rese note autorevoli dichiarazioni di uomini politici, poi tutto torna come prima. E i produttori italiani, quelli seri

ed onesti, rischiano di venire soppiantati da turchi, tunisini, marocchini, perfino dagli ulivicultori della California da poco affacciatisi sul mercato”. È perciò avvertita l’esigenza di promuovere azioni concrete per aiutare chi fra mille difficoltà continua a fare il suo lavoro per garantire un prodotto unico al mondo. Il progetto “Un ulivo per la vita” va incontro appunto a questa esigenza. Il proposito è abbastanza semplice: chiedere ai piccoli produttori di riunirsi in consorzio e di continuare a garantire un prodotto di sicura qualità da far conoscere attraverso canali di informazione quali giornali, televisioni, internet, invitando i

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consumatori ad adottare gli ulivi del Meridione per assicurarsi quell’olio così prezioso per la cucina e la salute. Sarà un utile strumento per valorizzare e sostenere l’agricoltura meridionale, ma anche un interessante aiuto per lo sviluppo del turismo in regioni ricche di bellezze naturali ed artistiche troppo spesso ignorate o dimenticate. A partire dal prossimo numero, “Gustare Italia” fornirà tutte le informazioni che permetteranno ai nostri lettori di aderire all’iniziativa e poter: • ricevere un olio di grande qualità proveniente da zone famose per la fragranza delle loro olive, garantito oltre che dalla serietà dei produttori, dal marchio D.O.P (di origine protetta) • pagare una prezzo conveniente • contribuire a sostenere la Lega per la lotta contro i tumori del Presidente Schittulli, testimonial del progetto “Un ulivo per la vita”.

Olibimbo Il progetto nasce dalla considerazione dell’importanza dell’uso dell’olio in una corretta alimentazione per combattere il problema dell’obesità infantile che vede la nostra nazione al primo posto in Europa.

PROF. FRANCESCO SCHITTULLI Presidente della Lega Italiana Lotta contro i tumori,laureato in Medicina e Chirurgia, specializzato in Chirurgia Generale e in Oncologia con il massimo dei voti e la lode, è stato eletto più volte consigliere all’Ordine dei Medici di Bari. Già consigliere nazionale della Società Italiana di Chirurgia Oncologica e Direttore della Scuola Speciale di Senologia Chirurgica, è stato docente universitario dapprima alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Foggia e poi alla Scuola di Specializzazione in Oncologia dell’Università di Bari e al corso di specializzazione in Oncologia all’Università Tor Vergata di Roma. Direttore Scientifico dell’Istituto Oncologico di Bari dal 1993 al 1997, è dal 1993 componente della Commissione Oncologica Nazionale del Ministero della Salute. Attualmente ricopre l’incarico di Presidente della Provincia di Bari

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Il dato risulta da un’indagine del Consiglio Nazionale delle Ricerche dei primi mesi del 2007: il 35% dei nostri figli è in sovrappeso (contro il 20% degli inglesi, il 19% dei francesi, il 14% dei tedeschi) e le cause (a parte malformazioni congenite) sono le stesse più volte denunciate: scarsa attenzione nel problema da parte delle famiglie, poca attività fisica, alimentazione scorretta; le tre A: Alimentazione, Aria aperta, Amore. La fascia d’età più colpita è quella tra i 6 e 13 anni e i maschi sono i più interessati rispetto alle coetanee. Per quanto riguarda la distribuzione sul territorio il problema aumenta da Nord (un bambino su quattro) a Sud (un bambino su tre). I dati del C.N.R. dovrebbero seriamente preoccupare le famiglie e la Società se si considerano i rischi che corrono i piccoli afflitti da problemi di sovrappeso: diabete, ipertensione,

infarto, malformazioni ossee, ictus, varie forme di tumore, oltre a ripercussioni psicologiche pericolose (l’obesità comporta spesso una diminuzione dell’autostima e persino sindromi depressive). Preoccupata attenzione dovrebbe essere data anche dal Governo se si tiene conto di quanto un obeso pesa sull’economia di una nazione in termini di cure (negli Stati Uniti 117 miliardi di dollari, molto più che per l’istruzione). E’ dunque di questo gravissimo problema che ci occuperemo su “Gustare l’Italia” con l’iniziativa che abbiamo chiamato “Olibimbo” proprio perché l’olio dovrebbe essere alla base di una sana alimentazione, una delle armi più efficaci per combattere l’obesità infantile. Certo la mancanza di movimento, di giochi all’aria aperta, di sport hanno anche una forte incidenza: troppe ore passate davanti ai computer, ai videogiochi, alla televisione da bambini costretti agli arresti domiciliari (soprattutto nelle città) per mancanza di luoghi dove poter giocare o praticare sport, ma una alimentazione scorretta è molto più devastante. Eppure ci vorrebbe molto poco per correggerla (oltretutto risparmiando). I genitori che si preoccupano per le tre lineette di febbre o per qualche colpo di tosse restano indifferenti ad un aumento di peso dovuto non soltanto ad un forte appetito del bambino ma ad una alimentazione sregolata: “ Che male c’è se il bambino è un po’ cicciottello? In fondo è anche più simpatico … e poi crescendo si regolarizzerà...”. E non si rendono conto che stanno condannando il loro figlio adorato ad un drammatico futuro.

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Olibimbo farà suonare il campanello d’allarme nelle famiglie le metterà di fronte alle loro responsabilità; le inviterà a preoccuparsi in modo determinante di come nutrire i propri figli obbligandoli a rinunciare a tutto ciò che anche se piacevole e appetitoso, può danneggiare la loro salute (non trascurando peraltro l’importanza dell’attività fisica). Si comincerà proprio dal Sud dove l’incidenza di obesità infantile è più alta, nella regione dove è nata la dieta mediterranea che ha alla base delle sue ricette proprio l’olio extravergine d’oliva, la ricchezza della Puglia. Il fatto è che, su richiesta delle autorità politiche italiane e spagnole, la “mediterranean diet” sta per essere inclusa dall’Unesco nella lista dei Patrimoni mondiali dell’Umanità, apprendiamo, su denuncia della FAO che proprio nei paesi mediterranei si sta progressivamente abbandonando. Incredibile: tutti d’accordo gli esperti che la dieta mediterranea oltre a far vivere a lungo

mantiene snelli e in buona salute, eppure è sempre più ignorata proprio dalle popolazioni che l’hanno inventata. I paesi europei hanno ignorato le direttive dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e della FAO le quali raccomandano che i grassi non devono rappresentare più del 30% dell’apporto energetico giornaliero totale e questo cambio delle abitudini alimentari è dovuto non solo all’aumento delle condizioni economiche ma anche a fattori come il lavoro delle donne che hanno meno tempo per cucinare e le famiglie mangiano fuori casa più frequentemente e spesso in ristoranti fast food. Allo stesso tempo il fabbisogno calorico è calato, la gente fa meno moto e si è passato ad uno stile di vita molto più sedentario. “Gustare l’Italia” darà la parola ad illustri esperti in scienze dell’alimentazione e un impegno molto importante sarà quello di chiedere al Ministro della Pubblica Istruzione di seguire l’esempio di altre nazioni europee, fra cui la Francia, che da anni hanno introdotto nelle Scuole Elementari e Medie Inferiori una materia di “avviamento al gusto” per stimolare la sensorialità del bambino e aprire i suoi orizzonti gastronomici e di porre più attenzione sulle scelte effettuate nelle mense scolastiche perché l’educazione e la salute dei bimbi passa anche da lì.

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di Felice Maratea

Scorrano Qualche volta mi domando per quale deformazione mentale molti italiani vanno in giro per il mondo alla ricerca di emozioni esotiche quando a due passi da casa c’è ancora tanto da scoprire. Giro l’Italia da oltre quarant’anni e ho percorso migliaia di chilometri, penso di conoscere bene il mio Paese anche negli angoli più nascosti, nelle sue bellezze più esclusive, nei cibi, nei vini, nelle sue proposte gastronomiche più umili e più raffinate, eppure mi trovo sempre di fronte a emozionanti sorprese. Una terra dalla mia predilezione che credevo non avesse più segreti per me è la Puglia, dove ritorno sempre con piacere perché la bellezza dei luoghi e la bontà della cucina si sposano con il carattere della gente generosa, gioviale, sincera, gente per la quale come nel mondo sognato da Zavattini “buongiorno vuol dire davvero buongiorno” Eppure mi è capitato non molto tempo fa di scoprire in un paese di cui ignoravo l’esistenza, una manifestazione che in un’altra parte d’Italia o in un’altra nazione avrebbe un rilievo clamoroso: mi sono trovato a Scorrano, un piccolo paese in provincia di Lecce a pochi chilometri da Otranto la bella città più a oriente di tutta Italia, la città che ogni mattina riceve per prima il sole del nuovo giorno. Mi era stato chiesto di dare il via ai tradizionali festeggiamenti per la festa patronale di Santa Domenica, la protettrice del paese, che si svolge ogni anno da ormai quattro secoli dal 5 al 7 luglio; avrei dovuto premere un pulsante per dare il via ai fuochi artificiali pirotecnici e poi all’accensione delle luminarie che erano state predisposte nel centro stori-

co. Mi aspettavo di assistere ad uno dei tanti avvenimenti già visti molte volte in altri paesi e città di Italia e anche all’estero, ma appena premuto il pulsante mi trovai immerso in uno spettacolo che non aveva paragoni con nessun altro vissuto nella mia vita. Fui aggredito ed esaltato da un esplosione piro-

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tecnica unita in modo perfetto a musiche classiche; assistetti sbalordito ad un concerto fantastico di note che diventavano luci e le luci musica. Trascorsero trenta minuti davvero esaltanti, emozionanti, magici; ma la sorpresa non si esaurì in quello; da li a poco avrei vissuto un’altra intensa emozione:

fu quando premetti il pulsante che fece accendere il milione e mezzo di lampadine della luminaria. Come mi fu poi raccontato è uno spettacolo che si ripete in modo sempre nuovo ed originale; due ditte di Scorrano si sono specializzate nel corso degli anni fino a raggiungere dei vertici. Trascorrono la maggior parte dell’anno richiesti da ogni parte in modo particolare dall’oriente: Giappone, Corea, Thailandia, ma per Santa Domenica ritornano a casa per far rivivere ai compaesani la magia che non ha eguali. Se uno spettacolo così si fosse svolto a Toronto, a Dallas o a Cincinnati ci sarebbero stati articoli sui giornali, riprese televisive, interviste agli organizzatori; si è svolto a Scorrano, in provincia di Lecce, nel profondo Sud, e non se ne è accorto nessuno se non gli abitanti del paese e dei dintorni. Così vanno le cose a casa nostra. “Gustare l’Italia” si propone di puntare di volta in volta i riflettori su queste realtà incredibilmente ignorate o trattate con sufficienza. Abbiamo chiesto ad una ragazza figlia di un’illustre emigrato di Scorrano di raccontare con sue parole e la sua sensibilità di diciassettenne le “luminarie” di Santa Domenica. Ed eccovi il suo racconto.

