Periodico
di
cultura
enogastronomica
e
turismo
Anno 2 - Numero 9 - Febbraio 2011
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Tempo d’Amore
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La tenuta Cà da Meo di Magda Pedrini è il risultato di un profondo amore per una terra che, grazie alla sua particolare posizione, da origine a coltivazioni assolutamente straordinarie nell’ambito dei vitigni che producono eccezionali Gavi docg. Da questa storia così carica di sentimenti umani e di lavoro nascono i vini della Tenuta che arrivano ad arricchire di stile e di gusto le nostre tavole. Tel. +39 0143 667923 Fax +39 0143 667929 • www.magdapedrini.it • E-mail: nuovacadameo@virgilio.it
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Gustare l’Italia
Editoriale
I proverbi sono la saggezza dei popoli? Speriamo non sempre perché è appena incominciato febbraio che è piuttosto maltrattato nella considerazione popolare; il 2 febbraio, giorno della Candelora, un vecchio proverbio lombardo sembra ottimista: “de l’invérnu numm sèmm foera” (dell’inverno siamo fuori). Ma subito mette in guardia: “ma s’el piov o’l tira vent, per 40 dì ghe semm dentr” (ma se piove o tira vento, per 40 giorni ci siamo ancora dentro). Niente paura però perché un altro detto ci assicura che, in ogni caso, “a San Mattia - 24 febbraio - la nev la va via”. Tutto bene dunque? Sì, se non ci fosse un altro proverbio lombardo a metterci in guardia: “Febrar l’è curt, ma l’è pegg che un turch” (febbraio è corto ma è peggio di un turco) e sono pure d’accordo in Toscana: “Febbraio febbraietto corto e maledetto” per non parlare dei marchigiani: “Febraro corto e amaro”… Possiamo a questo punto tranquillizzare i nostri lettori: il febbraio 2011 sarà di certo ancora corto - solo l’anno prossimo si allungherà di un giorno - ma sicuramente non amaro perché ci attendono appuntamenti allegri e piacevoli. Il primo di questi sarà il 14, giorno di San Valentino festa degli innamorati; per festeggiare in modo gioioso questa ricorrenza la nostra rivista ha alcuni consigli da dare a coloro che oltre ad amarsi sono anche dei gourmet. Una vecchia opinione riteneva che amore e cibo non vadano d’accordo; l’amante ideale, nella banalità di certi autori del secolo scorso, era la donna - crisi che rifiutava sdegnosamente la pastasciutta, in sintonia in questo con il movimento futurista di Marinetti. Per molti ancora oggi l’amore è soltanto abbandono, sospiri, tormenti, privazioni… l’amore deve essere anoressico. Di conseguenza a giudizio di costoro sembra che per gli innamorati in giro per il mondo sia sufficiente trovare un albergo con una bella camera con vista sul magico golfo di Amalfi, sulle Dolomiti, sul lago di Garda, ed è del tutto irrilevante che la cucina sia priva di fantasia, senza rispetto per la tradizione, senza attenzione alla qualità e alla genuinità degli ingredienti, e che i vini siano dozzinali, scelti con superficialità, senza passione. Noi riteniamo al contrario che due persone che si amano, se sono anche veri gourmet, qualunque sia il grado di calore della loro passione, quando entrano in un ristorante vogliono gustare i cibi di una grande cucina, i vini esaltanti di una ricca cantina e godere di un sereno riposo in una camera di raffinata eleganza avvolta nel silenzio. A costoro dedichiamo il servizio di pagina 34 dove abbiamo fatto una rassegna di luoghi che uniscono ad una cucina sensuale ed ispirata la possibilità di un romantico soggiorno che sia un perfetto rifugio per i sensi e per lo spirito. Allo stesso modo a chi per ragioni di lavoro, di interesse, di curiosità o soltanto per il desiderio di farsi del male sia obbligato a seguire dal vivo il Festival di Sanremo (dal 15 al 19 febbraio) cercheremo di rendere più allegro e piacevole il soggiorno consigliando i ristoranti e i luoghi da visitare che non mancano nella riviera di Ponente, soprattutto nell’entroterra. Non dimentichiamo infine che in molte città d’Italia, prima tra tutte Venezia, sta per incominciare il Carnevale durante il quale, com’è noto, ogni scherzo vale, tranne quello di farci mangiare male e bere peggio. Da questa orrenda alternativa cercherà come al solito di difendervi “Gustare l’Italia”.
Sommario febbraio 2011
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IN CUCINA
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IN TAVOLA
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La madeleine di... Federica Panicucci
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A tavola con le stelle La cena dell’acquario
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Peccati di gola I fagioli di Sorana
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L’artigiano in tavola Il cavatappi: piccolo custode di cultura, tradizione e tecnologia
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L’artigiano in cucina Cucina a vapore? Che passione!
Gustare l’Italia
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I ristoranti di San Valentino
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Italia da scoprire I cibi di San Valentino
46
Le lune di Gustare l’Italia “Villa Franceschi”
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Frattaminore rinnova la festa della “Candelora”
54
Libri da mangiare
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Indice ricette
Periodico di cultura enogastronomica e turismo - Anno 2 - Numero 9 Febbraio 2011 - Reg. Tribunale di Milano n° 201 del 14/04/2010 Direttore Responsabile: Arabella Pezza - Direttore Editoriale: Cino Tortorella Caporedattore: Raffaele Montagna - Art Director: Daniele Colzani Segretaria di Redazione: Mara Guerrieri - Responsabile Diffusione: Roberto Zanutto Grafica e impaginazione: Daniele Colzani - Giovanni Di Gregorio Concessionaria pubblicità: Soltrade Communication - Via Mirabello, 10 - 00195 Roma Responsabile Trattamento Dati Personali: Maurizio Villa L’editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti e la possibilità di richiedere gratuitamente la rettifica o cancellazione ai sensi dell’art. 7 del D. Lgs 196/2003 scrivendo al Responsabile del Trattamento Dati Personali: Soltrade Communication - Via Abbadesse, 20 - 20124 Milano Contatti: info@gustarelitalia.it - www.gustarelitalia.it Redazioni: Milano: Via Milanese, 5/11 - 20099 Sesto San Giovanni (MI) - Roma: Via Mirabello, 18 - 00195 Roma Puglia: Via Trento, 10 - 70017 Putignano (BA) - Sicilia: Via Cannezio, 22 - 97100 Ragusa Hanno collaborato a questo numero: Alice Balestrini - Paolo Bonagura - Fabrizio Cimino - Bruno Goglione - Felice Maratea - Regina Zather
Fotografi e Uffici Stampa: Emanuela Cattaneo - Saverio Chiappalone - Fabrizio Cimino - Max Mencarelli - Agenzia in Liguria - Associazione Città dell’Olio - Associazione “Il Ghiareto” Onlus - IAT Comune di Terni - Artis Italy - Mediaset S.p.A. - Morgue File - Relais & Chateaux San Pietro Positano - Sanremo Promotion SPA - Weber Shandwick
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Gustare l’Italia
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In cucina
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Ho incontrato Federica negli studi di Mediaset dove conduce il programma “Mattino Cinque” con Paolo Del Debbio; la ricordavo al suo debutto in televisione nel 1987 come “centralinista” di “Portobello”, storico programma di Enzo Tortora ed è sorprendente come gli anni siano scivolati sul suo luminoso viso e sul suo corpo senza lasciar tracce: sempre bella, fresca, luminosa. E sempre più brava. Sono stato invitato alla trasmissione per parlare di un incidente che mi è capitato tre anni fa, un caso che gli scienziati chiamano “pre-morte”; il cuore mi si era fermato per alcuni minuti durante i quali mi sono trovato proiettato in un’altra dimensione, sono stato inondato da una luce “liquida” ed ho trascorso momenti di pace profonda riascoltando voci di persone care scomparse. È stata un’emozione intensa e da quando sono ritornato alla realtà cerco di far arrivare a tutti un messaggio: “Non abbiate paura. Quando il vostro cuore si fermerà non sarà la fine; e non vi troverete soli”. Insieme a me c’erano altre persone che hanno vissuto la mia stessa esperienza e la raccontavano quasi con le mie stesse parole; c’era però anche qualche scettico che attribuiva quanto ci era accaduto, ad una sorta di allucinazione come accade quando si è sotto l’effetto di una droga o quando si so-
© Ufficio Stampa Mediaset
di Cino Tortorella
La madeleine di...
Federica Panicucci
gna… Era inutile obiettare che non tutti i sogni sono uguali e la droga provoca sensazioni diverse da individuo al individuo. Federica ha condotto il non facile dibattito che ne è seguito con molta classe e sensibilità; al termine della trasmissione mi sono complimentato con lei dicendole che ha fatto davvero molta strada da quando aveva iniziato la sua prima esperienza nel mondo dello spettacolo a Portobello.
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Mi dice che in realtà aveva cominciato molto prima, a cinque anni, quando aveva partecipato ad uno spettacolo musicale cantando una canzone; e mi mostra ridendo una foto di lei bambina insieme a mio nonno che qualcuno ricorderà nei panni di Mago Zurlì. “Stendiamo un pietoso velo su Mago Zurlì le dico - attualmente faccio qualcosa di molto più serio: sono direttore editoriale della rivista “Gustare l’Italia” e ho partecipato volentieri alla tua trasmissione anche per intervistarti”. “Eccomi pronta - mi dice - cosa vuoi sapere ? Sono toscana, nata a Cecina, mi piace il buon mangiare e il buon bere. Sono anche un’ottima cuoca e quando ho tempo mi metto ai fornelli e cucino per tutta la famiglia; la mia specialità sono favolose lasagne al ragù per le quali mio marito e i miei figli vanno matti. Se vuoi ti do la ricetta per i tuoi lettori”. “Ti ringrazio per la ricetta che i lettori di “Gustare l’Italia” apprezzeranno certamente, ma voglio sapere da te qual è la tua “madeleine”, qual è il cibo che quando lo assapori ti riporta indietro nel passato, e ti fa ricordare chi forse non c’è più o che ha qualche ruga e qualche capello bianco in più ?” Sorride come ad inseguire un piacevole dolcissimo ricordo, poi mi dice: “Non è un piatto molto importante, è una merenda; noi a Cecina la chiamiamo la “la fettunta”; me la faceva sempre mia nonna quando ero bambina…Nei miei ricordi non c’è di più buono”. “Posso averne la ricetta ?” “Certo ma non cercare poi di farla, perché ti sarà impossibile. Anch’io qualche volta ci provo ma non riesco mai a farle come la nonna “Chiarina”.
