GUSTARE L'ITALIA 07 - DICEMBRE 2010

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Periodico

di

cultura

enogastronomica

e

turismo

Anno 1 - Numero 7 - Dicembre 2010

Con il patrocinio di

Tempo di Feste


La tenuta Cà da Meo di Magda Pedrini è il risultato di un profondo amore per una terra che, grazie alla sua particolare posizione, da origine a coltivazioni assolutamente straordinarie nell’ambito dei vitigni che producono eccezionali Gavi docg. Da questa storia così carica di sentimenti umani e di lavoro nascono i vini della Tenuta che arrivano ad arricchire di stile e di gusto le nostre tavole. Tel. +39 0143 667923 Fax +39 0143 667929 • www.magdapedrini.it • E-mail: nuovacadameo@virgilio.it


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Gustare l’Italia

Editoriale

“L’erbavoglio non cresce nemmeno nel giardino del re” così ci hanno insegnato fin da piccoli; ci hanno spiegato anche che i bambini nascono sotto i cavoli e le bambine tra le rose, e che la notte del 24 dicembre un grassone vestito di rosso parte da un paese della Lapponia guidando una slitta trainata da sette renne per portare doni ai bimbi di tutto il mondo. l’Italia” che con questo numero conclude il suo primo anno di vita, “Gustare l’Italia”, è in grado di fare arrivare agli amici lettori un messaggio che è anche un clamoroso scoop: mentre resta confermato tutto ciò che riguarda Babbo Natale e i luoghi dove nascono i bambini, abbiamo scoperto che è invece falso ciò che riguarda l’erbavoglio: l’erbavoglio esiste e a saperla cercare si può trovare in qualsiasi giardino, anche in quello del re. Possiamo oggi tranquillamente affermare che dire “voglio” non è peccato, non è una bestemmia o una parolaccia ma è spesso addirittura un’esigenza di sopravvivenza; quel che conta è ciò che si fa seguire alla parola voglio. Si pensi ad esempio alle frasi: “Voglio essere rispettato e difeso nei miei diritti”, “Voglio amministratori onesti e capaci”, “Non voglio essere tartassato e oppresso da ingiusti balzelli…”. Dopo questa clamorosa scoperta noi di “Gustare l’Italia”, la rivista nata con lo scopo di valorizzare e difendere la cultura del mondo enogastronomico e turistico del nostro Paese, chiediamo ai nostri lettori di cercare con noi l’erbavoglio del buon mangiare e del buon bere, l’erbavoglio che aiuta a difendere la salute minacciata dai cibi avvelenati da alchimie chimiche, di tracciare insieme il sentiero avventuroso che permetta a noi poveri consumatori di districarci tra le varie informazioni che ci frastornano soprattutto per ciò che riguarda l’alimentazione: di pretendere il meglio per soddisfare non solo la gola ma la mente e lo spirito alla ricerca della felicità cui tutti aspiriamo. L’Italia è una terra felice non seconda a nessun altro Paese per varietà e ricchezza di sapori, profumi, proposte, eppure molti italiani lo ignorano; aiutiamoli insieme a scoprire i tesori della tradizione rivisitati con intelligenza e sensibilità. Con questo invito ci rivolgiamo a tutti coloro che hanno capito l’importanza di un migliore rapporto con il cibo per migliorare la qualità della vita, a chi ha la certezza di appartenere ad un Paese che nel mondo ha espresso molto di sé anche attraverso i suoi cibi, agli amanti della tradizione ma anche a chi è sensibile alle nuove esperienze di una società sempre più testimone della presenza di altre culture. La pagine e il sito di “Gustare l’Italia” sono a disposizione di chi si riconosce in queste parole, di chiunque sia disposto a realizzare insieme a noi questo ambizioso progetto. Sappiamo che sono molti perché nei pochi mesi trascorsi dall’uscita del primo numero ci siamo accorti con piacevole sorpresa che già molti amici ci seguono anche sul nostro sito www.gustarelitalia.it Chi sa navigare nel mondo fantastico di internet può constatare che siamo passati in pochi mesi da una insignificante presenza ai primissimi posti che ci hanno permesso di superare, per visite e gradimento dei navigatosi, testate che hanno ben più lunga vita. Questo insperato successo è un incitamento a fare sempre meglio e grazie al vostro aiuto siamo certi ci riusciremo. Nel ringraziarvi per la vostra amicizia, vi auguriamo di trascorrere i giorni di festa che ci attendono nel modo più allegro e sereno insieme alle persone che vi sono care. Buon Natale e felice Anno Nuovo. La redazione


Sommario dicembre 2010

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TEMPO DI DOLCI Il profumo del Natale

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L’artigiano in tavola Ad ogni vino il suo bicchiere

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Re Panettone

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IN CANTINA

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I vini delle feste

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L’arte del panettone

72

Le bollicine in pentola

22

In giro per Natali

76

Corso di sommelier per ignari Il “gusto” del vino

29

IN CUCINA

79

E’ TEMPO DI...

30

La madeleine di... Jerry Calà

80

I menù delle feste Il pranzo di Natale

88

Il cenone di San Silvestro

92

Le “Città della Nocciola”

95

RUBRICHE

96

I Ristoranti Expo “D’O - Davide Oldani”

36

L’artigiano in cucina Don Paolino Sciacchitano

41

IN TAVOLA

42

La cena del Sagittario

50

A tavola con i santi Gustare l’Italia

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118 Italia da scoprire Sextantio, uno dei borghi più belli d’Italia

102 Tempo di guide Promossi e bocciati 104 Osteria “L’Intrepido” 106 Chi giudica i giudici Edoardo Raspelli (o dell’ipertrofia dell’Io)

124 Appuntamenti

110 Dal Sud una protesta

128 Quiz Sei un vero gourmet?

126 Libri da mangiare

112 Le Lune di Gustare l’Italia “Locanda di Alia”

130 Indice ricette

Periodico di cultura enogastronomica e turismo - Anno 1 - Numero 7 Dicembre 2010 - Reg. Tribunale di Milano n° 201 del 14/04/2010 Direttore Responsabile: Arabella Pezza - Direttore Editoriale: Cino Tortorella Caporedattore: Raffaele Montagna - Art Director: Daniele Colzani Segretaria di Redazione: Loredana Spadafora - Responsabile Diffusione: Roberto Zanutto Grafica e impaginazione: Daniele Colzani - Giovanni Di Gregorio Concessionaria pubblicità: Soltrade Communication - Via Mirabello, 10 - 00195 Roma Responsabile Trattamento Dati Personali: Paola Cattaneo L’editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti e la possibilità di richiedere gratuitamente la rettifica o cancellazione ai sensi dell’art. 7 del D. Lgs 196/2003 scrivendo al Responsabile del Trattamento Dati Personali: Soltrade Communication - Via Abbadesse, 20 - 20124 Milano

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Fotografi e Uffici Stampa: Fabrizio Cimino - Goldlocki - Remulazz - Gianni Renna - Giangiacomo Rocco di Torrepadula - Associazione Nazionale Città della Nocciola - Consorzio Tutela del Franciacorta - Cinquesensi - ColleVilca cristalleria srl - MCS - Morguefile - Studio Intercontatto - Bibliotheca Culinaria - Garzanti Editore - Sperling & Kupfer Fotolito e Stampa: RDS Webprinting Arcore (MB) © Riproduzione (anche parziale) vietata

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www.gustarelitalia.it Gustare l’Italia




di Raffaele Montagna

Tempo di dolci

Il profumo del Natale Qualcuno ritiene che da circa mezzo secolo ci sia stata la “rivoluzione del tempo”, nel senso che l’uomo è diventato “padrone” del tempo, mentre prima erano le stagioni e l’armonia della natura a dettare i ritmi ai quali l’uomo stesso, con modestia, si uniformava. Oggi, il tempo viene considerato come un oggetto di consumo e viene vissuto con una fretta tale che ci mette affanno. Basta pensare alle festività importanti e soprattutto al “Natale”; non è ancora terminata

la festa di Halloween (la quale, pensiamo, non ha nulla da spartire con la nostra cultura, ma questo è un altro discorso) ed è subito Natale. I media ci bombardano invitandoci ad acquistare regali, e le vetrine sono già agghindate per sedurci, le luminarie sono state allestite dalle Associazioni dei commercianti e tutto è insomma pronto, lo starter sta per dare il via. Eppure siamo appena all’inizio di novembre ed a Natale mancano più di cinquanta giorni;

in questa logica, si riesce ancora a “sentire il profumo” del Natale? Invece, prima della “rivoluzione del tempo”, il Natale cominciava pochi giorni prima del 25 dicembre, scandito dalla preparazione del

presepio (o dell’albero), e aveva l’odore dei dolci che si preparavano in casa, secondo tradizione, e il loro profumo riempiva di sé tutte le stanze, le abitazioni vicine, scendeva nei vicoli e per le strade, inondava le piazze,

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annunciando la festa più bella e più buona dell’anno. Dov’è quel profumo, ora che i dolci si comprano bell’e fatti e racchiusi in mille imballaggi a tenuta stagna? Noi di “Gustare l’Italia” vogliamo ancora farvelo riassaporare suggerendovi alcune ricette della tradizione italiana, da realizzare in casa; non importa se non vengono perfette alla prima prova, ma misurando, saggiando, provando e riprovando... tutta la casa e il vicinato e la piazza sottostante torneranno a sentire, con un po’ di nostalgia, il “profumo del Natale”.

Il torrone Ogni regione d’Italia, ogni città, addirittura ogni paese ha il suo dolce tradizionale per il Natale; vi ricordiamo le più importanti con un veloce giro d’Italia.

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Partiamo dalla Sardegna, dal delizioso paese di Tonara, nel cuore della Barbagia; è famoso per il torrone, il principe dei dolci natalizi che, seppure con diverse varianti, si produce anche in molte altre regioni. Anche se i francesi ne rivendicano l’origine (il nougat), la sua ricetta è antica e risale all’epoca pre-romana; Tito Livio e Marziale ne parlano diffusamente con il termine “cupedia” (la parola torrone deriverebbe da “torreo”, nel significato di abbrustolire). Anche gli Arabi sembra che entrino nella disputa di attribuzione della paternità del torrone; il “turun”, infatti, è citato da un medico arabo dell’XI secolo nel “De medicinis et cibis semplicibus”. Attualmente si contano diverse varietà di torrone: duro o morbido, mandorlato o nocciolato, ricoperto di cioccolata o di zucchero fondente; quello sardo è fatto esclusivamente con miele della macchia mediterranea.

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Dalla Sardegna salpiamo per la Sicilia dove troviamo un altro dolce tipico del Natale, il

Il buccellato Il nome proviene dal latino tardo “buccellàtum” (da bùccea, boccone, o bùcca, bocca). Si tratta di un dolce natalizio realizzato a forma di grossa ciambella riempita con frutta secca e aromi. Forme e misure cambiano da zona a zona, come pure alcune varianti, che gelosamente vengono custodite in famiglia. Una buona quantità dei fichi che vengono fatti seccare in Sicilia - o conficcati in sottili asticelle di legno, o stesi, appesi ad un filo o, infine, tagliati e disposti su una teglia, sempre al sole ad asciugare (occorrono da un minimo di tre giorni ad una settimana, dipende dalla quantità di sole e dall’intensità del vento) - costituiscono la base del buccellato. Risaliamo la penisola e sostiamo in Puglia per gustare

Le cartellate o ‘carteddate Sono i più tipici dolci pugliesi del Natale. La loro origine è antica (XVI secolo) e il nome deriverebbe da “carta” o “cartoccio”, per via della loro consistenza croccante; o dal tardo latino “cartallus” - canestrello, cesto, per la forma che le fa assomigliare, appunto a dei piccoli canestri intrecciati o a delle roselline. Sono delle crespelle di pasta, fritte nell’olio bollente e ricoperte di miele o di vino cotto.

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Ed eccoci a Napoli dove assaggeremo

Gli struffoli Un dolce natalizio tipico non solo della Campania ma di gran parte delle regioni del Sud e del Centro, compreso il Lazio. L’origine degli struffoli sembra essere greca; il nome, infatti, deriva dal greco ”stróngylos”, cioè forma sferica. La ricetta fu importata da noi ai tempi della Magna Grecia. Per questo motivo il dolce assume nomi diversi secondo le regioni in cui è preparato. Per esempio, in Lazio, Abruzzo e Molise si chiama “cicerchiata”; in Basilicata e Calabria, invece, è detto “cicerata”; in Puglia gli struffoli sono “sannacchiudere”, nel tarantino e “purcedduzzi”, nel leccese. Anche se è cucinato in quasi tutta l’Italia centro meridionale, questo dolce è tipico del Natale napoletano, sin dal XVII secolo.

Si tratta di piccole frittelle di forma sferica unite tra di loro, da tanto miele, e arricchite di canditi e diavulilli o minulicchi, cioè piccolissimi confetti colorati. Un tempo, gli struffoli erano cucinati dalle monache napoletane del convento della Croce di Lucca e da quelle di S. Maria dello Splendore e portati in dono alle famiglie nobili che, durante l’anno, si erano distinte per le opere di beneficenza. La preparazione degli struffoli, perciò, è tradizione consolidata nella pasticciera napoletana; ogni famiglia, tuttavia, ha la sua ricetta definita “autentica” e i suoi segreti per prepararla, aggiungendo altri ingredienti, o variandone la composizione e le dosi. Risaliamo velocemente la penisola ed eccoci a Verona, dove troviamo il dolce natalizio più diffuso in Italia dopo il panettone:

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Il pandoro Il nome, probabilmente, gli deriva dal colore dorato e le origini, per quanto si sia indagato, risultano incerte. Alcuni lo fanno risalire al Cinquecento, nel periodo in cui presso i nobili della Repubblica Veneta si serviva un dolce di forma tronco/conica ricoperto di foglia d’oro; altri dicono che i veronesi gustavano a Natale un dolce a forma di stella detto “nadalin”. Sembra, tuttavia, più probabile che la sua nascita sia legata agli Asburgo, tra la fine del ‘700 e gli inizi dell’800, alla cui corte si serviva un “Pane di Vienna” che nell’impasto conteneva una forte dose di burro. Il pandoro, dell’antico “nadalin” conserva la forma tronco/conica a stella ad otto punte. Arriviamo adesso a Milano, la capitale del panettone, il dolce natalizio per eccellenza, il re delle mense natalizie, ma ve ne parlerà più

diffusamente Arabella Pezza nelle prossime pagine. A me non resta che augurarvi di trascorrere insieme a chi vi vuol bene un Natale dolce come i cibi che vi ho descritti. Tutte le ricette dei dolci elencati in questo articolo sono a cura di Regina Zather e le potrete trovare nella sezione “Ricette” presente sul nostro sito www.gustarelitalia.it

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di Arabella Pezza

Re Panettone Quest’anno Re Panettone, il dolce simbolo più dolce di Milano, compie 500 anni; nonostante la crisi che ha colpito le famiglie italiane, nel 2009 il mercato dei prodotti natalizi (panettoni, pandori e altre specialità da forno) ha raggiunto i 200 milioni di euro - con una crescita di oltre l’8% rispetto all’anno precedente - e i panettoni rappresentavano la quota più consistente. Una volta esisteva il pan grande, un dolce meno elaborato che si degustava solo a Natale: si narra che il capofamiglia lo affettasse personalmente, prima di distribuirlo ai fami-

gliari in segno augurale di ottima salute e fortuna. Questo dolce aveva la forma di una grossa pagnotta ed era meno lievitato dell’attuale panettone, che pare sia nato grazie a Toni, il fornaio che, in Borgo delle Grazie, l’avrebbe inventato mescolando per errore l’impasto del pane con quello destinato a un dolce. La leggenda narra inoltre che l’uvetta che lo guarnisce deriverebbe dal nobile Ughetto della Tela che, innamorato di Adalgisa - la figlia di Toni - si fece assumere come garzone dal padre; le preparazioni gastronomiche tipi-

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camente milanesi hanno spesso origini più o meno leggendarie, c’è chi scomoda addirittura gli ambienti monastici: suor Ughetta, per festeggiare la natività con le sorelle, farcì il pane di tutti i giorni con quanto trovato in dispensa, segnando una croce sulla sommità del panetùn - che tanto richiama il Duomo di Milano - per ringraziare in Signore. Un tempo il panettone veniva prodotto tutto l’anno, in un formato “pagnotta”; durante le feste natalizie poteva però anche raggiungere un peso superiore ai 500 grammi. “Grande di una o più libbre sogliamo farlo solo per Natale, di pari o simil pasta, ma in pannellini si fa tutto l’anno dagli offellai e lo chiamiamo panattonin”, scriveva Francesco Cherubini, letterato milanese dell’Ottocento. Fu a lungo tradizione che tutti i panettieri, durante le festività, ne regalassero uno ai clienti, così come il salumiere omaggiasse le “sciure” della città con uno zampone e il droghiere con un torrone. Era inoltre usanza mangiare una fetta di quello avanzato a Natale, a digiuno, la mattina del 3 febbraio, giorno di S. Biagio protettore della gola: “El dì de san Bias se benediss la gula e el nas”. Insomma, almeno per la tavola, non si risparmia; piuttosto si acquistano un brillante o un bene di lusso in meno, ma la qualità della tavola, durante le festività natalizie, è fondamentale. Perché ritrovarsi con i propri cari intorno a un desco imbandito, a festeggiare il Santo Natale, è un’occasione semplice ma unica, che non ha prezzo. E al momento del dolce, affondare il coltello all’interno di un prodotto da forno sof-

fice e profumato, da degustare così o arricchito con salse o cioccolato, è un momento straordinario, sia per i grandi, che si concedono ben volentieri questo piccolo peccato di gola, sia per i più piccini, che da sempre abbinano il panettone ai giorni più magici dell’anno.

La leggenda di San Biagio La leggenda dice che una massaia, avendo ricevuto per le feste natalizie due pan grandi, come venivano chiamati allora, pensò di serbarne uno per la festa di san Biagio e intanto lo portò a frate Desiderio, suo confessore, perché lo benedicesse. «Oggi non mi sento in stato di grazia - le rispose il giovane frate - lasciatelo qui e tornate nel giorno del Santo!» E diceva la verità, perché vedere quel magnifico panettone e sentirsi invaso dal demone della gola, era stato un punto solo.