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di Ginevra Catamo

Dal Salento

arte luminosa per il mondo Un attimo, un interminabile attimo di meraviglia in cui gli occhi si spalancano e seguono centinaia di luci colorate che si accendono rincorrendosi freneticamente fino a formare meravigliosi merletti sullo sfondo della notte. Il cielo diventa tela e la luce pennello; insieme modellano lo spazio regalando sensazioni che fanno vibrare il cuore dello spettatore che in quell’attimo si trova coinvolto, cosciente di far parte di un opera d’arte, parte integrante di un dipinto. La luce diventa arte sapiente di disegnare le luminarie. Non esiste festa patronale senza le luminarie, e nel Salento sono imprescindibili. Per dare verbalmente importanza alla festa si attribuisce la definizione di “festa cu li pali” cioè “festa con i pali” (i pali di legno, base

portante delle luminarie), rendendola così più prestigiosa e sentita. Non esiste e tantomeno non è pensabile un Santo Patrono a cui non viene fatta la festa “cu li pali”, e per un anno intero il popolo devoto lavora per trovare sostegno economico per dimostrare al suo Santo la devozione. E così luminarie bellissime addobbano strade, piazze e sagrati. La realizzazione è preceduta dalla progettazione da parte di esperte mani di artisti che disegnano prima su carta, utilizzando matite colorate per imitare i colori delle luci, seguita dalla produzione di una miniatura in legno. A questo punto si costruisce l’intera struttura in telai, come un puzzle, da montare pezzo per pezzo nella piazza o strada che sia. Il legno usato è l’abete, facile al taglio (intaglio), robusto e di giusto peso. Non è tutto così semplice come potrebbe sembrare: dietro le quinte c’è un grande lavoro di veri artisti, persone che hanno un grande senso della prospettiva e uno squisito gusto cromatico. Vedere montare una luminaria lascia stupiti. Guardare gli addetti al montaggio attaccati a dei pali altissimi, con il compito di assemblare i vari pezzi, fa pensare agli Indiani d’America impiegati nella costruzione dei grattacie-

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li che si muovono sicuri e con rapidità. Di giorno queste strutture sembrano enormi realizzazioni di candido pizzo poiché le luminarie spente e alla luce del sole sono bianchissime; la struttura in legno è dipinta di bianco per riflettere nel buio il bagliore della luce. Chissà quando sono nate le luminarie e chi è stato il primo a farne uso. In antichità al posto delle lampadine si usava il carburo di acetilene, messo in contenitori appoggiati sull’estremità delle strutture. Si possono immaginare i problemi causati alle persone che passeggiavano al di sotto nel momento in cui uno di questi contenitori , per un colpo di vento, si rovesciava! Le moderne lampadine collegate a sistemi elettrici non hanno fatto perdere l’amore per la realizzazione artigianale delle luminarie. Le lampadine vengono tutt’ora dipinte a mano con vernici particolari e successivamente cotte per poter avere brillantezza e trasparenza, che con grande pazienza vengono montate una ad una per dare vita a fiori, tribali, rosoni e arabeschi. Scorrano, nel Salento, è il simbolo delle luminarie, è il luogo dove devozione ed effimero si uniscono per dare spettacolo alla più grande manifestazione religiosa. A Scorrano luminarie altissime inglobano tutto il centro storico, creano un contenitore da favola dove lo spettatore è quasi stordito da tale maestosità e armonie cromatiche per la festa della Patrona Santa Domenica. La devozione per la Santa risale agli inizi del 1600, quando il flagello della peste stava decimando la popolazione. Santa Domenica apparve presso la porta del paese e debellò il flagello. Chiese ad ogni cittadino guarito di accendere una lampada ad olio sul davanzale della propria finestra. E fu così che tutta Scorrano si copri di luci e il male che affliggeva il paese fu estirpato. La tradizione continua ancora oggi per tutta la durata della festa: per tre giorni ogni casa lascia la luce esterna accesa e durante la processione dei lumini segna il percorso.

Nella zona nascono due delle più famose ditte di luminarie, Mariano e De Cagna, e per questo appuntamento patronale annuale lo sforzo creativo, direttamente proporzionale alla devozione, le spinge a superarsi anno dopo anno, sempre diverse e sempre più spettacolari e imponenti. Vengono utilizzate oltre un milione e mezzo di lampadine tutte collocate in scenografie pirotecniche musicali che precedono il momento più atteso dai devoti: l’accensione delle luminarie, che avviene storicamente per questa festa ogni anno allo stesso giorno e alla stessa ora. Non esiste Autorità o personaggio che sposti questo appuntamento: ci si trova tutti insieme in piazza alle 21.00 del 5 luglio per vivere l’accensione, che non sarà solo delle luci ma anche delle emozioni, nell’attimo esatto in cui un grande dipinto investe tutti quanti colorando anche l’anima. Festa grande il 6. L’epilogo il 7. Questi sapientissimi artisti, quasi sconosciuti in Italia, subito dopo la festa smontano delicatamente il tutto, pezzo per pezzo, ed esportano quest’arte luminosa in giro per il mondo: New York, Cina, Giappone, Corea... dove li conoscono bene e li apprezzano adeguatamente.

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della Redazione

La notte della Taranta Dopo Daniele Sepe, Piero Milesi, Stewart Copeland, Vittorio Cosma, Ambrogio Sparagna e Mauro Pagani sarà il pianista e compositore Ludovico Einaudi il Maestro Concertatore della Notte della Taranta che torna nel Salento dal 13 al 28 agosto.

Non si tratta solo del più grande festival musicale dedicato al recupero della pizzica salentina e alla sua fusione con altri linguaggi musicali che vanno dalla world music al rock, dal jazz alla sinfonica, dal reggae all’elettronica, ma è soprattutto un esperimento riuscito della buona politica che vive e si afferma anche nel Sud Italia. Nato nel 1998 su iniziativa dell’Unione dei Comuni della Grecìa Salentina e dell’Istituto Diego Carpitella, su impulso di numerosi giovani amministratori guidati dall’Assessore alla cultura prima e sindaco di Melpignano poi Sergio Blasi (che si definisce “la madre della Notte della Taranta, perché solo la madre è certa”), in questi anni il festival è cresciuto di dimen-

sioni e prestigio culturale. Dalle pioneristiche prime edizioni ospitate da Piazza San Giorgio nel centro storico del piccolo comune di Melpignano, che ha poco più di 2mila abitanti, in pochi anni si è arrivati a superare le 130mila persone che assiepano ogni anno fin dal pomeriggio il Piazzale dell’Ex Convento degli Agostiniani.

La pizzica La “pizzica” è la musica che scandiva l’antico rituale di cura dal morso immaginario della tarantola, il pericoloso ragno velenoso. La tradizione vuole che per liberare la vittima, di solito una donna, si suonassero incessantemente i tamburelli a ritmo vorticoso finché non veniva

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sciolta dall’incantesimo. Al suono dei tamburelli si accompagnava un ballo ossessivo e ripetitivo, che contribuiva ad esaurire il veleno. Questa tradizione, dopo anni di oblio, è tornata alla ribalta grazie all’impegno di molti musicisti e studiosi o semplici appassionati, come il regista Edoardo Winspeare che con i suoi primi film (Pizzicata e Sangue Vivo) ha portato la pizzica sugli schermi di mezza Europa. Nel 1998 tutto questo fermento culturale e musicale diede vita alla Notte della Taranta, che distante dalle sofferenze delle tarantate, è un vero e proprio happening musicale, momento di gioia e danza collettiva.

L’edizione 2010 La tredicesima edizione della Notte della Taranta partirà il 13 agosto con il Festival itinerante, che precederà il concertone finale di Melpignano, (con la consueta pausa del 15 agosto) nelle piazze dei comuni della Grecìa Salentina (Calimera, Carpignano Salentino, Castrignano dei Greci, Corigliano d’Otranto, Cutrofiano, Martano, Martignano, Soleto, Sternatia e Zollino), di Alessano, Galatina e Cursi. Il Festival ospiterà, come ogni anno, alcuni dei gruppi più rappresentativi della scena della pizzica salentina e numerosi progetti speciali frutto delle collaborazioni sempre più frequenti tra i gruppi salentini di riproposta e musicisti di altra estrazione geografica e culturale.

Sabato 28 agosto gran finale con il Concertone che quest’anno, come detto, sarà diretto dal nuovo Maestro Concertatore Ludovico Einaudi. “Io penso a questa avventura come alla costruzione di un palazzo, di una struttura solida e continua all’interno della quale possiamo trovare il giardino, la fontana, gli anfratti, le bellezze e i gelsomini che sono le canzoni del repertorio”, precisa Einaudi. “Questo palazzo è solido perché si basa su ritmi forti, quelli salentini. Ma su questi ritmi innesterò esperienze di musica elettronica che secondo me hanno molte affinità con la tradizione salentina. Una interpretazione nuova che naturalmente tenga conto della tradizione e rilanci la palla verso il futuro; una interpretazione creativa, che sperimenti questa unione tra ritmi tradizionali e acustici e suoni elettronici”.

www.lanottedellataranta.it

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di Arabella Pezza

Colimena, la fabbrica del tonno che “non si taglia con un grissino” “La Puglia non è una regione; è un continente”, così ha scritto Raffaele Nigro, “montagnosa e rurale nel Subappennino Dauno, rocciosa ed arcaica nel promontorio garganico, si estende in una piana fumentosa del Tavoliere, si fa siccitosa sulla Murgia, olivicola e mercantile sul mare, per diventare di sughero e neve a sud del capoluogo e tornare friabile e aspra nel Salento…”. Non a caso spesso si scrive “le Puglie”, perché è riduttivo parlare di una sola regione. Per la sua collocazione geografica molte sono state le civiltà che l’hanno accompagnata e tutte vi hanno lasciato un segno del loro passaggio. Così fra Santa Maria di Leuca e il Gargano non ci sono soltanto chilometri di differenza, ma secoli di storia, millenni in cui si sono intrecciate le culture mediterranee che ne hanno fatto un luogo di incontro e di armonia tra razze e civiltà. Per questo chi viaggia la regione va incontro a continue sorprese: scopre la Puglia dei castelli, delle saline, dei dolmen, degli ipogei, delle chiese, delle grotte, delle cripte rupestri,

dei mosaici… ed ogni volta è una nuova emozione, ogni volta ci si domanda: perché questa meraviglia che farebbe la fortuna turistica di qualsiasi regione del Nord è così poco conosciuta? Recentemente abbiamo fatto un’altra scoperta che anche molti pugliesi ignorano: la Puglia delle tonnare. Sentendo la parola “tonnara” si pensa sempre alla Sicilia o alla Sardegna; ed ora invece scopriamo che le prime tonnare furono pugliesi, nel tratto di mar Ionio che dal Golfo di Taranto arriva a Gallipoli; infatti, fin dal Medioevo, la ventresca, la parte migliore del tonno, in tutti i paesi del Mediterraneo viene chiamata “tarantello”. Il primo documento che attesta l’esistenza di queste tonnare risale al 1327 ed è un regio decreto del Re di Napoli Roberto d’Angiò con il quale si vuol mettere la parola fine ad una diatriba tra la città di Gallipoli e Nandò, che volevano entrambe avere l’esclusiva della pesca del tonno. Il Re diede ragione a Gallipoli e ordinò ai pescatori di Nandò di smetterla di pescare i tonni che discendevano dal Golfo di Taranto.

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Il decreto non impensierì però troppo i rivali che continuarono ad intercettare i pesci con ben due tonnare, una nelle acque di Santa Caterina e una nelle acque di Sant’Isidoro. In seguito si aggiunsero quelle di Porto Cesano, sempre nel territorio di Nandò, e quella di Torre Pizzo, nel territorio di Taviano. Altre poi entrarono in attività a Torre Colimena e Torre Ovo. Col passare degli anni, però, una dopo l’altra, per varie ragioni, cessarono la propria attività e sarebbero scomparse del tutto senza l’impegno di tre amici, tre cognati, che qualche anno fa hanno deciso di non far morire l’antica tradizione: Agostino Lomartire, Francesco e Pompeo Scarciglia, tutti e tre di Manduria, una cittadina in provincia di Taranto, a pochi chilometri dal mare. Ci racconta la loro storia Agostino, oggi amministratore unico della Società fondata negli anni Settanta. Erano partiti nella seconda metà del secolo scorso come tanti altri pugliesi per il Nord in cerca di lavoro, con la classica valigia di cartone legata con lo spago (anzi, dice Agostino ridendo, non avevano nemmeno la valigia ma solo lo spago). Con impegno e determinazione si improvvisano ristoratori a Brugherio, alla periferia di Milano, e nel giro di qualche anno la loro trattoria, la “Guzzina”, ricavata da una cascina del Seicento, diventa la meta preferita di molti lombardi che vanno a gustare la cucina pugliese. Ma raggiunto il successo che assicura la stabilità economica, Francesco de-

cide di ripartire per il Sud; a lui che ha da sempre una passione per la pesca manca troppo il suo mare e, nonostante le preghiere dei cognati, saluta tutti e se ne torna a Manduria dove riprende a pescare con una vecchia imbarcazione. Pochi anni prima, nel 1974, erano state chiuse le ultime due tonnare sopravvissute, quella di Gallipoli e quella di Sant’Isidoro, e Francesco, che continua a pescare favolosi tonni, si chiede perché non riaprire l’antica tonnara di Torre Colimena, ormai in disfacimento.