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“Chiarina ? Non ci può essere un nome più bello per una nonna” dico “E lei era proprio come il suo nome: lucente, serena, sempre allegra… quando era l’ora della merenda prendeva una fetta di pane, tagliava un pomodoro che strofinava da una parte e dall’altra parte del pane, un pizzico di sale e poi una pioggerellina d’olio. Ed io ero in Paradiso”. Con tutto il rispetto per la nonna Chiarina e i suoi ricordi, le dico che non mi sembra una
ricetta così difficile da realizzare…mi sembra che non sia difficile procurarsi una fetta di pane … Mi interrompe: “Si ma quale pane ? non quello che troppo spesso si mangia oggi… Quello dei contadini toscani, cotto nel forno a legna, senza sale…pane che sapeva di pane e non di cartone come spesso succede oggi… e il pomodoro… non quello dei supermercati che sanno di plastica, ma quelli della campagna intorno a Cecina; non sono proprio perfetti esteticamente, ma maturano senza aiuti chimici al sole e al vento che arriva dal mare…e l’olio… l’hai mai assaggiato l’olio degli uliveti della mia Toscana, intenso,
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profumato, che ti accarezza e poi ti pizzica deliziosamente in gola…” Le obbietto che forse a Milano sarà difficile trovare quel pane, quei pomodori, quell’olio, ma le basterà tornare a Cecina e da qualche contadino potrà ancora trovare tutto ciò che occorre per rifare la “fettunta” “Certo quando posso tornare nella mia città, ci provo ogni volta, e riesco a fare qualcosa che molto più si avvicina al sapore che mi è rimasto nel cuore… ma ci sono ingredienti molto importanti che purtroppo non trovo più”.
“Quali ?” Sospira con dolcezza: “Le storie fantastiche che mi raccontava mentre facevbo merenda, le sue risate, gli occhi luminosi di nonna Chiarina…” Non lo dico, ma penso che quello che mi è accaduto e che ho raccontato in trasmissione non è stata un’allucinazione, come sostengono i sapientoni, ma una realtà alla quale tutti noi prima o poi andremo incontro, quelle storie, quei sorrisi e quegli occhi li ritroverà un giorno (che le auguro però lontanissimo!).
Lasagne di nonna Chiarina Ingredienti per 4 persone: 300 g di pasta all’uovo; 300 ml di besciamella; ragù alla bolognese; 150 g di Parmigiano grattugiato; 100 g di prosciutto; 100 g di formaggio stagionato. Preparazione: Ritagliate le lasagne da una sfoglia non troppa sottile; cuocete la pasta in abbondante acqua salata e scolatela al dente. Foderate una teglia da forno col ragù; stendete uno strato di pasta, quindi coprite con altro ragù, qualche cucchiaio di besciamella, una spolverata di Parmigiano, il formaggio e il prosciutto. Procedete in questo modo fino a quando non sarà esaurita tutta la pasta. Sull’ultimo strato mettete abbondante ragù, besciamella e Parmigiano e infornate nel forno precedentemente scaldato a 180° per mezz’ora circa. Servite subito, ben caldo.
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di Bruno Goglione
L’artigiano in cucina
Cucina a vapore? Che passione! La “cottura a vapore” - praticata da lunghissimo tempo in oriente - da alcuni decenni affascina anche gli occidentali perché richiede un minor uso di grassi e impedisce quasi totalmente la dispersione di sali minerali e vitamine. Se poi viene praticata con la “pentola a pressione”, le pietanze potranno cuocersi in tempi considerevolmente ridotti ed oggigiorno ciò non è poca cosa. La “pentola a pressione”, progettata ormai in fogge, dimensioni e stili differenti, è divenuto un indispensabile utensile da cucina che permette una cottura sana e svelta. Il prototipo, chiamato digesteur, si deve all’in-
gegno di Denis Papin, che lo progettò nel 1679, ma soltanto nella seconda metà del secolo scorso si iniziò a produrla in modelli sempre più perfezionati e sicuri. Contrariamente alle pentole tradizionali nelle quali l’ebollizione avviene a circa 100° (non è possibile aumentare la temperatura oltre tale limite, poiché l’acqua evaporerebbe sottraendo calore) la “pentola a pressione” arresta la fuoriuscita di vapore e quindi al suo interno aumenta la pressione e di conseguenza la temperatura, riducendo così notevolmente i tempi di cottura. Il vantaggio principale risiede certo nel risparmio di tempo, ma ancor più nel risparmio di energia in quanto, essendo l’evaporazione quasi nulla, la cottura può procedere a fuoco lento. La gran parte delle sostanze nutritive viene mantenuta, grazie all’equilibrato rapporto “alte temperature/ridotti tempi di cottura”, nel senso che se è vero che alcune sostanze nutritive sono sensibili alle alte temperature e tendono perciò a disperdersi è anche vero che i tempi di cottura sono rapidi e tale dispersione è in buona parte bloccata. Lo svantaggio sta nel fatto che non tutti gli alimenti possono essere cotti con questo comodo utensile culinario; mentre è adatto per cereali, tuberi, legumi, verdure e la maggior parte della carne e del pesce, non è idoneo per le vivande a cottura rapida, per quelle che necessitano di precisione nel tempo di cottura e, in generale, per i grassi sensibili al calore elevato, (come alcuni oli vegetali che ad alte temperature potrebbero
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addirittura diventare fortemente tossici). Attualmente la maggior parte delle pentole commercializzate nel mercato mondiale proviene da produzioni fatte in Cina, che però nulla hanno a che fare, in fatto di qualità, stile e sicurezza, con quelle fabbricate in Italia. Consigliamo ai nostri lettori un marchio storico: “Lagostina” - che produce posate per la tavola dal 1901, pentole in acciaio inox dal 1929 e pentole a pressione dal 1956; quasi un secolo di esperienza nella lavorazione dell’acciaio e oltre mezzo secolo nel campo della pentola a pressione che è diventata ormai parte essenziale della sua storia centenaria. Il successo di quest’impresa, che esporta la tecnologia e lo stile italiano nel mondo, è stato sempre legato alla creazione di produzioni innovative, come nel caso della fabbricazione delle “pentole a pressione”, un processo che prevede differenti fasi di lavorazione mirate ad ottenere una equili-
brata sintesi tra eleganza e prestazioni, tra estetica e funzionalità, tra versatilità e affidabilità. La base termoradiante in acciaio ad elevato spessore, la lucidatura - esterna ed interna, la finitura a specchio, l’accurata scelta delle
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© Lagostina
dimensioni, l’inserimento in alcuni modelli del timer, l’inclusione del cestello per cucinare a vapore, l’accurata meccanica di apertura e chiusura, i manici appositamente studiati per permettere una presa salda e comoda - intercambiabili (si mettono e si tolgono con una semplice pressione per consentire il lavaggio in lavastoviglie), fanno di questi utensili degli indispensabili gioielli che ogni massaia merita di possedere ed usare, per una cucina sana, gustosa, veloce, economica. L’ultima nata in casa lagostina è Acticook® un vero gioiello che racchiude in sé una tale innovazione tecnologica che facilita ogni cosa, uno strumento che ti segue in ogni passo, dalla preparazione, alla cottura, alla tavola, mantenendo sempre alto il livello di benessere per una cucina sana, saporita e sfiziosa in tutta sicurezza. A rendere unica Acticook® sono i 3 esclusivi sistemi eco-tecnologici che consentono un sorprendente risparmio di tempo ed energia rispetto ad una pentola a pressione tradizionale: Eco Energy System®, Eco Dose® ed Eco Timer® di cui illustriamo le caratteristiche. L’acceleratore di cottura Eco Energy System® è l’esclusiva valvola che rilascia subito fino all’85% di aria per una cottura ancora più rapida (brevetto Lagostina). Eco Dos®e è invece il pratico dosatore da
250 ml che indica l’esatta quantità di liquidi per la cottura di ogni ricetta (brevetto esclusivo Lagostina). Ed infine, Eco Timer®: il timer che una volta impostati i minuti indicati nella ricetta rileva automaticamente il momento in cui la pentola va in pressione e comincia la cottura. A questo punto non ci si deve più occupare di nulla: il conto alla rovescia parte, il primo segnale acustico avvisa quando ridurre la fonte di calore mentre un secondo suono segnala invece che la cottura è terminata. Il risultato di questi 3 esclusivi sistemi è il risparmio di tempo fino al 35% e fino al 20% di energia rispetto ad una pentola a pressione tradizionale: una rivoluzione nel mondo a pressione per permettere ancora una volta di ottenere il massimo successo in cucina. Le “pentole a pressione Lagostina” sono vendute in tutt’Italia, in 350 “Lagostina Point”. Per maggiori info: www.lagostina.it.
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Brera Academy & Magda Pedrini wines.
Accademia di Brera
A little more than Made in Italy
In tavola
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di Cino Tortorella
A tavola con le stelle
La cena dell’acquario Il segno dell’Acquario è iniziato il 21 gennaio e terminerà il 19 febbraio. Ai nati sotto questo segno dedichiamo una fantastica cena ambientata al “Relais & Chateaux San Pietro” di Positano.