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Non per nulla si chiamava Desiderio; ma, convenite, sarebbe stato assai peggio se invece del panettone gli avesse fatto gola la penitente che l’aveva portato e che non era meno fresca e appetitosa! Accadde così quel che doveva accadere; ma quando il panettone o il peccato, fate voi, fu consumato, il povero fraticello ne ebbe tanto rimorso, che San Biagio ritenendolo affare di sua competenza gli fece trovare sull’inginocchiatoio, accanto al teschio del “memento quia pulvis es”, un panettoncino, un minuscolo panettone di una parpoeula, quanto dire dieci centesimi del primo Novecento. Stupì frate Desiderio per quella comparsa ma stupì doppiamente quando il giorno appresso s’accorse che il panettoncino, senza rompere la carta azzurra dell’involucro, era raddoppiato di volume. E così il giorno appresso ed i seguenti, fin che al 3 di febbraio, festa di san Biagio, stentava a sollevarlo con due braccia. Comprese allora, il povero fraticello tutto il significato del prodigio e prostrato sul nudo terreno, fatte sette croci in terra con la lingua:

«O glorioso san Biagio - proruppe - che mi offrite il mezzo di riparare il mio fallo, siate benedetto per saecula saeculorum, amen!» detto questo, ecco presentarsi la massaia del panettone, che non voleva credere ai propri occhi. «Miracolo, miracolo!» si mise a gridare, e la voce del miracolo ebbe così vasta eco in tutta Milano, che la mattina di Natale di quello stesso anno furono più di mille le massaie ed i ragazzi carichi di panettoni che chiesero a frate Desiderio di benedirli. Ma il dabben fraticello, vade retro Satana, non volle toccarne nemmeno uno e li benedisse tutti in massa, consigliando portatori e portatrici di mangiarli in quel giorno stesso mettendone in serbo una fetta per San Biagio: cosa che, sebbene a malincuore, si proposero tutti di fare. Anzi, nella ressa, avendo un tale tentato di rubare un panettone ad un ragazzo, questi che non aveva lische di pesce in gola, si mise a urlare, così che il ladro venne preso da alcuni bargelli ed appiccato all’istante: appiccato, s’intende, per la gola.

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La ricetta del panettone “milanese”

Infarinare leggermente il lievito di pane, coprirlo con un canovaccio e lasciarlo lievitare per 2 ore all’interno del forno caldo, spento. Disporre a fontana 25 g di farina, mettervi al centro il panetto di lievito, 2 o 3 cucchiai di acqua tiepida e impastare fino a ottenere un composto morbido. Infarinare il panetto di pasta ottenuto, coprirlo con un canovaccio e metterlo nel forno caldo, spento e chiuso, per 3 ore. Distribuire a fontana altri 25 g di farina, mettervi al centro il composto lievitato e poca acqua tiepida e impastare fino a ottenere un panetto morbido. Metterlo coperto con un canovaccio per 2 ore nel forno caldo, spento e chiuso. Mettere a bagno l’uvetta in acqua tiepida per 15 minuti; tagliare le scorze degli agrumi a dadini. Disporre a fontana sulla spianatoia 40 g di farina, unire mezzo cucchiaino di sale e adagiarvi al centro il panetto lievitato. Lasciare fondere a bagnomaria 80 g di burro e farlo intiepidire; versare in una piccola casseruola lo zucchero con poca acqua calda, far sciogliere a calore moderato, poi lasciar intiepidire. Unire le uova e il tuorlo e montarli con la frusta. Disporre la restante farina a fontana, adagiarvi nel centro il panetto e versarvi il burro fuso. Aggiungere lo sciroppo ancora tiepido con le uova e, poco alla volta, impastare gli ingredienti fino a ottenere un composto sodo e omogeneo. Strizzare l’uvetta e unirla, insieme ai canditi, alla pasta e farla rotolare sotto al palmo della mano e nello stesso verso, per 5 minuti. Disporre la pasta arrotolata su un foglio da carta da forno leggermente imburrato e avvolgerla lungo la circonferenza con una striscia di cartone da forno. Mettere la pasta nel forno caldo e spento e lasciarla lievitare per circa 6 ore o fino a quando non avrà raddoppiato il suo volume. Fare una croce col coltellino sopra al panettone e far cuocere nel forno caldo a 220° C, lasciandolo avvolto nella striscia di carta. Dopo 5 minuti, senza estrarre il panettone totalmente dal forno, allargare leggermente la croce sulla sommità e adagiarvi sopra il rimanente burro tagliato a pezzetti. Far cuocere per circa un’ora, diminuendo la temperatura man mano che s’indora.

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Ricetta

Ingredienti per 6-8 persone: 300 g di farina - 60 g di lievito di pane - 90 g di burro - 60 g di zucchero - 2 uova - 1 tuorlo - 500 g di uva passa - 25 g di scorza di cedro e d’arancia candita - sale q.b


Birra & panettone? Perché no? Le birre di Natale sono una tradizione del nord Europa: ambrate, corpose, profumate e ad alto tenore alcolico, dagli 8 ai 13 gradi, sono l’ideale se consumate proprio durante il periodo natalizio, per “riscaldarsi” nelle serate più fredde e lunghe del’anno. Il Belgio è il primo paese europeo per qualità e quantità. La tradizione narra che a dicembre, in ogni birreria belga, si stappasse una Bière de Noel, da bere con amici e famigliari per festeggiare il Natale. Anche le etichette ricordavano Santa Claus: fiocchi di neve, papà Natale, fate, gnomi e folletti tipici delle regioni del Nord Europa. Si trattava di birre prodotte ad alta fermentazione, con una tiratura limitata, che era possibile degustare in una delle oltre 3.000 birrerie presenti nei villaggi. Possiamo apprezzarle ancora oggi per brindare a un Natale diverso e, pourquoi pas?, magari scegliere anche quelle italiane, da abbinare a una fetta di panettone artigianale, per stupire anche gli ospiti più esigenti. Scopriamo insieme qualche etichetta: • 25 Dodici - Del borgo: elegante birra di Natale prodotta da Leonardo di Vincenzo, in provincia di Rieti. A naso profuma di torrone, scorza d’agrumi e spezie. In bocca è ricca e avvolgente, sa di nocciola, frutta candita e arance amare. E’ eccellente sia col panettone, che anche col pandoro, il pane di spezie e i torroni. •

Grand Cru di Natale - Almond ’22: viene prodotta all’interno

di un microbirrificio sulle colline di Pescara, anche se ricorda molto le birre nordiche. Ambrata, di schiuma compatta e cremosa, a naso è dolce e speziata, ricorda la vaniglia e la cannella. In bocca è morbida e corposa, caratterizzata da note di cacao, pepe, cannella, noce moscata e zenzero. Da meditazione, ma anche per accompagnare i dolci della tradizione. • Brighella – Lambrate: prende il nome dal popolare Brighella, “furbo” per eccellenza. Questo celebre birrificio di Milano gliela dedica perché proprio questa birra inganna a causa dell’alta gradazione alcolica (8,2% vol), nonostante sembri molto più delicata di quello che è. Di colore arancio con riflessi ambrati, dalla spuma morbida e pannosa, sa prima di miele, pesche sciroppate e agrumi, poi vira verso le scorze di agrumi candite, il caramello e le foglie di tabacco biondo. In bocca è calda e avvolgente, con un retrogusto leggermente amaro. E’ compagna ideale di panettoni e crostate di frutta. •

Stella di Natale - Troll: birra prodotta in provincia di Cuneo, nel birrificio di Vernante, si

presenta scura, forte e soave al tempo stesso. Profuma di cacao, spezie e liquirizia, mentre in bocca è ricca, calda e corposa. Bene con i dolci di Natale, ma anche da sola o con del cioccolato.

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L’amore per la qualità Il rispetto per la tradizione Benagiano Pastificio srl Corso Italia 138-140/b - 70029 Santeramo in Colle (Ba) Tel. 080-3036036 - E-mail: benagiano@benagiano.it - Website: www.benagiano.it


di Arabella Pezza

L’arte del panettone La pasticceria Cucchi, nata a Milano in Corso Genova nel 1936, è una delle più rinomate e conosciute della città. Inaugurata come caffè concerto, è stata distrutta durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale; completamente ricostruita e restaurata poi nel 1944 dalla famiglia Cucchi, che ha voluto anche creare un ampio laboratorio di pasticceria. Da allora, da quasi settant’anni, la pasticceria Cucchi è un punto di riferimento per tutti i milanesi che cercano prodotti di qualità, confezionati con amore e nel rispetto della tradizione. Cosa c’è di più buono, per iniziare al meglio la giornata, se non un croissant fragrante e profumato da intingere in un cappuccino pre-

parato a regola d’arte, caldo e schiumoso? O dell’aperitivo prima di cena, a conclusione di una lunga giornata di lavoro, servito da camerieri impeccabili in giacca bianca e papillon e accompagnato da salatini burrosi e mandorle salate e tostate? Il periodo del vero tripudio di dolci d’ogni tipo è però quello che inizia il 7 dicembre -giorno di Sant’Ambrogio patrono di Milano - e si conclude con le festività di Natale e Capodanno (compreso il giorno dell’Epifania che tutte le feste si porta via!). Il signor Cucchi, che è sorridente dietro alla cassa del suo locale a controllare che il servizio sia sempre perfetto, mi racconta che il loro panettone artigianale viene prodotto ancora secondo la ricetta originale, senza

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conservanti né prodotti chimici, e che prevede un procedimento di lavorazione particolarmente lungo e laborioso. Il primo impasto viene preparato alle 7 del mattino; dopo 24 ore vengono aggiunti gli altri ingredienti e si prosegue poi con altre 12 ore di lievitazione. Questa delizia viene prodotta solo a Natale?

“Assolutamente no - assicura il signor Cucchi - noi sforniamo il nostro panettone tutto l’anno perché ce lo chiedono sempre. Naturalmente durante le Feste la produzione aumenta, anche se non riusciamo mai a soddisfare tutti i nostri clienti. Il nostro è un prodotto fresco, che non dura, e il procedimento di lavorazione è decisamente lungo e impegnativo; quindi la produzione è limitata, nonostante il sempre più alto numero di richieste”. Perciò, nonostante la crisi, il panettone milanese resta ancora il re dei dolci natalizi?

“Senz’altro - mi spiega - Noi confezioniamo anche torte, dolci babbi natale o panettoni ricoperti, ma il dolce più richiesto è sempre il tradizionale, classico panetùn meneghino”.

Insomma è proprio vero: almeno a Natale, non si bada a spese per imbandire i classici pranzi e le ricche cene; anche perché i prezzi di questa straordinaria specialità gastronomica non sono proprio così “dolci”: 1 kg di panettone costa 28 euro; ma posso assicurare che sono giustificati. E ben spesi.

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di Raffaele Montagna

In giro per Natali

Pur se per la liturgia è una solennità d’importanza minore rispetto alla Pasqua, quella del Natale risulta la festività più sentita dalla gente, anche per il significato laico che ha assunto negli ultimi cinquant’anni. Si può dire che in Italia ci sono tanti modi per festeggiare il Natale quanti sono i paesi spar-

si nella Penisola e questi occupano senza dubbio un ruolo importante tra i caratteri che segnano la nostra identità culturale. Proponiamo ai nostri lettori una veloce carrellata di manifestazioni natalizie, sia come invito ad una gita fuori porta, sia come viaggio alla scoperta delle tradizioni.

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Secondo gli storici la festa del Natale si è sovrapposta alla festa pagana dedicata al “sole invitto” proclamata dall’imperatore Aureliano nel 275, quattro giorni dopo il solstizio d’inverno, quando la luce riprende il sopravvento sul buio e le ore del giorno tornano a crescere rispetto a quelle della notte. Fin dal 336 - come testimonia il calendario filocaliano redatto nel 354 - la Chiesa romana aveva istituito una festa commemorativa della nascita di Gesù: “Cristo è il nostro nuovo sole”, diceva Sant’Ambrogio. Papa Liberio nel 354 impose il Natale come ricorrenza solenne della cristianità, ciononostante moltissime tradizioni legate alla festa pagana del “sole invitto” sono giunte fino ai nostri giorni: in tanti paesi si “allontana” il buio per tornare a vita nuova; questo è il motivo dei “falò” che bruciano in tanti paesi italiani in prossimità delle feste natalizie.

Castelsilano (Kr - Calabria) Nella notte della vigilia di Natale in tutti i rioni del paese si sente lo scoppiettio delle focare (falò), accesi per scaldare Gesù Bambino. Da vedere: le mura esterne delle abitazioni affrescate con murali di grandi dimensioni aventi a soggetto le attività umane e i lavori oggi scomparsi; il ceppo dei Fratelli Bandiera, monumento che ricorda il luogo in cui furono catturati gli eroi del Risorgimento nazionale; nelle vicinanze: l’Abbazia di San Giovanni in Fiore e i ruderi di Acerentia. Da acquistare: coperte intessute nel telaio a mano, con fibre derivanti dalle piante di ginestra macerate ed unite ai migliori fili, con disegni originali; oggetti di oreficeria tradiziona-

le artigianale (la jennacca collana tipica composta di tanti piccoli grani d’oro).

Nemoli (Pz - Basilicata) Tronchi enormi calati giù dai monti bruciano ininterrottamente dalla vigilia di Natale all’Epifania, al suono di zampogne e ciaramelle, per portare la lieta novella della santa Nascita. Attorno al fuoco si gustano le tipiche zeppole e si beve il vin brulé.

Da vedere: il paese conserva aspetti di architettura povera, con alcuni portali in pietra sparsi per i vicoli del centro storico; notevole risulta il loggiato di palazzo Filizzola; la chiesa parrocchiale, custodisce una Madonna policroma del Trecento. Da acquistare: i tipici ghiummarieddi (involtini di interiora), gli insaccati fatti in casa, i formaggi ovo/caprini.

Tarcento (Ud - Friuli Venezia Giulia) Il “Palio dai Pignarulars” è una festa di tono pagano che prevede sfide incrociate da parte delle diverse frazioni del paese che iniziano con una spettacolare corsa di carri infuocati e con la rievocazione storica (tutti in

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costume trecentesco) dell’investitura del castello di Coja. L’evento termina con l’accensione del falò epifanico (pignarul) nel castello di Coja, mentre altri gli fanno concorrenza sulle alture vicine. Da vedere: chiesa parrocchiale con il bellissimo portale archiacuto della metà del Quattrocento; Palazzo Frangipane della Rotonda (sec. XVII) con la sua bella “fontana dell’amo-

re”; la cinquecentesca Villa Pontoni, il “Palazàt”, le cui pregevoli decorazioni interne andarono perse con il terremoto del 1976; Villa De Rubeis Florit (sec: XIV), con stucchi e decorazioni; da fine novembre a metà dicembre, il mercatino di Natale; Da acquistare: il prosciutto di San Daniele, uno dei più famosi e buoni prodotti gastronomici del Friuli, stagionato un anno nel microclima particolare che unisce la brezza marina a quella che scende dalle Prealpi carniche.

Agnone (Is - Molise) La ‘ndocciata è una manifestazione contadina di spiritualità popolare; il giorno della vigi-

lia di Natale vari gruppi di centinaia d’uomini paludati di un mantello a ruota, portano sulle spalle pesantissimi ventagli di ‘ndoccie (fiaccole) fatte con listelli d’abete, scortati da carri che celebrano il mondo contadino. L’evento si conclude nella piazza del paese con un grande falò purificatorio, diretto ad esorcizzare ogni avversità. Dal 2000 la manifestazione si svolge anche il giorno dell’Immacolata Concezione (8 dicembre). Da vedere: non bisogna mancare una visita all’antichissima fonderia pontificia Marinelli la più antica azienda familiare d’Europa (fondata nell’anno mille); la trecentesca chiesa di San Francesco; il chiostro del Convento dei Padri Conventuali, affrescato con immagini della vita del Santo d’Assisi, la chiesa di Sant’Emidio (sec. XIV) ricca di capolavori artistici tra cui le statue a grandezza naturale dei 12 Apostoli, di scuola napoletana. Da acquistare: da lavorazioni artigianali, oggetti d’arte in bronzo, rame e ferro battuto, ricami, carni ovine, mozzarelle, fior di latte, caciocavalli speciali confetti, detti “ricci”, le ostie ripiene e tanti altri dolci della tradizione

Nereto (Te - Abruzzo) Per tutta la settimana di Natale viene tenuto acceso un grande falò, legato all’antica tradizione dei fuochi del solstizio d’inverno, accesi per esorcizzare il buio e propiziare la luce del nuovo ciclo naturale che ricomincia.

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L’usanza dei fuochi natalizi è comune un po’ a tutto l’Abruzzo. Da vedere: la Chiesa di Santa Maria della Consolazione con il ciclo pittorico sul miracolo della Madonna nel salvare il paese dalla distruzione che stava per essere perpetrata

dall’esercito francese nel 1799. Da acquistare: cereali cosiddetti minori, farro e saragolla del mugnaio, un tipo di grano antichissimo risalente all’antico Egitto, insaccati e prosciutti, vino Montepulciano d’Abruzzo Riserva D.O.C.G.

Il presepio La tradizione vuole che sia stato San Francesco, nel convento di Greccio, in Umbria, ad allestire il primo presepio (dal latino praesepium, cinto chiuso, stalla, mangiatoia), dopo l’emozione provata assistendo alle funzioni liturgiche tenute nel Natale 1222 a Gerusalemme, dove si era recato pellegrino. Papa Onorio III, essendo vietati dalla Chiesa i drammi sacri, gli permise solo di celebrare la messa in una grotta anziché in chiesa. A tale funzione parteciparono molti contadini con fiaccole e all’interno della grotta fu messa una mangiatoia riempita di paglia con accanto un bue ed un asinello. Il primo presepio, con personaggi scolpiti in legno, si deve ad Arnolfo di Cambio, sommo artista toscano, che tuttora si trova nella Basilica di Santa Maria Maggiore di Roma (foto a lato). In Italia, la tradizione del presepio si è mantenuta viva; vi suggeriamo alcune mete tra le più suggestive.