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I NOMI DEL TONNO Ecco a voi un vocabolario dei nomi dialettali italiani per l’Euthinnus Alletteratus (tonnetto alletterato)

Ne parla con i cognati rimasti a Brugherio e li convince a creare insieme una Società per questo scopo; nasce così ad Avetana, quasi per scherzo, l’Azienda “Torre Colimena”, che in pochi anni si impone all’attenzione del mercato per la qualità dei tonni pescati e per la cura posta nella loro lavorazione. Anticamente le carni venivano conservate sotto sale in orci di argilla o fusti di legno e per poter essere consumate dovevano subire laboriose operazioni di dissalazione. Oggi i pescherecci del Gruppo Colimena pescano tre tipologie di tonno: il Tonnetto, il Palamita e l’Alalunga, che vengono subito trasferiti nello stabilimento di Avetana, dove si passa al procedimento di trasformazione: vengono cotti in acqua e sale (non a vapore!), mantenendo così le loro qualità organolettiche e garantendo un prodotto lavorato senza conservanti ed esclusivamente a mano da personale altamente qualificato e specializzato. Inoltre, poiché vengono pescati e lavorati soltanto tonni di non eccessivo peso (e perciò più giovani e con una minima pre-

Torre Colimena (Taranto): Zirru, Zirrali Bari: Palametidd Brindisi: Nzirru Cagliari: Alacurza, Scampirru Catania: Allittiratu, Cuvaritu Genova: Tunna, Tonnella Manfredonia: Letterato Messina: Allittiratu, Littiratu, Tunnina Napoli: Alletterato Palermo: Allittiratu Pescara: Letterato Porto Empedocle: Allittirato, Cuvarito Rimini: Litterato, Tonnina Roma: Tonnetto Siracusa: Pizziteddu Trieste: Leterato Venezia: Carcana, Aleterato Viareggio: Sanguinaccio senza di metalli pesanti nel loro corpo), possono essere consumati anche da bambini con problemi di autismo. “Tonno fresco, gustoso, sano e non certo da tagliare con un grissino”, conclude Agostino Lomartire con un sorriso ironico. Sono passati ormai trent’anni dalla felice intuizione di Francesco Scarciglia e i tre soci e cognati che in tutto questo tempo, roba da Guinnes dei Primati, sono sempre andati d’accordo, abbandonata la trattoria di Brugherio hanno realizzato il sogno di tornare nella loro magica terra dove, grazie al successo dell’Azienda Colimena, hanno dato vita a numerose altre realtà: acquistano a Manduria Reggia Domizia, una masseria del ‘700 ormai fatiscente, e la trasformano in uno splendido centro di ristora-

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zione e benessere; ad Avetana realizzano “La Scogliera”, un residence tra i più eleganti della regione; ancora a Manduria inaugurano “Ziu Belo”, un piacevole after dinner ed altre attività sono ancora in fase di realizzazione.

Tutte iniziative che danno lavoro a molti giovani ai quali è così risparmiata la triste esperienza dell’emigrante. Torre Colimena, la fabbrica del tonno. Un altro felice miracolo di questa magica terra che non finisce mai di stupire.

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di Arabella Pezza

I giardini di Atena e gli antichi mosaici Due realtà uniche nel loro genere, che sorgono a pochi chilometri da Lecce, nel cuore del Salento: “Royal Mosaici”, una collezione di pavimenti e rivestimenti in mosaico, e “I Giardini di Atena”,

Le Eccellenze del Salento

un residence a metà strada tra un resort e un villaggio turistico.

Cos’hanno in comune queste due società pugliesi, oltre a rappresentare l’eccellenza salentina in Italia e all’estero? La risposta in un solo nome: Giuseppe Bruno, eclettico e spigliato imprenditore che, con passione e professionalità, gestisce queste attività. L’Ing. Bruno, infatti, non solo è socio di maggioranza della “Royal Mosaici”, ma è anche Amministratore de “I Giardini di Atena”, la recente struttura moderna e funzionale (è stata inaugurata nell’estate 2004) a pochi kilometri dal mare e dal centro di Lecce. Si tratta di una vera e propria cittadella del Confort e del Benessere, composta da oltre 400 appartamenti, immersi nella lussureggiante

macchia mediterranea, aperti tutto l’anno. “Il residence è stato costruito per garantire il massimo confort a ogni tipologia di clientela, sia alle famiglie che ci scelgono per le vacanze, sia ai business men che cercano un ambiente raffinato e ben attrezzato - spiega l’Ing. Bruno - Offriamo un servizio a 360°: centro sportivo e centro medico, sala congressi, auditorium, anfiteatro, negozi, centro estetico e benessere, palestre, due piscine, area giochi per bambini e pista ciclabile, oltre al bar e un ottimo ristorante. Insomma, possiamo garantire “l’arte dell’ospitalità”, che coniuga convivialità e privacy, con una costante attenzione ai dettagli.

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Sono presenti inoltre molte interessanti attività per i più piccoli: si inaugura proprio quest’anno il “Campus Estivo” per ragazzi, italiani e stranieri. Si tratta di un ambiente riservato (c’è un responsabile ogni 10 ragazzi), che si sviluppa in un complesso interamente immerso nel verde. I ragazzi hanno la possibilità di seguire svariati corsi – tiro con l’arco, magia, corso di lingua straniera… oltre ad essere seguiti da un vero e proprio “educatore” che ha la prerogativa di insegnare loro, ma divertendosi!, come ci si comporta nella vita, come si sta al mondo. E per i più grandi? Ci sono tante offerte per tutti: c’è il pacchetto benessere che abbiamo titolato “Salute e turismo” - che siamo dotati di un centro medico che permette di intraprendere un percorso di cura - il pacchetto enogastronomico, quello cultura e territorio… non c’è che l’imbarazzo della scelta!

prodotto tanto unico nella sua originalità, quanto lontano nel tempo: il mosaico. E’ vero che il Salento vanta una lunga e antica tradizione di pavimenti e rivestimenti in marmo? Certo. L’arte del pavimento in mosaico affonda le sue radici nelle decorazioni musive di monasteri, chiese e ville patronali, tra cui spicca il mosaico della cattedrale di Otranto.

Ma cosa cercano gli ospiti che scelgono il Salento per trascorrere un periodo “sabbatico”? Il Salento con Lecce, la “capitale naturale” che più di ogni altra città pugliese conserva integra la sua identità storica, rappresenta il posto ideale per vivere un’esperienza unica, all’insegna della cultura, delle bellezze paesaggistiche tipiche locali, della gastronomia, della storia e dell’arte… proprio per questo ho fortemente voluto la “Royal Mosaici”, quest’azienda che vuole riportare in auge un

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E’ in questo solco che trova il fondamento l’azione culturale della “Royal Mosaici”. Da tempo il mosaico è impiegato come prezioso rivestimento di pareti e pavimentazioni di pregio. Le tessere di marmo, di dimensioni minutissime, compongono il mosaico moderno e classico rendendolo parte integrante dell’ambiente in cui si trova e conferendogli ricchezza ed eleganza. La costruzione di una pavimentazione, o di un rivestimento in mosaico di marmi pregiati, è un’opera molto particolare: essa viene interamente realizzata a mano accostando piccoli frammenti di marmo il cui fascino è dato dall’utilizzo di materiali provenienti spesso da luoghi lontani. Tutti i materiali che vengono adoperati per la realizzazione del prodotto, e tutte le fasi di lavorazione, sono rimasti invariati nel tempo e con metodi artigianali esclusivamente manuali. Una macchina non potrà mai sostituire la figura professionale del posatore mosaicista nella stesura del mosaico, un vero artista-artigiano.

Qual è esattamente la vostra filosofia aziendale? Il successo che contraddistingue il nostro marchio, poggia su due elementi fondamentali: unicità ed esclusività dei prodotti che nella loro realizzazione vengono eseguiti a mano e, non essendo mai uguali gli uni agli altri, si possono ritenere veri e propri “pezzi unici”. Sviluppiamo e produciamo soluzioni esclusive e personalizzate, ogni opera è progettata appositamente per l’ambiente che la accoglie: perché la soddisfazione della clientela è l’elemento essenziale alla base della nostra attività. Quando si è spinti da uno spirito imprenditoriale così evidente è impossibile non realizzare attività di successo: così l’Ing. Bruno coadiuvato da uno staff dinamico e appassionato - è riuscito a diffondere le eccellenze della sua Puglia in tutt’Italia e anche all’estero. Perché “I Giardini di Atena” e “Royal Mosaici” sono due realtà ben note che soddisfano anche il cliente più esigente e arricchiscono professionalmente il Salento.

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di Cosimo Lacirignola*

Lo I.A.M. di Bari per una cultura di pace L’Istituto Agronomico Mediterraneo di Bari, sede italiana del Centro Internazionale di Alti Studi Agronomici Mediterranei con sede a Parigi, è stato fondato nel 1962 insieme ad altri centri di 12 paesi mediterranei, 7 dei quali della riva Nord (Spagna, Portogallo, Francia, Italia, Albania, Grecia e Malta) e 6 della riva Sud (Algeria, Marocco, Tunisia, Egitto, Libano e Turchia). L’Istituto opera in quattro campi: gestione delle risorse naturali (suolo e acqua), protezione delle colture mediterranee, agricoltura biologica mediterranea, agricoltura sostenibile e sviluppo rurale.

In questi campi si tengono i corsi istituzionali di alta formazione. Gli allievi, provenienti dai Paesi membri e tutti laureati in Scienze Agrarie, Ingegneria o Biologia, sono ospitati nel campus e conseguono il Diploma di specializzazione post-universitaria al termine del primo anno accademico, ed il Master of Science con una tesi di ricerca elaborata nel secondo anno. L’attività di ricerca è finalizzata alla soluzione dei problemi della regione mediterranea. Pertanto, il lavoro, impostato e svolto all’interno di un quadro di riferimento scientifico estremamente rigoroso, fa leva su conoscenze e

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soluzioni innovative sostenibili per il territorio oggetto di studio. Questo approccio consente di coniugare conoscenze scientifiche e tecnologiche più avanzate con soluzioni effettivamente praticabili nelle aree di intervento, al fine di ottenere il migliore impatto su territorio e popolazione. Nell’area mediterranea 39 milioni di persone (1 su 3) si occupano di agricoltura: 34 milioni sono sulla sponda sud. A nord del Mediterraneo l’agricoltura ha una valenza multifunzionale, volta alla qualità della produzione, generatrice di servizi ambientali e sociali. A Sud essa rappresenta uno strumento per lo sviluppo economico, per il miglioramento delle condizioni di vita nelle aree rurali, nonché per la sicurezza alimentare delle popolazioni in crescita. Lo Iam di Bari contribuisce allo sviluppo dell’area attraverso nuovi approcci alla ricer-

ca, coordinamento e partecipazione degli attori dello sviluppo rurale, elaborazione di strategie basate sull’integrazione dei diversi settori. E’ inoltre impegnato nella creazione di uno spazio mediterraneo della ricerca, attraverso la realizzazione di network euro mediterranei che consentono di condividere linguaggi e metodologie di ricerca. L’attività dell’Istituto Agronomico Mediterraneo (IAM) di Bari, in particolare, attraverso la formazione, la ricerca, la cooperazione e l’assistenza tecnica, mira allo sviluppo delle risorse umane, alla diffusione della conoscenza, all’assistenza alle Istituzioni ed alla promozione di nuove politiche di sviluppo: una missione che contribuisce a seminare la pace nella regione mediterranea. Tutto questo lo si fa in Puglia, laboratorio d’elezione, dove in quarantasette anni di attività sono stati accolti oltre sette mila allievi,

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dando loro una formazione grazie alla quale, al rientro nei loro Paesi d’origine, hanno potuto assumere incarichi di alta responsabilità nelle istituzioni scientifiche, negli organismi politici e nel sistema produttivo. Lo IAM favorisce i rapporti tra i Paesi del Bacino mediterraneo fornendo il supporto scientifico e tecnico per la progettazione e l’attuazione di interventi in partenariato, favorendo la raccolta e la diffusione delle informazioni per i ricercatori, stabilendo connessioni e scambi tra i ricercatori, coinvolgendo esperti e istituzioni dei Paesi beneficiari della cooperazione, identificando problemi comuni, definendo programmi di collaborazione, uniformando approcci e metodi di ricerca. Questo modo di operare dell’Istituto contribuisce alla diffusione della PACE: nei laboratori e nei

campi sperimentali, giovani di etnìa, cultura e religione diverse lavorano fianco a fianco ed imparano che la diversità è una risorsa e che la cooperazione è il metodo vincente. L’Istituto sviluppa le sue ricerche anche sul territorio pugliese in collaborazione con Università, Centri di ricerca, Istituzioni ed Enti regionali. La Puglia, infatti, per molti aspetti rispecchia un habitat molto diffuso nel bacino Mediterraneo e rappresenta un laboratorio ideale, fornendo modelli da studiare e soluzioni da esportare. Ciò ha portato alla creazione di una fitta rete di collaborazione con realtà produttive territoriali che riconoscono all’impostazione dell’Iamb competenza e pragmatismo nella soluzione dei problemi. L’obiettivo primario dell’umanità è disporre di cibo in quantità crescente e di qualità sempre