L’acquario è l’undicesimo segno dello Zodiaco, un segno d’aria dominato dal pianeta Urano. Il suo simbolo astrologico è rappresentato dal simbolo egizio dell’acqua ripetuto due volte (Nilo superiore - Nilo inferiore), la pietra portafortuna è lo zaffiro, il metallo l’argento, il colore è il blu che rappresenta la spiritualità del segno, il giorno favorevole è il sabato, dedicato a Saturno. Sono nati sotto questo segno grandi protagonisti della storia dell’Umanità: personaggi storici come Abramo Lincoln, Franklin Delano Roosevelt, Luigi XVI il Re Sole; scienziati come Galilei, Volta, Einstein, Edison, Darwin,
Copernico; poeti e scrittori come Foscolo, Byron, Joyce, Carrol, Verne, Dickens, Prevert, Ungaretti, Brecht, Strindberg, musicisti come Schubert, Chopin, Corelli, Boccherini, Mozart, il più grande di tutti i tempi; e ancora: attori che hanno creato il mito di Hollywood come Clark Gable, Paul Newmann, James Dean, John Barrimore, Jack Lemmon e tra gli italiani Arnoldo Foà, Raf Vallone, Anna Maria Ferrero e il grandissimo Totò, senza dimenticare grandi registi come John Ford, Ernst Libitsch, Elio Petri, Franco Rosi, Federico Fellini. Fra i cantanti ricordiamo stelle della lirica come Placido Domingo, Mario Lanza, Renata
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Tebaldi, mentre nella musica leggera non possiamo dimenticare Giorgio Gaber, Fabrizio de Andrè, Sacha Distel, Bob Marley, Robbie William, campioni sportivi come Eusebio, Mark Spitz, John McEnroe e Batistuta, il “Batigol della Fiorentina…”. Caratteristica dei nati sotto questo segno è il carattere indipendente ed originale; sono sensibili, curiosi, a volte occupati a seguire chimere, a costruire castelli in aria spesso, come scriveva Flaiano, sono “sognatori con i piedi ben piantati sulle nuvole”, ma non è raro che riescano a trasformare le loro utopie in realtà. Disprezzano tutto ciò che è banale e limitato, le loro aspirazioni vanno spesso al di là della realtà e da ciò che sarebbe ragionevole attendersi. Nella loro vita sentimentale detestano la gelosia che vivono come una limitazione alla proprio libertà, ma poi loro stessi sono gelosi e possessivi anche se mai lo ammetterebbero. Leali nell’amicizia sono però incostanti in amore perché alla continua ricerca di nuove
emozioni, di nuove sensazioni, di nuove conquiste. Anche a tavola sono contro la routine e alla ricerca di nuove esperienze; attenti ed esigenti gourmet non amano però le rivisitazioni, l’eccessivo rispetto delle tradizioni anche se al primo posto delle loro esigenze gastronomiche c’è l’assoluta ricerca del meglio nei prodotti degli chef e in cantina. In un ristorante sono particolarmente attenti, oltre che alla cucina ed ai vini, all’estetica e all’eleganza; i loro locali ideali sono “L’Albereta” di Erbusco, il “Rosselinis” di Ravello, il “Perbellini” dell’Isola Rizza, “La Frasca” di Milano Marittima, il “San Pietro” di Positano. Ed è proprio al “San Pietro”, forse in assoluto il più bel relais del mondo che vorrebbero si svolgesse la Cena dell’Acquario. Ne parlo con Vito Cinque che si dichiara entusiasta dell’idea, anche perché sono dell’Acquario sia il fratello Carlo che il papà Giuseppe e diramiamo gli inviti ai più illustri nati sotto questo segno. Nessuno rifiuta, come è tradizione per le nostre cene, ed è così che la sera del 17 (così ha voluto Vito, per nulla scaramantico) li vediamo arrivare. Uno dei primi è Milos Forman (18 febbraio) che arriva insieme ai suoi colleghi registi François Truffaut (6 febbraio), Costantin CostaGravas (12 febbraio), Fer-
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zan Ozpetek (3 febbraio). E’ la volta poi di un allegro gruppo di personaggi televisivi tra i quali riconosciamo Fabrizio Frizzi (5 febbraio), Gabriella Golia (2 febbraio), Heather Parisi (27 gennaio). Si uniscono a loro un gruppo di cantanti: Little Tony (9 febbraio), Angelo Branduardi (12 febbraio), Phil Collins (30 gennaio), Amy Stewart (29 gennaio) che insieme a Vasco Rossi (7 febbraio) e Claudia Mori (12 febbraio) hanno preferito partecipare a questa cena rinunciando ad essere presenti al Festival di Sanremo. Da un taxi scendono adesso le sorelle Carolina (23 gennaio) e Stephanie (1 febbraio) di Monaco che vengono salutate da un gruppo di campioni sportivi: Valentino Rossi (16 febbraio), Roberto Baggio (18 febbraio), Franco Causio (1 febbraio), Eusebio (25 gennaio) e Cesare Maldini (5 febbraio). Ecco ancora Michelle Hunziker (24 gennaio)
con Valerio Mastrandea (14 febbraio), Francesca Neri (10 febbraio) con Valeria Mazza (17 febbraio). Chi non è mai stato al “San Pietro” resta sbalordito perché tutta la costiera amalfitana è un luogo d’incanto; il Dio che la creò doveva essere al colmo della creatività, certo doveva essere innamorato. Non c’è altro luogo che comprenda tanta bellezza in così breve spazio; quale fantasia se non quella di un dio innamorato può avere immaginato tali meraviglie? Non sempre però gli uomini sono stati degni dei regali ricevuti e li hanno spesso deturpati con orrende costruzioni. Non è stato fortunatamente il caso del “San Pietro” costruito da un uomo amante del bello, rispettoso della natura, determinato a realizzare il sogno della sua vita. Si chiamava Carlo Cinque, detto affettuosamente zio Carlino: nato e vissuto a Positano si era occupato fin da giovinetto dell’albergo Miramare, storico locale di famiglia. Nel ’62 acquista Punta San Pietro, un promontorio sulla scogliera rocciosa appena fuori dal paese e vi compie il miracolo di costruirvi uno dei più suggestivi “Relais & Chateaux” del mondo senza alterare l’armonia del paesaggio, senza violentarne la bellezza. Per capire appieno questo miracolo vi si dovrebbe arrivare dal mare e ammirare la
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costruzione incastonata armoniosamente sullo sperone di roccia fra macchie di piante di ulivi, limoni, pini, fra cascate di bouganvillee, campanule, ibiscus, nasturzi… Ed è proprio dal mare che arriva l’ultimo gruppo degli ospiti: sono giunti in mattinata all’aeroporto di Capodichino accolti da Franco Zeffirelli (12 febbraio), che a Positano è di casa e vuol far godere agli ospiti le bellezze del paesaggio. Con lui sono Gene Hackman (30 gennaio), Burt Reynolds (11 febbraio), Charlotte Rampling (5 febbraio), Mia Farrow (9 febbraio), John Travolta (18 febbraio). Dalla spiaggia privata salgono con un ascensore costruito dentro la roccia fino alla hall che dà sulla grande terrazza dal quale lo sguardo spazia sull’azzurrità del
golfo più bello del mondo, dall’isola di Capri fino al mare di Amalfi… Qualcuno pensa che il paradiso se non è così dovrebbe assomigliarvi molto; tra loro Ottavio Missoni (11 febbraio), Uto Ughi (21 gennaio), Oriella Dorella (25 gennaio) e la direttrice di “Gustare l’Italia” Arabella Pezza (10 febbraio). La cena si svolge nel ristorante dell’albergo con le vetrate che si affacciano sull’emozionante veduta del Golfo con le isole “Li galli” appartenute a Balanchine e poi e Nurejev, due tra i più grandi ballerini del XX secolo. Le luci di Positano si confondono con le luci delle stelle che in questo cielo sembrano più luminose e vicine. La cena è servita su piatti in terracotta con una forma diversa per ogni tipo di portata, creati apposta per il “San Pietro” dalla ditta Solimene di Vietri. E’ su uno di questi piatti che arriva in tavola il
“Tortino di alici con marmellata di pomodori a salsa di acciughe” un delizioso antipasto che è un’esplosione di sapori (ben 16 sono le erbe che lo compongono) e che diventa di assoluto piacere ac-
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cucina del “San Pietro”, che seppure di buon livello non era all’altezza del fascino dell’albergo, ai massimi vertici. I risultati sono sotto gli occhi di tutti e gli ospiti ne hanno un’altra prova assaggiando il nuovo piatto di questo eccezionale menu:
“Ravioli di baccalà e prezzemolo”
compagnato da un grandissimo Greco di Tufo che è per misteriose ragioni chiamato il “G” di Sabino Loffreda. Vito, perfetto sommelier, non poteva scegliere meglio: il connubio tra il tortino e il Greco di Sabino è un’unione d’amore. E’ lo stesso vino che accompagna l’altro piatto che fa la sua entrata in tavola:
“Zuppa di pomodoro fredda con anguria e toast caldo di gamberi gobetti”
Vito non ha dovuto compiere grandi rivoluzioni per imporre la sua cucina all’attenzione dei più esigenti gourmet: gli è bastato partire dai prodotti di una terra e di un mare generosi, ascoltare i loro suggerimenti, rispettarne e sapori senza prevaricarli. Due grandi appezzamenti di terra producono l’uno i fiori per abbellire le camere e ogni altro luogo dell’hotel, l’altro le verdure, gli ortaggi e la frutta che, fragranti, entrano in cucina. Per accompagnare questa delizia gastronomica è pronto il Montevrano che Silvia Impa-
che viene bevuta nei luminosi bicchieri che Riedle fabbrica in Germania dopo aver imparato i rudimenti del mestiere in una ditta napoletana. Chi tra gli ospiti non è mai stato al “San Pietro” è incantato; non è facile trovare in un albergo, anche in un grande albergo come questo, una cucina di così alto livello. Il merito è di Vito che, figlio di un apprezzato chirurgo, è da sempre innamorato dell’arte culinaria; ha frequentato la scuola alberghiera ed è andato poi a farsi le ossa in giro per il mondo. Quando è tornato a Positano si è proposto subito un traguardo ambizioso: far arrivare la
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Con la spigola viene servito un vino, il Fior d’Uva, che Marisa Cuomo produce a Furore, a pochi passi da Positano da vitigni di Ginestra e Fenile (da quando lo ha conosciuto il Presidente Ciampi non lo fa mai mancare nella sua cantina). Il primo ad assaggiarlo è ancora Ottavio Missoni e puntuale arriva il suo gradimento: “Xe bon! Bon! Bon!”. La cena è ormai alla fine; non manca che il dessert che in questo momento fa il suo ingresso in sala:
“Yogurt di Bufala con frutti di bosco e meringhe croccanti” rato produce a San Cipriano Picentino; Vito lo ha scoperto anni fa e poco dopo Wine Spectator lo ha catalogato tra i 100 migliori vini del mondo. I Vip si lanciano nell’appassionata ricerca di aggettivi per lodarlo: avvolgente, superbo, elegante, suadente, grande… Ottavio Missoni lo gusta e fa un cenno d’assenso; Franco Zeffirelli gli chiede un suo parere: “Che ne dici, Ottavio?”. Lui ne sorseggia un altro pò poi con il suo musicale dialetto dalmata che non ha mai dimenticato emette in suo giudizio: “Par mi el vin o xe bon o non xe bon”. “E questo?” - “Xe bon!”. Sta adesso arrivando un’altra straordinaria creazione di Vito:
Ormai gli ospiti non si meravigliano più di niente, neanche di fronte a questo delizioso manicaretto reso ancora più prezioso dal vino che lo accompagna; l’unica cosa che può stupire i gourmet è che un ristorante come questo, in questo luogo di incanti unico al mondo, non abbia il massimo dei massimi da ogni guida gastronomica: dovrebbe essere pieno di stelle come il cielo di Positano, ricoperto da cappelli, bicchieri, gamberi, forchette, lune e soli…
“Spigola al vapore con rapa, vinaigrette tiepida con Rhum “Agricole” e menta” Di fronte a piatti come questi qualche anno fa la critica, che aveva sempre ignorato il “San Pietro” come relais gourmand, ha incominciato ad occuparsi della nuova realtà e ha preso atto che sulla scogliera di Positano, oltre ad un fascinoso albergo, era nato anche un grande ristorante.
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La consueta standing ovation è ora dedicata agli artefici della serata, primi tra tutti Carlo e Vito con mamma Virginia che da sempre li segue e li consiglia con amore. E’ il momento della partenza; ma chi ha cuore di lasciare questo luogo? Tutti sanno che intorno a San Pietro c’è il giardino terrestre, lambito dal mare con i luoghi più suggestivi: Capri, Amalfi, Sorrento, Furore, Ravello… Domani sera sarà notte di luna piena… chi può rinunciare? Le camere del “San Pietro” sono 62 una diversa dall’altra, ognuna con una sua caratteristica, tutte con vista sul Golfo, costruite accarezzando la roccia. Ognuna ha il suo fascino, la sua storia da raccontare, come la camera “8 ½” così chiamata perché ha ospitato la luna di miele di Marcello Mastroianni e Catherine Deneuve pochi mesi dopo che il grande attore aveva terminato di girare il capolavoro di Fellini, o come
la “24” preferita da Sidney Poitier, o la “52” la passione di Barbara Streisand. I fortunati che potranno restare, certo non soli, troveranno un colorato bouquet di fiori accanto al quale Vito avrà provveduto di mettere una bottiglia di Mel, un passito ricco di dolcezze, di profumi, di seduzione. E’ un vino da meditazione; occorre dunque qualcosa su cui meditare e a questo ha provveduto mamma Virginia: su un foglio è scritta una frase di un grande poeta d’amore, sigla perfetta per questa fantastica serata. “… Cos’è la vita? Una delizia. Cos’è la vita? Un’illusione, un’ombra, una finzione, è il bene più grande e il più significante perché la vita è sogno e i sogni soltanto sogni…”. Calderon de la Barca
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di Arabella Pezza
Peccati di gola
I fagioli di Sorana
Qualche anno fa, in un intervista ho fatto una domanda ad Aimo Moroni nel suo bel locale di Milano “Il Luogo di Aimo e Nadia” premiato con due stelle dalla Guida Michelin e inserito dal Figaro fra i cento migliori ristoranti del mondo, gli chiesi: “Qual è il piatto della sua predilezione?” Mi rispose senza esitazione: “La zuppa di cavolo nero al sapore di finocchio selvatico” - accortosi della mia meraviglia: “Se vuole un titolo più elegante posso chiamarla la “zuppa etrusca” perché pare che l’abbiano inventata loro, ma la sostanza non cambia; in questo piatto c’è tutta la mia storia, la storia della mia terra, della mia gente. Rappresenta perfettamente la mia cucina che è semplice e autentica come la gran parte di quella italiana che raramente è una cucina “di corte” ma nasce quasi sempre da esigenze di risparmio e di bilancio famigliare”.