Comacchio (Fe -Emilia Romagna) Fontane e giochi d’acqua misti ad eliografie danno vita a personaggi del presepio attraverso la composizione di sagome “create” con l’acqua, sullo sfondo dei canali del centro cittadino. Da vedere: il sistema di ponti (Trepponti o Ponte Pallotta; Ponte degli Sbirri; Ponte Sisti;

Ponte del Carmine; Ponte del Teatro, tutti costruiti nel XVI e XVII secolo) insieme a quello dei canali, fanno considerare Comacchio la “piccola Venezia”; il Monastero di Sant’Agostino (storica costruzione del VI/VII sec., in attesa di restauro); le Chiese di San Cassiano, si Santa Maria in Aula Regia, del Carmine, tutte ricostruite su precedenti templi di antica origine, che conservano capolavori d’arte veramente notevoli; la Loggia dei Mercanti del Grano e la Torre dell’Orologio; gli interessanti Palazzi Patrignani e Tura.

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Da acquistare: anguille marinate e affumicate in scatola; salumi tipici (filzetta all’aglio, zia ferrarese, salama da sugo); dolci (pampepato; pùnghen cmàciàis, ciambella tradizionale, torta delle sabbie, delizia del monastero) vino Fortana D.O.C.

re e pittore futurista Luigi Russolo; i vicini luoghi (Luino, Valcuvia) in cui lo scrittore Piero Chiara ambientò la quasi totalità dei suoi romanzi. Da acquistare: panettone artigianale; “dolce Varese”; “brutti e buoni” di Gavirate.

Laveno Mombello (Va - Lombardia)

Crema (Cr – Lombardia)

Il presepio è adagiato sul fondo del Lago Maggiore, prospiciente la piazza centrale del paese ed è artisticamente illuminato. Le statue dei personaggi, tutte in marmo di Verona, pesanti diverse tonnellate vengono posate il giorno dell’Immacolata e alla mezzanotte della vigilia, con una commovente cerimonia, la ragazza che si è sposata più recentemente, ha il privilegio di portare il Bambino in processione che, a cura del locale club di subacquei, viene posto nel presepio suscitando un grande effetto scenografico. Da vedere: il museo della terraglia allestito nel palazzo in cui soggiornò e morì il composito-

È un presepio colossale quello dei Sabbioni, si estende infatti su un’area di 2500 mq e vanta più di trecento statue, fra personaggi e animali, costruiti a grandezza naturale, in legno e gesso e collocati in un ambiente rurale tipico della pianura padana della metà del secolo scorso. Oltre alle immagini tradizionali della natività, sono stati fedelmente ricostruiti ambienti, quali case contadine con stalle e accessori, l’osteria, le botteghe artigiane dell’arrotino, del mugnaio, dello spazzacamino, del fabbro. È di grande fascino, non solo per i bambini, ma anche per gli adulti.

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Da vedere: non c’è che l’imbarazzo della scelta e la visita richiederebbe diversi giorni; vi suggeriamo il Duomo, in stile goticolombardo, in rappresentanza delle oltre trenta chiese della città; alcuni sontuoso palazzi come il “torrazzo”, il palazzo pretorio, il palazzo vescovile; le mura venete, Da acquistare: i famosi “tortelli” con ripieno dolce a base di amaretti (si giovano di un’Accademia di tutela); il salame d’oca; il formaggio Salva D.O.P.; la torta Bertolina a base di uva fragola o americana. L’evento più pittoresco ci sembra senza dubbio quello che si svolge a Via San Giorgio Armeno, a Napoli. È difficile descrivere l’atmosfera che si respira in questa via, nei giorni che precedono il Natale. Tante sono le bancarelle, le piccole botteghe che mettono in

vendita ogni oggetto per il presepio: capanne, casette, laghetti, cascate, alberelli… ma una delle curiosità di maggiore interesse di queste bancarelle sono i pastori in terracotta da mettere nel presepio, molti dei quali rappresentano personaggi della cronaca, della politica, dello spettacolo. Gli ultimi personaggi messi in vendita sono la Mara Carfagna, Roberto Saviano, Renato Brunetta.

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© Archivio Gualtiero Marchesi

In cucina

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© Studio Intercontatto

di Cino Tortorella

La madeleine di...

La “madeleine” di Jerry Calà

Un amico mi aveva detto: “Vieni a vederli, sono bravi, originali, divertentissimi; vengono da Verona e si sono dati il nome di una via della loro città: I Gatti di Vicolo Miracoli.” Fu così che feci la conoscenza di Nini Salerno, Franco Oppini, Umberto Smaila e Jerry Calà. Era il 1971. Ne rimasi conquistato; quei 4 ragazzi - poco più che ventenni - sapevano cantare, recitare, divertire e commuovere un pubblico non facile; avevano costruito uno spettacolo piacevole e intelligente, lontano dalla banalità e dalla volgarità, fresco e giovane come la loro età. Divenni loro amico; in pochi giorni riuscii ad ottenere un contratto con la Ri-fi Record, la casa discografica di Iva Zanicchi e di Mina, una partecipazione alla trasmissione “Il Si-

gnore di mezza età” del grande Marcello Marchesi, li feci debuttare al mitico Derby di Milano con grande successo; poco dopo divennero i conduttori di “Giococittà”, una trasmissione per ragazzi della quale ero autore e regista. A differenza di altri che ho aiutato a esordire nel magico mondo dello spettacolo mi hanno sempre testimoniato la loro riconoscenza in più occasioni. L’ultima volta il mese scorso, quando in un’intervista di Jerry pubblicata su “Vanity Fair” ho letto frasi di riconoscenza per quanto io avevo fatto per il loro successo iniziale. Telefono a Jerry per ringraziarlo del ricordo e mi risponde con l’allegria e l’entusiasmo di sempre; mi racconta della sua vita artistica

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che continua con grandi risultati: ha da poco terminato di girare “Pipì room”, un film drammatico girato per la prima volta solo come regista e non anche come protagonista; mi racconta che da qualche anno ha aperto un ristorante a pochi km da Verona dove si rifugia ogni volta che la sua vita di artista glielo permette. So che il mondo della gastronomia è sempre stato il suo hobby e come direttore di “Gustare l’Italia” ne sono incuriosito; decidiamo così di incontrarci nel suo ristorante, lo rivedrò con piacere dopo molti anni conoscerò il suo locale. Eccomi dunque a Costermano, nel delizioso ristorante “Ai tre camini”, in un antico casale del ‘500 immerso nel verde; Jerry mi viene incontro festoso e ci abbracciamo. Non lo vedo da molto tempo ma gli anni sono passati quasi inavvertiti sul suo viso di eterno ragazzo. Mi svela il segreto della sua giovinezza che continua anche mentre si avvicina alla sessantina: si chiama Bettina, la compagna che gli ha ridato allegria e voglia di vivere dopo la terribile avventura vissuta quando un dram-

matico incidente automobilistico lo aveva fatto precipitare nell’Adige dove era rimasto per 5 interminabili ore con la aorta femorale recisa prima che arrivasse qualcuno a soccorrerlo. Da allora il suo mondo era cambiato, aveva smesso di bere, di farsi condizionare la vita da sciocchezze, vivendo ogni giorno come un meraviglioso regalo. L’incontro con Bettina, che otto anni fa gli ha regalato il suo primo figlio, aveva poi completato la magia. Lo ringrazio per il ricordo che mi ha fatto su Vanity e gli spiego che sono qui anche per intervistarlo per la mia rubrica sulle madeleine dei Vip.

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© Studio Intercontatto

“Vuoi sapere qual è il cibo che mi riporta alla mia infanzia? Quello che amo più di ogni altro?”. Chiude gli occhi e sorride come per inseguire un piacevole ricordo; certo sta rivedendo quel cibo e forse lo sta riassaporando col pensiero. “Le mulinciane”, esclama finalmente, con una risata. “Le che?” “Le mulinciane, quelle che voi del Nord chiamate melanzane, quelle che cucinava nonna Santa per il suo Calogero”. “E chi è Calogero?”

“Io, io sono Calogero, io sono un terrone nato a Catania e mi hanno chiamato Calogero come mio nonno… se nascevo femmina mi sarei chiamato Santa come mia nonna. Questa era la tradizione sicula e per molti lo è ancora adesso…”. “Tuo figlio come si chiama?” “Johnny”. “Come tuo padre?”

Ride… “Mio padre si chiama Salvatore, chiamerò come lui il mio prossimo figlio”. “Ma tu perché da Calogero sei diventato Jerry?” “La mia famiglia si è trasferita nel 1957 a Milano per ragioni di lavoro. Chiamarsi Calogero nella Milano di quegli anni non era molto facile; è stato mio padre a convincermi. Ma a scuola hanno continuato a prendermi in giro per anni quando gli insegnanti facevano l’appello.” “Ritorniamo alle melanzane… come le cucinava la nonna?” Mi racconta con la voce che di quando in quando si vela di nostalgia che la sua famiglia si era trasferita al Nord quando lui era ancora un bambino, ma ogni anno tornavano in Sicilia per trascorrervi almeno un mese di vacanza. Quelle vacanze per Jerry sono sempre state legate al ricordo dei bagni nel mare di Ognina, vicino a Catania, e al sapore dei cibi di nonna Santa; in particolare a quello delle melanzane che cucinava in molti modi. I preferiti di Calogero erano: quello alla “Norma” (così chiamato perché il piatto è stato cucinato per la prima volta a Catania ed era stato dedicato al catanese Vincenzo Bellini dopo il grande successo ottenuto alla prima della sua opera “Norma”) e le melanzane fritte, la sua passione. Jerry - Calogero non aveva bisogno di chiedere; quando lui arrivava la nonna si era già procurata le melanzane; le portava un garzone con la sua scassatissima Ape e vendeva frutta, ortaggi, olive in salamoia e i vasetti dei sott’olii.

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Nonna Santa alla sera le tagliava a fette sottilissime che poi, per farne uscire l’acqua, metteva sotto un grosso ferro da stiro di quelli di una volta che per stirare si riempivano di carbonella accesa; lì trascorrevano la notte e al mattino erano perfettamente asciutte e pronte per essere cucinate alla “Norma” o fritte nel sapido olio siciliano. Era poi una festa mangiarle con tutta la famiglia riunita; Calogero bambino beveva la gazzosa - ancora di quelle col tappo di vetro a forma

di pallina - e soltanto compiuti i 18 anni gli fu concesso di bere con i grandi il vino Zibibbo che si andava a comperare all’osteria con il bottiglione che veniva riempito dall’oste. Jerry non è sicuro ma pensa che non avesse meno di 15 o 16 gradi, un vino che nei mesi estivi conciliava a tutti la tradizionale pennichella. Nel ristorante “Ai tre camini” il responsabile della cucina è Gianni Priante, che è anche socio di Jerry; i suoi piatti sono di tradizione

Jerry Calà Catanese di nascita e veronese d’adozione, Jerry Calà ha frequentato il liceo classico Scipione Maffei di Verona, dove ha incontrato Umberto Smaila, Nini Salerno e Franco Oppini con i quali negli anni ’70 forma il quartetto dei “Gatti di Vicolo Miracoli” (nella foto). Nel ’71 vengono scoperti in un cabaret romano da Cino Tortorella che li porta al mitico Derby di Milano e li vuole come conduttori di una sua trasmissione, “Giococittà”. Il gruppo viene accolto con successo dai telespettatori, successo che si rinnova con la partecipazione al programma “Non Stop” per la regia di Enzo Trapani. Da questa trasmissione, e dalle seguenti, incisero anche due dischi singoli, “Prova” e “Capito” (sigla di Domenica in), che scalarono le classifiche di vendita nazionali. I Gatti a quel punto spopolavano in Italia: debuttarono nel frattempo anche al cinema in un paio di pellicole di Carlo Vanzina (“Arrivano i gatti” e “Una vacanza bestiale”, entrambe del 1980). Nel 1981 Jerry lascia però il gruppo (che prosegue in una formazione a tre), interpreta numerosi film comici di successo ed è protagonista anche di un ruolo drammatico nel grottesco “Diario di un vizio” (1993) di Marco Ferreri. Arriva anche alla regia nei film: “Chicken Park” (1994), parodia demenziale del coevo film di Spielberg “Jurassic Park”; “Ragazzi della notte” (1995), sul mondo delle discoteche; “Gli inaffidabili” (1997), nel quale ha riunito I Gatti di Vicolo Miracoli facendo il verso ad “Amici miei” (di cui non a caso il gruppo interpreterà la versione teatrale nel 2002, tra l’altro per la regia dello stesso Monicelli); “Vita Smeralda” (2006), ambientato nel jet set di Porto Cervo; “Torno a vivere da solo” (2008), sequel ideale di “Vado a vivere da solo” di Marco Risi (1982), il primo film di cui Jerry è stato protagonista, sul cui set aveva conosciuto l’allora giovane showgirl Mara Venier, sposata nel 1984 ma da cui si separerà dopo appena un anno di matrimonio, restando ancora comunque in ottimi rapporti; “Pipì Room” (2011), cui hanno preso parte anche i ragazzi dello Zoo di Radio 105.

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locale, “Gnocchetti al tartufo”, “Petto d’anatra con salsa all’arancia”, “Formaggio di capra con pomodori secchi sott’olio e olive nere”… ma qualche volta Jerry gli chiede di cucinargli le melanzane alla “Norma”; Gianni ci prova, anche se ormai sa che non riuscirà mai a fargliele come nonna Santa… Eppure ci mette tutta la sua arte; fa arrivare il formaggio di pasta filata dalla Sicilia, i pomodori da Pachino, la ricotta infornata; ha preso anche un aiuto siciliano… ma Jerry continua a scuotere la testa.

Il ristorante ha anche una cantina di grande livello e le melanzane vengono accompagnate dai migliori vini siciliani: il Nero d’Avola di Firriato, il Syrah di Planeta, il Corvo Rosso di Salaparuta.. ma è tutto inutile. Per Jerry non c’è vino che valga lo Zibibbo del suo ricordo, le melanzane non sono “mulinciane” e mancano ingredienti che nessuno chef potrà mai procurargli: l’aria e il mare della sua Sicilia, la spensieratezza della sua gioventù, il sorriso e le carezze di nonna Santa.

Melanzane alla Norma Ingredienti: 4 melanzane, 700 ml di passata di pomodori freschi, ricotta infornata grattugiata, sfoglia fatta in casa, 1 spicchio d’aglio, qualche foglia di basilico, olio extravergine d’oliva, sale e peperoncino. Preparazione: Lavare le melanzane, spuntarle e tagliarle, nel senso della lunghezza, senza sbucciarle, a fette dello spessore di circa mezzo centimetro. Sistemare le fette di melanzane in un grande ciotola, salando ogni strato. Versare, poi, sulle melanzane acqua fino a coprirle. Lasciarle in salamoia per 30 minuti. Nel frattempo, preparare la salsa di pomodori. Versare un po’ di olio in una casseruola antiaderente e lasciare imbiondire lo spicchio d’aglio ed il peperoncino. Unire la passata di pomodori, qualche foglia di basilico, un pizzico di sale e lasciare cuocere per circa 15-20 minuti. A cottura ultimata, eliminare l’aglio Dopo mezz’ora, strizzare le fette di melanzane tra le mani, per eliminare più acqua possibile, ed asciugarle con la carta da cucina. Versare abbondante olio in una padella e portarlo a tempera-

Ricette

tura Friggere le fette di melanzane da entrambi i lati e metterle ad asciugare. Versare un velo di salsa di pomodori sul fondo di una pirofila, sistemarvi uno strato di melanzane, distanziandole leggermente tra di loro. Sulle melanzane posare uno strato di sfoglia. Ricoprire, poi, quest’ultimo con un’altra fetta di melanzana. Appena preparato il duplice strato di melanzane, coprire ogni porzione con un velo di salsa e distribuirvi sopra abbondante ricotta grattugiata. Cuocere il tutto in forno preriscaldato a 180°C per 10-15 minuti.

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di Barbara La Cognata

L’artigiano in cucina

Don Paolino Sciacchitano I sapori della cultura contadina sono i principali protagonisti della tradizione gastronomica dei monti Iblei. Una tradizione che si rinnova anche nelle festività natalizie. Il territorio di Ragusa con i suoi 12 comuni, offre una svariata scelta di dolci. Non mancano mai in

casa il torrone di mandorle, così come la “cubaita”, dolce croccante preparato con miele mandorle e “giuggiulena” (ovvero semi di sesamo). Prelibatezze e specialità alle quali si affiancano i gustosissimi “mucatoli”, biscotti a forma di “s” ripieni di miele mandorle o frut-

ta secca ed i “mustazzoli” a base di miele, mandorle, cannella e buccia d’arancia. La cultura e tradizione culinaria iblea trovano la massima espressione nella scaccia ragusana: una spianata di pasta avvolta a forma di busta o chiusa a mezza luna con dentro condimenti che variano in base alle festività: a Natale, per esempio, sono tipiche quelle ripiene di broccoli o spinaci.

In questi luoghi le antiche tradizioni fondate sulla civiltà contadina hanno sviluppato una singolare cultura culinaria. Ed ecco perché il “pane di casa” assume particolare importanza con gli esclusivi ingredienti preparato secondo gli antichi metodi. Le ricette dei nonni oggi sono diventate il valore aggiunto di una terra che offre cultura anche a tavola. Il pane è un’arte di famiglia da

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“Don Paolino Sciacchitano”. A Comiso lo storico panificio è un’istituzione, per i turisti un’ambita meta alla scoperta di sapori genuini e cibi prelibati preparati secondo antiche ricette tramandate da generazioni. Biagio, il figlio di don Paolino ci svela i segreti del “buon pane”. “Il primo pensiero va sicuramente a mio padre, un uomo innamorato di questo mestiere che è riuscito a trasmettere ai figli conoscenza e passione. Don Paolino, così lo chiamavano in paese, ha iniziato lavorando in un panificio, prima a Palermo poi a Comiso, ma il grande sogno era avviare un’attività tutta sua. E lo ha realizzato: con impegno e sacrifici, è nato il panificio Don Paolino Sciacchitano. Avevo appena cinque anni quando ho impastato il pane per la prima, volevo diventare bravo come papà. Quella volta, però, ero talmente stanco che mi sono addormentato sui sacchi della farina”.