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migliore, di conseguenza, il destino dell’uomo è legato alla crescita della produzione agricola. C’è da considerare che le terre agricole non si possono più espandere, l’acqua è una risorsa più preziosa del petrolio, gli equilibri biologici sono sempre più a rischio e la variabilità climatica rappresenta una nuova sfida. La diffusione e la condivisione delle conoscenze scientifiche possono offrire la soluzione alle nuove emergenze attraverso, ad esempio, il miglior utilizzo delle risorse, la sperimentazione di tecniche di adattamento delle piante a terreni aridi o salini, l’incremento della produzione. Compito dei ricercatori è svolgere ricerche che diano risultati facilmente e rapidamente applicabili e che siano economicamente sostenibili per popolazioni e governi che non possono disporre di grandi risorse economiche. Nei laboratori dell’Iam di Bari, con tenacia e con fatica, si lavora per cercare le soluzioni scientifiche che possano fornire sicurezza alimentare a tutti. L’obiettivo è una governance globale che parte da una formazione ed uno studio condiviso, attraverso una forza di agire comune per sconfiggere la fame, i problemi della desertificazione, la scarsità d’acqua, la perdita della biodiversità. Ogni anno centinaia di studenti di oltre venti Paesi mediterranei studiano, lavorano con tanta voglia di con-

frontarsi ed imparare, rompendo il cerchio dell’ignoranza e dei pregiudizi che alimentano il sottosviluppo economico e sociale, negando la libertà dell’Uomo. Si lavora per la

costruzione di una regione euro-mediterranea dispensatrice di “prosperità condivisa”, perchè non vi è dubbio che la prosperità è l’unica garanzia per sradicare povertà e integralismo. Non può esservi pace senza la garanzia di pari opportunità ed il superamento delle profonde divergenze socio-economiche tra i nostri popoli. C’è chi esporta la propria democrazia con le armi, c’è chi costruisce la democrazia e lo sviluppo accompagnando i Paesi più deboli in un percorso dove al centro è l’uomo, le sue potenzialità, le sue tradizioni, il rispetto condiviso. Certo non è facile, ma all’Iam di Bari si lavora da quarantasette anni in questa direzione, in silenzio. *Cosimo Lacirignola è dal 1988 il direttore dell’Istituto Agronomico Mediterraneo di Bari del Ciheam

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La Masseria

La Spa

Il golf

Masseria San Domenico - 72010 Savelletri di Fasano (BR) - Tel. 080 4827769 - Fax 080 4827978 info@masseriasandomenico.com - www.masseriasandomenico.com


© Gianni Renna

La pasta

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di Davide Rampello

Storia della pasta

La pasta: dono degli dèi Nei secoli scorsi i contadini italiani - anche senza avere mai ascoltato il parere di un dietologo - sapevano che nessun altro cibo come la pasta fornisce un’alimentazione così completa ed equilibrata. Un adulto necessita di circa 3000 chilocalorie al giorno, costituite da carboidrati (60%), grassi (20%), proteine (10%); un buon piatto di pasta, condito con una semplice salsa di pomodori e una discreta grattugiata di formaggio, apporta circa 600 chilocalorie nella quasi identica percentuale di carboidrati, grassi e proteine. Nessun altro alimento risulta così ben bilanciato e i contadini lo sapevano. La loro dieta: un piatto di pasta al sugo arricchita di quando in quando (soprattutto nei giorni di festa) da carne o pesce, era perfetta; la pasta era praticamente un piatto unico, il formaggio, la frutta, il

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pane e il vino completavano un pranzo semplice ma completo e sano. I guai alimentari cominciarono con l’avvento del cosiddetto benessere, quando da piatto unico la pasta divenne un “primo piatto” che richiedeva perciò un antipasto, un secondo e contorno, il formaggio, la frutta, il dolce, con relativi aperitivi, vini, distillati, caffè e ammazzacaffè. Incominciarono i problemi di malattie dovute alla superalimentazione e all’obesità e, curiosamente, la gran parte delle colpe vennero riversate sulla povera e innocente pasta che divenne uno spauracchio per chiunque avesse problemi di linea. Le “donne crisi” degli anni venti avrebbero con entusiasmo sottoscritto il Manifesto per una cucina futurista, nel quale Filippo Tommaso Marinetti propugnava l’abolizione della pasta-


sciutta che, secondo lui, “non serviva ad altro se non a tappare i buchi dell’inguaribile tristezza” di quelli che spregiativamente egli chiamava “pastasciuttari”. Si andò avanti così per anni; intere generazioni, quando si sedevano a tavola davanti ad un piatto di bucatini o di pappardelle o di bigoli, venivano assaliti dai rimorsi e dai sensi di colpa; diafane giovinette votate all’anoressia consumavano tristemente la loro giovinezza mangiando un po’ di bresaola e qualche foglia di insalata scondita… Poi finalmente tornò la luce. Dai dietologi di oltre Atlantico arrivò la lieta novella: ci spiegarono quello che i nostri avi sapevano da centinaia di anni rivalutando come perfetti per una sana alimentazione gli elementi tradizionali degli italiani: verdure, olio e - naturalmente - la pasta. Da allora siamo tornati a gustare senza rimorsi piatti di trenette al pesto o bucatini all’amatriciana o di fusilli alla marateota e se qualcuno ci obbietta qualcosa possiamo serenamente rispondere che stiamo seguendo una dieta: “la dieta mediterranea”. D’altra parte come si potrebbe rinunciare a questo cibo che deriva dal grano, il più importante dono che ci hanno dato gli dei come è testimoniato in ogni religione: per gli antichi egizi fu Iside a donare il grano all’Umanità, per i greci Demetra, per i romani Cerere… Non è un caso che Cerere e Demetra, oltre ad essere le protettrici delle messi, fossero anche simboli del progresso: la coltivazione dei cereali incominciò quasi contemporaneamente in varie parti del mondo 6 o 7 mila anni fa e cam-

biò le abitudini dell’uomo e contribuì al suo sviluppo e al suo ingresso nella civiltà. Quando si rese conto che la coltivazione e il raccolto del grano e dei cereali in genere gli costava meno fatica e comportava meno pericoli dell’andare a caccia per procurarsi il necessario alla sopravvivenza, l’uomo cambiò le sue abitudini di nomade e si convinse a scegliere insediamenti stabili. Fu una delle più importanti rivoluzioni della storia, che portò a radicali cambiamenti nei suoi costumi e addirittura nella sua struttura fisica; nei costumi perché, non dovendo continuamente cambiare luogo, si trovò ad avere più tempo per dedicarsi a sviluppare l’artigianato e in seguito le arti e le scienze. Una divertente leggenda attribuisce l’invenzione della pasta al dio Vulcano (Efesto per i greci) il quale, infuriato con Demetra - la dea delle

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dà alla pasta una resistenza alla cottura che non si riscontra in paste nate altrove. In realtà, molto semplicemente, si è trattato di una scoperta che tutti i popoli del mondo fecero ad un certo punto della loro storia, scoperta legata alla conoscenza e all’uso dei cereali; come accadde per il pane, anche per la pasta ad un certo punto qualcuno pensò di trasformare i cereali in farina e poi di cuocerla nell’acqua salata trasformandola in pasta. L’importante, in ogni caso, è che la pasta oggi sia una realtà, chiunque ne sia stato l’inventore, e che si possa cucinare in dieci, cento, mille modi…. In quanti modi si può cucinare la pasta? Per Vincenzo Buonassisi, uno dei massimi studiosi della materia, un innamorato di questo alimento potrebbe andare avanti quattro anni cambiando ricetta ogni giorno; nel suo “Codi-

© Debora Montoli

messi -, strappò tutti i chicchi di grano dalle sue spighe, li pestò rabbiosamente con la sua mazza di ferro facendone farina che gettò nel Vesuvio; i vapori del vulcano trasformarono la farina in un impasto che sul fuoco della lava venne cotto a puntino. Il dio, incuriosito dal buon profumo che emanava, lo raccolse, vi sparse sopra un po’ d’olio d’oliva e se lo mangiò; aveva inventato la prima pizza alla marinara della storia. Dalla pizza alla pasta il passo fu breve e i napoletani - forti del fatto che la leggenda mitologica situa la cottura della prima pizza in Campania - sostengono che sono stati loro a inventare i maccheroni. A Gragnano, sulle pendici del Vesuvio, non hanno alcun dubbio, i maccheroni li hanno inventati loro e portano a sostegno della loro tesi il fatto che la loro acqua, molto ricca di zolfo,

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© Gianni Renna

ce della pasta” ha infatti individuato e con affetto catalogato ben 1347 ricette elencandole in ordine alfabetico, dagli “agnoli” (sorbir d’agnoli) alla “zuppa di grano”. Milletrecentoquarantasette ricette, milletrecentoquarantasette piatti di pasta, dai più classici ai più nuovi e raffinati, milletrecentoquarantasette momenti di gioia per il palato, di allegria, di beatitudine appunto, perché come scrive Mariarosa Schiaffino nel suo “Tempo di pasta” - … “la pasta è un piatto ottimista, positivo, capace di portare in tavola il sorriso e di ispirare una visione più rosea della vita. Ha anche un che di consolatorio, di affettuoso, di tenero. E’ morbida e accogliente come un seno materno. Gli italiani vi tuffano metaforicamente la loro fatica di vivere”. Siamo al lirismo. Giustamente. Ma se si arriva alla poesia per la pasta, dove si dovrebbe arrivare pensando al pomodoro? Meglio: alla pasta col pomodoro? Pensate al povero Efesto: aveva inventato la pasta - o per lo meno la pizza - ma, per sua sfortuna, non seppe mai quale sublime abbinamento si sarebbe ottenuto unendola col pomodoro. Di Vulcano, infatti, e di tutti gli altri déi dell’Olimpo, non restava ormai che il ricordo quando Cristoforo Colombo nel 1492 scoperse per caso l’America e, con l’America, alcune piante che dovevano arricchire la gastronomia europea: la patata, la melanzana, la zucca, il peperone e - soprattutto - il pomodoro. La cosa incredibile fu che molte di queste piante, soprattutto quelle appartenenti alla famiglia delle solanacee, per secoli vennero considerate soltanto come pianta da ornamento perché si pensava che fossero veleno-

se. La melanzana - per esempio - ha questo nome che significa “mela insana”, perché erano convinti che fosse immangiabile. Soltanto alla fine del XVIII secolo si decisero a mangiare i pomodori col riso, con il pesce, nelle frittelle, in crocchette… ma non ancora con la pasta. In uno dei primi libri di cucina scritto dal napoletano Vincenzo Corrado detto “Il cuoco galante”, nel 1773 non se ne fa cenno. Chi sarà stato il primo che abbinò pasta e po-

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illuminò, prese vita e colore, come la natura quando da uno squarcio di nuvole è illuminata dal sole. Prima della scoperta dell’America, l’uomo non lo sapeva, ma viveva in un Purgatorio culinario (niente gnocchi di patate, niente gatò, niente parmigiana di melanzane, niente spaghetti alla norma, alla sangiuaniello, al ragù, alla caprese, alla pizzaiola, alla bolognese…): ma era vita, quella? Oggi, grazie a Dio, quel cupo medioevo gastronomico è finito e siamo in pieno Rinascimento, anche se occorre fare molta attenzione per difendere questo cibo arrivato a noi attraverso un’evoluzione durata settemila anni. Un argomento molto importante quando si parla di pasta riguarda il vino: quale vino bere gustando un piatto di pasta? Lo scrittore Al-

© Debora Montoli (2)

modori creando uno dei cibi più straordinari della storia della gastronomia: la pasta “c’a pummarola ‘ncoppa”? Se se ne conoscesse il nome sarebbe poca cosa dedicargli un monumento nella piazza principale di ogni città d’Italia, se i turisti andassero religiosamente a visitarne la casa natale, se poeti e musicisti gli dedicassero poemi e sinfonie. Ad ogni modo qualcuno, un luminoso giorno lo fece questo abbinamento, e - anche se il suo nome è rimasto sconosciuto - si sarà certo assicurato un posto in Paradiso tra i Santi che più gioia hanno dato alla povera umanità. Con l’aggiunta del pomodoro, la pasta - che per secoli era stata cotta nel brodo di carne o nel latte, condita con zucchero, formaggio, burro e addirittura cannella e altre spezie -, si

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berto Denti di Pirajno scriveva: … “dopo aver mangiato la pasta c’a pummarola ‘ncoppa non dovete profanarla bevendo vino: sulla pasta al pomodoro non si beve che acqua pura”. Con tutto il rispetto, mi sembra demenziale. Ma come: Dio ha dato all’umanità questi tre grandi doni: pasta, pomodoro e vino che - come abbiamo visto - hanno impiegato migliaia di anni per giungere al felice appuntamento di trovarsi insieme su una tavola apparecchiata e tu vuoi che io mi privi di uno di questi? Quale peccato vuol farci scontare il buon Alberto Denti con questa rinuncia? Il vino è necessario, è importante, è indispensabile su ogni cibo, si tratta soltanto di scegliere quello adatto a ciascuno di essi. Ritengo che l’”homo” sia finalmente diventato “sapiens” solo dopo aver imparato ad abbinare cibo e vino. Quale vino dunque con la pasta? C’è una regola molto semplice teorizzata anni fa da Luigi Veronelli: “la scelta del vino è condizionata dalla salsa; la pasta asciutta è im-

mangiabile con la sola cottura; per farla esplodere occorre l’accompagnamento di una salsa, anche la più semplice, un pomodoretto pressato, aglio e olio…”. Logico che siano le salse a guidare la scelta dei vini. Se sono a base di verdure: vini bianchi o rosati, lievi e passanti; se a base di pesce: vini bianchi equilibrati e secchi; se a base di carni: vino rossi asciutti e robusti. “Attenzione - continua Veronelli - i vini siano più leggeri e più giovani o più freschi di quelli che avreste scelto per gli stessi intingoli di verdure, pesci, carni, cacciagione, se li avreste serviti per sé soli e non come condimento. Le ragioni sono chiare: l’intingolo diluito a consistenza di salsa, ha minor pienezza; il sapore è ancora attenuato da gusto neutro della pasta”. Si poteva dire meglio?