A quella cucina nell’800 avevano cercato di darle nobiltà Pellegrino Artusi e Lorenzo Stecchetti, ma doveva aspettare gli anni ’70 del ‘900 quando gli americani scoprirono le virtù di quella che chiamarono “mediterraneam diet” (alimentazione mediterranea) genuina ed essenziale. Nel suo libro “La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene” l’Artusi aveva descritto la zuppa di Aimo chiamandola “Zuppa di magro alla contadina” e così l’aveva presentata: “…questa zuppa che per modestia si fa dare l’epiteto di contadina, sono persuaso sarà gradita da tutti, anche dai signori, se fatta con la dovuta attenzione”. Fu buon profeta perché oggi i signori se la contendono disposti a pagarla a prezzo d’affezione e da Aimo anche qualcosa di più perché i fagioli sono quelli di Sorana, il piccolo
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comune della Val di Nievole in Lucchesia, quella che viene chiamata la Svizzera Pesciatina. Fu in occasione di quella mia intervista che feci per la prima volta la conoscenza dei fagioli di Sorana (anzi: i “fagiuoli” come li chiamava l’Artusi) con striature e riflessi rosati, una buccia liscia e tenerissima che dopo la cottura diventa quasi impercettibile al palato, eterei, soffici, profumati, erotici… Qualche tempo dopo ebbi la ventura di andare di persona a Sorana per saperne di più su quei fagioli che sono forse i più preziosi e i più cari al mondo (i pochi fortunati che riescono a trovarli li pagano oggi fino a 35 euro al chilo, laddove un chilo di ottimi “cannellini” non supera i 3 o 4 euro - Viene da ridere se si pensa che Linneo chiamava il fagiolo “faseolus vulgaris”. Appresi così che possono avere la denominazione di fagioli di Sorana solo quelli che nascono nei ghiaieti del fondovalle lungo le sponde del torrente Pescia comprese fra il Ponte di Sorana e quella di Castelvecchio.
Narra la leggenda che due o tre secoli fa un contadino andando al mercato con un asino che trasportava due secchi di fagioli cannellini fu sorpreso da una pioggia torrenziale (una “burrascata” come dicono da quelle parti) che fece cadere l’asino e rovesciarne i fagioli che si sparsero sul ghiareto. A primavera spuntarono le pianticelle e poi quei legumi preziosi e delicati che oggi tutto il mondo della gastronomia apprezza come i “fagioli di Sorana” Procurarseli è una vera caccia al tesoro se si pensa che se ne producono ogni anno soltanto 70 quintali circa e che ci sono in giro falsari che spacciano per Sorana comunissimi cannellini (la differenza, come abbiamo visto è di circa 30 euro al chilo!). Qualcuno ogni tanto cerca di ricreare altrove l’habitat per ottenere gli stessi frutti ma il risultato è catastrofico: si piantano fagioli di Sorana e si ottengono soltanto banali cannellini.
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Il logo dell’Associazione “Il Ghiareto”, raffigurante un “gaudente e sensuale” fagiolo, è stato donato dal celebre pittore lucchese Antonio Possenti, insignito nell’Anno 2004 del Premio di Cultura Gastronomica “Sorana il Fagiolo d’Oro”
“Qual è il segreto?” è stato chiesto ai pochi contadini rimasti: “Noi non facciamo niente di speciale, seminiamo in primavera, si innaffia al bisogno, ed essendo una pianta rampicante gli si mettono accanto le solite frasche come faceva il mi’ nonno e il nonno del mi’ nonno” gesti rituali rimasti immutati nei secoli”. Per difendere questa preziosa risorsa, si è costituita anni fa la ONLUS “Il Ghiareto” un’associazione di piccoli produttori il cui fondatore, Mauro Carreri è riuscito nel 2002 ad ottenere per i fagioli di Sorana la I.G.P. (Indicazione Geografica Protetta) che l’Unione Europea ha concesso in Italia soltanto ai borlotti di Lamon, un comune del Bellunese , e a quelli di Sarcomi, un comune della Val d’Agri in provincia di Potenza. Da Mauro Carreri, instancabile e appassionato studioso che sa tutto sui fagioli ho appreso interessanti notizie su questo magico legume: è arrivato in Europa verso la fine del ’500 prima della patata e del pomodoro, probabilmente dal Messico come testimonia la parola “haricot” con la quale i francesi indicano il fagiolo (la parola è certamente di origine azteca: aycot). Si sparse subito in tutta Europa assumendo varie forme (borlotti, toscanelli, di Spagna, zolfini, biglioli, del purgatorio…) ma i più apprezzati - Carreri non ha dubbi - furono quelli di Sorana. A testimonianza porta un’abbondante documentazione di illustri personaggi; è agli atti, ad esempio, una lettera di Gioacchino Rossini che, quale compenso per la revisione di alcune partiture che aveva fatto per un musicista
di Pescia, invece di denaro chiede fagioli di Sorana. E vale la pena di ricordare che in fatto di gastronomia Rossini era un’autorità indiscussa, grande appassionato di cucina, curioso, goloso di ogni specialità. Vale la pena anche di riflettere sulla lettera che Giuseppe Giusti scriveva alla fine dell’800 ad un conoscente chiedendogli di poterne avere un pò per farli assaggiare ad alcuni amici: “Caro Pietro, trovami venti chili di veri fagioli di Sorana e spediscimeli nella settimana che entra; mi raccomando d’accertarti che sia buoni e legittimi perché, avendoli lodati non vorrei scomparire”. Come si apprende da queste parole fin dall’800 qualcuno cercava di spacciare per veri e “legittimi fagioli di Sorana, comuni cannellini o zolfini”… figuriamo oggi.
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COME CUOCERE I FAGIOLI DI SORANA I puristi sostengono che il modo più semplice per esaltare al massimo le doti e il sapore dei fagioli di Sorana sia quello di cuocerli, alla toscana, nel classico fiasco con salvia, aglio pepe e olio extravergine ma, mentre Davide Paolini sceglie quello di Toscana denso e verde con un leggero pizzichino di sottofondo, Beppe Gualazzini dà la preferenza all’olio ligure di olive di cultivar “taggiasca” di sapore leggero e di color paglierino. Alfredo Panzini nel suo dizionario moderno consigliava di cuocerli al forno così: “Porrei i fagioli in una pentola di terra con acqua quantum satis (quanto basta), olio purissimo, salvia, aglio a spicchi, pepe e sale. Chiudi ermeticamente, fai bollire adagio e sarai felice” Una delle più antiche ricette, la più antica che ci sia stata tramandata è quella detta “Piatto degli orticini”, un trionfo di freschi sapori che si cucinava a fine estate quan-
do nel ghierato di Sorana venivano a maturazione i primi fagioli: “Tagliare ravanelli d’orto in sottili rondelle, condire con buon olio d’oliva le cime verdi delle colline pesciatine a mò d’insalatina, i fagioli cotti a fuoco lento, un pizzico di sale e pepe, il tutto a far da contorno, ad esaltarne i delicatissimi gamberi d’acqua dolce”. È un piatto perfetto; la perfezione è nella semplicità come nella pittura di Pier della Francesca o nella pienezza delle linee del Brunelleschi, ma qui il problema è doppio: se trovare i fagioli di Sorana è difficile, per i gamberi d’acqua dolce la situazione è quasi disperata…
Troverete le ricette con il fagiolo di Sorana sul nostro sito www.gustarelitalia.it
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© www.antiquariatoerestauri.it
di Bruno Goglione
L’artigiano in tavola
Il cavatappi: piccolo custode di cultura, tradizione e tecnologia
Quante volte ci siamo trovati al centro dell’attenzione di una tavolata, circondati da un improvviso silenzio, mentre stavamo per stappare una bottiglia; questa operazione, pur semplice e banale, riesce sempre ad affascinare perché il vino che sta per venire alla luce rivelerà tutto un mondo di pazienza e saggezza, passione e sudore, amore e tradizione. Protagonista di questo gesto di seduzione è il cavatappi, un piccolo utensile che custodi-
sce cultura, memoria, tecnologia. La sua origine è sconosciuta e sembra che risalga alla metà del XV° secolo; alcuni sostengono che il suo precursore è il “punteruolo per botti” (in una pala d’altare del 1450 è raffigurata una suora intenta con questo strumento a spillare il vino da una botte), altri che deriva dall’attrezzo - una sorta di verga attorcigliata - usato per rimuovere le palle dai fucili ad avancarica (per molto tempo i cavatappi furono prodotti dai fabbricanti di armi).
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vino dell’inutile e dannosa anidride carbonica; considerano di utilizzo difficoltoso quelli “a lame parallele”, in quanto estraggono il turacciolo per torsione e suggeriscono come migliori modelli quelli “a leva” o “a campana”, che vengono utilizzati, dai sommelier. I cavatappi sono ricercatissimi oggetti da collezionismo e, in base alla sua rarità e all’epoca di fabbricazione, assumono notevole valore economico. Quando usiamo quest’indispensabile utensile, pensiamo alla cultura centenaria che custodisce, e quando lo acquistiamo preoccupiamoci dei materiali con i quali è prodotto, della funzionalità d’uso, del meccanismo, dell’originalità del funzionamento e più in generale della sua eleganza e preziosità. Ai nostri lettori vogliamo consigliare i prodotti di un marchio che unisce tecnologia e design al gesto antico di stappare una buona bottiglia; un gesto che promette felicità. Si tratta di “Artis”, un marchio che nasce dall’esperienza nella meccanica di “Trasmissioni Buzzolan” e dal gusto di Giuseppe Todeschini, stilista vicentino che vanta numerosi riconoscimenti nei settori dell’innovazione, delle invenzioni e del design. I prodotti di “Artis” e in modo speciale i cavatappi, uniscono l’eleganza, la pratiCavatappi Artis “Platinum”
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© Artis
Ma è nel ’700 che il cavatappi si ritaglia la sua personalità: gli artigiani fanno di quest’oggetto un congegno che unisce una semplice tecnica manuale a raffinate decorazioni in materiali preziosi come l’oro, l’argento, l’avorio. A fine secolo, in Gran Bretagna si brevetta il primo “corkscrew” e si apre la produzione in serie; successivamente, si inventano quelli “a farfalla”, “a rubinetto”, “a doppia vite”, “a concertina”, “a manovella”, “a leve”, “a due lame”, “da cameriere”, passando così dal cavatappi semplice a quello meccanico, a quello a leve laterali per arrivare a quello professionale da tasca. Il cavatappi deve essere “funzionale”, non deve, cioè, pretendere eccessiva forza d’uso, che rischia di far agitare la bottiglia ed il vino in essa contenuto (mai commettere una simile barbarie!). L’elemento indispensabile per tale funzionalità è senz’altro la spirale - in gergo tecnico detta “verme” - che, lunga almeno sei/sette centimetri (quanto la lunghezza di un buon tappo), deve essere abbastanza larga e piatta nella porzione superiore, quanto arrotondata e non tagliente in quella inferiore, ma comunque in grado di “mordere” il sughero del tappo; la circonferenza della filettatura, è per consuetudine definita dalla possibilità di farvi passare dentro un fiammifero da cucina. I tecnici sconsigliano i cavatappi a “trazione”, perché richiedono troppa forza e quelli ad “ago cavo”, perché immettono tra il tappo e il
cità, la leggerezza all’alta tecnologia dei meccanismi, creando oggetti raffinati e prestigiosi. “Artis” utilizza materiali pregiati e attinge a tecnologie meccaniche di precisione, in modo da poter offrire “prodotti d’uso comune, ma di qualità non comune”. Ogni esemplare oltre al particolare design, possiede una tecnologia meccanica innovativa e funzionale che lo rende unico, solido ed indistruttibile. Tutti i modelli, inoltre, vengono prodotti in un’originale e vasta gamma di colori, anche nelle versioni trasparenti. Per info: www.artisitaly.it
Quando si stappa una bottiglia di quello buono...