Cosa rende “il vostro “pane di casa” speciale?

“Gli ingredienti utilizzati sono farina, acqua, lievito e sale, noi scegliamo quello iodato, un normale sale da cucina al quale sono stati aggiunti sali di iodio che procura benefici all’organismo. L’ingrediente principale è l’amore verso un’arte che mi piace definire effimera. Impastiamo il pane secondo un’antica ricetta di famiglia. Fondamentale è la qualità della farina, ho imparato a conoscerla frequentando il mulino, viene prodotta nel nostro territorio, comunemente è chiamata farina di grano duro, ma anche “semola rimacinata per panificazione”. Nel processo di maturazione del frumento, favorito dal clima mediterraneo, assume una notevole quantità di amidi trasmettendo al pane un particolare gusto. Anche il lievito nasce da una ricetta casalinga. La lievitazione è lenta, ma esalta le caratteristiche del pane: il profumo è intenso, la crosta si mantiene croccante ed il pane rimane morbido per giorni. Andando così incontro all’esigenza di una volta, quando il pane veniva impastato in casa una volta a settimana e per conservarlo meglio veniva riposto dentro una pentola di alluminio. E’ sbagliato, come si usa oggi, conservarlo nei sacchi di plastica che impediscono il passaggio dell’aria. Poi sta alla capacità del panificatore saper riconoscere il giusto grado di maturazione, occorrono esperienza e “udito”. Basta assestare con la mano un colpetto alla pasta: se il suono è “pieno” significa che è lievita. La lavorazione a mano lascia invariate le qualità organolettiche.

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ciato chiuso ad anello e abbellito con dei ricami, anticamente veniva spezzato con le mani e distribuito a tutti i commensali. Quasi una sorta di rituale per propiziare la pace in famiglia. Il tocco finale per ottenere un ottimo risultato spetta al forno. Anticamente il pane veniva cotto nel forno a pietra, la cottura più lenta a temperatura decrescente esaltava il gusto. Così come gli antichi strumenti in legno: il setaccio, in dialetto “crivu”, la “maida”, una vasca rettangolare per dare il primo impasto al pane che veniva poi trasferito nella “briula”, un piano in legno e una leva per manipolare l’impasto. La fine di questa fase si concludeva con una preghiera accompagnata dal gesto della croce sull’impasto ripetendo “l’Angelu passa, a razia ci lassa, l’Angelu passau a razia ci lassau” (L’angelo passa, la grazia lascia, l’angelo è passato, la grazia ha lasciato). A mente la ripeto sempre”. Il pane in questi luoghi è sostanza ed insieme forma, ciascuna assume particolari significati.

“Una delle forme di pane più diffuse è “a cuccia”, ma non tutti ne conoscono la storia. E’ un pane votivo, veniva offerto alla dea della fertilità e la forma a tre punte arrotondate con un’ampia crosta centrale, secondo gli antichi ricordava l’organo di riproduzione femminile, doveva dunque stimolare il desiderio maschile. Ha origini lontane anche “u iaddu c’o minni” (il galletto con le tettine), una pane a forma di mezza luna con una cresta che lo rende croccante. Tutte le altre forme sono nate nel tempo dalla fantasia dei panificatori. In occasione delle feste pasquali, sulla tavola non può mancare “a paci”, la pace. Un pane intrec-

Nel laboratorio degli Schiacchitano tutta la famiglia si mette all’opera sin dalle prime luci dell’alba. Francesco, Stefano e Andrea sono il presente ed il futuro dell’attività, attenti alla tradizione e senza rinunciare ad un tocco di originalità. Francesco è l’inventore della “bio” scaccia.

“Le “scacce” nascono nella cultura della masseria, la fattoria ragusana, sono la massima espressione dei prodotti genuini della terra e di una sapiente lavorazione “artigianale”. Si usa la pasta di pane che viene lavorata con il mattarello fino a formare una sfoglia rotonda, larga e sottile. A seconda del condimento “la scaccia” viene piegata a più riprese, fino a formare una busta oppure in due formando una mezza luna, poi si richiude con un ricamo

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in dialetto chiamato “riefico”, viene cotta in forno. Il ripieno è legato agli ingredienti stagionali: pomodoro, cipolle e caciocavallo, ricotta e prezzemolo o salsiccia, i broccoli, gli spinaci. Il gusto viene impreziosito dall’olio d’oliva prodotto a Chiaramonte. Noi abbiamo voluto puntare sulla qualità, usiamo solo prodotti biologici coltivati nei terreni di proprietà della famiglia”.

zucchero, cacao, nocciola, cannella e frutta candita ristretto con la semola. Usiamo un mosto prodotto da uva biologica dei nostri terreni. Anche gli altri dolci vengono lavorati con ingredienti di qualità e nostrani: mandorle di Avola, pistacchio di Bronte, miele prodotto

I dolci invece sono la specialità di Stefano, il minore dei tre fratelli, un giovane entusiasta e appassionato...

“La fantasia e l’attenzione alla cura del dettaglio mi hanno accompagnato alla scoperta della pasticceria, un mondo che ho vissuto sin da bambino nella sua espressione più genuina grazie agli insegnamenti di papà. Il mio primo dolce è stato una torta di compleanno, la ricordo ancora perché ho potuto fare finalmente quello che mi piaceva. Nel panificio ho iniziato all’età di 15 anni imparando tutte le ricette dei dolci tradizionali. Il periodo delle feste offre una vasta scelta di dolci eccellenti. I “mucatoli” sono una delle nostre specialità della casa. E’ un biscotto “sfizioso” che abbiamo reso ancora più speciale migliorando la ricetta originaria a base di una pasta frolla con un ripieno impastato con vino cotto,

nei monti iblei. Il torrone a base di mandorle, miele e zucchero così come la “cubaita”, preparata con semi di sesamo, miele zucchero e mandorle tostate, sono la massima espressione di una sapiente combinazione di questi preziosi ingredienti. Nelle nostre produzioni ogni creazione racchiude un messaggio che arriva da lontano; per questo il Natale da “Don Paolino Sciacchitano “ha un gusto unico”.

La ricetta del pane “cunzato” (pane condito) secondo Don Paolino “Il pane condito è una ricetta molto semplice che nasce nei frantoi anticamente quando si doveva assaggiare l’olio nuovo. Si usava il pane appena sfornato e si condiva con l’olio, poi nel tempo si aggiunsero l’origano, il sale ed il formaggio. Per rendere questa antica ricetta ancora più sfiziosa si può aggiungere del capuliato, prodotto tipico a base di pomodori secchi tritati e basilico, o le acciughe salate. Nella mia variante preferisco aggiungere una spolverata di peperoncino rosso. Un altro piatto ereditato dai nostri nonni è la “mitilugghia”, si usa la pasta del pane che viene fritta nell’olio caldo e poi condita con lo zucchero oppure con olio, origano e formaggio. Nella ricetta che ho elaborato il segreto sta nei particolari aromi utilizzati”.

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© Gianni Renna

In tavola

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di Felice Maratea

A tavola con le stelle

La cena del sagittario Il segno dello sagittario è iniziato il 23 novembre e terminerà il prossimo 23 dicembre. Ai nati sotto questo segno dedichiamo una fantastica cena creata da Nino Mosca, Chef del prestigioso ristorante “Il Bottaccio” di Montignoso (MS)

Il Sagittario è il nono segno dello zodiaco, un segno di fuoco governato dal pianeta Giove; il suo simbolo astrologico è rappresentato da un centauro che sta tendendo un arco per scagliare la freccia. La pietra del segno è lo zaffiro blu, il fiore la margherita, il colore l’amaranto, il giorno fortunato è naturalmente il giovedì. Sono nati sotto questo segno personaggi politici che hanno segnato le sorti dei loro Paesi: da Nerone a Stalin a De Gaulle, Churchill, Willy Brandt, Francisco Franco; artisti le cui opere ancora oggi emozionano: Bernini, Masaccio, Palladio; grandi scrittori e po-

eti: da Orazio, il poeta dell’amore e della gioia di vivere, a Racine, Mark Twain, Flaubert, Svevo, Moravia, Guido Gozzano; musicisti che hanno creato opere immortali: Beethoven, Donizzetti, Sibelius, Berlioz, Cimarosa, Mascagni, sino a Nino Rota, autore di indimenticabili colonne sonore per i capolavori di Fellini; attori e registi cinematografici i cui film sono nella storia della decima musa: Kirk Douglas, Boris Karloff, Amedeo Nazzari, Jane Fonda, Woody Allen, Steven Spielberg; cantanti tra i più amati: dalla grandissima Callas a Frank Sinatra, Edith Piaf, Tina Turner, Dionne Warwick; personaggi che dai te-

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leschermi hanno rallegrato le serate degli italiani: Alighiero Noschese, Abbe Lane, Alberto Lupo, Enzo Tortora… I nati sotto questo segno hanno un’intelligenza pronta ed acuta abbinata ad un grande intuito e spirito di osservazione. Sono attratti dall’avventura e sognano una vita artistica e romantica; non amano la routine, la vita li soffoca ed è per questo che sono irrequieti e amano molto viaggiare. Coraggiosi fino all’incoscienza, prendono spesso decisioni in modo affrettato andando incontro a pericoli che con maggior riflessione potrebbero essere evitati. Nel grado del Sagittario si trova la stella Antares: indica ricchezza e onori che però è facile perdere per cui si consiglia di fare molta attenzione soprattutto nel gioco. In amore sono generosi e liberali, amano essere amati ma è loro piacere anche quello di donare piacere. A tavola non sono per i cibi semplici; esigono la più attenta ricerca degli ingredienti e desiderano che vengano interpretate da chef raffinati.

I loro ristoranti ideali sono ad esempio “l’Albereta” di Erbusco, il regno di Gualtiero, il divino Marchesi, l’Enoteca Pinchiorri di Firenze che Annie Feolde ha portato ai vertici mondiali della ristorazione, il “San Pietro” di Positano, un locale tra i più belli del mondo, alto sull’incantato Golfo di Amalfi, o “Il Bottaccio” di Montignoso (MS), il fascinoso relais-chateaux ricavato dai fratelli d’Anna da un frantoio del Settecento e diventato un luogo di charme per una raffinata clientela. E’ proprio qui che realizzeremo la cena dedicata a questo segno perché pensiamo non ci sia un luogo come questo, che più si adatti al desiderio di eleganza e di raffinatezza dei nati tra il 22 novembre e il 21 dicembre, essendo l’ambiente perfetto per chi vuol vivere in assenza di tempo e nelle condizioni ideali per amare. Proprio come desiderano i Sagittari che hanno accettato l’invito di ritrovarsi a “Il Bottaccio” per gustare la cena a loro dedicata. Gli invitati arrivano a piccoli gruppi festosi. Ci sono i televisivi: Antonella Clerici (6 dicembre), Maria De Filippi (5 dicembre), Pamela Prati (26 novembre) che stanno ridendo per le battute di Nino Frassica (11 dicembre); Giorgio Faletti (25 novembre) ha preferito accodarsi ad un gruppo più serio con Fabio Fazio (30 dicembre), Gad Lerner

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(7 dicembre), Susanna Tamaro (12 dicembre). Tra la sorpresa di tutti ecco scendere da una favolosa Bentley Brad Pitt (18 dicembre) con Vanessa Incontrada (24 novembre); qualcuno si chiede che fine avrà fatto Angelina Jolie e la stessa curiosità riguarda anche Gianni Morandi (11 dicembre) che ha lasciato Belen e la Canalis, con la quale sta preparando il Festival di Sanremo, per non perdersi la cena. Arriva adesso un gruppo di vecchie glorie sportive: insieme alla sempre splendida Fiona May (12 dicembre) vediamo Roberto Mancini (27 novembre), Salvatore Schillaci (1 dicembre), Alberto Tomba (19 dicembre), Boris Becker (22 novembre), Alessandro Altobelli (28 novembre). In un angolo Pier Ferdinando Casini (3 dicembre) parla fittamente con Letizia Moratti (26 novembre) e c’è da scommettere stanno parlando di politica. Anche dagli Stati Uniti alcuni vip non hanno voluto mancare alla cena e questa mattina è atterrato all’aeroporto di Pisa un charter con personaggi che fanno il loro ingresso in sala accolti da un fragoroso applauso; tra questi riconosciamo Steven Spielberg (18 dicembre), Kim Basinger (8 dicembre), Woody Allen (1 dicembre), Ridley Scott (30 novembre) e Dionne Warwick (12 dicembre). Ecco, ci sono proprio tutti nella “sala della piscina” dove galleggiano ninfee e altri fiori acquatici; il caldo pavimento in cotto, il gioco possente delle travature, la richezza dei tappeti persiani, i dipinti e le sculture di fa-

mosi artisti contemporanei creano una magia indimenticabile. Un silenzioso drappello di camerieri ha appena servito una flute di champagne come aperitivo che predispone piacevolmente gli ospiti alla cena preparata da Nino Mosca, lo chef che da sempre è alla guida della cucina del Bottaccio. Siamo in una zona ricchissima di sollecitazioni gastronomiche, in una campagna generosa tra il mare e le Alpi Apuane; la cucina di Nino è perciò una sintesi sapiente tra le

fragranza marinare e i sapori dei boschi e della montagna, una cucina luminosa ispirata ai profumi e ai sapori mediterranei. Nino è attento e curioso delle esperienze e della tecniche dei colleghi che frequenta nei suoi viaggi in giro per il mondo; in India ha imparato l’uso delle spezie, in Giappone la tecnica per creare straordinari sushi, ma i sapor della sua Napoli ritornano sempre nelle sue invenzioni culinarie.

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Il primo piatto che viene servito è il

accompagna un’altra strepitosa invenzione di Nino, i

“Carpaccio di Gamberoni all’Olio Vanigliato con Riso Selvaggio Tartufato” E’ accompagnato da un grande Champagne Blanc de Blanc della Perrier che si abbina perfettamente al gambero crudo e completa il retrogusto del tartufo. E’ stato scelto da Kristin, la bella moglie americana di Nino: nata nell’Ohio, è stata coinvolta nell’avven-

“Maccheroncini ripieni di Ostriche in salsa di Peperoni” E’ il “Giovin Re” di Michele Satta, un Viognier in purezza, un vino bianco il cui forte sapore si fonde con le note dolci dei peperoni e la sapidità delle ostriche. Rispunta qui la napoletanità dello chef: è questo un piatto dagli accordi vellutati. I peperoni vengono cotti sulla griglia, abbrustoliti e spellati ma non lavati per non togliere loro l’aroma lievemente fumèe che accompagna l’inconfondibile sapore delle ostriche. Il piatto che arriva adesso è stato ispirato a Nino dalle tradizioni orientali durante uno dei suoi viaggi in Cina; è un cibo che avrebbe fatto la fortuna di un cuoco medievale alla corte di un principe

“Branzino con Caramelle d’Arancia”

tura del Bottaccio ed è diventata un’esperta sommelière. Molti vini li va a scoprire da sola nell’entroterra spezzino, alle 5 Terre, ai Colli di Luni, e le sue scelte non sono mai banali. I piatti del marito vengono valorizzati e assecondati nei sapori con una professionalità ed una sicurezza che normalmente si acquisiscono dopo anni di esperienza. Lo sentiamo anche nel prossimo vino che

Accompagnato dal “Garrus Chateux d’Esclan”, un vino rosè uvaggio di Grenache e Rolle. Solo l’intuito tipico di una donna e il suo sano distaccamento dalle tradizioni ha permesso a Kristin di trovare questo abbinamento di un vino con un cibo così difficile. E’ adesso la volta di un piatto creato da Nino Mosca in omaggio a un importante personaggio della zona al quale si dovrebbe erigere un monumento (e il marmo da queste parti non manca proprio!); il suo nome, Venanzio Vannucci, sembra quello di un capi-

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tano di ventura ma passerà alla storia della gastronomia come l’eroe salvatore di una ghiottoneria che stava per scomparire per colpa dell’ottusità di certi politici: il lardo di Colonnata.

“Filetto di Manzo con Lardo di Colonnata” Sarebbe stato facile abbinare questo classico piatto del territorio con un Chianti o ancor meglio con un Brunello di Montalcino, ma Kristin – che bene interpreta il gusto dei suoi ospiti – si lancia in un nuovo, originale abbinamento: Ue Passula Primitivo di Manduria in purezza, in connubio perfetto con la ricchezza del semplice, ma ricco, piatto di carne. Gli ospiti sono davvero entusiasti; in questo ambiente dove è difficile distinguere

dove finisce la galleria d’arte e incomincia il ristorante, le sensazioni, le emozioni che provengono dalle opere che impreziosiscono l’ambiente, si fondono con il cibo e l’arricchiscono. L’atmosfera che si respira è come un plancton invisibile che nutre lo spirito come il cibo il corpo. Per il dessert Nino Mosca, tra le sue numerose invenzioni, ha scelto la

“Delice de Noisette” Una vera delizia per gli occhi e per il palato che Kristin ha abbinato con l’“Occhio di Pernice”, un vino ottenuto dagli Avignonesi di Montepulciano secondo la tradizione con l’uso di madri pregiate. Sull’etichetta è scritto “Vin Santo”, ma non è

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vero: si tratta di un liquore infernale, sensuale e peccaminoso, un vino che certo gli ospiti apprezzerebbero maggiormente se potessero avere accanto il loro partner; molti si ripromettono di ritornare in loro compagnia, qualcuno però riesce, con arti misteriose, a convincere qualcuna a trascorrere la notte in una delle deliziose suite del “Il Bottaccio”; non si saprà mai chi sono perché qui la privacy è sacra. Attraverseranno la hall impreziosita dal dipinto di Niccolò Prandini, allievo del Tiziano, che rappresenta Diana sorpresa dal cacciatore Atteone mentre sta per immergersi in un laghetto Lo sventurato che ha osato posare lo sguardo sulla nudità di una dea verrà tramutato in cervo e sbranato dai suoi stessi cani. Non correrà certo questo rischio colui che con la sua bella compagna sta per rag-

giungere una delle suite, ognuna diversa nell’ambientazione e nelle suggestioni: “la suite Davide”, “appartamento delle Macine”, la “Honeymoon”, con il camino Settecentesco, il letto a baldacchino, la vasca da bagno inserita tra gli ingranaggi di legno dell’antico frantoio, le finestre a trifore che danno sullo splendido giardino. Non esiste una scenografia più adatta per accogliere due amanti, per favorire il loro amore e farlo diventare passione. Se questa storia fosse vera conosceremmo presto il nome dei due in una delle tante riviste specializzate in gossip. Purtroppo per i vip che abbiamo nominato si è trattato soltanto di una cena immaginata dalla nostra fantasia; l’unica cosa reale - per fortuna - sono i piatti creati da Nino Mosca e i vini della bella Kristin.