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COME SI CUOCE LA PASTA E’ incredibile, ma c’è ancora gente che non sa cuocere la pasta. Non diciamo all’estero ma, qualche volta, nemmeno in Italia. Date un’occhiata a questo box per ricordare le regole fondamentali (e chiediamo scusa a coloro che riterranno eccessivi o scontati questi consigli): • l’acqua deve essere abbondante: ogni cento grammi di pasta un litro d’acqua, in modo da non correre il rischio di farla agglomerare e di darle un sapore colloso; • salare l’acqua al momento in cui viene messa sul fuoco, in ragione di circa 10 grammi per litro (un po’ meno se il sugo con il quale verrà condita sarà particolarmente sapido); • prima di “calare” la pasta, aspettare che l’acqua sia ben bollente, così non si abbasserà troppo la temperatura e non si interromperà di troppo l’ebollizione. E’ bene anche avere una piccola riserva di fuoco, così quando si butta la pasta si alza la fiamma al massimo e l’acqua ricomincia a bollire; • non calare la pasta in un sol colpo ma a poco a poco, assicurandosi che si sparpagli ben bene affinché non si incolli. Se si tratta di spaghetti, vanno messi nella pentola a ventaglio, in modo che ognuno sia investito dall’acqua bollente in ogni parte; • quando l’ebollizione sarà tornata al punto giusto, abbassare la fiamma e continuare la cottura mescolando di tanto in tanto; • la pasta va puntualmente cotta al dente. Ogni pasta ha il suo tempo di cottura e perciò ognuno dovrà basarsi sulla propria esperienza. Non fidarsi di quello che c’è scritto su certe confezioni; a volte certe paste, per le quali si prevedono 15 minuti per la cottura, sono pronte dopo 10 minuti; • non lasciare mai la pasta sola mentre cuoce ma sorvegliarla e rinnovarla con un cucchiaio (possibilmente di legno) di tanto in tanto; • quando la cottura sarà completata, togliere la pentola dal fuoco e scolare la pasta scuotendo il colapasta dal basso verso l’alto per far fuoriuscire tutta l’acqua di cottura (tranne nei casi in cui è bene lasciarla un po’ acquosa, come per esempio nella pasta al pesto); • appena scolata, la pasta va adagiata su un piatto di portata (possibilmente concavo e preriscaldato); se la ricetta prevede il formaggio, metterlo prima della salsa perché, quando si aggiungerà quest’ultima, ben calda, ne completerà l’amalgama; • qualcuno consiglia di bagnare la pasta appena scolata con un po’ d’acqua fresca che serve a fermare la cottura, ma non tutti sono d’accordo. Qualche altro consiglia, una volta sgocciolata la pasta, salsata e mescolata, di versarla in un tegame e di farla saltare qualche attimo a fuoco forte. Fatta eccezione per pochissime ricette tradizionali, i puristi non sono d’accordo perché le paste non amano cotture a contatto diretto con i grassi.

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LA PASTA IN POESIA Una tenera e divertente poesia dedicata alla pasta scritta da Aldo Fabrizi, attore romano scomparso nel 1990 all’età di 84 anni. Grande appassionato di cucina, nonché lui stesso ottimo cuoco.

“Ieri dar friggidere, ch’o svotato pe’ daje na’ sbrinata, c’è sortito un pezzo de guanciale rancichito na’ crosta de formaggio smozzicato, na’ ciotola de strutto congelato, du’ fette de presciutto inseccolito, un ciuffo de basilico appassito, e un pommidoro mezzo magagnato. Voi buttavate tutto alla monezza, ma io ch’o combattuto cor bisogno ciò fatto “er sugo della fanciullezza”.

© Debora Montoli (2)

Un sugo col sapore rancichetto che m’a portato indietro come un sogno ar tempo bello ch’ero poveretto”.

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di Saverio Carlo Buttiglione

Benagiano: la pasta di Garibaldi Sono un “pastasciuttaro”, autentico, irriducibile, impenitente; di fronte al mio “quotidiano” piatto di pasta ringrazio il cielo che qualcuno l’abbia inventata e mi piacerebbe conoscerne il nome per proporlo per la beatificazione. Ma chi ha inventato la pasta? Se ne attribuiscono il merito innanzitutto i napoletani, anzi gli abitanti di Gragnano (che per la verità si accontentano - e non è merito da poco - di essere considerati gli inventori della pasta al pomodoro). Ma partecipano alla gara anche greci, arabi, egiziani, perfino i turchi e ciascuno con validi argomenti. A complicare le cose ci si sono messi anche i cinesi con l’autorevole testimonianza di Marco Polo. Quest’ultima ipotesi è però francamente inattendibile perché già qualche anno prima che il viaggiatore veneziano tornasse dal Catai, l’uso dei maccheroni nella cucina italiana era noto, e lo dimostra un documento del notaio Ugolino Scarpa che nel 1279, redigendo l’inventario dei beni di un suo cliente genovese, ad un certo punto elenca “una barixella plena de maccaronibus”. Qualche decennio dopo il Boccaccio racconta nel Decamerone del Paese di Bengodi dove “si legano le viti con salsicce ed eravi una montagna tutta di formaggio Parmigiano grattugiato sopra la quale stavan genti che gniuna altra cosa facevan che far maccheroni o raviuoli e cuocerli in brodo di capponi”. In ogni modo questo è quello che importa: un giorno fece il suo solenne ingresso nella storia

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dell’Umanità il “maccherone” (un invenzione pari - e forse superiore - a quella della ruota). Anche sull’etimologia ci sono pareri contrastanti: chi fa derivare “maccherone” dal latino “maccare” (schiacciare, quindi impastare); chi dal greco “maghis” che significa “colui che impasta”. Ma se è proprio obbligatorio sceglierne una preferisco chi la fa derivare dal greco “makarios”, che significa “beato”. Quante volte, infatti, mi sono sentito beato dopo un piatto di spaghetti al filetto di pomodoro, alle vongole, alla caprese, o dopo una porzione di tagliolini ricoperti di tartufo bianco, o di bucatini alla matriciana o di pasta con le sarde… Quando mi trovo a tu per tu con un piatto di pasta come Alberto Sordi nel film “Un americano a Roma”, chiedo soltanto che provenga


grale). Il mulino che li trasforma in farina lo hanno trovato ad Altamura in un’altra azienda dove vige il più rigoroso rispetto della tradizione: i cilindri di macina si muovono molto lentamente, ad una velocità che è la metà di quella della produzione industriale per non bruciare sostanze importantissime. In fabbrica, poi, anche l’impasto è lentissimo e avviene con un’impastatrice a cielo aperto, con l’acqua che cade dall’alto goccia a goccia, mentre - se avvenisse alla velocità standard - dovrebbe essere sigillata ermeticamente per evitare che l’effetto centrifuga, dovuto alla velocità delle pale, faccia schizzare fuori l’impasto. Le trafile che danno forma ai vari tipi di pasta devono essere esclusivamente di bronzo; il bronzo, non levigabile oltre un certo limite, trasmette la sua ruvidità alla pasta e ciò svolge un ruolo fondamentale durante l’essicazione perché consente che avvengano alcuni fenomeni chimici e biologici che caratterizzano il sapore e gli altri fattori di qualità della pasta; per favorire questo processo l’impasto, dopo essere stato trafilato in bronzo, deve essere

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© Debora Montoli

da un’azienda che la produca ancora nel rispetto della qualità: “trafile in soltanto che provenga da un’azienda bronzo” ed una “lenta essicazione”. Ne sono rimaste poche in Italia; le leggi del mercato globale impongono altissimi volumi di produzione a prezzi bassi e sono perciò preferiti i procedimenti veloci, anche se in questo modo si perdono i sapori e sostanze preziose per la salute contenute nel grano. Una delle aziende rimaste fedeli alla tradizione è la Benagiano di Santeramo in Colle, a pochi km da Bari, e sono proprio i suoi prodotti che vogliamo sottoporre al giudizio dei Saggi Degustatori. La dirigono i fratelli Giuseppe e Andrea che, con molti sacrifici, continuano a produrre quella che è un’eccellenza agroalimentare pugliese con lo stesso amore, la stessa passione, la stessa cura del bisnonno “Mastro Francesco”, che a metà Ottocento diede l’avvio alla stirpe dei “Benagiano Pastai”. In molte locande d’Italia si ricorda il passaggio di Garibaldi con una targa con su scritto: “Qui dormì l’Eroe dei Due Mondi”; a Santeramo hanno scritto: “Qui si fa la pasta come quella che mangiò e apprezzò Garibaldi” (e gli piacque talmente tanto che, quando fu eletto deputato ad Andria ritornò spesso s Sant’Eramo per gustarla ancora). I Benagiano sono, con i figli Nicola e Vito, arrivati alla quinta generazione di pastai, ma i metodi di produzione sono sempre gli stessi. Si incomincia dalla accurata ricerca del grano e del farro (oltre alle paste tradizionali producono, infatti, anche pasta di farro e inte-


superi i 45-50°. Ancora a fine Ottocento la pasta veniva portata in strada per farla asciugare all’aria aperta e occorrevano intere giornate per completare il processo; oggi la pasta della grande industria viene essiccata in poche ore ad alte temperature che eliminano definitivamente le preziose sostanze nutritive. I prodotti dei Benagiano vengono messi in celle con grandi ventole a ricambio naturale di aria alla temperatura massima di 45°, per cui occorrono 24 ore per essiccare la pasta corta e quasi due giorni per quella lunga. I tempi di lavorazione vengono così notevolmente allungati, ma il risultato - importante per la nostra salute - è che la ricchezza delle sostanze contenute nel grano arriva intatta al nostro organismo per arricchirlo e proteggerlo. Fra i molti riconoscimenti e attestazioni ottenuti dalla loro pasta, premiata dal “Tuttofood” di Milano e dal Gambero Rosso come la “miglior pasta di farro”, quello che preferiscono i Benagiano è stato conferito dal Centro di Ricerca De Bellis che, dopo test durati mesi e mesi su 556 volontari scelti fra 1042 soggetti affetti da sindrome metabolica, ha decretato che la pasta di Garibaldi, oltre che essere buona, fa anche bene alla salute. L’azienda Benagiano produce 35 tipi di pasta, oltre alla pasta al farro e a quella di semola integrale, ideale per i diabetici; chiedo al Cavalier Giuseppe qual’è il tipo che preferisce e il modo migliore di cucinarla. Non ha esitazioni:

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“spaghetti al pomodoro”, quello che i napoletani chiamano “c’a pummarola ‘ncoppa”. Ci sono centinaia di modi per cucinare la pasta (Vincenzo Buonassisi nel suo “Codice della Pasta” ne ha individuato e catalogato ben 1347, elencandoli in ordine alfabetico dagli “agnoli in sorbir” alla “zuppa di grano”). Ma il Cav. Giuseppe la sua pasta la preferisce nella maniera più tradizionale. E quale vino abbinargli? Lo chiedo ancora al Cavaliere, ricordandogli che qualcuno sostiene che: … “dopo aver mangiato la pasta al pomodoro si beve solo acqua pura; non si deve profanarla bevendo vino”. Il Cavalier Giuseppe non è assolutamente d’accordo: “Perché questa rinuncia? Il vino è importante, è indispensabile su ogni piatto di pasta, si tratta soltanto di scegliere quello adatto. Con la “mia” pasta al pomodoro io bevo un buon bicchiere di vino bianco delle Murge”. Ecco dunque tutti gli ingredienti per realizzare uno dei più grandi piatti della storia della gastronomia: pasta, olio, pomodori, sale, vino. Semplice, no? Ma attenzione: l’olio deve essere quello sapido e intenso che solo la Puglia sa dare; il sale quello marino realizzato nelle saline lunari di Margherita di Savoia; i pomodori quelli che i contadini di Santeramo coltivano fra terra e cielo, senza niente altro che aria e sole; il vino quello ottenuto nelle Murge dalle uve di vigne “ad alberello”, sempre più rare. E la pasta? Naturalmente quella di Giuseppe Garibaldi.