© Artis
Stappare una bottiglia è un gesto che seduce sempre; oltre al cavatappi consideriamo dunque, gli altri accessori che normalmente sono collegati a questo gesto; se si tratta di stappare una bottiglia di autarchico Spumante o di esotico Champagne o uno di quei vini vivaci e frizzanti (Barbera, Bonarda, Gutturnio, Lambrusco …), abbiamo bisogno di una “pinza” che ci permetterà di estrarre i turaccioli “a fungo”, quelli che hanno la testa che fuoriesce dal collo della bottiglia e di solito sono bloccati da una gabbietta in metallo. La pinza deve avere ganasce dentate che assicurino una buona presa e di solito è provvista di un tronchesino utile a tagliare i fili metallici della gabbietta; normalmente la pinza serve solo per sbloccare il tappo e consentire di proseguire a mano l’operazione di stappatura che va fatta in modo accurato (evitando Pinza Artis per tappi spumante “Kaiman”
di agitare la bottiglia e il cosiddetto “botto”). Un altro accessorio, utile e pratico soprattutto quando si devono aprire più bottiglie allo capsule”, stesso tempo è il “taglia capsule” utensile necessario per rimuovere con agio la capsula di plastica (una volta di piombo), che riveste il collo e il tappo della bottiglia; tale operazione, però, si effettua meglio con il coltellino che spesso si trova già inserito nei cavatappi (almeno in quelli tascabili, professionali). Il “coltellino”, al contrario del “taglia capsule”, permette di tagliare la capsula al di sotto del cercine della bottiglia, impedendo al vino di entrare in contatto con la capsula stessa ed eventualmente di contaminarsi (nel caso di bottiglie impolverate e sporche per l’invecchiamento). Ricordiamo anche il “paniere” porta bottiglia usato quando si vuole trasportare una bottiglia invecchiata e di un certo pregio dalla cantina al luogo di mescita. Il “paniere” consente di tenere la bottiglia in posizione pressoché orizzontale (solo il collo è sollevato) e impedisce agli eventuali sedimenti di unirsi al vino, favorendo in tal modo una buona decantazione. Può essere di fogge diverse: “chiuso”,, se avvolge quasi tutta la bottiglia, “aperto” se invece la sostiene; i più comuni sono di plastica, di vimini o di legno, ma ne esistono di preziosi in ottone, argento e addirittura in oro.
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Il Museo Martini a Chieri (To) Primo nel suo genere in Europa, il Museo Martini nasce nel 1961 - in occasione dei festeggiamenti del 1° centenario dell’unità d’Italia - dalla passione di Lando Rossi, allora amministratore delegato della notissima “Martini & Rossi”. Si trova a Chieri - frazione Pessione - ospitato nelle antiche cantine della settecentesca villa, che fu sede dei primi stabilimenti della “Martini & Rossi” ed è ambientato in 16 sale, ordinate in modo tematico, in cui si trovano esposti oltre 600 pezzi legati da un unico comune denominatore: il vino e la sua millenaria storia. Molti sono gli oggetti esposti (alcuni addirittura risalenti al secondo millennio avanti Cristo) e tra questi rari esemplari di cavatappi di diversa epoca e provenienza: con manico in legno scolpito, ad una sola leva, a campana di bronzo istoriata, tascabili, a pignone, a cremagliera e via dicendo. Da vedere assolutamente due piccoli ma pregiati “tirabuscioni semplici”, uno settecentesco in madreperla ed oro, l’altro ottocentesco con manico in oro e onice, oltre a due originali “rubinetti da Champagne”. “Museo Martini di Storia dell’enologia” - Piazza Luigi Rossi, 2 - Pessione fraz. di Chieri (To) - Ingresso libero (prenotazione obbligatorie per gruppi)- Per informazioni: 011 94191
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di Felice Maratea
I ristoranti di San Valentino
Il 14 di questo mese è San Valentino, la festa degli innamorati e il mese prossimo incomincia la primavera; tutto sarà pronto per esaltare un nuovo amore: la natura, l’aria tiepida, il profumo stordente dei fiori…e, per chi oltre ad essere innamorato eè anche un appassionato gourmet, la cucina di un grande chef. In qualche parte del mondo c’è per costoro un luogo che, unendo ad una cucina sensuale ed ispirata la possibilità di un romantico soggiorno in una stanza d’albergo calda e silenziosa, sarà un perfetto rifugio per esaltare i sensi e lo spirito.
Quella che segue è una serie di preziosi indirizzi per trascorrere un esaltante San Valentino che “Gustare l’Italia” vuol dare a chi è consapevole che l’amore non debba risolversi soltanto in sospiri e tormenti, ma possa essere vissuto anche come un piacere, a chi pensa saggiamente che ci sia poesia anche nei cibi e si possa essere romantici anche mentre si mangia un buon piatto di “tortellini in brodo” o di “strascinati alle cime di rapa”, e che sia bello guardare negli occhi la propria donna (o il proprio uomo) anche mentre sta addentando un cosciotto di faraona.
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Incominciamo dal Nord, dalla Liguria all’estremo confine con la Francia. Se amate il mare non abbiate esitazioni: dirigetevi verso la Riviera dei Fiori; c’è ad attendervi “Baia Beniamin” a poche centinaia di metri dalla frontiera. Ci si arriva dopo aver percorso la litoranea che da Ventimiglia porta a Mentone; si scende per un bellissimo viale fra alberi di pini e mimose e fiori curati in modo perfetto e ci si ritrova in uno dei più emozionanti angoli della Riviera. La primavera è già incominciata … forse non se ne è mai andata; l’inverno da queste parti è uno scherzo del calendario, un optional. La baia è compresa in uno specie di triangolo delle Bermuda alla rovescia, un luogo di mistero, di incanto e di bellezza i cui vertici sono i Balzi Rossi, Grimaldi e la Mortola. Non è possibile mangiar male in un posto come questo; Carlo Brunelli chef e patron, come ogni grande cuoco è sollecitato nelle sue creazioni da ciò che offre il mercato giorno dopo giorno ed ogni piatto è preparato con attenzione cura e amore. Da qualche anno poi sono state costruite sopra il ristorante cinque camere, l’una diversa dall’altra, arredate con freschi tessuti dai caldi colori e mobili di prestigi che si aprono sull’azzurro della baia.
© Saverio Chiappalone
“Baia Benjamin” - Ventimiglia
dizione unisce un’attenzione particolare agli ospiti, con dei proprietari che amano il loro lavoro e interpretano l’ospitalità con calda raffinatezza, una cantina rara a trovarsi in pianura, sbalorditiva ai 2000 metri di Breuil.
Se invece volete trascorrere un piacevole soggiorno in montagna, consigliamo l’Hermitage di Cervinia con le sue camere luminose che hanno la vista sulla più bella montagna del mondo…. È spesso difficile trovare un buon ristorante in una famosa località turistica, quasi impossibile trovarlo in un grande albergo; l’Hermitage è una felice eccezione: cucina di alta qualità che alla fedeltà alla tra-
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© Hotel Hermitage
“Hermitage” - Breuil Cervinia
Per gli amanti della collina ecco due preziosi indirizzi: la “Contea” di Neive e il “Relais San Maurizio”; il peridodo migliore per andarvi sarebbe naturalmente in tempo di tartufi, quando la Langa indossa il suo abito di gala dai colori intensi e delicati dell’autunno, ma anche in questo mese di fine inverno alla “Contea” Tonino e Claudia Verro vi accoglieranno con affettuosa e calda amicizia e vi incanteranno con le loro creazioni. Claudia ha nel sorriso la dolce serenità della sua terra della quale è l’interprete perfetta quando nella sua cucina ricrea i sapori della tradizione. Le poche camere situate su un ballatoio a ringhiera che fanno tanto “vecchio Piemonte” sono arredate sobriamente con mobili d’epoca. Profumano di antico e di peccato.
“Relais San Maurizio” S. Stefano Belbo A pochi passi dalle Langhe consigliamo alle tortorelle in amore il “Relais
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© Relais San Maurizio - Luxury SPA Resort
© La Contea - Neive
“La Contea” - Neive
San Maurizio” alto su Santo Stefano Belbo il paese natale di Cesare Pavese. Nell’antico convento del XVII secolo trasformato in un delizioso albergo, Andrea Alciati, figlio del mitico Guido di Castigliole, con la mamma Lidia continua la tradizione paterna confermandosi uno dei migliori chef della zona. Nelle eleganti stanze del Relais gli innamorati potranno trovare un’oasi ideale dove esaltare un amore appena nato o per dare ancor più sicurezza ad una passione ormai consolidata. Lasciamo le Langhe e dirigiamoci verso la campagna toscana; quanti ristoranti galeotti attendono le coppie in cerca di intimità; noi esiteremmo fra il “Falconiere” di Cortona (AR) e “L’Amorosa” di Sinalunga (SI); voi fate a testa o croce: se viene “testa” scegliete la “Fattoria dell’Amorosa”.
Si esce dall’autostrada del Sole al casello Valdichiana e dopo sette chilometri si arriva ad un viale di cipressi che sale verso la collina fino alla sommità dove il tempo si fa senza tempo. Lassù trovi un borgo che sembra costruito per girarvi un film ambientato nel Rinascimento; invece è vero e autentico, le facciate delle case sono rimaste miracolosamente intatte e conservate con attenta cura e rispetto; sullo sfondo la chiesetta della fattoria che custodisce un’importante tela del Rustichino e un affresco di Scuola Senese. Nel complesso è stato ricavato, senza usare nessuna violenza all’ambiente, un ristorante e alcune camere. C’è un grande fascino a “L’Amorosa” e non è dato soltanto dalla struggente dolcezza del paesaggio che lo circonda, ma anche dalla cucina, l’autentica cucina toscana senza orpelli, senza infingimenti, una cucina sulla quale sono passati inavvertiti i secoli lasciandola felicemente intatta nei suoi sapori antichi e perfetti, una cucina da gustare con raccoglimento e meditazione, ma certo non da soli. Si può d’altronde venire da soli in un luogo chiamato “L’Amorosa”? Sarebbe impossibile; l’atmosfera magica che vi si respira respingerebbe con un incantesimo i solitari e gli indifferenti. Come si potrebbe d’altronde dormire da soli in quelle bellissime camere curate in ogni particolare, rifugio perfetto per una fuga d’amore ?