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Carpaccio di gamberoni all’olio vanigliato con riso selvaggio tartufato Per quattro persone: n. 12 gamberoni - 50 g. riso selvaggio - 4 lime - 50 g. burro tartufato - olio extra vergine d’oliva vanigliato - olio Extra vergine d’oliva ligure - olio al tartufo - pepe bianco - fleur du sal della Camargue - salsa di soja Per il riso selvaggio: in abbondante acqua non salata fate cuocere per oltre 35 minuti il riso selvaggio. Scolarlo e lasciarlo raffreddare. Per l’olio vanigliato: in una casseruola riscaldare l’olio extravergine fino a portarlo alla temperatura di 60ºC e aggiungere i semi e il bacello di vaniglia al fine di ottenere una ricca profumazione in tempi rapidi senza al-

Ricette

terare la struttura chimica dei grassi vegetali e lasciare raffreddare

cotto, salare con la salsa di soja e completare

(tecnica più veloce della semplice infusione a

con l’aggiunta di qualche goccia di olio tartu-

freddo).

fato. Disporre il riso al centro e servire.

Preparazione: sgusciare la coda dei gamberoni privati della testa, inciderli dalla parte del dorso

Maccheroncini ripieni di ostriche in salsa di peperoni

rimuovendo il budello intestinale. Disporli su

Per quattro persone:

una carta oleata, salare e pepare, versare il suc-

Per i maccheroncini: 200 gr di pasta fresca - n.

co dei lime e alcune gocce di olio vanigliato.

12 ostriche fresche - olio extravergine di oliva -

Porre sopra un altro foglio di carta oleata e

sale -pepe - 1 spicchio d’aglio - un rametto di

schiacciare leggermente con batticarne fino ad

maggiorana

ottenere un carpaccio. Trasferire successivamente su un piatto da por-

Per la salsa: 3 peperoni (uno rosso, uno giallo,

tata e completare la marinatura utilizzando l’olio

uno verde) - olio extravergine d’oliva - 5 cl di

ligure e ancora succo di lime se necessario.

panna fresca - 5 cl di brodo di cozze e/o vongo-

Nel frattempo in una padella scogliere il burro

le - 1 ciuffetto di prezzemolo tritato - 1 spicchio

tartufato aggiungere il riso precedentemente

d’aglio, un rametto di maggiorana

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Preparazione: preparare la pasta fresca ese-

re di 1 mm. Spennellare con dell’acqua fredda e

guendo la ricetta base, lasciarla riposare per 20

ritagliare dei rettangoli. Porre al centro di ogni

minuti. Nel frattempo aprire le ostriche,recuperare

rettangolo un’ostrica ed avvolgerla per formare

il frutto, sciacquare velocemente. Scaldare l’olio

dei piccoli maccheroni.

e l’aglio in una padella assieme al rametto di

Preparare la salsa facendo saltare in padella

maggiorana. Cuocervi le ostriche per circa 3 mi-

con poco olio e uno spicchio d’aglio e la mag-

nuti e far raffreddare.

giorana, le striscioline di peperone, salare e pe-

Riscaldare la griglia e mettere i peperoni ad ab-

pare poi aggiungere il brodo di cozze e vongole,

brustolire, girandoli spesso per uniformarne la

far ritirare leggermente e aggiungere la panna

cottura (volendo si ottiene un buon risultato an-

fresca.

che in forno). Una volta raffreddati si potrà to-

Cuocere in abbondante acqua salata i mac-

gliere via la pelle con molta facilità. Ciò per la-

cheroncini, scolarli e saltarli nella salsa.

sciare al peperone quel gradevole aroma di

Questo è un momento molto importante per la

affumicato, dolce-amaro, che è la prerogativa

buona riuscita del piatto: è proprio in questo

del piatto.

momento che si deve, con molta attenzione,

Quando i peperoni saranno ben tostati, toglierli

far ridurre la salsa e aggiungere una manciata

dalla griglia e spellarli con delicatezza, aprirli e

di prezzemolo, aggiustare di sale e pepe, e

togliergli anche i semi, senza sciacquare con

servire.

acqua per non far perdere l’aroma. Tagliarli a

L’allegria dei colori accesi dei peperoni ed il ver-

striscioline nel senso della lunghezza.

de del prezzemolo permetteranno di gustare i

Stendere la pasta fino a raggiungere lo spesso-

maccheroncini con tutti i sensi.

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di Raffaele Montagna e Regina Zather

A tavola con i santi Dicembre è il mese dei grandi pranzi e delle sontuose cene che iniziano con i festeggiamenti di due tra i più importanti Santi d’Italia: San Nicola (6 dicembre) e Sant’Ambrogio (7 dicembre), e terminano con il pranzo di Natale ed il cenone di San Silvestro. “Gustare l’Italia” vuole ricordare questi due Santi patroni con le ricette dei cibi più tradizionali legati alle loro città. E’ intanto curioso non siano nati nella città della quale sono i patroni; addirittura non sono nemmeno nati in Italia: San Nicola è di Pàtara di Licia in Turchia, l’attuale Demre, Ambrogio è di Treviri, una città della Germania.

San Nicola Incominciamo, in ordine di calendario, da San Nicola che viene ricordato a Bari il 6 dicembre, giorno della sua morte avvenuta nel 397. E’ un Santo importante non soltanto per i baresi ma anche per i cattolici di molte altre nazioni; il nome Nicola nelle varie versioni (Niklaus, Nikolaj, Nikita etc) è il nome cattolico più presente nel mondo. Più di Giuseppe, Antonio, Francesco… E’ il santo protettore delle zitelle perché aiutò tre ragazze che non potendo sposarsi per mancanza di dote stavano per avviarsi alla

prostituzione; regalò loro tre sacchetti di monete e le giovani poterono così convolare a giuste nozze. Nella tradizione popolare è considerato anche protettore di marinai, pescatori, farmacisti, profumieri, bottai, ma soprattutto protettore dei bambini. Babbo Natale, il mitico personaggio che la Notte Santa porta doni ai bambini di tutto il mondo, è chiamato dai popoli nordici Santa Klaus, nome che è la contrazione di “Sanctus Nikolaus”. In suo onore diamo qui di seguito le ricette di 2 tra i più tradizionali piatti baresi: “Orecchiette alla cime di rapa” e “Riso, patate e cozze”.

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“Orecchiette alle cime di rapa” Dette anche “recchitelle” costituiscono il piatto più rappresentativo della città di Bari. L’origine della pasta è avvolta nel mistero, non essendoci alcun documento che ne attesti la nascita; alcuni affermano che sia stata introdotta in Puglia da mercanti provenzali, altri la fanno risalire alla cultura ebraica ed altri ancora assicurano che è autoctona, non foss’altro perché somiglia ai tetti dei trulli. Gli amanti della tradizione non vanno a comprare le “orecchiette secche” al negozio sotto casa o al più vicino supermercato, ma le preparano fresche, con farina di grano duro, acqua tiepida e sale, considerando, per le dosi, un etto di farina per ogni commensale. Si versa la farina sulla “spianatoia” e si fa la classica fontana; si aggiunge il sale e l’acqua tiepida, lavorando, impastando e rimestando per una decina di minuti.

Si forma una specie di “collinetta”, si copre con un panno (qualche massaia dice caldo) e si lascia riposare per una buona mezz’ora. Successivamente, dalla “collinetta” si preleva un piccolo pezzo di pasta che si rimescola e si amalgama per farne un lungo bastoncino (come fine un grissino) che si taglia a pezzetti della grandezza di un’unghia - possibilmente tutti di eguale dimensione. Si schiaccia quindi ciascun pezzettino in maniera da ridurlo in forma di piccolo disco (a tale bisogna può servire il manico di un cucchiaio) e, esercitando una leggera pressione, lo si trascina sul tavolo da lavoro, in modo che il dischetto si curvi (seguendo la forma del manico di cucchiaio) coprendo parte dell’attrezzo. A questo punto si appoggiano - dischetto di pasta e manico di cucchiaio - sul polpastrello del pollice e si cerca di rovesciare all’indietro la pasta, come se si volesse avvolgerla sulla

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punta del dito; si spinge, infine, con il pollice stesso per ottenere e accentuare quella “gobbetta” che è tipica delle orecchiette. Si stacca delicatamente dal dito e si mette ad asciugare, con la “gobbetta” rivolta in alto e si aspetta qualche ora prima di cuocere. Le cime di rapa (note anche come broccoletti di rapa) sono ortaggi tipicamente italiani coltivati prevalentemente nel Lazio, in Campania e in Puglia. Si consumano le parti tenere (le cime, appunto, scartando le coste e le foglie dure e coriacee) più che altro nelle stagioni autunnale/invernale, anche se esistono varietà primaverili, dette tardive di taglia alta (110 cm). Si raccolgono a mano le infiorescenze e lo stelo con tutte le foglie, prima dell’apertura dei fiori stessi (che ne deprezzerebbero la qualità, e renderebbero il prodotto poco commestibile) a circa 10 cm da terra per permettere il “ricaccio”, cioè una nuova buttata.

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“Orecchiette alle cime di rapa” Ingredienti per 4 persone: 1kg di cime di rapa fresche; 4 cucchiai d’olio extravergine di oliva; 3 spicchi d’aglio; 2 filetti d’acciuga sott’olio; 360 g di orecchiette; peperoncino e pepe quanto basta.

Ricetta

Mondate le cime di rapa, eliminate cioè le foglie grosse, sciupate, gialle, le parti dure del gambo e selezionate, invece, le infiorescenze e le foglie più tenere, tagliandole in più parti. Lavatele abbondantemente con acqua fresca corrente, facendo attenzione che non rimangano frammenti di terra (solitamente sono abbastanza sporche, un pò come gli spinaci).

Tagliate il peperoncino a rondelle. Ponete sul fuoco una capace pentola con abbondante acqua salata e quando questa bolle, versatevi le cime di rapa; ad avvenuta lessatura, scolate, mantenendo buona l’acqua di cottura, perché, rimessa sul fuoco servirà a cuocere le orecchiette. Intanto in una padella, fate imbiondire, con l’olio, gli spicchi d’aglio schiacciati (o tagliati a fettine), i filetti d’acciuga spezzettati e le rondelle di peperoncino. A doratura avvenuta (non fatelo troppo a lungo, altrimenti il tutto diventerà nero e amaro!), unite le cime di rapa ben scolate e fatele saltare allegramente. Lessate le orecchiette nella stessa acqua di

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cottura della verdura e quando saranno più che al dente, scolatele ed unitele al resto nella padella, continuando a farle saltare per una manciata di secondi ancora; se dovessero risultare asciutte aggiungete un pò d’acqua di cottura e asciugate quanto basta

a fiamma viva. Servite immediatamente con un’abbondante grattugiata di pepe, un filo d’olio a crudo e accompagnatelo con uno dei grandi vini caldi e sensuali come la terra di Puglia: Primitivo, Nero di Troia, Negramaro, Sussumaniello…

“Tiella di riso, patate e cozze alla barese” Ingredienti per 6 persone: cozze kg 1,5; patate g 800; pomodori maturi g 700; cipolle g 600; riso Superfino g 500; prezzemolo g 70; 3 spicchi di aglio; pecorino grattugiato; olio d’oliva; sale q.b.

Ricetta

Aprite e lavate molto bene le cozze; tritate il prezzemolo e l’aglio, tagliate a fettine sottilissime le cipolle e affettate le patate sottili. Tagliate i pomodori. Accendete il forno e portatelo a 180° circa. Ungete d’olio un tegame, possibilmente di coccio, partite con metà delle cipolle, del

prezzemolo, dei pomodori, sale e abbondante pecorino. Continuate con circa metà delle patate e tutto il riso mondato, cercando sempre di fare uno strato uniforme. Distribuite le cozze sopra il riso e spolverizzate con il restante prezzemolo e il resto delle cipolle, dei pomodori, le rimanenti patate e un filo d’olio; aggiungete poco a poco dell’acqua fredda leggermente salata, quanto basta per coprire tutti gli ingredienti e cuocete per circa 45 minuti; se necessario, unite ancora acqua bollente.

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Sant’Ambrogio Non si sono spenti gli echi dei festeggiamenti che i baresi hanno dedicato al loro Santo Patrono e già a Milano stanno iniziando quelli dedicati a Sant’Ambrogio che culminano con la tradizionale Prima della Scala. Si inizia con la Messa celebrata in tutte le chiese, ma la più importante avviene, naturalmente, nella Basilica costruita alla fine del IV secolo per volere del Vescovo Ambrogio nella zona in cui erano stati sepolti i Cristiani martirizzati dalle persecuzioni romane. Ambrogio era nato nel 340 a Treviri, una città della Renania, da una delle più illustri famiglie romane; suo padre era titolare di una delle 4 prefetture in cui era diviso l’Impero sotto Diocleziano. Nel 374 il popolo di Milano lo aveva proclamato Vescovo per la sua abilità e capacità di mediatore nel risolvere le contese tra cattolici ed ariani; in un primo momento aveva rifiutato, non sentendosi all’altezza del compito, ma - confermato nella carica dall’Imperatore - in una settimana fu battezzato ed ordinato. Donò tutto il suo patrimonio ai poveri ed impostò la sua vita secondo uno stile austero e contemplativo, prodigandosi caritativamente per i fedeli. Per la sua cultura e la sua sapienza è uno dei 4 massimi “Dottori della Chiesa”. Ambrogio riformò la chiesa milanese, che per questo da lui assunse il nome di “ambrosiana”. Nel 393, pochi anni prima di morire, con l’Imperatore Teodosio I vietò i Giochi olimpi-

ci, che erano visti come una festa pagana, ponendo fine a una storia durata oltre mille anni. Al Patrono di Milano dedichiamo 2 dei piatti più tradizionali della cucina meneghina: la “Cassöeula” e il “Risotto alla Milanese”.

“Cassöeula” “Del maiale non si butta via niente”, recita un vecchio adagio; ecco perché esso occupa un posto di primissimo piano sia sulle mense dei ricchi che su quelle dei poveri. Fino a poco più di mezzo secolo fa in quasi tutte le case si allevava un maiale, che con la sua carne forniva provviste strategiche per un intero anno: il giorno della “maialatura” - cosi si chiamava in alcune regioni del centro Italia la sua macellazione - era considerato giorno di festa: un macellaio, detto

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© Remulazz © Goldlocki

“norcino” (perché l’arte della conservazione del maiale nasce a Norcia qualche secolo fa), si occupava di ritagliare prosciutti e “acconciare” salami, salsicce, cotechini, pancetta, guanciale, coppa e capocollo, zampone sanguinaccio e via di seguito. Ogni regione, ogni provincia, addirittura ogni paese, ha un suo modo tradizionale di cuocere queste carni; i milanesi hanno la Cassoeula, uno dei piatti tipici invernali a base di verza e delle parti meno nobili del maiale: cotenna, piedini, orecchie e costine. La verza - l’ortaggio più importante dell’inverno - è dotato di un sapore dolce e delicato; è una varietà di cavolo che possiede quasi tutte le vitamine tanti sali minerali, tra cui zinco e magnesio e favorisce l’assorbimento del ferro. È una verdura salutare, che si acquista a prezzo relativamente basso ed è tra le più gustose e versatili in cucina.

I vecchi ortolani (i verzee) insegnano che va raccolta dopo che ha subito la “gelata”, quando cioè la temperatura è scesa di qualche grado sotto lo zero e le sue foglie, corpose corazzate e opache, “crocchiano” allorché si cerca di aprirle per cercarne il morbido e fresco cuore bianco/verde.

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“Cassöeula” Ingredienti per 8 persone (perché pensiamo che la cassoeula vada gustata in compagnia): 1 kg di costine di maiale; 250 g di cotenne di maiale; 2 piedini di maiale; 2 orecchie di maiale; 8 salamini verzini; 400 g di luganiga (salsiccia fresca); 2 kg di verza; 1 cipolla; 2 carote; 2 costole di sedano; 1 bicchiere di vino bianco secco; 60 g di burro; sale e pepe, quanto basta. In una pentola, con acqua abbondante e salata, fate bollire le cotenne e le orecchie del maiale, per tre quarti d'ora, e i piedini per un'ora, dopo averli ben raschiati e fiammeggiati; scolate il tutto e fatelo a pezzetti. Fate rosolare in poco burro le costine fino a quando non si siano colorite, quindi toglietele dalla fiamma e tenetele da parte; alla stes-

sa maniera fate con i verzini (praticate dei buchi con la forchetta) e con la luganiga tagliata grossa. Pulite e lavate bene la verza, senza scolarla eccessivamente, affinché tenga nelle foglie poca acqua del risciacquo, mettetela in una pentola, copritela e fatela appena appassire a fuoco lento. In una grande casseruola, nel burro rimasto (50 g circa), fate rosolare la cipolla, il sedano e la carota, previamente tritati e, appena si sono appassiti, unite i verzini e la luganiga, sfumando con il vino - a fuoco allegro per lasciare evaporare; bagnate con un pò d'acqua e fate cuocere per 10' riducendo la fiamma. Unite la carne e, trascorsi pochi minuti aggiungete le verze e se necessario un pò d'acqua. Fate cuocere per circa un'ora vigi-

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lando che la carne si stacchi dalle ossa, aggiungendo acqua, aggiustando di sale e di pepe. Una volta cotta, lasciate riposare la cassoeula per 20' prima di servire.