© Debora Montoli

essiccato anche se non più al sole come avveniva una volta - in tempi lunghissimi e ad una temperatura che non


Le ricette con la pasta FOJADE GIALLE CON PISELLI E MENTA Ingredienti per 4 persone: 500 gr di farina di semola; 400 gr di piselli novelli freschi; 200 gr di Parmigiano; 4 rametti di menta; 80 gr di burro. Preparazione: preparare la sfoglia per le tagliatelle amalgamando le uova con la farina. Cuocere i piselli in abbondante acqua salata per circa 6-7 minuti, scolarli e passarli in padella col burro. Cuocere la pasta, scolarla e condirla con i piselli, il Parmigiano e le foglie di menta sbriciolate.

MALTAGLIATI CON I FAGIOLI Ingredienti per 4 persone: 400 gr di farina di semola; 400 gr di fagioli freschi; 4 uova; 4 litri di brodo di gallina; 300 gr di patate; 100 gr di Parmigiano; 2 pomodori; 1 grossa cipolla; 2 spicchi d’aglio; basilico e alloro; 50 gr di burro; sale e pepe q.b. Preparazione: impastare la farina con le uova e tagliare la sfoglia così ottenuta dopo averla arrotolata in pezzetti (maltagliati). Lasciare appassire la cipolla all’interno di una pentola capiente con il pomodori, l’aglio, l’alloro, il basilico. Salare e pepare. Coprire il tutto col brodo di gallina e far cuocere per circa un’ora abbondante. Cuocere i maltagliati per qual© Gianni Renna

che minuto, unire il Parmigiano e servire col sugo di verdure ben caldo.

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Ricette

burro. Aggiungere i fagioli, le patate, i


TAGLIATELLE GIALLE CON SALSICCIA FRESCA E ACETO BALSAMICO DI MODENA Ingredienti per 4 persone: 300 gr di farina di semola; 600 gr di salsiccia cruda; 2 uova; 20 gr di burro; aceto di Modena; Parmigiano; sale q.b. Preparazione: disporre la farina a fontana, sgusciarvi al centro le uova, impastare e preparare le tagliatelle. Cuocere la pasta e nel frattempo sbriciolare le salsicce e farle rosolare in una padella col burro. Condire le tagliatelle con la salsiccia, mezzo bicchiere d’acqua di bollitura, abbondante Parmigiano e qualche goccia di aceto Balsamico.

TORTELLI DI ZUCCA IN CREMA DI ZUCCA E MANDORLE DI PESCA Ingredienti per 4 persone: 500 gr di farina; 4 uova; 1 kg di polpa di zucca gialla; 100 gr di amaretti; 150 gr di mostarda di mele; 50 gr di mandorle di pesca; 300 gr di Parmigiano; 1 limone; 100 gr di burro; ½ bicchiere di vino cotto; noce moscata; sale q.b. Preparazione: cuocere la zucca, scolarla e passarla al setaccio. Tritare gli amaretti, unire le mandorle e la mostarda. Aggiungere la zucca, il Parmigiano, la buccia del limone grattugiata e amalgamare bene il tutto fino ad ottenere un composto omogeneo. Preparare la sfoglia per i tortelli con le uova e la farina. Tagliarla in quadrati di circa 8 © Gianni Renna (2)

cm di lato e riporre al centro di ognuno una noce di ripieno. Richiuderli e cuocerli in abbondante acqua salata per circa 3-5 minuti. Condirli con burro fuso e una crema di zucca preparata con un po’ di pesto tenuto da parte, ½ bicchiere di vino cotto e poca acqua di cottura.

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Rubriche

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di Cino Tortorella

Peccato di gola? I “Peccati Capitali” quelli che senza un duro e sofferto pentimento portano diritti all’Inferno erano inizialmente gli otto individuati da Frate Cassiano nel 400 d.C.: Lussuria - Ira - Invidia - Superbia - Avarizia - Accidia - Tristezza e Gola. Qualche secolo dopo Tommaso d’Aquino ne introdusse ufficialmente nel Catechismo soltanto sette, eliminando la Tristezza. Non tutti i suoi confratelli però furono d’accordo; niente da obiettare sulla Lussuria, che spesso degenera nell’abiezione, nella violenza, nella prevaricazione sui più deboli; tutti

d’accordo sull’Ira, che provoca guerre e delitti, sull’Invidia, sulla Superbia, sull’Avarizia che uccide la solidarietà e la generosità; ci fu qualche perplessità sull’Accidia, che è generata dalla noia, dallo scoraggiamento, dalla solitudine, ma è difficile che provochi danni se non a se stessi. Ma perché – si chiesero in molti - considerare mortale il peccato di Gola? Che male si fa - si domandarono - a gustare con piacere i doni che la Natura elargisce con generosità? Perché mettere sullo stesso piano un delitto provocato dall’Invidia o dalla

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Superbia e il godimento di un cibo mangiato in allegria con amici e magari seguito da canti e danze e invenzioni poetiche? Tutto però fu inutile: per l’autore della Summa Teologiae i Peccati Capitali dovevano essere sette e sette rimasero, compresa la Gola, che - peraltro - era stata condannata all’Inferno già da Dante nel VI canto della “Divina Commedia”. Nei secoli che seguirono molti preti si dimenticarono di comminare recite di pateravegloria a chi confessava il peccato di aver mangiato con avidità un cosciotto di agnello o un piatto di agnolotti e molti Vescovi, Cardinali e perfino Papi sono stati colti dal dubbio se la Gola fosse da considerare un “peccato” e per giunta - “capitale”. Nessuno è però mai intervenuto a correggere la decisione di Tommaso, forse anche per rispetto, dal momento che era stato anche santificato. Noi di “Gustare l’Italia” siamo giunti alla conclusione che 700 anni dopo la pubblicazione della “Divina Commedia”, 600 anni dopo la decisione di San Tommaso sia giunta l’ora di fare qualcosa di concreto e di definitivo per riparare a questa che - secondo noi - è un’in-

giustizia e pensiamo che, proprio come era già accaduto per la Tristezza, sarebbe opportuno cancellare dai Peccati Capitali la Gola, che nei secoli ha dato gioia, ha invitato all’amore, alla poesia, alla bellezza. Chiediamo a tutti coloro che condividono il nostro pensiero a farci avere un commento su questa nostra proposta (possono anche comunicarcelo alla mail info@gustarelitalia.it). P.S. Se qualcuno si è affezionato al numero sette e ritiene che i “peccati capitali” debbano necessariamente essere sette, proponiamo di sostituire la Gola con il peccato dell’Astinenza dal Vino e mandare all’Inferno la triste genia degli Astemi, coloro che rifiutano la divina bevanda che esalta la gioia di vivere, dispone all’ottimismo, dà acutezza all’ingegno, ali all’ispirazione e che certo ritroveremo in Paradiso, come ci assicura il Vangelo secondo Giovanni: “… e preso il calice, reso grazie, diede loro; e ne bevvero tutti. E disse loro: “questo è il sangue mio effuso per molti. In verità vi dico che non più berrò del succo della vite fino a quel dì che ne berrò di nuovo nel regno di Dio.

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Un vero gourmet che, proveniente da ogni parte del mondo, arriverà a Milano in occasione della Grande Esposizione del 2015 sarà certo curioso di visiatre i ristoranti dove poter incontrare il meglio della cucina del nostro Paese, i sapori autentici e genuini della nostra terra. “Gustare l’Italia” vuol dare il proprio contributo a questo legittimo desiderio segnalando quei locali ai quali il turista goloso non dovrà rinunciare per nessuna ragione. Diamo dunque il via alla nostra personale guida segnalando un ristorante dove, a pochi chilometri da Mlano, si può incontrare la più autentica e genuina cucina pugliese

Gualtiero Marchesi, il più titolato chef italiano, intervistato dal New York Time, alla domanda: “Qual è il suo ristorante preferito in Italia?” Ha risposto senza esitazione: “Il Carretto” e ha aggiunto: “Non trovo il più piccolo difetto in questa semplice trattoria che serve un autentico menù pugliese; non ci sono invenzioni false ma cibi semplici, sinceri e pieni di fantasia. La cuoca, Maria, cucina in modo meraviglioso con grande amore e passione”.

Paul Bocuse, forse il più grande cuoco d’oltralpe non perde occasione, se è di passaggio a Milano, di fare una visita al Carretto dove si gusta - lui sostiene - la più esaltante cucina mediterranea. Lorella Cuccarini lo mette al primo posto fra i ristoranti della sua predilezione, così Lino Banfi che viene a ritrovare i piatti che gli cucinava la nonna. Il Corriere della Sera ha scritto che Il Carretto, anche se si trova a Bonirola di Gaggiano, a pochi passi dalla capi-

I ristoranti Expo

di Cino Tortorella - Foto di Gianni Renna

La Puglia a Milano

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tale lombarda, “è forse il più grande ristorante pugliese d’Italia”. Sono d’accordo. E sono lieto di avere contribuito anche se soltanto con consigli e suggerimenti a far crescere questo locale fino a meritare questi prestigiosi riconoscimenti. Ho scoperto Il Carretto 40 anni fa quando è stato inaugurato e l’ho tenuto gelosamente nascosto segnalandolo solo ai gourmet di provata fede nel timore che, una volta diventato famoso, scadesse nel banale e nella routine come è accaduto - purtroppo - a molti altri. Da molto tempo il pericolo è passato; anche se è facile incontrare ogni sera importanti nomi del mondo dello spettacolo, della cultura, della cronaca, l’attenzione dei proprietari si è fatta - se possibile - ancora più acuta senza cedimenti e senza incertezze. Il merito va ad una coppia arrivata in Lombardia una trentina d’anni fa dalla natia Spinazzola, un paesino Murge ai confini con il Vulture: Giuseppe e Maria. Pochi soldi in tasca, un grande sogno nel cuore, una volontà di ferro unita alla capacità - propria di certa gente del sud - di lavorare con impegno costante senza fermarsi di fronte alle difficoltà. Il Carretto fu una realtà qualche anno dopo, nel 1970, e il successo fu immediato soprattutto fra i pugliesi di Milano che costituiscono la più numerosa colonia di immigrati. Il merito di questo successo va diviso equamente fra due coniugi: Giuseppe che ogni settimana parte con suo camion alla esasperata ricerca degli ingredienti e Maria che li cucinerà con antica sapienza e rispetto per la tradizione. Raramente in un ristorante legato alla cucina meridionale ho trovato la perfezione dei cibi di Maria, il trionfo dei sapori che giungono da un lontanissimo passato e che fanno ammalare di nostalgia chi

quei sapori ha vivi nei suoi ricordi. Ne sono innamorato perché anch’io vi ritrovo la mi infanzia - i mie genitori erano originari di Maratea, il più bel paese del mondo, in provincia di Potenza. Spesso, quando sono al sud cerco la cucina più autenticamente popolare, quella più vicina ai sapori del passato ma se non ho la fortuna di essere invitato in una casa privata dove - grazie a Dio - c’è ancora qualcuno attento alla tradizione, rischio di andare incontro a cocenti delusioni. In regioni di straordinaria cultura gastronomica, di incomparabile ricchezza di ingredienti che la natura dona con generosità, dove l’artigianato locale continua a creare fra mille difficoltà prodotti di alta qualità, i ristoranti si accontentano di prodotti industriali che sono l’appiattimento del gusto. Si direbbe anche che i ristoranti del sud abbiano una sorta di complesso di inferiorità nei confronti di quelli del nord; c’è una specie di pudore, quasi di vergogna nel proporre piatti autenticamente paesani….facilissimo sentirsi offrire penne al salmone, lumache al vermut, tagliatelle al cacao, scampi al cognac, persino bagna caoda o brasato al barolo, ma mangiare un accettabile piatto di fa-