© Locanda dell’Amorosa Hotel****
Locanda dell’Amorosa - Sinalunga
Se siete innamorati e gourmet andate tranquilli al “Falconiere” (e se non avete una passione in corso inventatevene una) perché troverete una cucina piena d’amore e camere ricche di fascino e di raffinata eleganza. I cibi hanno la grazia e la leggerezza degli antichi sirventesi e madrigali di questa splendida terra, e le camere si aprono su di un panorama di rara bellezza che fanno del “Falconiere” un nido perfetto per amori sereni o tormentati.
Se lanciando la monetina viene “croce”, la sorte vi porterà al “Falconiere”, un affascinante Relais ricavato da una villa del XVII secolo, immerso nell’incantata serenità della campagna toscana.
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© Relais Il Falconiere & SPA
“Relais Il Falconiere” - Cortona
“La Frasca” - Milano Marittima Se poi alla Toscana preferite la Romagna eccovi, innamorati, un indirizzo preziosissimo: “La Frasca” di Gianfranco Bolognesi che si è trasferito a Milano Marittima facendo rivivere sulla Riviera Adriatica quello che a Castrocaro è stato uno dei più piacevoli “relais gourmand” d’Italia. La cucina romagnola è quanto di più vicino al peccato si possa immaginare; è la cucina di Federico Fellini e delle sue donne procaci e straripanti, dell’Artusì, di Francesco Redi… Bolognesi ne ha fatto un capolavoro di perfezione. Per renderlo poi un perfetto luogo galeotto ha fatto un accordo con il vicino “Palace Hotel” che ha messo a disposizione le sue eleganti camere che danno sull’Adriatico o sul giardino di ulivi, situando così di prepotenza “ La Frasca” ai primissimi posti della classifica dei più raffinati ristoranti galeotti.
© Hotel Palace
“Locanda delle Tamerici” - Fiumaretta Lì vicino, un altro locale galeotto: la “Locanda delle Tamerici” a pochi passi dal mare che vi concilia il sonno e culla il vostro amore dopo aver gustato i manicaretti di Mauro Ricciardi, grande chef e sommelier.
“Locanda dell’Angelo” - Sarzana
© Locanda dell’Angelo
Scrivo e mi si affollano alla mente altri nomi di luoghi dove gli innamorati potrebbero trascorrere un meraviglioso soggiorno: la “Locanda dell’Angelo” a Marinella di Sarzana creata da Angelo Paracucchi, un maestro per una moltitudine di gourmet e di cuochi, portata avanti oggi dal figlio Stefano con tenacia e capacità degna di tanto padre in questa deliziosa Locanda che dopo aver esaltato la gola ti rasserena lo spirito nelle camere che danno sulla campagna di Ameglia.
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smante e quando uscimmo a riveder le stelle le trovammo a portata di mano sospese sull’incanto di Capri; la mente libera, il cuore allegro, avremmo potuto danzare nell’aria. Se poi avessimo riposato in uno degli appartamenti situati ai piani superiori (sono solo tre e vanno prenotate con largo anticipo) avremmo forse avuto un anticipo di Paradiso.
“Locanda di Alia” - Castrovillari “Il San Pietro” - Positano Vogliamo anche ricordare gli innamorati del Sud ? Al primo posto metteremo il “San Pietro” di Positano dove abbiamo immaginato di far svolgere la cena dei nati sotto il segno dell’Acquario (vedi pag. 18) e subito dopo ecco il “Don Alfonso” di Sant’Agata sui due golfi (NA) e la “Locanda di Alia” a Castrovillari.
“Don Alfonso 1890” Sant’Agata dei due Golfi Del “Don Alfonso” ricordo ancora l’emozione del primo incontro con la cucina di donna Livia e di suo marito; Alfonso è un grande chef, la sua fantasia partenopea esalta le materie prime che gli arrivano dal mare della costiera amalfitana e dall’orto che ha sul promontorio di Punta Campanella vicino a Sorrento. Fu una cena entusia-
La “Locanda di Alia” alla periferia di Castrovillari è situata ai margini del parco del Pollino; se vi arrivate in primavera sarete aggrediti oltre che dalla simpatia dei proprietari, dai violenti profumi del bergamotto e delle zàgare che uniti ai mille sapori dei cibi, costituiscono una miscela eroticamente esplosiva. I vini, i grandi vini di Calabria quasi sconosciuti al Nord sono scelti con rispetto e amore per la propria terra: contribuiscono non solo a creare un clima ideale per una travolgente passione.
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© Don Alfonso 1890
© Locanda delle Tamerici
“Il Melograno” Monopoli
© Tenuta Le Monacelle
Altri ristoranti galeotti del Sud ? Ai primissimi posti, il “Melograno” di Monopoli (BA) il più fascinoso “relais chateau” di Puglia e “Le Monacelle” a Selva Di Fasano (BA) ricavato da un convento appartenuto ad una comunità di monache benedettine; qui gli innamorati, dopo aver gustato i cibi di una cucina solare e mediterranea, potranno provare antiche emozioni riposando nei trulli dove le monacelle trascorrevano le notti della loro vita di
© Il Melograno
“Le Monacelle”Selva di Fasano
preghiera e penitenza. Questi sono dunque i ristoranti galeotti che vi suggeriamo per il vostro San Valentino; ce ne sono altri che non mancheremo di segnalarvi per il vostro inizio di primavera. Accontentatevi per adesso e scegliete a seconda dell’intensità della vostra passione o della consistenza del vostro portafoglio; in ogni caso siate certi che in questi luoghi se il vostro amore sta nascendo sarà un’ottima occasione per dargli ali e speranze; se sta languendo potrete forse ravvivarlo - a volte anche un vulcano che si credeva spento riprende a ruggire; se è sulla via del tramonto sarà un romantico ed elegante modo di dirsi addio senza veleni né cattiverie. Buon San Valentino a tutti.
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L’Associazione Res Tipica è stata creata dall’ANCI nel 2003 per promuovere in Italia e nel mondo le identità territoriali e ad oggi riunisce 27 Associazioni di Identità, 1.842 Comuni, 4 Unioni di Comuni, 40 Province, 2 Regioni, 51 Comunità Montane, 8 Enti Parco, 8 Strade del Vino, 11 Camere di Commercio, per un totale di quasi 2000 Enti locali.
ASSOCIAZIONE ITALIANA PAESI DIPINTI
Il network, rivolto principalmente ai Comuni di piccole e medie dimensioni, intende preservare e favorire l’immenso patrimonio che incorpora i saperi delle comunità, le caratteristiche dell’ambiente e le produzioni tipiche, trasformando questo grande capitale culturale e sociale in qualità della vita e in occasioni di sviluppo sociale ed economico rispettoso dei valori e della cultura locale.
www.restipica.net
Molte sono le leggende che testimoniano perché Valentino sia diventato in tutto il mondo cattolico il Santo più vicino a chi si ama, ma due sono quelle più ricordate nella tradizione popolare: una drammatica e l’altra romantica. La prima narra di Valentino che, già vescovo di Terni, unì in matrimonio la giovane Serapia gravemente malata e il centurione romano Sabino; l’unione era ostacolata dai genitori di lei ma, chiamato al capezzale della giovane morente, Valentino battezzò il giovane soldato e quindi li dichiarò sposi prima che entrambi cadessero nel sonno eterno. La leggenda più romantica narra che un giorno, mentre passeggiava vide due giovani che stavano litigando; si avvicinò e porse loro una rosa invitandoli a tenerla unita nelle loro mani: gli innamorati si allontanarono dopo aver fatto pace; in quel momento si alza-
© Fabrizio Cimino
di Fabrizio Cimino
Italia da scoprire
I cibi di San Valentino
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© Mario Struzzi
© Archivio Fotografico IAT Comune di Terni
rono in volo coppie di piccioni che si scambiavano segnali d’amore (forse è da questo racconto che per gli innamorati si è creato il termine di “piccioncini”). Una gita a Terni è dunque d’obbligo quando ci si avvicina al 14 febbraio festa di San Valentino, il Santo dell’Amore, che del capoluogo umbro è il patrono. Passeggiare per le vie del centro storico è un ritorno al passato; in questa città di grande cultura e tradizione ci sono angoli che con emozione riportano indietro nel tempo. Mi fa da cicerone un caro amico, l’architetto Mario Struzzi e la prima visita è alla basilica di San Francesco, una splendida costruzione romanica con i caratteristici archi in pietra che comunicano una sensazione di essenzialità e purezza. Raggiungiamo poi il Duomo, di origine secentesca progettato dal Bernini, e la Basilica di San Valentino
anch’essa realizzata nel ’600, che ricorda il Vescovo martirizzato a Roma nel 273 D.C. e portato dai suoi seguaci sulle colline della periferia ternana dove sono conservate le sue spoglie. All’ora di pranzo ci avviamo verso casa di Mario, dove Anna Rita, ottima cuoca, ha preparato una prelibata colazione. Lo scopo della mia visita, in realtà, è quello di far conoscere agli amici di “Gustare lItalia” i cibi di San Valentino, in particolare “Le Ciriole alla ternana” e il “Panpepato”. Il pranzo è stato davvero delizioso e lo ripeterò certo con mia moglie il giorno di San Valentino invitando i nostri amici lettori innamorati a fare lo stesso. Né le Ciriole né il Panpepato sono di difficile realizzazione; Annarita ha tirato fuori un prezioso e antico libro di ricette umbre e io ve lo trasmetto così come sono scritte in vernacolo ternano che, facendo un pò di attenzione, è facile da capire.
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stenti e morbidi, nelle varie sfumature del marrone intenso e lucido. Oltre che per San Valentino il Panpepato è un dolce natalizio che si prepara in tutte le
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Per il Panpepato è ancora più facile: le sue origini sono raccontate da Plinio il Vecchio che ci ha tramandato come per la ricorrenza del “Dies Natalis Solis Invicti”, cioè nel giorno del solstizio d’inverno si preparavano le frittelle di farinata dette anche “Pane forte”. Nel XIII secolo con l’arrivo delle spezie dall’Africa e dall’Oriente, si aggiunsero varie droghe e in particolar modo il pepe. Il Pane forte, quindi, si trasforma in Panpepato; si otteneva con quello che l’economia rurale permetteva di mettere da parte durante l’anno: noci, nocciole, pinoli e mandorle, il mosto cotto preparato durante la vendemmia, per dolcificante il miele costava meno dello zucchero, perché proveniente dall’economia domestica delle arnie presenti ai limiti dell’aia, droghe, canditi e cioccolato secondo la tasca, una manciatina di pepe, si impastava il tutto con la farina e quindi nel forno caldo dalle braci di legna, qualche minuto di cottura ed eccoli questi deliziosi piccoli pani, consi-
case; la delegazione di Terni dell’Accademia della Cucina, in occasione della conviviale degli auguri di Natale, invita gli accademici, ogni anno, a presentare all’assaggio i panpepati confezionati nelle proprie case e la relativa ricetta. Una apposita commissione premia, con una targa d’argento il dolce migliore e che risponda ai canoni della tradizione; la ricetta viene poi pubblicata, come ambito riconoscimento, sul periodico dell’Accademia. È stato anche costituito il “Consorzio per il Panpepato Ternano Sweet Umbria” al quale partecipano 7 rinomate pasticcerie che lo producono secondo la ricetta originale. È un dolce che va degustato con un buon vino passito o comunque dolce. Mario, dopo pranzo, mi consegna la sua ricetta originale di Mamma Leondina che lo prepara secondo le regole tramandate da generazioni.