Accompagnate con una buona polenta e con un vino rosso: Bonarda secco, Oltrepo pavese d.o.c., Lambrusco mantovano d.o.c., Gutturnio Colli piacentini d.o.c.

“il risotto alla milanese� Ingredienti per 4 persone: 450 g di riso; 120 g di burro; 100 g di formaggio stagionato; 60 g di midollo di bue; 1,7 dl di brodo di carne; 1 cipolla; 2 cucchiaini di pistilli di zafferano.

Ricetta

Sciogliete lo zafferano in pochi cucchiai di brodo; mondate la cipolla, affettatela e velo, rosolatela nel burro (del quale terrete da parte una noce) insieme al midollo di bue. Quando il soffritto sarĂ pronto e profumato, tostateci il riso; quando i grani di riso saranno ben tostati bagnateli col brodo e aggiungetene, man mano che si asciuga, fino al completamento della cottura. Unite solo in ultimo lo zafferano, poi condite il risotto col burro e copritelo con il Parmigiano. Rimestate e servite in tavola.

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Un bicchiere anche se vuoto può contenere l’intera storia dell’umanità; ha infatti accompagnato da sempre l’uomo e la sua evoluzione sociale, ha segnato i momenti più significativi della sua vita, quelli gioiosi con un brindisi, quelli tristi magari con una “sbronza per dimenticare”. In un primo tempo i nostri antenati hanno certamente usato le mani, per bere l’acqua limpida dei ruscelli, ma presto hanno capito che le corna degli animali abbattuti potevano essere utili allo scopo: è nato così il primo bicchiere. In questa funzione il corno - lavorato da abili artigiani, decorato con metalli e pietre preziose, scolpito e in ogni modo abbellito e nobilitato - ha

servito le raffinate corti persiane ed egiziane. Per gli stessi scopi i greci, popolo di mare, usavano particolari conchiglie, che con i corni condividevano le forme. Nella fase successiva, e siamo ancora agli antenati dei bicchieri come oggi li conosciamo, venne usata la creta, variamente seccata o cotta nei forni, il legno, la ceramica e il metallo. A Roma, l’arte vetraria, importata dal vicino oriente, fece sì che i vini - allora non avevano il sapore che noi oggi apprezziamo, ma erano aromatizzati con resine, con il mirto, con la frutta - si potessero gustare in bicchieri di vetro, di differente foggia e capacità: esisteva il “cyatus”, rotondo, a forma di coppa o piccola tromba (come il fungo dal quale prende il nome), la “phiala”, di fattura piatta, il “kylix” (calice) sorretto dal gambo;

© ColleVilca (3)

di Bruno Goglione

L’artigiano in tavola

Ad ogni vino il suo bicchiere

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esistevano anche bicchieri più capienti, col manico quali il “rhyton”, a forma di corno, il “cantharus”, lo “scyphus” forse per bere la birra, di cui si conosce l’uso già nel Vo millennio a.C., Anch’essa insaporita con timo, rosmarino ed altre erbe aromatiche. Il cristallo non è stato inventato a Murano né qui è stato mai prodotto - ma in Inghilterra, nel 1600 circa; i Muranesi chiamano impropriamente cristallo il vetro trasparente. Il cristallo di rocca è un minerale trasparente e siccome in antichità il vetro non lo era, gli oggetti venivano fabbricati con il cristallo di rocca ma erano costosissimi, famosa è la collezione dei Medici a Firenze. Il vetro per i bicchieri ha attraversato tutto l’Evo di mezzo - anche se i calici più preziosi venivano fabbricati in cristallo di rocca (quarzo ialino), a sua volta soppiantato dal vetro di Murano, perché possedeva maggiore leggerezza. Alla metà del Quattrocento, ancora a Murano i bicchieri si impreziosirono sempre più, anche con decorazioni incise ed a rilievo. In Boemia, alla metà del Seicento, gli artigiani riuscirono a fabbricare cristalli molto simili al cristallo di rocca, che venivano arricchiti con molature particolari, colori e smalti.

Su tutti, presto presero il sopravvento - per il fatto di costare di meno, perché meno preziosi i cristalli inglesi, scandinavi, tedeschi. Ancor oggi, per fabbricar bicchieri, i materiali più usati sono il vetro e il cristallo e se ne possono acquistare di tale pregevolezza da essere considerati oggetti da “collezione” e perciò da tenere in una teca a far soltanto bella mostra di sé. Le moderne fabbriche producono diverse linee di bicchieri, spesso dal design ricercato, di forme e dimensioni in relazione all’uso che se ne deve fare e al tipo di bevanda che devono contenere; così si trovano bicchieri per l’acqua il vino, le bibite, i liquori, i cocktail, la birra. Solo per accennare ai bicchieri usati per gustare i vini, va detto che debbono essere particolarmente trasparenti (meglio se di cristallo), per permettere di apprezzare pienamente il colore di ciò che beviamo. Per valutare invece i diversi profumi che i vini sprigionano, è indispensabile tenere conto delle loro forme e delle dimensioni, dando per scontato di preferire quelli a gambo lungo, per non toccare con le dita la coppa e non trasmettere calore al vino alterandolo. In Italia la lavorazione del vetro e del cristallo ha origini antiche e diversi sono i centri che nello scorrere del tempo si sono contesi il primato, sia della qualità, sia della quantità e basterebbe solo citare Murano.

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tomatica alla manualità, al talento, alla fantasia, all’estro, alla passione dei maestri artigiani. È dal 1958 che la “ColleVilca” produce cristalli - tutti certificati e garantiti, con una percentuale di oltre il 24% di piombo - non senza crisi, intoppi e problemi (ma chi non ne ha, con una storia lunga più di cinquant’anni?). Oggi è un’azienda che custodisce e tramanda la grande tradizione artigianale della lavorazione del cristallo. Al di là delle tantissime creazioni d’arte (oltre seicento articoli, interamente realizzati a mano, alcuni progettati da grandi artisti internazionali: Gio Ponti, Le Corbusier, An-

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© ColleVilca (4)

Altre città, tuttavia, sono state definite “città del cristallo” per la loro antica tradizione storica e per il gran numero di artigiani che vi hanno svolto e ancora vi svolgono il loro lavoro, in un settore che richiede abilità, tradizione, senso artistico e soprattutto passione. Tra tutte diamo rilievo alla cittadina di Colle Val d’Elsa, un abitato di oltre ventimila persone, a nord-ovest di Siena, lungo la strada che unisce quest’ultima città a Firenze. La lavorazione del vetro risale ai primi decenni del Trecento e successivamente si è evoluta in lavorazione del cristallo, tanto che la cittadina fu definita la “Boemia d’Italia”. Attualmente la sua produzione rappresenta il 95% di quella italiana e il 14% di quella mondiale, senza voler sottolineare l’alta qualità artigianale dei suoi prodotti. Molti oggetti, non solo bicchieri, che si trovano nelle case italiane, provengono perciò da questa laboriosa comunità, che annovera maestri “soffiatori” per plasmare la materia incandescente, maestri “piazzisti” per modellarla, come dei veri scultori, con pinze ed altri attrezzi, maestri “molatori” per morderla ed inciderla a freddo e farla diventare un oggetto d’arte unico, brillante, trasparente, in una parola... “Cristallino”. In rappresentanza di tutti i fabbricanti di cristalli - legati dal Consorzio di Promozione “Cristallo di Colle Val d’Elsa” - presentiamo l’attività di “ColleVilca”, un’azienda che ha scelto di restare “artigiana”, perché non ha voluto sostituire le macchine di lavorazione au-


gelo Mangiarotti, R.L. Monti, Gumdesign, Ambrogio Pozzi, Shiro Kuramata,...), che con le loro forme esaltano la brillantezza e la purezza del cristallo, “ColleVilca” produce più di cinquanta tipi di calici, tutti dai tratti sobri, eleganti e dal design originale, ed una

linea “degustazione” che comprende più di venti serie di bicchieri, una per ogni tipo di vino, in aggiunta a caraffe, decanter e quant’altro necessario a degustare. Vi si riconoscono i “panciuti” - destinati al Barolo, al Chianti, al Brunello di Montalcino - i “normali” - per il Cabernet, il Gutturnio, il Sangiovese - gli “esili” - riservati al Verdicchio, al Gavi, al Greco di Tufo. Un servizio di bicchieri di cristallo da tavola - che comprenda i tipi di calice cui abbiamo accennato - non dovrebbe mai mancare nella cristalliera di ogni famiglia che ama gustare il vino come Giovanni Della Casa comanderebbe. A chi volesse fare una “scappata” a Colle Val d’Elsa per una gradita visita guidata ai Maestri mentre sono al lavoro e per eventuali acquisti ricordiamo che è necessario telefonare al n° 0577/909711-929188. Ricordiamo inoltre altri prodotti tipici di questa terra: Chianti dei Colli Senesi DOCG, Vernaccia di San Gimignano DOCG, Vinsanto DOC, salami e prosciutti toscani, buristo, capocollo, finocchiona, pecorino di fossa, cantucci (da gustare con il Vinsanto) panforte e ricciarelli.

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Š Consorzio Tutela del Franciacorta - Giangiacomo Rocco di Torrepadula

In cantina

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di Angelo e Piero Solci

I vini delle feste “Aujourd’ hui l’espace est splendide; sans

“Oggi lo spazio è splendido; senza morso,

mors, sans èperon, sans bride partons à che-

senza speroni, senza briglie partiamo a caval-

val sur pour un ciel feerique et divin”

lo del vino verso un cielo di magia” (Charles Baudelaire)

Un detto latino suggeriva cinque ottimi motivi per bere del buon vino: 1) l’arrivo di un amico 2) la bontà del vino 3) la presenza della donna amata 4) la celebrazione di una vittoria 5) “et qualibet altera causa” (e per qualunque altro motivo) Per questo riteniamo che tutti i vini siano meritevoli di essere indicati come “Vini di Festa”.

Alcuni però rappresentano senza dubbio la massima espressione della gioia e dell’allegria: sono i vini spumanti il cui capostipite è stato indubbiamente lo champagne. Come sarebbe il mondo senza i vini delle bollicine? Sicuramente più grigio e più triste. Come è nato lo champagne? Fra storia e leggenda si racconta che fu l’abate Dom Perignon, economo dell’abbazia di Hautvilleres, a scoprire verso la fine del XVII secolo il mo-

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do per racchiudere in una bottiglia la fragrante e profumata effervescenza del vino della regione francese chiamata Champagne. In realtà, anche se Dom Perignon partecipò attivamente alla sua realizzazione, lo champagne non è il frutto della genialità e della passione di un solo uomo, ma il prezioso risultato del lavoro comune di una intera regione dove molti elementi sono stati protagonisti: uomini, vigne, clima, terra. Ci sono voluti secoli prima di riuscire a controllare la naturale effervescenza del “vin gris”, come lo chiamano da quelle parti, ma non appena l’evento storico si verificò fu facile conquistare il mondo. Nessuno più potè sottrarsi alla magia sottile di quel vino turbolento ormai domato: Madame de Pompadour, la Dubarry, il Cardinal Fleury; Voltaire poetava elogiando “… du vin d’Ay la mousse petillante qui s’exhale en bon mots”, “… la schiuma frizzante del vino d’Ay che si trasforma in belle parole”. Verso la metà dell’’800 le tecniche di produzione si affinano sempre più e portano lo champagne alla perfezione; quando alla fine del secolo esplode la Belle Epoque, quel

vento di allegra follia e di totale assenza di pensieri e di preoccupazioni che dalla Francia conquista e travolge l’Europa, trova nello champagne il vino che più le assomiglia. Ed è la consacrazione internazionale. Nessun’altra bevanda ha mai conosciuto tanta popolarità. Per questa ragione i produttori francesi sono gelosissimi del loro vino e hanno dettato quattro regole imprescindibili perché si possa fregiare del nome glorioso. L’uva deve provenire unicamente dalla zona delimitata per legge dalla regione Champagne. Deve essere prodotta da tre soli vitigni: Pinot nero (uva che conferisce gusto e forza), Pinot Meunier (uva nera che dà freschezza e giovinezza), Chardonnay (uva bianca che aggiunge finezza ed eleganza).

I tre vitigni per la produzione dello Champagne: Pinot nero, Pinot meunier e Chardonnay

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Deve essere vinificato seguendo scrupolosamente le regole messe a punto dall’esperienza di secoli nella regione di Champagne e codificate dalla legge. Deve essere prodotto, elaborato e imbottigliato unicamente nella zona delimitata e sottoposto ai controlli previsti. La storia degli Spumanti italiani non è altrettanto ricca e le regole non sono altrettanto rigorose anche se da qualche tempo qualcosa si sta muovendo nella giusta direzione. Non molti sanno che alcuni spumanti nostrani hanno una tradizione più che centenaria: i pionieri - “Carlo Gancia” in Piemonte e “Antonio Carpenè” nel Veneto - hanno avviato la

loro produzione alla metà dell’800 raggiungendo presto altissimi livelli. Un altro gruppo di produttori: “Ferrari” di Trento, “Antinori” di Firenze e la “Cantina Sociale di Santa Maria La Versa” nell’Oltrepò pavese, si sono sviluppati nei primi anni del ‘900. L’Italia di allora, il cui reddito medio era poco più di un terzo di quello francese e inglese e quasi un quinto di quello americano, era forzatamente provinciale e subalterna anche in fatto di consumi d’èlite. I pochi che potevano permetterselo bevevano quasi esclusivamente Champagne e anche gli Spumanti italiani erano dichiarati “champagne” come rivela per esempio la lista dei vini di uno dei più celebri locali di Milano, l’Eden, nella quale nel 1898 è elencato lo “Champagne di Conegliano” (in realtà un Prosecco a 5 lire la bottiglia, mentre i veri Champagne costavano più del doppio). Oggi i nostri produttori non hanno più bisogno di ricorrere a questi mezzucci (che peraltro la Legge vieterebbe) perché con i lusinghieri risultati raggiunti, la differenza di qualità fra Spumanti italiani e Champagne si è andata via via assottigliando e, in certi casi, è addirittura scomparsa. Champagne dunque o Spumante per le Feste? Noi non avremmo dubbi: Spumanti italiani. Esiteremmo soltanto fra Spumanti del Nord o del Sud perché oggi agli storici spumanti del Nord, dell’Oltrepò pavese e della Franciacor-

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ta, si sono aggiunti degli strepitosi vini del meridione come quelli di San Severo in provincia di Foggia dove tre amici hanno creato da vitigni autoctoni spumanti di incredibile piacevolezza; hanno chiamato la loro ditta “D’Araprì” ispirandosi alle iniziali dei loro tre cognomi, D’Amico, Rapini e Priore. Ogni consumatore troverà la propria soddisfazione a seconda della possibilità di spesa, ma l’importante è non utilizzare in modo scorretto o banale un vino così magico. A questo proposito è bene tener presente alcuni consigli per berlo correttamente: l’ideale è immergere la bottiglia per mezz’ora circa in un secchiello pieno d’acqua e di ghiaccio che servirà per mantenerlo alla giusta temperatura (dai 6 ai 9 gradi). La scelta del bicchiere è molto importante, fa parte del rito e sarebbe un peccato rovinare l’incanto con un dettaglio sbagliato; i bicchieri ideali sono la “flute” lunga e sottile,

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quello a forma di tulipano che facilita lo sviluppo del perlage (le bollicine) e concentra meglio il bouquet, o la classica coppa che, secondo la tradizione francese, ha la forma e le proporzioni del seno piccolo e tondo della Pompadour, l’amante di Luigi XV. Ad ogni buon conto, qualunque bicchiere va bene purché sia di puro cristallo come ben si addice ad un vino di nobile lignaggio; ciò che non si deve assolutamente fare sono le tre cose che seguono: 1) versare lo Champagne o lo Spumante tenendo la bottiglia per il collo (bisogna reggerla dal fondo); 2) mettere ghiaccio nel bicchiere (orrore!); 3) eliminare la schiuma con l’uso degli orribili frullini che, in pochi secondi, distruggono un sapiente lavoro di molti anni. Un ultimo consiglio riguardo ai cibi da accompagnare a Spumanti e Champagne. Va sgomberato anzitutto il campo da un equivoco: i Brut, gli Extradry e i Sec non sono asso-

lutamente vini da accostare ai dolci o genericamente ai dessert come invece viene fatto troppo spesso. Un dessert deve essere accompagnato esclusivamente da un vino dolce: l’Italia ne è ricchissima (Moscato, Picolit, Passito di Pantelleria, Brachetto). I brut, gli extradry e i sec sono invece vini ideali come aperitivi o come vini da tutto pasto, particolarmente indicati con risotti o altri primi delicati e, naturalmente, con piatti di pesce, in particolare crostacei e carni bianche. L’abbinamento con Champagne (un grande Champagne) o con Spumante (un Grande spumante) e ostriche sarà magari ovvio ma rimane un classico. Sono infine perfetti come vini da meditazione e se volete una frase sulla quale meditare ve la suggerisce il grande poeta Ovidio: “La notte amore e vino non chiedono nessuna moderazione. È priva di pudore la notte. Bacco e amore non conoscono la paura”.

Per il piacere dei nostri lettori mi sembra giusto concludere questo articolo di Angelo e Piero Solci, due fra i più importanti enologi italiani, segnalando un grande vino, una loro creazione che nell’articolo hanno per modestia ignorato Si tratta dello spumante rosè Solci’s ottenuto da uve Pinot nero dell’Oltrepò Pavese e da piccole percentuali di Chardonnay dell’Alto Adige, in una cantina di Stradella in provincia di Pavia. Poche Maison di Champagne e pochissime ditte italiane producono rosè perché è necessario avere una raffinata padronanza delle tecniche enologiche per saper condurre gli equilibri delle trasformazioni che si effettuano nei 3 anni necessari al metodo classico. Piero e Angelo ci sono riusciti perché hanno trasfuso in questo Spumante tutta la loro competenza e passione ottenendo un vino straordinario dall’aspetto corallino, dal gusto delicatamente morbido, dal finissimo perlage, dal bouquet dove sono presenti profumo di cassis e lamponi. Gli abbinamenti ideali vanno dal foie gras ai patès più delicati, dal salmone più dolce alle ostriche, ai tartufi di mare ma, soprattutto, è perfetto nei momenti più belli e più gioiosi delle Feste, degli incontri piacevoli, dell’allegria, della gioia.