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ve e cicoria a Foggia o una decente pasta con le sarde in Sicilia, è un’impresa quasi disperata. Ci sono naturalmente luminose eccezioni: penso ad “Alia”, un’oasi di grande gastronomia a Castrovillari (Cosenza), al “Don Alfonso” di Sant’Agata sui due golfi, all’”Antichi Sapori” di Montegrosso di Andria

guidato con travolgente passione da Pietro Zito, all’”Antica Locanda” di Pasquale Fatalino a Noci (BA)… Ma il panorama resta alquanto deprimente. A volte mi viene la tentazione di prendere certi ristoratori e portarli in pellegrinaggio a Bonirola di Gaggiano per far loro gustare la cucina di Maria, la cucina delle origini che essi hanno dimenticato. Non c’è piatto nel suo menú che non si riferisca alle tradizioni della sua terra, nulla viene tralasciato del repertorio regionale che trova qui la sua più alta espressione. Giuseppe è un appassionato ricercatore dei prodotti artigianali che va a scovare nelle più remote masserie delle Murge; per un certo caciocavallo, per certe salsicce, per un certo vino è

disposto a fare chilometri e chilometri e non è contento se non ha ottenuto il meglio, l’assoluto. Se ogni ristorante del sud ponesse la stessa attenzione alla genuinità dei prodotti locali ne riceverebbe sicuramente un impulso l’economia meridionale e Dio sa quanto ce ne sarebbe bisogno. L’arrivo del camion di Giuseppe a Bonirola è un trionfo per gli occhi e per il palato: mozzarelle, pecorini, caciocavalli, ricotta dura, burrate, salsicce, peperoncini, lampascioni, cime di rapa, pomodorini, tarallini, farina di pane di Altamura, pancetta, salame, dolcetti di mandorle, finocchiella selvatica, alloro, uova, aglio, cipolla, carne d’agnello, fave, ceci, cicerchie, fagioli, olio di Andria, vini di Spinazzola, di Gravina (la stupenda Verdeca) del Volture (il prezioso Aglianico), di Venosa, la patria di Orazio (nunc est bibendum, nunc pedelibero pulsanda tellus) perfino l’acqua di Monticchio senza la quale sarebbe impossibile fare a Milano strascinati, orecchiette, cartellate… Maria accoglie con il suo dolce sorriso tutto quel bendidio che lei, magicamente trasformerà in piatti di assoluta perfezione: orecchiette al sugo di braciola, strascianati alle cime di rape, cavatieddi, orecchiette alla Sangiuaniello, al pomodoro e basilico, al ragù, strascinati alle cime di rape, cicatielli con fagioli, taglioline con ceci, favette con la cicoria, gnummeriddi, salsicce in punta di coltello, braciole alla spinazzolese… Non c’è niente di inventato, il rispetto della tradizione nel realizzarli, ne fanno piatti di assoluta perfezione. Le cime di rapa sono cime di rapa come una rosa è una rosa, ma provate ad assaggiare un piatto di strascinati in

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certi ristorante del sud e poi confrontateli con quelli di Maria. In quanti ristoranti pugliesi si possono ancora mangiare gli gnumeriddi o le cicerchie o le favette con la cicoria?. Chi impiegherebbe tre o quattro ore per realizzare il trionfale “cuturiddu”? Al Carretto è possibile: basta capitare in una fortunata giornata di primavera o ordinarlo espressamente. Eccovi gli ingredienti: agnello nostrano (naturalmente di Spinazzola) finocchiella, funghi cardoncelli, piselli, cipollotti freschi, aglio, olio, prezzemolo, foglie di alloro, pezzetti di pecorino. Si mette il tutto a crudo in una pentola possibilmente di coccio - tranne pecorino, alloro e prezzemolo - e si fa cuocere lentamente. Solo se è proprio necessario si aggiunge un po’ d’acqua. Dopo circa un’ora dovrebbe essere pronto; aggiungere il pecorino, il prezzemolo e l’alloro. Sarete felici. Gustatevi il cuturiddu bevendo l’Aglianico che Giuseppe si è spinto fino a Rionero per trovarlo e lo ha ottenuto dal produttore con blandizie o minacce. Sarete felici. Non avrete mai bevuto un Aglianico di

questa fragranza, di questa perfezione, di questa ricchezza. Basterebbero questo piatto e questo vino per dare fama e lustro a qualunque ristorante ma il Carretto è molto di più. Anche dal punto di vista umano: dalla prima volta che ci entri ti senti come a casa tua, vieni accolto come un amico da troppo tempo assente finalmente ritrovato e ti accorgi che non c’è affettazione e calcolo ma autentico piacere e senso di ospitalità. Giuseppe è anche un raffinato antiquario e te ne accorgi entrando al Carretto per la ricchezza, l’originalità, la fantasia di mobili, ninnoli, fotografie, quadri, suppellettili che fanno capolino fra trionfi di pomodorini, di trecce d’aglio, di peperoncini, di cipollotti…sei subito avvolto da una atmosfera che rallegra gli occhi e lo spirito e ti predispone ai piaceri del palato che gusterai fra poco. Gualtiero Marchesi concludeva la sua intervista con queste parole: “Ciò che mi ha colpito di più in questo locale è che ogni cosa viene cucinata con tanto amore. Preferisco chi mette cuore in ciò che fa a chi adopera il cervello”. Perfetto.

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di Davide Rampello

Brindisi d’autore La consuetudine di fare quello che si chiama “brindisi” ha origini antichissime; da quando l’uomo cominciò a provare gioia nel sedersi con degli amici intorno a un tavolo per gustare cibi e bere del buon vino, nacque in lui il desiderio di manifestare il proprio piacere improvvisando in prosa o in versi un discorso per dedicare quel momento ad una persona cara o ad un avvenimento importante. Molti di questi brindisi sono rimasti nella storia dell’Umanità e ci sono stati tramandati da storici e poeti, ecco alcuni frasi più famose: “Beviamo; Dioniso ci ha dato il vino per alleggerire il nostro fardello, per darci allegrezza, per allontanare i malumori della vecchiaia rinnovando la giovinezza e facendoci dimenticare la disperazione”. Catone

“Vuotiamo questo calice di vino che ci ha dato il figlio di Zeus e di Samuele per dimenticare dolori e affanni”. Alceo

“Beviamo, amici, la notte amore e vino non chiedono nessuna moderazione. E’ priva di pudore la notte. Bacco e Amore non conoscono la paura”. Ovidio

“Brindiamo per sconfiggere con il vino il canto e i dolci conversari la tristezza che ci opprime”. Orazio

E’ un drammatico brindisi anche l’invito a bere di Gesù agli apostoli la sera dell’ultima cena, secondo il racconto del Vangelo scritto da Giovanni: “… preso il calice di vino, reso grazie, lo diede loro; e ne bevvero tutti. E disse loro: questo è il sangue mio effuso per molti. In verità Vi dico che non più berrò del succo della vite fino a quel dì che lo berrò nel Regno di Dio”. E’ un momento drammatico ma anche piacevole per chi crede, poiché le parole di Gesù ci dicono che in Paradiso potremo bere del buon vino (e se no che Paradiso sarebbe?).

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Altri brindisi d’autore sono dovuti a importanti scrittori; quello che segue è il brindisi di Mirandolina ne “La Locandiera” di Goldoni: “Viva Bacco e viva Amore, l’uno e l’altro ci consola; uno passa per la gola l’altro va diritto al cuore. Bevo al vin, con gli occhi poi… Faccio quel che fate voi”.

Dal Rossini de “L’Occasion fa l’uomo ladro”: “Dunque facciamo un brindisi Con questo vin perfetto”. “Il gentile invito accetto Di Vostra urbanità”. “Viva Bacco dio del vino. Viva il sesso femminino. Che il piacer ti da alla testa e fa tutti giubilar”.

Ed ecco Charles Baudelaire:

Al Verdi de “La Traviata”: “Libiamo, libiamo nei lieti calici Che la bellezza infiora e la fuggevol ora s’inebriì a voluttà”.

“Beviamo; oggi lo spazio è splendido. Senza morsi, senza speroni, senza briglie, partiamo a cavallo sul vino verso un cielo di magia…”. E come dimenticare i brindisi dei capolavori operistici?

Al Mascagni ne “La Cavalleria Rusticana”: “Viva il vino spumeggiante Nel bicchiere scintillante, Come il riso dell’amante Mite infonde il giubilo! Viva il vino ch’è sincero Che ci allieta ogni pensiero, E che annega l’umor nero, Nell’ebbrezza tenera”.

E’ questa dei brindisi una tradizione che non deve perdersi: per questo noi di “Gustare l’Italia” invitiamo i nostri lettori a continuare questa piacevole abitudine… inventate altri brindisi, in prosa o in poesia, e inviatecelo. Basta un po’ di fantasia, di allegria, di gioia di vivere, tutte doti che si possono trovare facilmente in fondo ad un bicchiere colmo di buon vino, circondati da amici (o insieme a un amante…). Chi vuol partecipare è invitato a mandare una mail completa con tutti i suoi dati all’indirizzo info@gustarelitalia.it. Ogni mese una giuria sceglierà i brindisi migliori, i più divertenti, i più poetici, che verranno premiati con bottiglie dei vini delle più rinomate cantine della provincia - naturalmente - di Brindisi.

119 Gustare l’Italia


della Redazione

Il carrello della spesa Insieme a “Gustare l’Italia” nasce oggi un nuovo contenitore che sarà di grande aiuto per tutti i nostri lettori. Il portale è stato realizzato dall’”Idini Consulting Group”, un’importante Società del settore che può vantare collaboratori tra i più qualificati. Alla direzione del Gruppo c’è Piero Idini, forte di un’esperienza ormai ultratrentennale che lo ha visto tra i primi tecnici di Antenna Tre, la prima televisione privata fondata da Enzo Tortora, Cino Tortorella e Beppe Recchia nel 1977. Il sito, che è fin d’ora visibile all’indirizzo www. gustarelitalia.it, vuole essere un importante aiuto per i lettori che potranno sia seguire ricette, consigli e appuntamenti, sia scoprire le più vantaggiose eccellenze alimentari di tutt’Italia. La rubrica, che è allo studio, inizierà a partire dal prossimo mese di settembre; si tratta di

un’iniziativa che nasce da una doppia esigenza: illustrare a tutti i lettori i migliori prodotti del nostro Paese e aiutare a crescere le molte Aziende che, nonostante offrano articoli di altissima qualità, spesso sono ancora poco conosciute dal pubblico.

IDINI CONSULTING GROUP È un’azienda di consulenza leader nella gestione e nell’integrazione di sistemi e di servizi professionali, con particolare riferimento all’industria dei media e delle telecomunicazioni. Forte di un’esperienza trentennale nel settore broadcast entertainment e all’avanguardia nei servizi legati al web 2.0, ICG risponde a tutte le esigenze di comunicazione delle imprese che vogliono trarre il massimo vantaggio dalle nuove opportunità che il digitale e internet mettono a disposizione per un business di successo grazie a : Produzioni audiovisive - Web TV - Siti Web interattivi - E-commerce - Comunicazione multimediale e cross mediale - Digitalizzazione pubblicazioni editoriali Per informazioni: info@idini.tv

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della Redazione

LA CUCINA PUGLIESE - Luigi Sada Un autentico vademecum della tradizione culinaria pugliese. Dalle antiche ricette, riscoperte dal noto storico della gastronomia, ai “nuovi” ghiotti e gustosi sapori. Luigi Sada, tarantino di nascita e barese di adozione, ha dato un notevole contributo alla conoscenza della Puglia e, in particolare, di Bari, sotto il profilo storico, demologico e linguistico. Il suo ultimo lavoro è una guida dettagliata, approfondita e fantasiosa ai segreti di una delle cucine più solari d’Italia che ha saputo sfruttare in modo completo, vario e intelligente le risorse alimentari della terra. L’olio, anzitutto; poi il grano - il pane in questa regione viene quasi idolatrato -; le carni più saporite (come il celebre rito dell’uccisione del maiale, un autentico costume popolare che coinvolge intere comunità). Dagli antipasti alle zuppe, dai piatti di pesce e carne accompagnati dalle verdure locali, fino ai dolci tipici e al buon vino: ecco un vademecum davvero imperdibile.