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Ciriole all’ajo, olio bono e pomidori (Ciriole alla ternana) Le ciriole ternane sono una delle tantissime varianti della semplice e povera pasta ottenuta dall’impasto di acqua e farina (Manfricoli a Narni, Picchiarelli a Sangemini...). Dopo aver fatto un impasto piuttosto duro stenderlo con il mattarello fino ad ottenere
una sfoglia non troppo sottile e quindi tagliare a forma di spaghetti alla chitarra. Per 4 persone calcolate 500 g. di farina e acqua il minimo necessario. Per ottenere un impasto più elastico e omo-
geneo si può inserire anche un uovo ogni 500 g. di farina, anche se in questo modo si snatura la ricetta originaria. Preparazione: fare il sughetto con l’aglio schiacciato e soffritto nell’olio insieme al peperoncino e prezzemolo con l’aggiunta di pomodoro a pezzi o passato. Dopo averlo lasciato restringere facendo evaporare l’acqua in eccesso e averlo salato, si versa sulle ciriole lessate e scolate. Al momento di servire le ciriole cospargetele con del prezzemolo fresco tritato. Vini da accompagnare: Orvieto classico superiore, un vino bianco di grande morbidezza e corpo
Ingredienti (per 15 panpepati): 400 gr. cioccolato fondente da grattuggiare (da sciogliere a bagnomaria) - 300 gr. di mele - 1 kg. di noci sbucciate - 400 gr. di nocciole 400 gr. di mandorle - 200 gr. di uva passerina - 100 gr. di pinoli - 100 gr. di canditi 250 gr di cacao dolce - bucce di arancia tagliata a pezzettini - 1 noce moscata - una bustina di vaniglina - una bustina di cannella - 15 gr di pepe - 1 bicchierino di alchermes - 1 bicchierino di sambuca - mosto cotto - caffè - farina per impastare q.b. Preparazione: In una terrina capiente si mescolano tutti gli ingredienti, la frutta secca e
candita, la cioccolata fusa, il miele e gli aromi, cannella, noce moscata, vaniglia e soprattutto il pepe nero macinato. Si aggiunge la farina da ultima e si impasta tutto con il mosto cotto. Da questo impasto si modellano le porzioni a piacere. Vengono passate in forno a 180° per 15 minuti e, alla fina della breve cottura vengono rimodellate un’altra volta aggiungendo liquore e si lasciano rapprendere su un piano di marmo Vini da accompagnare: Sagrantino di Montefalco passito, un vino rosso liquoroso DOCG
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Ricette
Panpepato di Mamma Leondina
di Cino Tortorella
Le lune di Gustare l’Italia
Luna sulla laguna
Non è facile trovare a Venezia un ristorante all’altezza del suo fascino; la città dei Dogi è il sogno di tutti i turisti, soprattutto degli innamorati; amanti di tutto il mondo vi arrivano in cerca di conferme e suggestioni, ogni angolo di questa città è affascinante e seducente per gli amanti… per tutti, tranne per chi oltre a essere innamorato è anche un gourmet, perché a Venezia - è incredibile - è difficile mangiare bene. Molti ritengono peraltro che il problema sia del tutto insignificante perché la tradizione romantica vuole che cibo e amore non vadano d’accordo; ma poichè noi riteniamo invece che due innamorati se sono anche veri
gourmet vogliono godere anche dei piaceri della tavola ed è per questo che consigliamo a quelli che vanno a Venezia, dopo aver ammirato le bellezze di queste città magica, di completare il piacere recandosi a Mira, un paesino lontano 10 km, sulla riviera del Brenta, quella che i veneziani considerano una continuazione del Canal Grande, sul fiume dove si specchiano le splendide ville costruite nei secoli scorsi per le vacanze dei Signori della Serenissima. Una di queste, Villa Franceschi, una costruzione seicentesca di scuola palladiana, acquistata mentre stava per andare in rovina dai Del Corso, una famiglia che da quasi un seco-
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lo ormai occupa un posto importante nella storia della ristorazione veneta. La ristrutturazione della Villa nel rispetto dell’arte e della storia è un esempio di come si deve compiere un restauro; averla restaurata così com’è equivale ad aver recuperato un Canaletto o un Tiziano che si credevano perduti. Oggi Villa Franceschi è una stupenda realtà alberghiera, il rifugio per golosi che mancava a Venezia, la meta per chi è alla ricerca, oltre che di poesia, del buon mangiare, del buon bere e del buon dormire. I Dal Corso hanno incominciato a occuparsi di ristorazione all’inizio del ‘900 quando nonna Margherita, appena sposata, acquista un locale tutto suo dove diventa in breve tempo popolare per la sua abilità ai fornelli; segue le orme il figlio Remigio che dopo una serie di esperienze in importanti ristoranti d’Europa, tornato in Italia, sposa la giovanissima e bella Valeria e insieme aprono una trattoria ad Oriago che subito ha un buon successo. Fin dagli inizi la cucina di Remigio si era imposta all’attenzione di una esigente clientela per la qualità delle materie prime e soprattutto per il pesce che arrivava - e continua ad arrivare - da Chioggia e dalla Laguna. È questa assoluta freschezza che permette di servire una incredibile varietà di frutti di mare crudi o appena scottati: carpaccio di tonno, di branzino, di salmone, ostriche, capesante, tartufi, caparossoli, granseole… Fino ai rarissimi “coccia”, gli scampi non raccolti sui fondi sabbiosi ma pescati ad uno ad uno fra le rocce; in alcuni periodi dell’an-
no si possono trovare anche le uniche, vere, inarrivabili “moeche”, i granchi pescati nel momento in cui si liberano della corazza per poter crescere e restano del tutto indifesi offrendosi come prelibatezze ai buongustai. “Moeche frite, n’ombreta de vin e x’è ‘l massimo de la vita”, dicono i vecchi saggi veneziani. Per chi ama la cucina marinara, quella di Remigio è un luogo di delizie: “Astice alla catalana”, “Insalata tiepida di canocchie, gamberi e calamaretti”, “Risotto marinaro”, “Seppie con polenta bianca”, “Tagliolini agli scampi”, “Grigliate di anguille, orate, branzi-
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ni”, “Coda di rospo in guazzetto”… E così via, in una continua tentazione per commettere peccati di gola che saranno però facilmente perdonati. “Oci, naso, boca … tuti tre ghe toca” dice un adagio veneto che sintetizza le qualità che deve avere un perfetto sommelier. Qualità che non mancano certo ai Dal Corso padre e figli che hanno messo insieme 1200 etichette fra italiane e straniere con particolare attenzione per i grandi champagne che sono la passione di Remigio e ai nobili e non meno piacevoli spumanti italiani prediletti invece da Alessandro e Dario. Per farli apprezzare al meglio hanno fatto realizzare a un grande maestro vetraio di Treviso, Federico De Maio, una serie di bicchieri di purissimo cristallo studiati apposta perché i vini possano emanare tutti i loro profumi. Andando contro la consuetudine Remigio ha voluto grandi anche i bicchieri per i vini bianchi dove entra comodamente anche un naso prepotente per avere giustamente la sua parte inebriante di profumi e di sensazioni (“per un
buon gourmet - dice - anche il naso, oltre l’occhio, vuole la sua parte”). I vini più preziosi per valorizzare i suoi piatti arrivano da tutta Italia: dal Friuli (Jermann, Kante, Russiz, Schiopetto, Gradnik, Gravner…) al Piemonte (Gaja, Ceretto, Giacosa…) e giù fino alla Sicilia (Planeta, Donnafugata, Spadafora…) ricercati con passione e competenza. La vista del Brenta e delle ville che vi si specchiano immerse nel verde ricorda ai giapponesi quelle dei fossati e dei canali intorno agli antichi castelli e alle residenze dei samurai; la stessa serenità, la stessa atmosfera, lo stesso fascino di un mondo perduto; manca però in Giappone l’emozione più intensa, manca Venezia…
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E allora qualcuno ha pensato di regalare la città dei dogi ai giovani giapponesi che vogliono coronare il loro sogno d’amore e ha organizzato, con il Comune di Mira e con i Dal Corso matrimoni per i figli del paese del Sol Levante. Nel luglio del 2003 è giunta da Tokio la prima coppia: avevano nelle loro valigie i ricchi, ricamatissimi costumi con i quali qualche giorno dopo si sarebbero uniti in matrimonio; era tutto ciò di cui avevano bisogno perché al resto avrebbe pensato il sindaco di Mira (per la cerimonia), i Dal Corso (per la calorosa accoglienza e l’ospitalità) e Venezia, con le sue magiche atmosfere. Da allora molti sono stati gli innamorati giapponesi, dagli occhi a mandorla, che hanno deciso di ripetere l’esperienza dei coniugi Nakazato e qualcuno forse si è deciso all’impegnativo passo solo per poter vivere le stesse emozioni.
Pensano le donne di casa Dal Corso a creare l’atmosfera per la cena; hanno innata la passione per le cose belle e lo si avverte nella scelta di ogni particolare, dai fiori agli arredi, alle attenzioni perché ogni cliente - e soprattutto gli innamorati - si senta fra amici in una casa amica. In estate la tavola sarà apparecchiata ai margini del parco, sotto gli altissimi olmi cipressini, le tuie, le magnolie, e le portate saranno servite, su un finissimo tovagliato, negli eleganti piatti che la Richard Ginori ha creato per i Dal Corso. Remigio cucinerà l’“Aragosta in bellavista con le verdure dei nostri orti” che ritiene il cibo più intrigante e sensuale per chi cerca anche a tavola complicità e coinvolgimento; è una scelta maliziosa perché dà al “lui” della coppia la possibilità di rendersi utile alla sua bella aiutandola nel non facile compito di non farle perdere nulla della carne preziosa dell’aragosta senza rischiare di ferirsi le mani
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delicate. E mentre lui si dà da fare con coltelli e schiaccianoci, lei lo guarderà con occhi grati e sognanti sorseggiando il delizioso Soave classico La Rocca, ottenuto da vitigni che Pieropan coltiva a ridosso del castello sforzesco di Soave, l’antico borgo del veronese. Per il riposo notturno non c’è che l’imbarazzo della scelta tra una delle 25 stanze di “Villa Franceschi”, tutte arredate in stili diversi, ognuna con il suo fascino e il suo mistero… Come la suite “La romantica” o quella detta della “Baronessa” per il dipinto di una misteriosa e seducente figura femminile…. La Villa fa parte della catena internazionale “charming hotels”; “charme” in francese significa “seduzione”, ma viene dal latino “carmen” che significa “magia”. La collocazione è dunque perfetta perché siamo davvero in un luogo, di magia e di amore. Vi si pernotterà come dei nobili veneziani del Settecento, anzi meglio perché i signori della
Serenissima non si sarebbero certo potuti permettere un bagno in una vasca Jacuzzi o una così ricca colazione come quella che oggi si può consumare di prima mattina nella luminosa veranda aperta sul parco di piante secolari. Questa è Villa Franceschi che per misteriose ragioni che continuano a sfuggirci è più conosciuta dai giapponesi che dai critici italiani (ancora lo scorso anno la gran parte delle guide davano alla Villa valutazioni come per una qualsiasi mediocre trattoria). A settembre, quando le Guide stavano per uscire, pensavamo che sarebbero state finalmente più generose con i Del Corso, così come meritano. Una volta di più questo non è accaduto; e allora noi di “Gustare l’Italia” li attribuiamo la nostra luna piena, risplendente, magica come quella che qualche giorno prima che inizi la Primavera sorgerà ad illuminare gli innamorati che si troveranno in laguna.