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di Regina Zather

Le bollicine in pentola La cena cosiddetta “di magro” della vigilia, il pranzo di Natale, il cenone di Capodanno, rappresentano momenti gastronomici particolari, che affondano le radici nella differenziata cultura regionale e nella tradizione secolare del nostro Bel Paese. Oltre, però, a questa speciale “gastronomia delle feste”, i cui menù si studiano e si allestiscono anche con alcuni giorni di anticipo, restano da preparare quelli degli altri giorni delle vacanze natalizie, quando si desidera stare in casa, nel caldo degli affetti familiari a chiacchierare, giocare a tombola, sonnecchiare, seguire qualche buon programma alla televisione. Per questi giorni suggeriamo alcune ricette “frizzanti” - che hanno come comune denominatore l’autarchico ingrediente “spumante” - che ha superato, ormai da tempo e in qualità, il più blasonato “champagne” degli sciovinisti “cugini” francesi.

”Risotto allo spumante” Ingredienti per 4 persone: 400 gr di riso Arborio

- 1 l di brodo - 40 gr. di burro - 1 cipolla media tritata finemente - 2 dl di panna - ½ bottiglia di spumante (Gavi o Cortese di Gavi spumante o altro spumante) - sale q.b. Attrezzatura: 1 casseruola - 1 bollitore per il brodo - 1 tritatutto - 1 cucchiaio di legno - 1 mestolo per servire Tempo di preparazione: 10’ + tempo per preparare il brodo; Tempo di cottura: 20’ Esecuzione: preparate per prima cosa il brodo e tenetelo nel bollitore a temperatura costante per tutto il tempo necessario alla cottura del risotto.

Nella casseruola, fate sciogliere il burro, unite la cipolla tritata e fatela rosolare senza che diventi scura. Unite il riso e fatelo tostare per qualche minuto. Aggiungete lo spumante, alzate un po’ la fiamma per lasciarlo evaporare completamente. Abbassate la fiamma ed unite un litro di brodo bollente, mescolate bene e fate cuocere per circa 15’. Il riso deve bollire piano piano, senza attaccarsi alla casseruola. Se necessario, aggiungete ancora un poco di brodo ed aggiustate di sale. Qualche minuto prima di toglierlo dal fuoco, aggiungete la panna e fatela leggermente

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addensare mantencando con il cucchiaio di legno. Versate il risotto sul piatto di portata precedentemente riscaldato e portate in tavola. Vino da accompagnare: Gavi o Cortese di Gavi spumante (Piemonte) o Lugana spumante (Lombardia) o Friuli Isonzo Pinot bianco spumante seco (Friuli - Venezia Giulia) servito a 9°. Nella preparazione del risotto, lo spumante va aggiunto a temperatura ambiente; se necessario, fatelo intiepidire per un minuto in un pentolino. Come abbinamento al piatto, invece, va servito ben fresco.

”Gamberi al perlage” Ingredienti per 4 persone: 20 gamberi di media grossezza - 3 cucchiai d’olio - 3 bicchieri di spu-

mante (Greco di Tufo spumante o altro spumante) - 1 carota - mezzo gambo di sedano - 1 cipolla piccola – 1 mazzetto di prezzemolo - 1 presa d’origano ed 1 di maggiorana - ½ limone a fettine - sale e pepe bianco q.b.

Tempo di preparazione: 15’ - Tempo di cottura: 20’ Esecuzione: lavate bene i gamberi e sgusciateli. Preparare il trito di verdure fresche, tenendo da parte alcuni rametti di rosmarino. Nella padella fate scaldare l’olio e soffriggere il trito di verdure, mescolando bene col cucchiaio di legno. Aggiungere un poco sale, pepe bianco e le spezie, amalgamando al trito di verdure. Adagiatevi i gamberi ed annaffiate con lo spumante. Abbassate leggermente la fiamma e fate cuocere per 15’, girando di tanto in tanto i crostacei. A cottura ultimata, disponete i gamberi su piatto di portata caldo, tenendolo vicino al fornello in modo che non si raffreddi e lasciate nel tegame il fondo di cottura. Se necessario, alzate leggermente la fiamma per addensare un po’ la salsa. Spegnete, togliete dal fuoco e passate al setaccio la salsa. Versatela quindi sui gamberi e decorate il piatto con i rametti di prezzemolo rimasti, alternati alle fettine di limone. Vino da accompagnare: Greco di Tufo spumante (Campania) o Alghero bianco spumante (Sardegna) o San Severo bianco spumante (Puglia) servito a 9°.

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Ricette

Attrezzatura: 1 tegame - 1 cucchiaio di legno - 1 tritatutto - 1 passaverdura


”Pescatrice alle bollicine” Ingredienti per 4 persone: 800 gr di pescatrice in tranci - 2 cucchiai di olio - 1 cipolla media ta-

gliata a spicchi - 1 bicchiere spumante (Verdicchio di Matelica spumante o altro spumante) - 1 fetta di limone - un paio di rametti prezzemolo legati con una foglia d’alloro - 1 pizzico di timo - un poco di farina - sale e pepe bianco q.b.

Attrezzatura: 1 padella con coperchio - 1 cucchiaio di legno - 1 paletta forata

Tempo di preparazione: 15’ - Tempo di cottura: 30’ Esecuzione: Lavate, asciugate e infarinate il pesce, scuotendo la farina in eccesso. Fate scaldare l’olio nella padella, adagiate i tranci di pescatrice e fateli dorare da entrambi i lati, girandoli con la paletta forata e facendo attenzione a che non si rompano. Mettete quindi gli spicchi di cipolla, poi versate lo spumante, aggiungete la fetta di limone, il mazzetto aromatico e il timo, salate e pepate leggermente. Abbassate la fiamma ed incoperchiate. Fate cuocere per circa 30’ voltando di tanto in tanto il pesce e badando a che il fondo di cottura non si attacchi. Se necessario, quasi a cottura ultimata fate addensare la salsa, a pentola scoperta ed aggiustate di sale e pepe. Servite con patate cotte al vapore o carote spumeggianti. Vino da accompagnare: Verdicchio di Matelica spumante (Marche) o Elba bianco spumante (Toscana) o Grecanico spumante (Sicilia) servito a 9°. Chi non gradisse il gusto della cipolla può eliminarla, la preparazione acquisterà un gusto più delicato.

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e Piero Solci

Corso di sommelier per ignari

di Angelo

Il “gusto” del vino Questo mese prendiamo in considerazione l’aspetto gustativo; per quanto riguarda il “gusto” si cerca di cogliere l’armonia tra i vari componenti, acidi e zuccheri, in equilibrio, in rapporto alle sensazioni recepite: • sensazione di acido: data dagli acidi tartarico, citrico e malico; • sensazione di morbidezza: data dagli alcolici, glicerina e zuccheri; • sensazione d’astringenza: data dal tannino (solo per i vini rossi). Ovviamente i bianchi sono equilibrati quando le prime 2 sensazioni sono ben armonizzate, i rossi quando tutte e 3 le sensazioni lo sono.

La disarmonia è facilmente individuabile, prestando attenzione anche all’eventuale retrogusto e agli aromi secondari. Per la dichiarazione si dividono i 3 principali gruppi di sostanze, dando una valutazione per ciascun gruppo:

GRUPPO DEGLI ZUCCHERI - secco senza zucchero (0% di zucchero); - rotondo, non del tutto secco (0,5%), - abboccato (comincia a tendere al dolce 1%), - amabile o sulla vena (2,5%), - pastoso (si indirizza al dolce 5%), - dolce, molto ricco di zuccheri (10%);

GRUPPO DEGLI ACIDI: - insipido (4%), - sapido (6%), - fresco (7%), - acidulo (9%), - acerbo (12%), - allappanante (14%);

GRUPPO DEGLI ALCOLICI: - leggero (tenore alcolico 9%), - caldo (12%), - molto caldo (15% o più). A questo punto, si arriva a dare il giudizio finale, aiutandosi con gli aromi percepiti per via retronasale e la persistenza aromatica. I giudizi si dividono in 2 gruppi, positivi e negativi: • sensazioni positive: - ampio (con pienezza d’armonia e persistenza), - armonico (equilibrato e composto), - austero (di stoffa e struttura consistente, tipico dei rossi con elevata corposità e alcolicità),

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- caratteristico (rispecchia la sua tipologia), - carezzevole (equilibrato, armonico e morbido, specie nei vini ricchi di glicerina), - corposo (strutturato per una buona presenza di sostanze estrattive), - elegante (con caratteristiche in armonia quasi perfetta), - fresco (vivacemente giovane e beverino, con acidità fissa e gradevole), - nerbo (pieno di corpo e carattere), netto (sinonimo di franco ed indica un vino che evidenzia un sapore fondamentale), - rotondo (morbido per buona presenza di glicerina e di zuccheri, con poca acidità totale, equilibrato), - razza (fusione d’armonia e tipicità), - stoffa (unisce armonicamente corpo, qualità e grado alcolico), - schietto (integra carattere e qualità, con sensazione franca e immediata), - suadente (convincente per equilibrio), - vellutato (con contenuto glicerico alto e ben armonizzato agli acidi dà sensazioni carezzevoli, dolci); • sensazioni negative: - acerbo (sensazione data da eccesso di acidi-

tà fissa oppure da non compiuto affinamento), - affumicato (sentore di fumo che può anche essere caratteristica positiva se il vitigno la possiede), - astringente o allappante (tipico dei rossi giovani, è dato da eccesso di tannino), - aggressivo (che colpisce le papille), - disarmonico (con elementi squilibrati), - spigoloso (disarmonico per troppo tannino, tipico dei rossi giovani), - tannico (indica un eccesso di tannino con sensazione ben definita di ruvidezza e astringenza, anche sinonimo di allappante).

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E’ tempo di...

Festività

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di Felice Maratea

I menù delle feste

Il pranzo di Natale

Ricordate il racconto di Karen Blixen “Il pranzo di Babette”, dal quale il regista Gabriel Axel ha tratto un delizioso film? Narra la storia di Madame Babette, la donna che due vecchie sorelle accolgono in casa come domestica ignorando che si tratta di una grande cuoca in fuga da Parigi perché ricercata dalla polizia per la sua partecipazione ai moti rivoluzionari del 1871. Babette non rivela a nessuno la sua identità, si adatta ai lavori più umili, a una cucina semplice e povera del tutto intonata alle con-

dizioni delle due anziane sorelle e alla loro appartenenza a una comunità di bigotti luterani. Quando però vince alla lotteria una ricca somma, decide di ringraziare le sue benefattrici a modo suo e spende tutto il denaro per offrire alla comunità un pranzo indimenticabile acquistando i cibi più esclusivi e ricercati, il meglio che trova sul mercato; crea così per gli ospiti sbalorditi un fantastico pranzo al termine del quale uno degli ospiti uscendo nella notte stellata dirà: “Le stelle sono venute più vicine”.

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salone intorno all’antico ulivo che come una fantastica scultura lignea troneggia in mezzo al ristorante. Poiché nel sogno tutto è possibile, abbiamo deciso di invitare i Solisti Veneti del Maestro Claudio Scimone per rallegrare la cena con i più bei motivi natalizi. Gli invitati sono già seduti e stanno brindando con un flute di spumante che i d’Araprì hanno creato a San Severo in provincia di Foggia. Nella bella cucina sono al lavoro gli chef giunti da varie località del Sud Italia con i loro collaboratori e gli ingredienti per realizzare i piatti del menù.

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© Gianni Renna

Allo stesso modo noi di “Gustare l’Italia” abbiamo deciso di organizzare per i nostri lettori due pranzi per festeggiare nel modo più degno il Natale e la notte che ci porterà nel 2011. Abbiamo scelto dieci fra gli chef della nostra predilezione che realizzeranno altrettanti favolosi piatti; non è stato facile e abbiamo esitato a lungo nella scelta ma finalmente abbiamo deciso e, chiedendo scusa a carissimi amici e grandi artisti del mestolo che per forza abbiamo dovuto escludere, ecco il nostro menù ideale, un pranzo da sogno per Natale e un memorabile cenone di fine anno. Innanzitutto dobbiamo scegliere il luogo dove ambientarli: al nord o al sud? Al mare o in montagna? Cominciamo dal pranzo del 25 dicembre; in tutta Italia questo è un giorno di festa per la famiglia, il giorno in cui ci si ritrova con le persone care, il giorno che resta nel cuore e nei ricordi di ognuno. Al Sud però, per il temperamento dei meridionali e la loro passionalità, Natale è forse un po’ più Natale che al Nord. Restiamo dunque in meridione, in uno dei più piacevoli locali di Puglia, al Melograno di Monopoli, l’antica masseria ristrutturata con gusto e amore da Camillo Guerra uno degli ultimi gentiluomini di un mondo che va scomparendo; Il pranzo di Natale avrà dunque luogo nel luminoso


Ed ecco che l’orchestra attacca le prime note di “Stille nacht”; è il segnale convenuto per dare il via alla cena mentre fa il suo ingresso in sala, alla testa di un drappello di camerieri, Giuseppe Guerra che ha lasciato la Peschiera, il delizioso ristorante sulla riviera che da Monopoli porta a Savelletri, per venire in aiuto a papà Camillo a “Il Melograno”.

“Burrata della Valle d’Itria al caviale del Caspio”

© Gianni Renna

E’ una creazione che Camillo Guerra ha riportato da un suo viaggio di qualche anno fa a San Pietroburgo ispirata ai “blinis” russi che si ottengono dall’abbinamento di panna acida e caviale. Camillo ha pensato di ottenere un’unione superiore unendo al più costoso caviale appena giunto dai mari del Nord la vera, autentica e inarrivabile burrata della Valle d’Itria. In Russia accompagnano i “blinis” con abbondanti libagioni di vodka, ma gli ospiti de “Il Melograno” saranno più felici se con la “Burrata al caviale” berranno il “Donna Lisa”, un bianco del Salento che dà fragranza, luce, fantasia. Lo produce il barone Leone de Castris, il patron di un’azienda storica che nel 1945, su richiesta di un generale americano, imbottigliò e fece conoscere al mondo il primo rosato pugliese, il “Five Roses”.

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“Strascinati maritati con le orecchiette e benedetti dall’olio di Andria” L’orchestra attacca il secondo brano, la deliziosa melodia di “Quanno nascette Ninno” scritta nell’800 da Alfonso dè Liguori, dalla quale poi è stata ricavata la popolare canzone natalizia “Tu scendi dalle stelle”. E’ il momento del primo piatto cucinato dall’equipe agli ordini di Pietro Zito, lo chef di Montegrosso, il minuscolo borgo agricolo a pochi chilometri da Andria. Come da abitudine tutti gli ingredienti della sua cucina sono ricercati fra i più semplici e preziosi che la terra di Puglia regala con generosità; ogni giorno Pietro è disposto a percorrere chilometri e chilometri, di masseria in masseria per recarsi nei luoghi più sperduti alla ricerca di un certo formaggio, di una certa salsiccia, di erbe sempre più rare e dimenticate, e non è contento se non trova il meglio da offrire con orgoglio ai suoi fortunati ospiti. Per questo pranzo ha preparato “Strascinati maritati con orecchiette e benedetti dall’olio di Andria”, un’invenzione divertente e di grande piacevolezza; le paste arrivano a tavola separate fra loro, insieme ad un corteo di purea di fave, olive nere alla brace e alla burrata di Andria avvolta in asfodeli. Ogni commensale unirà i vari ingredienti secondo il suo gusto e l’unione verrà benedetta da un filo di olio extravergine e sarà glorificata dal vino “Vigna Grande” del conte Spagnoletti, un uvaggio in purezza di uva di Troia, il primo vitigno arrivato in Italia millenni fa portato dai Messapi.

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“Ricciola scottata al pepe di Sechwann e agrumi con frullato di piselli e zenzero”.

© Gianni Renna

Quando l’orchestra attacca un potpourri delle immortali melodie napoletane, vuol dire che è arrivato il momento di un favoloso piatto che ci regala la famiglia Iaccarino, arrivata al gran completo da Sant’Agata. Alfonso con Livia, la sua deliziosa compagna, e i figli Mario ed Ernesto hanno lasciato il loro paese dal quale si gode la emozionante visione del Golfo di Napoli da una parte (con Ischia e Capri) e lo splendore del golfo Amalfitano dall’altra. Gli Iaccarino sono arrivati fino a Monopoli per regalare ai lettori di “Gustare l’Italia” un superbo piatto con le “ricciole”, i pesci freschissimi che i pescatori gli hanno procurato; le altre materie prime provengono da “Le Peracciole”, l’azienda agricola che prende il nome dagli alberi di pane che la circondano, un luogo di rara bellezza a Punta Campanella, l’estremo promontorio della penisola sorrentina che si protende verso Capri. Tra ettari di terra vulcanica nera e sabbiosa fra agavi, liutischi e asfodeli dove Alfonso cura l’orto e l’uliveto che gli procurano le verdure, le erbe aromatiche e l’eccezionale olio che esalta la sua cucina.

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“Filetto di vitello dell’Appenino centrale alle erbe di montagna con cipolle croccanti” L’orchestra che esegue “Era de maggio”, forse la più bella canzone napoletana di tutti i tempi, ci ricorda che il prossimo piatto arriva ancora dalla Campania; è infatti una delle più gustose invenzioni della famiglia Fischetti che a Vallesaccarda, ai confini dell’Irpinia, a pochi chilometri da Venosa, la terra di Orazio il poeta della gioia e dell’amore, hanno creato una vera oasi per viandanti in cerca di una meta dove riscoprire cibi dimenticati che riportano profumi e sapori di un tempo lontano. Ed è certo una gioia per lo spirito oltre che per il palato per chi ha nel cuore i profumi e i sapori di un tempo lontano, vedere arrivare in tavola, in un pentolone di rame, ancora sfrigolante, emanando profumi che avvolgono e rallegrano i sensi, il “Filetto di vitello alle erbe di montagna”; al palato è morbido e succulento, le erbe di montagna ne arricchiscono l’aroma senza soffocarlo. Carmine, il sommelier della famiglia ha scelto per accompagnare questo cibo il grandissimo Serpico dell’Azienda “Feudi di San Gregorio” un vertice assoluto nei vini campani il cui nome, secondo Veronelli deriverebbe da un dio egizio Serapi, con attributi solari e poter taumaturgici.