FLOS OLEI 2010 - Marco Oreggia Ecco la prima guida internazionale dedicata ai migliori oli extravergine di oliva di tutto il mondo. Curata da Marco Oreggia e Laura Marinelli - ed edita dallo stesso Oreggia -, è arrivata la prima guida internazionale dedicata ai migliori extra vergine d’oliva di tutto il mondo. La guida è stata scritta sia in

Libri da mangiare

italiano, sia in inglese, e presenta le realtà olivicole di 40 Paesi: naturalmente l’Italia (che detiene il primato produttivo per qualità); poi la Spagna; il Portogallo (premiata l’azienda Maria Costança de Castro Doutel de Andrade come “Frantoio emergente”); la Francia (l’azienda Viticole & Oleicole des Rives du Rhone ha vinto il “Frantoio di frontiera”); la Croazia (che si sta ritagliando uno spazio notevole nel settore). Inoltre anche il Sud Africa, l’Australia, il Cile e la Nuova Zelanda che - negli ultimi anni - sta raggiungendo davvero ottimi risultati.

IL LUSSO DELLA SEMPLICITA’- Gianfranco Bolognesi - Elsa Mazzolini Le più belle ricette del Ristorate “La Frasca” di Milano Marittima. Nessun territorio è amabile solo per le sue caratteristiche storiche, paesaggistiche, climatiche o culturali, si sa. E’ la conoscenza dei luoghi, dei prodotti, dell’ambiente e – perché no? – anche della cucina a fare la differenza. Milano Marittima, in questi ultimi anni, si sta avvicinando alla valorizzazione sia delle proprie tipicità alimentari, sia della ristorazione: ne è un esempio il Ristorante “La Frasca” che, attraverso un progetto socio-culturale di ampio respiro, “cerca quotidianamente di tradurre in un linguaggio comprensibile il concetto di cibo come momento non solo di aggregazione intelligente, ma anche di conoscenza territoriale”. Da qui l’idea di questo libro, un volume che vuole raccontare il cibo e la configurazione geografica straordinaria di un territorio che sorge tra mare e collina, di fascino indubbio.

Gustare l’Italia 122



di Guido Tortorella

Il pranzo di Babette

cibo servire il mio corpo”, dicono i commensali

A partire da questo numero, il regista Guido

la di riempire la pancia e, a causa della fretta,

Tortorella ci illustrerà i più celebri film che ve-

spesso si rinuncia a farlo con giudizio e ricerca-

dono il cibo come protagonista

tezza.

prima di ogni pasto. In senso lato si potrebbe paragonare il loro rifiuto alle deformazioni che portano oggi la maggior parte degli italiani a servirsi quotidianamente dei fast-food. L’unica necessità sembra essere diventata quel-

Il cibo nel cinema

Ma la comprensione di qualcosa che ci è comLa necessità di soddisfare la gola deve esse-

pletamente alieno non è sempre facile: se por-

re tanto nobile quanto quella di soddisfare l’ani-

tassimo un frequentatore abituale di fast-food

ma. Vivere il cibo come una forma d’arte è ciò

da Aimo e Nadia o da Gualtiero Marchesi, note-

che ci distingue dagli animali, che mangiano so-

rebbe veramente la differenza o rimarrebbe

lo per bisogno. Questa necessità è il tema di un

semplicemente stordito da un cambiamento

film, “Il Pranzo di Babette” che mi è parso il più

troppo violento?

appropriato ad aprire questa rubrica.

L’educazione al mangiare deve avere una base

In due parole la trama: in un piccolo villaggio

culturale, non può nascere dal nulla, altrimenti si

della Danimarca vivono due sorelle che fanno

rischia di fare la stessa figuraccia della luterana

parte di una comunità di luterani. La loro vita si

che, nel film, assaggiando lo champagne dice:

svolge nella preghiera e nella semplicità.

“Deve essere una specie di limonata”.

Madame Babette, una grande cuoca in fuga da Parigi perché ricercata dalla polizia per la sua partecipazione ai moti rivoluzionari dal 1871 viene accolta nella loro casa come domestica. Babette non rivela a nessuno la sua identità, si adatta ai lavori più umili, a una cucina semplice e povera del tutto intonata alle condizioni delle due anziane sorelle. Quando però vince alla lotteria una ricca somma, anziché ritornare in Francia decide di ringraziare le sue benefattrici a modo suo e spende tutto il denaro per offrire alla comunità un pranzo indimenticabile acquistando i cibi più esclusivi e ricercati, il meglio che trova sul mercato; crea così per gli ospiti sbalorditi una fantastica cena al termine della quale uno degli ospiti uscendo nella notte stellata dirà: “Le stelle sono venute più vicine”… Nel film di Axel, quello che allontana i personaggi dal piacere della cucina è la visione distorta di un estremismo religioso. “Possa oggi il mio

Gustare l’Italia 124


Quando cominciano ad arrivare le pietanze che Babette ha cucinato, le due sorelle sono spaventate come fossero di fronte all’ignoto e al peccaminoso. E’ anche vero che vedendo la cuoca intenta alla preparazione del Vol-au-vent di quaglia (in cui l’animale viene sventrato e riempito di alimenti), ci par di osservare qualcosa di demoniaco. Nell’allestire un buon pasto ci si deve mettere passione, anche violenza, come nell’esecuzione dell’aria di un opera lirica. Solo così si sarà in grado di suscitare emozioni forti….e alla fine, infatti, il miracolo avviene. Portata per mano dalle nobili pietanze e dal flusso continuo dei vini che accompagnano il pranzo (Amontillado, Veuve Cliquot 1860, Clos Vougeot 1864) la comunità raggiunge finalmente quella consapevolezza che, per fanatismo religioso, ignorava: anche il piacere del cibo può aiutare ad avvicinarci a Dio.

INSALATA MISTA CON VINAIGRETTE DI ACETO BALSAMICO DI MODENA INSALATA MISTA Ingredienti: Scarola riccia - Lattuga - Carote - Cetriolo - Gherigli di noce di miele Procedimento: spellare e grattugiare i cetrioli, schiacciarli bene per fare uscire il liquido avvolgerli in una stamina e metterli sottopeso per un’ora. Stracciare a mano le insalate. Tagliare le carote a julienne. Condire con salsa vinaigrette SALSA VINAIGRETTE X4 Ingredienti: Aceto balsamico di Modena 3 cucchiai - Olio extravergine ligure 6 cucchiai Tuorlo sodo 1 passato al setaccio - Sale, pepe, erba cipollina Procedimento: In una bastardella aggiungere: aceto, tuorlo e sale. Frustrare e aggiungendo olio a filo. Alla giusta densità aggiungere un cucchiaino di acqua calda. Aggiungere erba cipollina

125 Gustare l’Italia


di Arabella Pezza

SAGRA TE LU RANU Merine (LE) - 9/11 luglio 2010 Per info: www.sagratelurano.eu “Lu Ranu” è il grano, Merine è un piccolo paese alle porte di Lecce dove vale la pena fare una sosta in questi giorni per assaggiare pizzi, maccheroni e orecchiette, ballando la pizzica, ovviamente.

OTRANTO JAZZ FESTIVAL 2010 Otranto - 22/25 luglio Per info: www.otrantojazzfestival.com Non solo jazz per tutti gli appassionati del genere, ma anche una serie di appuntamenti enogastronomici - tutti da scoprire! - da gustare nei migliori locali che aderiscono all’iniziativa.

FESTA FEDERICIANA

Appuntamenti

Gioia del Colle (BA) - 24/25 luglio 2010 Per info: www.festafedericiana.it L’Associazione culturale Petali di Pietra, in collaborazione col Consorzio Made in Puglia, organizza la II edizione della Festa Federiciana, realizzata con l’ausilio di Slow Food: bancarellisti, aziende enogastronomiche, artisti, artigiani e un grande mercato di prodotti tipici locali tutti da gustare

SAGRA DEL POLPO Mola di Bari (LE) - 31 luglio/1 agosto 2010 Due intere giornate dedicate al polpo, il vero e unico protagonista di questa ghiottissima sagra. Da gustare sul lungomare, alla griglia o in zuppa, anche se la vera specialità è il panino farcito col polpo, hot-dog alla marinara…

Gustare l’Italia 126


SAGRA DA FAR’NÈDD (E DEI SAPORI DI PUGLIA) Castellaneta (TA) - 8 agosto 2010 Per info: www.comune.castellaneta.ta.it E’ forse la Sagra più grande ed importante d’Italia: 2 km di percorso nel cuore della storia architettonica della cittadina, bontà locali e, naturalmente, lei “a far’nèdd”. Di cosa si tratta? Della vecchia farina ricavata macinando i legumi, ma si potranno degustare anche focacce, salumi, caci, friselle, orecchiette e, naturalmente, vini.

SAGRA DELLA PISCIALETTA Surbo (LE) - 6/9 agosto 2010 www.sagradellapiscialetta.com La “piscialetta” è la focaccia tradizionale, tutta da scoprire partecipando a questa sagra che ogni anno - richiama a Surbo migliaia di appassionati (affamati!).

FESTA DELLA MUNICEDDHA Cannole (LE) - 10/13 agosto 2010 Per info: www.comune.cannole.le.it Una delle maggiori (e più commerciali) sagre salentine. Il nome deriva dalla cuffia inamidata che usavano le suore, la monachella, e la municeddha è la lumaca di terra, da provare arrosto, al sugo o fritta.

SAGRA DE LE 4 PIGNATE Tiggiano (LE) - 13 agosto 2010 Per info: 335-228673 La “pignata”, ovvero il contenitore di terracotta all’interno del quale si cucinavano un tempo i legumi (il cibo dei poveri), durante questo giorno di festa viene adoperato da tutte le donne del paese, che si sfidano nella preparazione del piatto migliore.

127 Gustare l’Italia


della Redazione

Sei un vero gourmet? Dovete rispondere a questo test senza barare, senza consultare enciclopedie, siti internet, o chiedere lumi agli amici; se rispondete esattamente ad almeno 10 domande, potrete fregiarvi del titolo “vero gourmet”; da 5 a 9 potrete sempre vantarvi di essere un “buongustaio”; da 0 a 4 sarà bene cambiare i ristoranti nei quali vi recate di solito a smettere di seguire le trasmissioni televisive che trattano di cucina.

1) Quali di questi vini non è pugliese? A) Sciacchetrà B) Nero di Troia C) Negramaro

2) Quale di questi tipi di pasta non è pugliese? A) Trofie B) Fruscilli C) Strascinati

3) Quale di queste città pugliesi è famosa per

4)

Cosa sono nella cucina pugliese gli

“Sponsali”?

A) Locorotondo

A) Frutti di mare

B) Martina Franca

B) Un tipo di cipollotti

C) Gioia del Colle

C) Un genere di pasta

Quiz

il suo Capocollo?

Gustare l’Italia 128


5) Che cosa è nel Salento “lu mieru”? A) Il miele B) Il vino C) Un liquore d’erbe

6) Le osterie a Milano vengono chiamate con il nome di una città pugliese, quale? A) Brindisi B) Trani C) Molfetta

7) Insieme al riso e alle patate quali frutti di mare sono presenti in un famoso piatto pugliese? A) Gamberi

12) Quale di questi nomi di vini è inventato?

B) Vongole

A) Cacc’emmitte

C) Cozze

B) Malicchiamapicchia

8)

C) Lu miero di la merula Che cosa sono le “cicerchie”

nella gastronomia pugliese?

13) Quale

città pugliese è nota per il pane

A) Frutti di bosco

“Eccehomo” (Crist ecc omm)?

B) Legumi

A) Andria

C) Pesci

B) Barletta

9)

C) Terlizzi Quale famoso cantante pu-

gliese è anche un produttore di vini?

14) Quale di questi funghi è pugliese DOC? A) Finferlo

A) Enzo Iannacci

B) Galletto

B) Albano

C) Cardoncello

C) Caparezza

10) Quanti

sono all’incirca

15) Qualche

città pugliese è famosa per le

sue cipolle rosse?

gli alberi di ulivo in Puglia?

A) Castellana Grotte

A) Circa 1 milione

B) Ostuni

B) Circa 15 milioni

C) Acquaviva delle Fonti

C) Circa 60 milioni L’abbinamento classico

con le orecchiette è con: A) Cime di rapa B) Ceci

1) a - 2) a - 3) b - 4) b 5) b - 6) b - 7) c - 8) b 9) b - 10) c - 11) a - 12) c 13) c - 14) c - 15) c

11)

RISULTATI:

C) Rucola

129 Gustare l’Italia


23

Cavatelli e ceci

23

Pasta al forno

23

Polpette

53

Risotto alla milanese con il bianco di Locorotondo

107 Fojade gialle con piselli e menta 107 Maltagliati con i fagioli

Indice delle ricette

108 Tagliatelle gialle

108 Tortelli di zucca

con salsiccia fresca

in crema di zucca

e aceto balsamico di Modena

e mandorle di pesca 123 Insalata mista con vinaigrette

di aceto balsamico di Modena

Gustare l’Italia 130


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