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L’Associazione Res Tipica è stata creata dall’ANCI nel 2003 per promuovere in Italia e nel mondo le identità territoriali e ad oggi riunisce 27 Associazioni di Identità, 1.842 Comuni, 4 Unioni di Comuni, 40 Province, 2 Regioni, 51 Comunità Montane, 8 Enti Parco, 8 Strade del Vino, 11 Camere di Commercio, per un totale di quasi 2000 Enti locali.
ASSOCIAZIONE ITALIANA PAESI DIPINTI
Il network, rivolto principalmente ai Comuni di piccole e medie dimensioni, intende preservare e favorire l’immenso patrimonio che incorpora i saperi delle comunità, le caratteristiche dell’ambiente e le produzioni tipiche, trasformando questo grande capitale culturale e sociale in qualità della vita e in occasioni di sviluppo sociale ed economico rispettoso dei valori e della cultura locale.
www.restipica.net
di Raffaele Montagna
Frattaminore rinnova la festa della “Candelora” Il 2 febbraio appena trascorso, nella chiesa patronale di San Simeone Profeta, a Frattaminore, una popolosa cittadina in provincia di Napoli, per la solennità della Candelora, la “festa della luce e della purificazione”, si è rinnovato il popolare dono dei “confetti ricci” che avviene, pressoché ininterrottamente, da oltre duecento anni. Il momento cruciale dei festeggiamenti religiosi, come da tradizione, si è avuto con la rievocazione della presentazione di Gesù al tempio di Gerusalemme - che era prescritta dalla legge giudaica per i primogeniti maschi - e perciò dell’incontro tra il Gran Sacerdote, San Simeone, e la Vergine Maria. Al termine della celebrazione della Messa solenne delle 11.00, presieduta dall’Arcivescovo, nella piazza antistante la parrocchia, su un apposito palco, è stata portata, a spalla, la statua di
San Simeone che ha atteso l’arrivo del simulacro della Vergine con Gesù Bambino: il celebrante ha prelevato Gesù dalle mani della Madonna per adagiarlo in quelle del vecchio Simeone, fra il suono delle campane ed il volo di alcune colombe, simbolo di pace. La festa della Candelora è una tradizione centenaria che il parroco e i fedeli di San Simeone Profeta tengono viva, ogni anno, a beneficio delle nuove generazioni: è tradizione per questa festa benedire le candele (ricalcando le fiaccolate di purificazione che si facevano nell’antica Roma in occasione dei lupercalia), simbolo del Cristo, “luce per illuminare le genti”. Dopo la festa religiosa, il Vescovo distribuisce ai fedeli i “confetti ricci”, tipici di questa festività, unici nel loro genere ed una esclusiva della parrocchia di Frattaminore; i con-
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fetti sono, da sempre simbolo di prosperità, felicità e abbondanza. I “confetti ricci” sono più grandi di quelli che normalmente si trovano in commercio, hanno una superficie rugosa e sono teneri e friabili. Si consumano freschi e possono essere conservati sotto vuoto. Gli ingredienti per realizzare questi squisiti dolciumi sono: zucchero, sciroppo, mandorle, gomma arabica e aromi naturali. È indispensabile disporre di una “bassina”, una macchina che è usata soprattutto dall’industria farmaceutica per il rivestimento delle compresse medicinali; è utilizzata altresì dalle fabbriche di confetti per ricoprire le mandorle di zucchero. Le mandorle vengono cosparse di gomma arabica, per facilitare il rivestimento stesso: mentre la “bassina”, ruota, si versa lo zucchero sciroppato che, cristallizzando intorno alle mandorle, dà loro la caratteristica forma rugosa.
La rugosità del confetto è dovuta principalmente al movimento rotatorio della “bassina” stessa.
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della Redazione
Dizionario Gastronomico Compatto - A cura di Edigeo Un dizionario dedicato alla gastronomia, alla ristorazione e in generale al mondo della cucina: gli ingredienti, gli attrezzi, le tecniche di preparazione, le ricette italiane classiche e regionali, le più importanti specialità internazionali. Il lemmario (italiano - inglese e inglese - italiano) si apre alla terminologia relativa all’alimentazione e alle discipline collegate, come la viticoltura, l’enologia, le tecniche di conservazione e la scienza delle preparazioni alimentari. Accanto alla cucina classica sono presenti i grandi piatti della cucina internazionale: da sushi a cuscus, da chili a tandoori. Alcuni numeri del libro: 18.000 voci - 1300 preparazioni e ricette della cucina italiana - 169 nomi di cocktail e 300 nomi regionali italiani di ingredienti: carni, pesci, formaggi, verdure, frutta... Edizione: Zanichelli Editore - Pagine: 432 - Prezzo: € 15,70
La cucina delle Marche - Petra Carsetti Brodetti, vincisgrassi, maccheroncini di Campofilone, arrosti morti, preparazioni in potacchio: Petra Carsetti, da anni coautrice con Carlo Cambi del bestseller “Il Mangiarozzo”, ha intrapreso un viaggio tra i
Libri da mangiare
profumi e i sapori delle terre marchigiane per compilare un ricettario completo e accurato, che ha lo spessore della ricerca, la praticità del ricettario e il fascino del romanzo. Sono quasi 500 le ricette raccolte (divise in antipasti, primi, primi di pesce, secondi, contorni, dolci, pani e liquori) e sono altrettanti i vini raccontati e abbinati a ogni preparazione. Per narrare il gusto dell’eccellenza, i sapori e i profumi inconfondibili di una regione unica e meravigliosa.. Edizione: Newton Compton - Pagine: 382 - Prezzo: € 12,90
Il gusto del cinema (Almanacco 2010 - 2011) - Laura Delli Colli La tavola pugliese di “Mine vaganti” e il viaggio culinario di Julia Roberts, il tacchino ripieno di Catherine Deneuve in “Potiche” e l’amatriciana di Giuseppe Battiston in “Figli delle stelle”, ma soprattutto lo scontro tra il Nord al gorgonzola e il Sud del “sanguinaccio” con Claudio Bisio e Alessandro Siani (“Benvenuti al Sud”). E sono più gli uomini delle donne, per una volta, ad esercitarsi ai fornelli: da Sam Worthington in “Last night” a Toni Servillo in “Una vita tranquilla”, dallo chef di “Io sono l’amore” a “don” Carlo Verdone in “Io, loro e Lara” o Fabio De Luigi in “Maschi contro femmine”... Ma il cinema a tavola racconta anche solitudini (“Somewhere”, “Il riccio”, “Mammuth”) e amicizie, amori infranti o appassionati, tradimenti e seduzione fino alla leggerezza evanescente di una vecchiaia (“Happy family”) che, a volte, fa perdere la testa anche in cucina. Tra film e ricette un nuovo viaggio nel cinema dell’anno ma anche nel gusto vintage degli ultimi cinquant’anni. Edizione: Cooper - Pagine: 200 - Prezzo: € 17,00
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L’arte di cucinare alla milanese - Giovanna Canzi e Daniela Pagani Che cosa raccontavano le nonne milanesi quando, barricate per ore e ore in cucina, pulivano il cavolo per una verzada perfetta o preparavano i tortelli da offrire ai nipoti durante il carnevale? Parlavano del risotto alla milanese come piaceva a Carlo Emilio Gadda; dei capponi che bollivano nella pentola di don Abbondio; del ris in cagnon rimpianto da Carlo Maria Maggi; della cotoletta alla milanese ritenuta un gran pericolo dal conte Attems, aiutante di campo di Francesco Giuseppe... Duecento ricette, accompagnate da citazioni e motti popolari, ci accompagnano in un viaggio capace di far rivivere la cucina casalinga, dove il gusto della cassöeula aspetta solo la polenta fumante, e il sapore deciso della busecca verrà stemperato dalla dolcezza di una torta di mele appena sfornata. Edizione: Newton Compton - Pagine: 288 - Prezzo: € 9,90
La storia di ciò che mangiamo - Renzo Pellati Il libro è una storia ricca di aneddoti e notizie che aiuta a comprendere l’evolversi delle abitudini alimentari, la comparsa dei miti e dei pregiudizi, l’importanza della ricerca scientifica. Fino al 1700 nessuno voleva mangiare le patate, sebbene la fame fosse endemica. Oggi i consumi di patate hanno raggiunto delle cifre iperboliche e non possiamo più farne a meno. Anche la coca-cola, i surgelati e la scatoletta di carne hanno un passato che merita essere conosciuto La storia dei cibi mette in luce anche episodi terrificanti, come il dramma degli schiavi costretti alla raccolta della canna da zucchero (fi no alla scoperta del saccarosio nelle barbabietole). Risulta anche curioso sapere qual è l’origine dei nomi che hanno determinate preparazioni culinarie: la cotoletta milanese, i vol-au vent, la torta Sacher, le pesche Melba... Edizione: Daniela Piazza - Pagine: 360 - Prezzo: € 28,00
Madame Mallory e il piccolo chef indiano - Richard C. Morais Hassan Haji, secondogenito di sei figli, è nato sopra il ristorante di suo nonno, in Napean Sea Road a Bombay, vent’anni prima che fosse ribattezzata Mumbai. Ed è cresciuto guardando la figura esile di sua nonna che sfrecciava a piedi nudi sul pavimento di terra battuta della cucina, passava svelta le fettine di melanzana nella farina di ceci, dava uno scappellotto al cuoco, gli allungava un croccante di mandorle e rimproverava a gran voce la zia. Tutto nel giro di pochi secondi. Popolato di personaggi eccentrici, ricco di divertenti disavventure culturali, ambientazioni vivaci e squisite ricette, descritte con dovizia di particolari, il romanzo svela le trame interne all’esclusivo mondo dell’haute cuisine francese e narra la storia toccante di un ragazzo indiano che si conquista il proprio posto nel mondo. Edizione: Neri Pozza - Pagine: 272 - Prezzo: € 16,00
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Indice ricette
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“Lasagne di nonna Chiarina”
45
Ciriole all’ajo, olio bono e pomidori
45
Panpepato di Mamma Leondina
Tante altre ricette aul sito www.gustarelitalia.it
www.gustarelitalia.it Gustare l’Italia 56
L’amore per la qualità Il rispetto per la tradizione Benagiano Pastificio srl Corso Italia 138-140/b - 70029 Santeramo in Colle (Ba) Tel. 080-3036036 - E-mail: benagiano@benagiano.it - Website: www.benagiano.it