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La creazione del dessert è stata affidata al miglior ristorante di Calabria, la “Locanda Alia” di Castrovillari condotta da Gaetano, chef principe e Pinuccio, maitre, sommelier e studioso delle tradizioni gastronomiche più remote della sua regione. La loro cucina è classica non perché è rimasta immobile nel tempo, ma perché usa la tradizione come punto di partenza verso nuove invenzioni, nuove avventure del gusto.

© Gianni Renna

“Insalata di fichi secchi in salsa di cioccolata bianca alla menta” Il piacevolissimo dessert che chiude questo straordinario pranzo ha come base il frutto per il quale la Calabria è famosa nel mondo: il fico “dottato”. Il piatto è un esempio di come si può trasformare con fantasia un cibo senza tradirne le origini. I fichi “dottati” venivano da tempo immemorabile imbottiti di mandorle e noci e poi passati al forno; Gaetano, dopo aver compiuto questa operazione li taglia a lamelle sottili, li ricopre di cioccolato bianco profumato alla menta e li spruzza di “diavoletti”, i minuscoli zuccherini colorati che in Calabria sono spesso presenti in ogni tipo di dolce. Ne risulta un cibo divertente, piacevolissimo che sarà accompagnato da un rosolio, uno dei tanti della casa. Pinuccio è un appassionato creatore di questi liquori che nascono dall’olio di rose e che nel sud hanno trovato il loro massimo splendore. Per il nostro pranzo ha scelto quello che più ci ricorda il Natale di una volta, il “Rosolio d’oro” fatto con pistilli di zafferano, peperoncino, cannella e buccia d’arancia, una delizia antica da centellinare ascoltando una deliziosa “pizzica”, che il complesso che nel frattempo è venuto a sostituire i Solisti Veneti sta eseguendo magistralmente come quando si esibiscono nella “Notte della Taranta”, la manifestazione di Melpignano che da molti anni è diventata una delle più importanti avvenimenti musicali del Salento. Non credo che ci sia modo più allegro e poetico di trascorrere un Natale sereno, felice e gastronomicamente perfetto come quello che abbiamo appena vissuto. Peccato che sia stato soltanto un sogno.

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© Archivio Ristorante “Ambasciata” Quistello

di Felice Maratea

Il cenone di San Silvestro

Per il cenone di San Silvestro non è stato facile indicare gli chef che dovrebbero realizzarlo; come lasciar fuori dalla rosa personaggi come Cracco, Gualtiero, Santin, Annie Feolde… ma poiché è necessario la scelta tra molti è caduta sugli chef che stiamo per presentarvi e che certamente daranno vita ad uno dei più fantastici cenoni di fine anno, un fine d’anno speciale perché conclude il primo decennio per 2000. Per il luogo dove gustarlo abbiamo scelto l’”Ambasciata” di Quistello dei fratelli Carlo e Romano Tamani, uno dei luoghi più allegramente folli di tutta la ristorazione italiana.

La prima volta che vi sono entrato, forse suggestionato dalle note di una “Toccata e fuga” di Bach, mi era sembrato di essere capitato nella scenografia di un’opera del Seicento o nell’atelier di un antiquario un po’ pazzo: dappertutto splendide ceramiche, quadri, argenti, preziosi tappeti, broccati, cristalli, stampe di pregio, specchiere, pizzi, merletti, candelabri e cascate di fiori, bouquet di gigli, tulipani, lylium, giaggioli, anthurium, peonie… credo che non ci sia luogo migliore che la sala barocca, geniale, fantasiosa, dell’Ambasciata, per dare l’addio ad un anno non proprio esaltante, soprattutto

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per le demenziali vicende politiche. Per l’orchestra che allieterà serata non abbiamo badato a spese e abbiamo scritturato la Wiener Philarmoniker di Vienna al gran completo che sotto la guida di Lorin Maazel sarà la colonna sonora della cena che segnerà la fine del primo decennio del XXI secolo. Gli invitati sono già seduti e stanno brindando con una flute di prezioso spumante. Nella cucina a vista sono al lavoro i maestri giunti da varie parti d’Italia con i loro collaboratori e gli ingredienti per realizzare i piatti dl menu; Romano si fa in quattro per mettere i colleghi a proprio agio. Ed ecco risuonare un colpo di gong. E’ il segnale convenuto. Dall’orchestra rotolano le prime note de “Sul bel Danubio blu” di Johann Strauss mentre fa il suo ingresso in sala, alla testa di un drappello di camerieri, Giuseppe Guerra del ristorante “La Peschiera” di Monopoli che, come ouverture, al cenone ha preparato un piatto ideato per gli amici di “Gustare l’Italia”:

leghi è convinto di avere una missione da compiere, quella di continuare le tradizioni, di farle rivivere e prosperare, di difendere la genuinità dei prodotti a salvaguardia della salute e dell’armonia interiore. L’orchestra ha ora attaccato le prime note della Vedova Allegra, di Franz Lehar per salutare l’ingresso del nuovo piatto:

© Archivio Ristorante “Ambasciata” Quistello

“Tartare di tonno al fumo aromatico” E’ un grande avvio; un lungo applauso saluta il felice inizio e Giuseppe ringrazia come un artista al termine della sua esibizione. Come i migliori dei suoi col-

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“Tagliatelle all’Antica con tartufi di Dovadola” suggerito da Gianfranco Bolognesi de ““La Frasca” di Milano Marittima e realizzato dal suo chef Marco Cavallucci. Pochi come Bolognesi sanno interpretare la difficile arte della ristorazione, pochi hanno la sua cultura, la sua creatività, la sua fantasia. E’ affascinato dalle cose semplici, dai buoni piatti con i sapori naturali, dalla bellezza delle preparazioni, dai profumi e dall’eccellenza degli ingredienti che provengono dalla sua terra. Le “Tagliatelle all’Antica” sono un piatto di alta semplicità dove si avvertono il profumo della campagna, l’amore per la natura, la forza dell’antica sapienza contadina. Sta scoccare la mezzanotte dell’ultimo giorno del primo decennio ma questa ricetta che delizia i commensali è ancora come quella che realizzava

la nonna di Gianfranco; vi è stata solo aggiunta una grattatina di tartufi di Dovadola, il paesino a pochi km da Castrocaro, sulla statale per Firenze. Molti ospiti si augurano che in questa notte di magia i tartufi non smentiscano la loro fama di cibo afrodisiaco. L’atmosfera si sta animando; si compie il miracolo che già altre volte si è notato nel corso di un pranzo perfetto: i commensali, e in modo particolare le signore, stanno ringiovanendo Lorin Maazel dà ora il via alla tarantella di Gioacchino Rossini. Non c’è musica più adatta per salutare la cucina allegra, prepotente, solare di Cesare Giaccone che per il cenone dell’”Ambasciata” ha lasciato il suo ristorante

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© Gianni Renna

“Villa Contessa Rosa” di Serralunga d’Alba. Con il rigore di sempre ha portato con sé i migliori ingredienti per dare vita al

“Capretto alla Cesare” Le note scintillanti del can can degli dèi dell’”Orfeo all’inferno” di Offenbach, che l’orchestra sta eseguendo con scintillante allegria, preannunciano l’arrivo del dessert: è una creazione di Nico de La Iglesia, lo chef castigliano che guida la cucina del “Motto del Gallo”, forse il miglior ristorante del Canton Ticino. Ha realizzato questa

“Cesta di frutti esotici e soufflé freddo al profumo d’Alba” che incanta per la sua eleganza cromatica e, come nel gran finale dei fuochi d’artificio, regala un’esplosione di sapori fino alla geniale

intuizione del gelato al profumo di tartufo d’Alba, un vero colpo di scena. Piero Tenca, sommelier di alta scuola, ha scelto in abbinamento il Moscato Passito Doc “La Martignana”, prodotto con grande amore da Salvatore Murana a Pantelleria. Il suo profumo è perfetto per esaltare i delicati gusti di questo prelibato dolce. Siamo ormai arrivati alla fine di questa cena dove tutto è un sogno, tranne i piatti che sono una gustosa realtà. Tra poco l’antica pendola batterà i rintocchi che segnano la fine del 2010. Già è pronto uno Champagne eccezionale, il più esclusivo, il più sensuale, il più raffinato. Nell’attesa della mezzanotte, mentre l’orchestra esegue le note festose della Marcia di Radetzky qualche ospite esce nella serenità della notte per respirare l’aria fresca che arriva dal vicino Secchia e si accorge che, come nel racconto di Karen Blixen, dopo quella cena “le stelle sono venute più vicine”.

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di Fabrizio Cimino

Italia da scoprire

Sextantio, uno dei borghi più belli d’Italia

In un giorno piovoso di novembre, Santo Stefano di Sessanio in provincia dell’Aquila, uno splendido borgo immerso nel verde del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, attende i visitatori dall’alto della sua rocca, con alcune case ancora puntellate dopo il sisma abruzzese dell’aprile 2009. Nonostante le gravi ferite inferte dal terremoto, il paese conserva intatto il suo fascino rinascimentale e l’accoglienza calda della popolazione che, anche in un giorno festivo, ha le sue botteghe artigiane aperte a chi si avventura fra le poderose mura del borgo fortificato. La rocca di Santo Stefano, posta ad un’altitudine sul livello del mare di 1200 metri, domina la valle insieme agli altri borghi di Cala-

scio, Rocca Calascio e Castel del Monte. La torre medicea, ora crollata, ma già in fase di ricostruzione, è il simbolo del paese e lo domina dall’alto dei suoi merli di difesa. Il borgo è un insieme di case in pietra, tetti in legno, “Rue”, cioè strade strette protette da archi e pareti enormi. Si percorrono solo a piedi queste stradine con scale e volte in pietra, fino alla sommità della rocca, e a volte è necessario transitare l’uno dietro l’altro per la angustia delle Rue. Sembra di immergersi in un passato lontano, ai tempi dei Medici, Granduchi di Toscana, proprietari per quasi due secoli di questi territori. Dalla seconda metà del XVI secolo fino al XVIII, infatti, il borgo ebbe la sua massima importanza; commerciava con la Signoria di

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Un’esperienza davvero gradevole, si vive il fascino del ritorno alle cose semplici, alla vita riservata di montagna e alla sensazione di protezione e di calore che le case in pietra con le volte basse, conferiscono a chi, infreddolito e bagnato dalla pioggia, vi si ripara.

© Fabrizio Cimino (2)

Firenze e la merce preziosa era la lana “Carfagna” che veniva prodotta qui, lavorata a Firenze e poi venduta in tutto il mondo. Ci infiliamo in una bottega vicino alla piazza e chiediamo delle famose “lenticchie di montagna” che sono piccoline e gustosissime. Troviamo in realtà una ragazza proveniente dalla Romania che ci illustra come vengono coltivate; è una bravissima commerciante, ci offre un assaggio di formaggio pecorino bagnato al mosto con il contorno di miele d’acacia, prodotto molto diffuso sulle montagne dell’aquilano. Profumi e accostamenti di gusto ci trattengono dall’uscire dalla bottega anche per la pioggia incessante. Oltre al formaggio ed al miele acquistiamo le lenticchie, alle quali è dedicata una Sagra che si svolge in settembre, prodotto molto difficile da trovare al di fuori del borgo per la produzione artigianale e la scarsa disponibilità di terreni coltivabili.

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© Fabrizio Cimino

Santo Stefano è stato acquistato casa per casa, in gran parte, da un giovane imprenditore svedese, Daniele Kihlgren, che lo ha ristrutturato mantenendo le caratteristiche peculiari del borgo, addirittura conservando sulle pareti delle stanze il colore della fuliggine che un tempo fuoriusciva dalle lampade ad olio e dai focolari. Ha realizzato un albergo diffuso, cioè diffuso nel paese; si prenota via e-mail, per telefono o nelle migliori agenzie, ci si ritrova in una casa di altri tempi arredata con gusto semplice e di classe; si trascorre una vacanza all’inse-

gna della pace, della tranquillità e della buona cucina, con la possibilità di effettuare escursioni sulla vicina piana di Campo Imperatore, da cui si può ammirare il massiccio del Gran Sasso d’Italia. Vi sono anche altri piccoli affittacamere, trattorie e ritrovi diffusi in tutto il borgo, oltre a botteghe di artigiane che lavorano al “tombolo”, una tecnica di ricamo molto fine per rendere preziosa la biancheria d’arredo. Santo Stefano è raggiungibile in automobile sia da L’Aquila che da Pescara in non più di tre quarti d’ora di viaggio da entrambe le città, percorrendo la S.S. n° 17 fino al paese di Barisciano per chi proviene dall’Aquila e fino a San Pio delle Camere per chi proviene da Pescara, poi si imboccano le strade provinciali di montagna seguendo le facili indicazioni. Pescara, grazie al suo piccolo ma efficientissimo aeroporto, consente non solo ai turisti del nord Italia, ma anche ai turisti stranieri, soprattutto inglesi e francesi, di recarsi in questi luoghi davvero spettacolari in breve tempo e a costi contenuti. Molti di loro acquistano anche immobili rurali che poi ristrutturano e vi trascorrono le loro vacanze. Uno dei piatti caratteristici di Santo Stefano di Sessanio è la zuppa di lenticchie con cubetti di pane fritto in olio d’oliva extravergine; si può assaggiare anche la variante con le patate, le “volarelle” pasta all’uovo tagliata a quadratini, e pezzi di salsiccia.

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© Fabrizio Cimino

Durante i primi caldi di maggio, è possibile raccogliere, nelle vicinanze degli stazzi di montagna gli “olaci”, spinaci selvatici di montagna dal sapore inimitabile. Cotti in acqua bollente, poi “ripassati” in padella con olio extravergine di oliva, sono una leccornia rara e preziosa.

Non è possibile coltivarli e hanno un periodo di raccolta molto breve che va da fine aprile a maggio inoltrato. Il formaggio pecorino di Campo Imperatore è senz’altro uno dei protagonisti della tavola, come pure l’agnello di montagna alla “scottadito” cioè alla brace da mangiare con le mani afferrando le “costolette” che, appunto perché appena cotte, scottano le dita. Il tutto innaffiato da un ottimo vino D.O.C. Montepulciano d’Abruzzo delle valli di Ofena e Capestrano, che con il suo giusto contenuto in acidità e tannino, deterge la bocca dai grassi intensi e dolci delle carni ovine e dei formaggi e ben si adatta ai profumi intensi con il suo gusto persistente che ricorda quello delle amarene.

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Le lenticchie, da sole o come contorno, sono un classico delle feste natalizie e di Capodanno, perché da sempre sono considerate il simbolo della fortuna e della ricchezza, a causa del loro aspetto: questi legumi ricordano piccole monete che dovrebbero garantire prosperità e soldi per l’anno a venire. Secondo la tradizione, ne va mangiato un cucchiaio prima di brindare e all’ultimo rintocco della mezzanotte, quando sta per scoccare l’anno nuovo, ma con una piccola accortezza: vanno mangiate senza olio, altrimenti i soldi scivolano via. Questo è un rituale che affonda le radici nell’antichità e in particolare nei riti pagani durante i quali si regalavano dei portamonete pieni di lenticchie l’ultimo giorno dell’anno.

“Cotechino e lenticchie”

Ricetta

Ingredienti (per 4 persone) 1 cotechino di maiale di 600 g; 400 g di lenticchie; 1 cipolla; 2 coste di sedano; 2 cucchiai di olio d’oliva; 20 g di burro; sale; pepe Preparazione: Cuocete il cotechino in acqua bollente, togliete delicatamente a caldo la pelle, lasciatelo raffreddare 10 minuti, e poi tagliatelo a fette sottili In un’ altra pentola cuocete in acqua abbondante le lenticchie con cipolla sedano e sale a sensazione; fate sobbollire per un tempo sufficiente a cuocere “al dente” le lenticchie dipende dal tipo delle stesse. In un tegame scaldate un poco d’olio extravergine d’oliva, una mezza cipolla e una costa di sedano tritate. Soffriggete le lenticchie ben sgocciolate e il trito a fuoco lento, poi aggiungete le

fette di cotechino per amalgamare il tutto. Disponete sul piatto le fette di cotechino e intorno le lenticchie e aggiungete sale e pepe e servitele ben calde. Accompagnatele con un Montepulciano d’Abruzzo giovane non passato in barrique oppure con un Rosso Piceno giovane. È necessario un vino tannico per smorzare l’untuosità del cotechino e profumato di frutta rossa per accompagnare armonicamente le lenticchie.

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17

Panettone “milanese”

34

Melanzane alla Norma

39

Pane “cunzato” di Don Paolino

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Carpaccio di gamberoni all’Olio Vanigliato con riso selvaggio tartufato

Indice delle ricette

Maccheroncini ripieni di ostriche in salsa di peperoni 53

Orecchiette alle cime di rapa

54

Tiella di riso, patate e cozze alla barese

58

Cassöeula

59

Risotto alla milanese

72

Risotto allo spumante

73

Gamberi al perlage

74

Pescatrice alle bollicine

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Carote spumeggianti

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Cotechino e lenticchie

Tante altre ricette su www.gustarelitalia.it Gustare l’Italia 98


La Puglia a Milano

Ristorante “Al Carretto” la più autentica e genuina cucina pugliese

“Al Carretto” - Frazione Bonirola - Via Milano, 30 - 20083 Gaggiano (Mi) Per informazioni: 02 9085254 - 340 3577650 (Sara) - 333 6196004 (Michele)

Segnalato da


L’amore per la qualità Il rispetto per la tradizione Benagiano Pastificio srl Corso Italia 138-140/b - 70029 Santeramo in Colle (Ba) Tel. 080-3036036 - E-mail: benagiano@benagiano.it - Website: www.benagiano.it


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